Enrico BUGLIONE, Un federalismo fiscale per l’accountability: cosa si può riprendere dal ddl del 2007 (Maggio 2008)
AVVERTENZA: Il presente studio è destinato alla pubblicazione, con corredo di note, nel V Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia.
Sommario:
1. Premessa
Sembra esistere un consenso diffuso sul fatto che la pubblica amministrazione, in Italia, rappresenti una zavorra per lo sviluppo del paese, non tanto per il suo costo in quanto tale, quanto per il modo inefficiente e inefficace di utilizzo delle risorse. Il problema della scarsa funzionalità riguarda tutta la pubblica amministrazione – centrale, regionale e locale - e i tentativi di migliorare la situazione posti in essere dal governo sono innumerevoli, anche se spesso presi soprattutto per l’esigenza di garantire l’ingresso e la permanenza dell’Italia nell’Unione economica e monetaria. Una parte significativa di tali interventi consiste nell’imposizione alle amministrazioni centrali e locali di comportamenti generalmente ritenuti virtuosi. Basti pensare, ad esempio, alle norme sugli appalti pubblici, a quelle sull’apertura al mercato e alla concorrenza dei servizi pubblici, a quelle sul contenimento dei costi del personale, a quelle sulla razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi e, negli ultimi anni, sul contenimento dei cosiddetti “costi della politica”.
Sembra esistere un consenso diffuso sul fatto che la pubblica amministrazione, in Italia, rappresenti una zavorra per lo sviluppo del paese, non tanto per il suo costo in quanto tale, quanto per il modo inefficiente e inefficace di utilizzo delle risorse. Il problema della scarsa funzionalità riguarda tutta la pubblica amministrazione – centrale, regionale e locale - e i tentativi di migliorare la situazione posti in essere dal governo sono innumerevoli, anche se spesso presi soprattutto per l’esigenza di garantire l’ingresso e la permanenza dell’Italia nell’Unione economica e monetaria. Una parte significativa di tali interventi consiste nell’imposizione alle amministrazioni centrali e locali di comportamenti generalmente ritenuti virtuosi. Basti pensare, ad esempio, alle norme sugli appalti pubblici, a quelle sull’apertura al mercato e alla concorrenza dei servizi pubblici, a quelle sul contenimento dei costi del personale, a quelle sulla razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi e, negli ultimi anni, sul contenimento dei cosiddetti “costi della politica”.
Visti i risultati piuttosto deludenti fin qui raggiunti, sembra ragionevole domandarsi se non sia opportuno affiancare a tale approccio dirigista, uno basato sulla creazione di un ambiente nel quale la ricerca della funzionalità diventi un’esigenza interna e, per così dire, propria delle singole amministrazioni. Per quanto riguarda gli enti territoriali, che qui più direttamente interessano, creare tale ambiente vuol dire migliorare l’accountability dei loro amministratori, il che a sua volta significa renderli più responsabili nei confronti dei cittadini per quanto riguarda sia la gestione della funzione allocativa, sia il reperimento delle risorse da allocare. Il sistema di finanziamento degli enti territoriali è uno degli elementi che più può contribuire a far raggiungere tale obiettivo, a patto che esso possegga determinate caratteristiche, in quello attualmente vigente in Italia per molti aspetti carenti.
In proposito l’art. 119 della Cost., come novellato con la l. c. n. 3, del 2001, presenta molte indicazione valide ma, come è noto, non è stato ancora attuato. La proposta elaborata dall’ACoFF nel corso della XIV legislatura non è riuscita nemmeno ad arrivare allo stadio di disegno di legge. Nelle legislatura successiva, invece, un disegno di legge delega è stato effettivamente presentato il 29 settembre 2007 (AC 3100), ma il suo iter parlamentare – comunque incerto per il mancato raggiungimento di una intesa sul testo in sede di Conferenza unificata – è stato interrotto per lo scioglimento anticipato delle Camere. Visto che il problema dovrà comunque essere ripreso – e in tempi brevi – dal nuovo governo, si è deciso di concentrare il capitolo dedicato alla finanza, nell’ambito del Rapporto annuale sullo stato del regionalismo, sul cosa sarebbe necessario fare per arrivare ad un sistema di federalismo fiscale capace di consentire a tutti gli enti territoriali di esercitare le funzioni decentrate, ma anche di promuovere una gestione efficiente delle risorse. Come si vedrà, raggiungere tale obiettivo non è affatto facile, per una serie di difficoltà tecniche. Queste, tuttavia, possono essere superate se esiste la volontà politica di non fermarsi a metà sulla strada del decentramento, cioè se si ha il coraggio di rendere gli amministratori locali pienamente responsabili nei confronti dei cittadini non solo della spesa, ma anche del come e del quanto spendere. Da questo punto di vista, l’ultima proposta sul tappeto, il disegno di legge presentato nel 2007 (da qui in poi ddl delega), contiene degli spunti interessanti e di essi nel testo si darà conto, in omaggio al principio – ovvio ma spesso trascurato – che, per proseguire sul cammino della riforma, è opportuno tenere conto di quanto di buono è stato già fatto.
Nel capitolo, i tre paragrafi che seguono sono dedicati, rispettivamente, all’autonomia tributaria, alla perequazione e all’autonomia di spesa, cioè agli aspetti che, a seconda del modo in cui sono strutturati, più possono direttamente condizionare la capacità del sistema di finanziamento degli enti territoriali di promuovere l’accountability.
In tutti i Paesi con più livelli di governo e, in particolare in quelli dove, come in Italia, il risanamento della finanza pubblica è ancora uno dei principali problemi da risolvere, gli enti territoriali sono necessariamente soggetti al coordinamento e al monitoraggio del governo centrale. A queste funzioni – che pure possono notevolmente contribuire a promuovere il buon governo a seconda del modo in cui sono esercitati - è dedicato il paragrafo 5.
Nel paragrafo 6 viene poi affrontata la questione delle regioni e province ad autonomia differenziata, il sistema di finanziamento delle quali, per il modo in cui è strutturato, contiene incentivi particolarmente bassi per una efficiente gestione delle risorse.
In ogni paragrafo, la trattazione segue uno schema tendenzialmente uniforme. Dopo aver chiarito come e perché ciascuno degli aspetti esaminati è rilevante per la promozione dell’accountability, vengono indicati i problemi a cui appare urgente dare una soluzione e, infine, vengono analizzate le proposte del ddl delega.
Molte di tali proposte, come viene richiamato nella sintesi che conclude il lavoro, appaiono coerenti con l’obbiettivo di rafforzare, nel sistema di finanziamento, gli incentivi per una gestione responsabile delle risorse. Emergono anche, tuttavia, alcuni aspetti problematici del ddl delega. Ad esempio, una prudenza forse eccessiva per quanto riguarda il rafforzamento dell’autonomia tributaria, la tendenza a non abbandonare vecchi approcci rivelatisi insoddisfacenti – in particolare per quanto riguarda le funzioni protette da livelli essenziali di prestazioni - e, in generale, un’estrema vaghezza circa gli effetti della riforma e i tempi entro i quali renderla operativa, una volta attuate le deleghe previste nel disegno di legge.
Per responsabilizzare gli amministratori degli enti territoriali, in dottrina è considerato indispensabile che almeno una parte delle spese sia finanziata con entrate tributarie pagate dai cittadini – elettori. Il decentramento delle funzioni e delle relative competenze di spesa deve quindi essere accompagnato da un decentramento tributario. Per avere un quadro della situazione in Italia da questo punto di vista, è utile mettere a confronto il livello di decentramento della spesa pubblica con quello del decentramento del gettito fiscale. Con riferimento al settore statale, costituito dallo Stato e dagli enti territoriali, questi ultimi sono responsabili del 52,4% del totale delle spese e, nei loro bilanci, affluisce il 22,4% del gettito fiscale complessivo. Anche se in tutti i Paesi con più livelli di governo il decentramento delle spese risulta sempre inferiore al decentramento tributario, i dati appena esaminati indicano che esistono spazi per ulteriori interventi. Ma in che direzione procedere? La domanda è opportuna in quanto il decentramento tributario può essere realizzato seguendo due strategie, tra loro non alternative.
La prima è quella di attribuire agli enti territoriali compartecipazioni a tributi erariali, cioè quote del gettito di tributi istituiti e interamente gestiti dallo Stato.
La seconda è quella di attuare un decentramento del potere fiscale, cosa che si realizza quando gli enti territoriali possono introdurre forme di prelievo specifiche per il proprio territorio, oppure quando possono modificare la disciplina di tributi istituiti dallo Stato di cui essi percepiscono l’intero gettito, intervenendo sulle aliquote o, anche, sulla base imponibile e sulle modalità di gestione del tributo (accertamento, riscossione, liquidazione, sanzioni).
Delle due strategie sopra indicate – decentramento delle entrate tributarie e decentramento del potere fiscale - la prima, in Italia largamente utilizzata per il finanziamento delle regioni speciali, fa affluire risorse nei bilanci degli enti territoriali in modo automatico e programmabile nel tempo, ma presenta una capacità di promuovere la responsabilità molto bassa o nulla. La seconda, invece, implicando decisioni locali – sicuramente rilevanti in termini di consenso politico – per quanto riguarda l’entità del prelievo e, in alcuni casi, le modalità con cui effettuarlo, da questo punto di vista è molto più promettente.
In base a quanto risulta dai bilanci degli enti territoriali, va osservato che il livello di decentramento del potere fiscale, in Italia, è significativo. Il gettito dei tributi propri derivati dalla legislazione statale - gli unici oggi in vigore, salvo che nel caso delle regioni a statuto speciale - assicura infatti, il 45% delle entrate correnti delle regioni a statuto ordinario e il 50% di quelle degli enti locali. Valori sensibilmente più bassi (16%) si riscontrano solo per le regioni a statuto speciale a causa, come si è detto, dell’importanza che nel loro caso assumono le compartecipazioni a tributi erariali.
Ciononostante esistono una serie di problemi ai quali è urgente dare una soluzione.
Il primo è di definire i principi generali di coordinamento in materia tributaria, essendo questa, a giudizio della Corte Costituzionale, una condizione necessaria affinché le regioni e gli enti locali possano istituire nuovi tributi, come previsto al comma 2 dell’art. 119 Cost..
Il secondo è di potenziare i tributi propri derivati, in modo che essi possano continuare a rappresentare una forma importante di finanziamento delle spese anche quando sarà stata data attuazione all’ulteriore decentramento di funzioni di cui al Titolo V della Costituzione, a partire da quelle relative all’istruzione pubblica. A tale scopo va ampliata la gamma di quelli oggi esistenti e vanno estesi i margini di manovrabilità riconosciuti agli enti territoriali, a partire da quelli concernenti le aliquote. Ciò consentirebbe, tra l’altro, di evitare che, come avviene attualmente, la maggior parte del prelievo sia imputabile alle aliquote di base previste dallo Stato, piuttosto che alle scelte in materia assunte dagli enti territoriali.
Il terzo è di dare maggiori certezze agli enti territoriali su questa importante fonte di entrata, visto che i tributi propri derivati sono oggetto, ogni anno, di interventi unilaterali del governo centrale che ne modificano la disciplina e, quindi, il gettito ottenibile. Tali interventi sono stati giudicati dalla Corte costituzionale, con varie sentenze, perfettamente legittimi. La stessa Corte ha tuttavia sottolineato l’esigenza che i rapporti tra governo centrale e enti territoriali siano basati il più possibile sul principio della leale collaborazione. In considerazione di ciò, potrebbe essere opportuno che, sui provvedimenti riguardanti tali tributi, il Governo acquisisca preliminarmente almeno il parere della Conferenza unificata.
Infine appare necessario far affluire le entrate da tributi propri direttamente nei bilanci degli enti territoriali, senza passare per quello dello Stato, cosa che attualmente non avviene per l’Irap e per l’addizionale Irpef regionale e comunale. In questo modo si eviterebbe che il gettito incassato vari solo a distanza di anni dall’entrata in vigore delle disposizioni, regionali e locali, volte a modificare la misura del prelievo.
In materia di entrate tributarie, il ddl delega prevede sicuramente un rafforzamento delle compartecipazioni, in particolare per quanto riguarda le regioni. L’art. 7, c. 3, introduce la compartecipazione all’Irpef, in aggiunta all’attuale addizionale sulla stessa imposta, nonché la compartecipazione all’Iva che, se effettivamente ripartita e attribuita in base al gettito prodotto in ogni regione, rappresenterebbe pure una novità rispetto alla normativa vigente.
Molto più incerti sono invece da considerare gli effetti del provvedimento in esame per quanto riguarda il decentramento del potere tributario.
Il ddl delega si occupa sia dei tributi propri istituiti e in parte disciplinati con legge dello Stato, sia di quelli che regioni e enti locali potranno, in futuro, autonomamente introdurre nell’ordinamento.
In merito ai tributi propri derivati dalla legislazione statale, l’art. 7, c. 2 richiama esattamente quelli esistenti e, quindi, nell’immediato non è previsto un rafforzamento di tale forma di finanziamento. Con l’art. 3, “Principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario” - e, in particolare, con lettere h) e i) del comma 1 – viene però affrontato almeno uno dei problemi aperti a cui prima si è fatto riferimento: quello della manovrabilità dei tributi propri derivati. In particolare, per tali tributi, vengono previsti ambiti di manovrabilità differenziati a seconda delle spese che, in base al ddl delega, dovrebbero finanziare. Per i tributi destinati a coprire le spese delle regioni relative alle funzioni protette da Livelli essenziali di prestazioni (Lep) e alla perequazione nei confronti dei comuni minori – una nuova funzione che il ddl delega assegna alle regioni ordinarie - sarà possibile modificare “l’aliquota, le detrazioni e le deduzioni nonché introdurre speciali agevolazioni, nei limiti stabiliti dalla legislazione statale”. Per gli altri tributi, invece, le regioni potranno anche modificare “le modalità di computo della base imponibile” ma sempre “nei limiti consentiti dalla legge statale”. Va comunque osservato che, se la legge statale a cui fanno riferimento le norme appena citate fosse quella istitutiva delle singole imposte, la situazione non cambierebbe molto rispetto a quanto avviene attualmente. Infatti, anche ora, è con tale legge che vengono specificati gli ambiti di manovrabilità di ogni tributo e già ora essi risultano differenziati da tributo a tributo.
Per i tributi propri in senso stretto, il ddl delega sembra aver perseguito l’obiettivo di minimizzare il rischio - del resto concreto - di intralcio alla crescita economica del Paese, di iniquità a carico dei contribuenti e di perdita di efficienza del sistema tributario complessivo. Ciò traspare in modo evidente dall’analisi dei principi, esplicitati sempre all’art. 3, ai quali dovrà ispirarsi la futura legge per il coordinamento del sistema tributario, in assenza della quale le regioni a statuto ordinario e gli enti locali non potranno comunque intervenire in questo campo. Già quanto previsto, ad esempio, al comma 1 lett. a) (esclusione “di ogni forma di doppia imposizione”, obbligo di “rispettare i limiti imposti dai vincoli comunitari e dai trattati e accordi internazionali”) e lett. f) (divieto di introdurre trattamenti agevolativi regionali e locali che possano costituire forme di concorrenza dannosa, divieto di determinare discriminazioni tra residenti e restrizioni all’esercizio delle libertà economiche all’interno del territorio della repubblica), di fatto riduce molto le fattispecie di imposizione concretamente applicabili.
Comunque, è sempre positivo che il ddl delega impegni il governo a creare le premesse necessarie all’esercizio di un potere impositivo autonomo da parte degli enti territoriali e, in questa prospettiva, risulta interessante quanto previsto alla lettera g) sempre dell’art. 3, c. 1. Con tale disposizione, si attribuisce alle regioni non solo il potere di istituire con legge tributi propri delle stesse regioni e degli enti locali, ma anche quello di disciplinare le materie nelle quali gli enti locali potranno, nell’esercizio della propria autonomia, stabilire tributi locali e introdurre variazioni delle aliquote o agevolazioni. E’ anche importante che, in base alla lettera n) dello stesso art. 3, c. 1, lo Stato possa intervenire nelle materie assoggettate ad imposizione con legge regionale, solo previa intesa con le regioni stesse. Ciò evita che, con una mano, lo Stato tolga quello che ha dato con l’altra.
In definitiva, per quanto riguarda gli effetti sulle entrate tributarie, se il ddl delega fosse stato approvato e successivamente attuato, l’unico effetto sicuro sarebbe stato quello di un aumento del peso delle compartecipazioni nei bilanci delle regioni ordinarie, così avvicinando il loro modello di finanziamento a quello delle regioni a statuto speciali, generalmente criticato anche per essere poco responsabilizzante.
Desta inoltre delle perplessità il fatto che, nel Dpef, debba essere individuato, su base triennale e per ciascun livello di governo, non solo il livello programmato dei saldi di bilancio e il livello di ricorso al debito – come è necessario per il rispetto del Patto di stabilità interno - ma anche il “il livello programmato della pressione fiscale e la sua ripartizione tra i livelli di governo centrale e locale” (art. 2 c. 1 lett. d). In presenza di una effettiva autonomia tributaria degli enti territoriali è infatti impossibile prevedere in anticipo la pressione fiscale nazionale, a meno che tra lo Stato e gli enti territoriali non si riesca a raggiungere un’intesa preventiva sul livello massimo del prelievo tributario di competenza di questi ultimi.
In generale, la perequazione ha l’obiettivo di consentire agli enti territoriali, quale che sia la loro capacità fiscale, di erogare un pacchetto simile di servizi imponendo ai cittadini un onere tributario anch’esso simile. In questi termini, la perequazione è un complemento necessario al decentramento tributario, ma rappresenta anche un aspetto particolarmente problematico non solo del modello di federalismo fiscale italiano, ma di quello di tutti i paesi con più livelli di governo.
Un esempio riferito a due regioni che presentano ampi divari di sviluppo economico può servire a chiarire l’importanza della perequazione, ma anche quanto sia difficile attuarla in modo corretto. Nel 2006, la regione Lombardia ha incassato dai tributi propri 1.098 euro procapite, prelevando il 3,5% del Prodotto interno lordo della regione. Si supponga, in prima istanza, che questo ammontare di entrate pro capite sia quello necessario a garantire la normale gestione delle funzioni e dei servizi per il quale la Lombardia è competente, al pari di tutte le altre regioni a statuto ordinario. La Calabria, invece, con le stesse imposte, ma con una capacità fiscale di gran lunga inferiore essendo il suo reddito procapite pari ad un terzo di quello della Lombardia, per ottenere le stesse entrate per abitante dovrebbe prelevare il 7% del Pil regionale, cioè dovrebbe elevare la pressione tributaria ad un livello doppio di quello della Lombardia, solo per poter assicurare lo stesso pacchetto di funzioni e servizi.
Il primo obiettivo della perequazione è dunque quello di integrare le entrate tributarie degli enti con minore capacità fiscale in modo che, a parità di pressione tributaria, tutti dispongano di un livello di entrate pro capite simile. Questo tipo di perequazione, normalmente definita, appunto, delle capacità fiscali per abitate, è quella a cui fa riferimento il comma 4 dell’art. 119 Cost., se interpretato in modo letterale. Essa è anche il modello più semplice, non prendendo esplicitamente in considerazione il costo oggettivo di produzione dei servizi, quasi inevitabilmente diverso da ente a ente per una serie molto ampia di variabili (ad esempio, la distribuzione per età della popolazione, la dimensione territoriale, la dispersione della popolazione sul territorio, la presenza di ampie zone montane).
Anche se “semplice”, la perequazione delle capacità fiscali per abitante, a seconda del modo in cui viene attuata, può dare luogo a incentivi distorti. Per illustrare questo aspetto, si supponga che la Lombardia applichi i tributi propri alle aliquote massime ed effettui controlli per contenere l’evasione, mentre la Calabria li applichi a quelle minime e non effettui controlli. Se, con la perequazione, ci si limitasse ad equalizzare le entrate effettive dei singoli enti, la Calabria non verrebbe incentivata a sfruttare in modo adeguato la propria base imponibile. In altre parole, si premierebbero comportamenti strategici volti a finanziare le spese rivolgendosi in primo luogo allo Stato piuttosto che ai propri elettori - contribuenti.
Questo tipo di problema può essere risolto prendendo in considerazione la capacità fiscale standard, cioè valutando la capacità di autofinanziamento dei singoli enti in base, non alle entrate effettive, ma a quelle che si potrebbero teoricamente ottenere se ciascun tributo proprio venisse applicato alla relativa base imponibile di ogni ente con un’aliquota standard fissata dal governo centrale, tra l’altro in questo modo premiando gli enti che decidano di applicare aliquote superiori. Ma bisogna anche decidere:
- se prendere in considerazione la base imponibile già emersa o quella potenziale, nel secondo caso incentivando gli enti a combattere l’evasione fiscale;
- rispetto a quali tributi propri calcolare la capacità fiscale standard e, quindi, se considerarli tutti o solo i principali (ad esempio, nel caso delle regioni, l’Irap, l’addizionale Irpef e il bollo di circolazione);
- e se estendere o meno la valutazione ad altre entrate proprie, ad esempio quelle da tariffe sui principali servizi.
Per quanto riguarda l’ultimo punto va sottolineato che estendere il più possibile l’ambito di riferimento per il calcolo della capacità fiscale standard ha il vantaggio di rafforzare gli incentivi nei confronti degli enti territoriali a sfruttare al meglio tutti mezzi disponibili per l’autofinanziamento. Tale approccio, tuttavia, rende complesso il procedimento di calcolo: tanto maggiore è il numero dei tributi propri considerati, infatti, tanto maggiore diventa il numero delle basi imponibili di cui è necessario individuare il valore in ciascun ente territoriale. La stima della capacità fiscale standard può, inoltre, divenire più difficile se i poteri di manovra riconosciuti agli enti territoriali sui tributi propri vanno oltre la modifica delle aliquote, estendendosi, ad esempio, al metodo di calcolo della base imponibile, alla concessione di agevolazioni e esenzioni, alla differenziazione del prelievo in base al reddito del contribuente. In definitiva, sembra esistere un trade-off tra ampiezza dell’autonomia tributaria riconosciuta agli enti territoriali e possibilità di implementare una perequazione della capacità fiscale che non incentivi comportamenti strategici volti a massimizzare i trasferimenti ottenibili.
Riuscire a contenere comportamenti strategici come quelli appena menzionati diventa ancora più arduo se alla perequazione viene assegnato l’obiettivo di integrare le entrate tributarie degli enti territoriali in modo che, a parità di pressione tributaria, tutti abbiano le risorse necessarie ad assicurare ai cittadini le funzioni e i servizi per i quali sono competenti. In questo caso, infatti, non è sufficiente equalizzare le entrate ottenibili con una pressione fiscale standard ma è necessario tenere conto anche del costo dei servizi che, come si è detto, può essere diverso da ente ad ente per un ventaglio molto ampio di motivi.
Si supponga che le regioni siano competenti solo per l’assistenza sanitaria. Si supponga, inoltre che i 1.098 euro pro capite incassati nel 2006 dalla Lombardia con i tributi propri e con una pressione fiscale del 3% siano sufficienti a coprire i costi del servizio di questa regione. Si supponga, infine, che in Calabria i costi pro capite risultino superiori, sia per ragioni oggettive, come la struttura per età della popolazione residente, sia per un non ottimale uso delle risorse, come un eccessivo numero di posti letto, un eccessivo numero di addetti, un controllo non rigoroso sugli acquisti di beni e servizi. In queste condizioni è evidente che la perequazione della sola capacità fiscale, potendo integrare i 484 euro pro capite incassati dalla Calabria (con le stesse imposte della Lombardia e con una pressione fiscale simile) fino ad un massimo di 1.098 euro per abitante, non assicurerebbe a questa regione risorse sufficienti ad erogare il servizio. Alla Calabria dovrebbero, quindi, essere assegnate maggiori risorse, ma in che misura?
La soluzione più semplice, ma anche la peggiore in assoluto, è quella di far riferimento ai costi effettivi dichiarati dagli stessi enti territoriali: in questo modo si innescherebbe una corsa all’aumento dei costi di gestione delle funzioni e dei servizi decentrati e il costo della perequazione risulterebbe insostenibile per lo Stato. Ugualmente negativa sarebbe una soluzione nella quale i trasferimenti, assicurati dal sistema di perequazione ai singoli enti territoriali, inizialmente venissero determinati in base ai costi effettivi registrati in ciascuno in un determinato periodo e, successivamente, maggiorando in modo automatico e generalizzato quelli iniziali (ad esempio in base al tasso di inflazione programmato). Tale approccio, tradizionalmente definito “della spesa storica”, non orienta certo la perequazione alla promozione dell’accountability visto che premia gli enti inefficienti – cioè con costi effettivi superiori ai costi oggettivi - sia al momento della rilevazione dei costi, sia negli anni futuri se, come è probabile, la dinamica dei costi oggettivi superasse quella “automatica” dei trasferimenti.
In definitiva, per fare in modo che la perequazione riesca a tenere conto dei costi del pacchetto di funzioni e servizi che gli enti territoriali sono tenuti ad erogare ai cittadini, risultando altresì sostenibile per il bilancio dello Stato, la strada da percorrere è obbligata: quantificare i trasferimenti complessivi e le assegnazioni ai singoli enti in base ad una valutazione dei costi oggettivi, escludendo quelli derivanti da scelte autonome degli amministratori locali sul livello – quantitativo e qualitativo - dei servizi da offrire ai cittadini e/o sul livello di inefficienza organizzativa e gestionale da essi ritenuto tollerabile.
Riuscire a realizzare un significativo decentramento del potere fiscale assistito da un sistema di perequazione della capacità fiscale standard che tenga conto del fabbisogno oggettivo di spesa, oltre a consentire a tutti gli enti territoriali di offrire un pacchetto di servizi simile chiedendo ai cittadini uno sforzo fiscale simile, presenta anche il vantaggio di non indebolire il nesso, essenziale per l’accountability degli amministratori locali, tra responsabilità di spesa e responsabilità di prelievo. Infatti, dato il costo effettivo dei servizi e delle funzioni di ogni ente e il suo prelievo fiscale effettivo, le assegnazioni a suo favore restano per così dire neutrali rispetto al delta esistente, rispettivamente, con il costo oggettivo e il prelievo standard considerati dal sistema di perequazione. Questa sarebbe, dunque, la soluzione migliore per non incentivare inefficienze sui versanti sia delle entrate, per quanto riguarda l’esercizio del potere di autofinanziamento, sia delle spese.
Il condizionale è tuttavia d’obbligo. Come si è visto, è tecnicamente difficile arrivare ad una valutazione ottimale della capacità di autofinanziamento standard, ma ancora più difficile è farlo per i costi oggettivi delle funzioni. In primo luogo è necessario disporre di informazioni molto analitiche sulle spese degli enti, articolate per funzioni e servizi. Partendo da questi dati, è poi necessario individuare i costi medi di esercizio e le variabili che li influenzano, separando quelle sui quali i singoli enti possono intervenire da quelle esogene, cioè al di fuori del loro controllo. E’ poi necessario verificare il valore delle variabili esogene presso ogni ente territoriale, in modo da stimare il costo oggettivo di esercizio nella sua particolare situazione.
Infine è indispensabile che la metodologia sia trasparente, comprensibile, replicabile, nonché condivisa dagli enti territoriali, per non correre il rischio che i risultati – e, quindi, la quantificazione e il riparto dei trasferimenti – siano messi in discussione, cosa che porterebbe, ovviamente, alla paralisi del sistema. Quest’ultima esigenza – l’accordo con gli enti territoriali sulla metodologia e sulle variabili da considerare – è particolarmente difficile da raggiungere, in quanto le modifiche al sistema di perequazione – come l’abbandono del criterio della spesa storica a favore di un riparto dei trasferimenti in base a fattori oggettivi - comportano sempre dei vantaggi finanziari per alcuni enti e perdite per altri. Una lunga e complessa contrattazione politica è, quindi, necessaria e, se avrà buon esito, porterà comunque a soluzioni di compromesso rispetto a quelle ideali dal punto di vista tecnico.
Da una indagine OCSE sui sistemi di perequazione operanti in 8 paesi federali e regionali – tra i quali l’Italia – e su 10 paesi unitari emerge che, nel 2004, l’incidenza sul Pil delle risorse pubbliche dedicate alla perequazione era mediamente pari al 2,3%. Rispetto a questo valore, l’Italia, con il 3,0% si collocava, quindi, nettamente al di sopra della media e superava, ad esempio, paesi come la Spagna (2,9%) e la Germania (2,0%). I problemi aperti ai quali sarebbe opportuno dare una soluzione, quindi, non riguardano tanto l’entità della spesa pubblica per la perequazione ma, come in molti altri settori, il modo in cui tali risorse vengono spese. In effetti, se si considerano i sistemi attuali – quello per le regioni ordinarie e quelli per i comuni e province – si rileva che essi potrebbero essere sensibilmente migliorati, in particolare per cercare di orientarli di più alla promozione dell’accountability. Come già messo in evidenza, da questo punto di vista è essenziale che i trasferimenti siano volti ad equalizzare la capacità fiscale standard dei singoli enti e, quando si vuole tenere conto anche del fabbisogno di spesa, che si consideri quello oggettivo.
In merito alla equalizzazione della capacità fiscale i sistemi attuali sembrano abbastanza efficaci. Ad esempio, il fondo perequativo introdotto con il d. lgs. 56 del 2000 per le regioni, riesce a ridurre il divario nord - sud in termini di entrate tributarie procapite dal 112,7% all’8,2%. Lascia tuttavia a desiderare il metodo di calcolo della capacità fiscale standard in quanto – e ciò vale anche per i trasferimenti ordinari assegnati agli enti locali – essa viene stimata prendendo a riferimento solo i principali tributi e considerando il gettito prodotto dalla base imponibile già emersa, a prescindere dal livello di evasione presente in ciascun ente.
Particolarmente insoddisfacente è, poi, il metodo di calcolo del fabbisogno di spesa, essendo il criterio prevalentemente usato non quello dei costi oggettivi, ma quello della spesa storica. Per la soluzione di tale problema, la cui importanza è sottolineata anche nella relazione introduttiva al ddl delega, sono stati posti in essere vari tentativi ma, finora, senza successo, per la oggettiva difficoltà di ottenere il consenso alla riforma da parte degli enti destinati ad essere da essa penalizzati. Emblematico, a questo riguardo, è il caso del fondo perequativo di cui al d. lgs 56 del 2000. Insieme alla soppressione del Fondo sanitario e di altri trasferimenti di scopo, il decreto ha introdotto un sistema di perequazione in base al quale le somme da assegnare ad ogni regione, inizialmente tarate in modo da assicurare l’invarianza delle entrate, entro il 2013 avrebbero dovuto essere esclusivamente quantificate in base alla capacità fiscale standard e ad una serie di parametri oggettivi (popolazione residente, fabbisogno sanitario, dimensione geografica). L’adozione di tali criteri, da attuare progressivamente a partire dal 2002, avrebbe tuttavia comportato una diversa distribuzione delle risorse tra le regioni e, soprattutto, non avrebbe garantito a quelle meridionali somme sufficienti a coprire il fabbisogno di spesa stimato necessario a coprire i livelli essenziali di assistenza in sanità. Con la legge finanziaria per il 2006 il riparto in base a criteri oggettivi è stato, quindi, bloccato e, allo stato attuale, ancora l’89% del fondo viene ripartito in base alla spesa storica.
Il ddl delega disciplina, in linea generale, tre sistemi di perequazione:
uno per le entrate e le spese delle regioni relative alle funzioni con LEP (art. 6, lett. a) e ai trasferimenti perequativi a favore dei piccoli comuni (art. 6 lett. b);
uno per le entrate e le spese relative alle altre funzioni delle regioni (art. 6 lett. c);
uno per i comuni e le province non di piccola dimensione.
Per tutti e tre i sistemi valgono due principi generali.
Il primo è la scelta a favore di un sistema di perequazione “verticale” – cioè finanziato e gestito direttamente dallo Stato - particolarmente adatto ad un paese come l’Italia dove il divario di sviluppo economico tra il nord e il sud è ancora molto ampio e dove, con il rafforzamento delle entrate tributarie previsto nel ddl delega – sia pur soprattutto attraverso le compartecipazioni - potrebbe crescere la tendenza all’egoismo fiscale da parte degli enti situati nelle regioni ricche.
L’altro principio generale – di grande rilevanza per la promozione dell’accountability - è che tutti e tre i modelli sono strutturati in modo da non indebolire il nesso tra responsabilità di spesa e responsabilità di prelievo derivante dalla capacità di autofinanziamento degli enti territoriali, sia quella prevista dalla norme vigenti, sia quella, per certi versi più ampia, che potrebbe aversi con l’attuazione delle deleghe di cui al disegno di legge in esame. A questo proposito rileva, in primo luogo, il fatto che, al fine di ridurre le differenze di capacità fiscale tra gli enti, si prende sempre a riferimento non il gettito effettivo, ma quello che teoricamente si potrebbe ottenere applicando i tributi propri con aliquote uniformi individuate dallo Stato. In questo modo, se un ente decide di applicare aliquote inferiori al livello standard, la collettività nazionale non sarà costretta a farsi carico della perdita di entrate derivante da tale politica fiscale. In secondo luogo, per le funzioni e servizi per i quali i sistemi prevedono che la perequazione faccia riferimento anche ai costi di gestione, almeno in teoria è sempre previsto che si considerino i costi oggettivi e non quelli effettivi. E questo, come si è più volte osservato, è il modo classico per permettere a tutti enti territoriali di offrire un pacchetto simile di funzioni e servizi imponendo uno sforzo fiscale anch’esso simile, facendo tuttavia pagare ai cittadini i costi aggiuntivi dovuti a inefficienze, organizzative e gestionali, interne ai singoli enti.
Detto questo, va subito sottolineato che il ddl delega introduce anche, tra i vari sistemi previsti, significative differenze - non sempre motivate in modo soddisfacente – per quanto riguarda sia gli obiettivi della perequazione, sia il metodo di calcolo della capacità fiscale e del fabbisogno di spesa, aspetti, questi ultimi, che indubbiamente influiscono sulla capacità di promuovere l’accountability.
Per quanto riguarda gli obiettivi, per gli enti locali è stato adottato, con riferimento al complesso delle loro entrate e uscite, un modello volto ad eliminare, negli enti a minore capacità fiscale, il divario esistente tra entrate standard e costo standard delle funzioni. Per le regioni, un modello simile è stato adottato solo per le spese riconducibili ad attività assoggettate a LEP e per quelle relative al finanziamento delle funzioni fondamentali dei piccoli comuni. Per le spese relative alle altre materie (di competenza concorrente o residuale), viene invece adottato un sistema di perequazione “parziale”. Tenendo conto di quanto disposto all’art. 8, c. 3 e all’art. 9, c. 6, lett. b), esso può essere sinteticamente descritto come segue. Dato l’importo complessivo degli attuali trasferimenti statali diretti al finanziamento delle altre materie – e prescindendo da qualsiasi valutazione dei costi standard di esercizio nelle singole regioni - devono essere individuate entrate tributarie il cui gettito corrisponda, a livello nazionale, a tale importo complessivo. Con riferimento alle singole regioni e al gettito standard di questi tributi prodotto nei rispettivi territori, la quota di gettito superiore all’ammontare dei trasferimenti da ciascuna precedentemente percepito – cosa che potrebbe verificarsi solo in quelle a maggiore capacità fiscale – finanzia il fondo perequativo per le funzioni in oggetto, da assegnare alle regioni economicamente svantaggiate in modo da “ridurre (non eliminare, n.d.a.) le differenze interregionali di gettito rispetto al gettito medio nazionale per abitante” (art. 9, c. 6, lett. b). Le regioni povere sarebbero, quindi, penalizzate, visto che solo nel loro caso le assegnazioni del fondo perequativo relative alle “altre funzioni”, sommate al gettito standard dei tributi ad esse relativi, risulterebbero inferiori ai trasferimenti precedentemente ottenuti dallo Stato.
Perché per le “altre materie” si è optato a favore di questo particolare approccio? Secondo la Relazione di accompagnamento al ddl delega, in questo caso la perequazione è stata limitata alla riduzione delle differenze di capacità fiscale per abitante in modo da consentire l’emergere di “differenziazioni tra territori nei livelli dell’intervento pubblico”. Tale spiegazione appare, tuttavia, infondata. Anche un modello di perequazione “esteso” – cioè strutturato in modo da considerare la capacità fiscale standard e i costi standard - in presenza di un’effettiva autonomia tributaria consente l’emergere di livelli diversi di intervento pubblico tra le varie regioni, essendo il suo obiettivo solo quello di penalizzare gli enti dove livelli più bassi di intervento (ad esempio rispetto a quello medio degli altri enti) siano dovuti a inefficienze di gestione. E ciò appare confermato dal fatto che il ddl delega prevede l’applicazione del modello esteso di perequazione nei confronti dei comuni e delle province, per le funzioni dei quali la possibilità di differenziazioni dell’intervento pubblico sul territorio in relazione alle diverse preferenze dei cittadini, non appare meno giustificabile che per le funzioni residue delle regioni.
La spiegazione del particolare approccio alla perequazione adottato nei confronti delle regioni per le spese relative alle “altre materie” deve quindi avere motivazioni diverse. Ad esempio quella di utilizzare il modello esteso, oggettivamente più complesso da attuare, solo per le funzioni rispetto alle quali la copertura integrale del gap tra capacità standard di autofinanziamento e costi standard, nei confronti di ciascun ente territoriale, è indispensabile, dati i vincoli imposti dallo Stato sul livello minimo di spesa o, comunque, sul livello di servizi da erogare. Almeno nei confronti delle regioni questa motivazione appare valida, visto che il modello esteso di perequazione è stato adottato: da un lato per la perequazione regionale nei confronti dei comuni minori, dove esse sono necessariamente tenute a trasferire di nuovo a tali enti tutte le risorse attribuite dallo Stato a questo scopo, sia come compartecipazioni sia come quote del fondo perequativo (art. 9, c. 5); dall’altro per le funzioni rispetto alle quali le regioni sono tenute, per definizione, ad erogare livelli obbligatori di prestazioni (minimi, standard o essenziali) su tutto il territorio nazionale. Non regge, tuttavia, per gli enti locali, nei confronti dei quali il modello esteso è stato adottato per il complesso delle loro funzioni, nonostante il fatto che per nessuna di esse siano attualmente previsti livelli obbligatori di prestazioni da garantire su tutto il territorio.
Più convincente, allora, è che la scelta di applicare un modello di perequazione limitato alla riduzione delle differenze di capacità fiscale solo per le spese delle regioni relative alle “altre materie”, dipenda dal fatto che tali materie sono state considerate – erroneamente – di scarso rilievo e, quindi, utilizzabili: da un lato per contenere l’onere finanziario della perequazione a carico delle aree ricche, evitando di dare il giusto peso al costo del loro esercizio nelle regioni a minore capacità fiscale; e, dall’altro, per poter dimostrare che, almeno in un caso, il ddl delega ha rispettato alla lettera l’art. 119 Cost. che, al comma 4, prevede una perequazione solo delle capacità fiscali per abitante.
3.3.3. Differenze tra i sistemi di perequazione: il metodo di calcolo della capacità fiscale e del fabbisogno di spesa
Come si è detto, tra la perequazione nei confronti delle regioni e quella per gli enti locali il ddl delega introduce anche delle differenze che influiscono sulla capacità dei due approcci di promuovere l’accountability. Tali differenze riguardano essenzialmente il metodo di calcolo della capacità fiscale standard e della spesa standard.
Per la capacità fiscale, nel caso degli enti locali si tiene conto del gettito standard di tutti gli attuali tributi, nonché di quello derivante da tariffe sui servizi. Nel caso delle regioni, invece, si utilizzano solo i principali tributi, evitando qualsiasi riferimento alle tariffe relative ai servizi da esse erogati anche se, ad esempio per l’assistenza sanitaria, entrate di questo tipo (i ticket) concorrono in modo non del tutto indifferente alla copertura dei costi. L’approccio globale utilizzato per gli enti locali, anche se più difficile da applicare, è indubbiamente meglio orientato alla promozione dell’accountability, riducendo il costo della perequazione, diminuendo il peso dei trasferimenti nel bilanci di questi enti e promuovendo uno sviluppo delle loro politiche fiscali ben distribuito tra tutte le entrate proprie ordinarie a cui essi possono fare ricorso. L’approccio globale per la valutazione della capacità fiscale standard è, quindi, preferibile, anche se, qualora la stima dei costi oggettivi risultasse errata per difetto, esso lascerebbe minori margini agli enti territoriali per poter far fronte alle spese effettive con risorse proprie. Per questo problema, tuttavia, lo stesso ddl delega prevede, sempre per i comuni e province, un’efficace soluzione, escludendo una quota delle entrate standard dal calcolo della capacità di autofinanziamento del costo oggettivo dei servizi.
Circa il metodo di valutazione dei costi standard, nel caso delle regioni il ddl delega prevede che, per le spese relative alle funzioni Lep, dovrà farsi riferimento “ai costi standard associati ai livelli essenziali delle prestazioni fissati dalla legge statale, da erogare in condizioni di efficienza e appropriatezza” (art. 6, c. 2). Per le spese relative alla perequazione regionale nei confronti dei comuni minori, inoltre, dovranno essere considerati “indicatori di fabbisogno finanziario” associati alle funzioni effettivamente esercitate da questi enti e a “parametri di efficienza e appropriatezza” che incorporino anche i risparmi ottenibili attraverso “le unioni di comuni e la prestazione associata di servizi” (art. 6, c. 3).
Per la perequazione nei confronti delle province e dei comuni si riscontrano, invece, indicazioni più dettagliate. L’art. 15, c. 5, precisa che la determinazione del fabbisogno oggettivo dei singoli enti dovrà essere effettuata sulla base di una quota di spesa corrente uniforme per abitante, corretta per tener conto della diversità della spesa in relazione all’ampiezza demografica, alle caratteristiche territoriali e a quelle demografiche, sociali e produttive dei diversi enti. Si precisa, inoltre, che il peso delle variabili considerate influenti sulla spesa dovrà essere determinato in base alla spesa storica degli enti stessi, tenendo conto di quella relativa a servizi esternalizzati o svolta in forma associata. La standardizzazione della spesa, infine, dovrebbe incorporare gli incentivi – e quindi i risparmi – derivanti dalle unioni di comuni e dalla prestazione di servizi in forma associata. Dal punto di vista della promozione dell’accountability queste indicazioni sono di particolare interesse. Infatti, tenere conto della spesa relativa a servizi esternalizzati o svolti in forma associata permette di non penalizzare gli enti che abbiano adottato queste forme di gestione, generalmente ritenute virtuose. Incorporare nel calcolo dei costi oggettivi i risparmi derivanti dalle unioni di comuni e dalla prestazione di servizi in forma associata può servire, d’altra parte, a spingere in questa direzione gli enti che ancora non lo abbiano fatto.
Anche se, per alcuni aspetti, i contenuti del ddl delega in materia di perequazione portano a ritenere che il sistema ipotizzato per gli enti locali sia più orientato alla promozione dell’accountability di quello per le regioni, da questo punto di vista resta comunque fondamentale il definitivo abbandono del criterio della spesa storica ai fini della quantificazione dei trasferimenti spettanti a ciascun ente territoriale. Tuttavia, il superamento di questo criterio, come si è detto, non è affatto facile, sia per difficoltà tecniche, sia per l’inevitabile opposizione degli enti penalizzati dal passaggio dal vecchio al nuovo sistema di perequazione. La previsione di un periodo transitorio è, quindi, del tutto normale e necessaria, ma è altrettanto importante che tale periodo abbia una scadenza definita. Proprio su questo aspetto, tuttavia, il ddl delega è particolarmente vago. Solo per le altre funzioni delle regioni – cioè quelle di cui all’art. 6, c.1 lett. c) - è previsto il termine perentorio di cinque anni per il passaggio al sistema di quantificazione dei trasferimenti prefigurato nelle sue linee generali nel ddl delega (art. 10, c. 2). Per la perequazione nei confronti dei comuni e delle province, nonché per quella a favore delle regioni relativamente alle funzioni Lep e alla perequazione regionale verso i comuni minori, è previsto, invece, che l’abbandono del criterio della spesa storica – cioè dell’assegnazione a ciascun ente di trasferimenti quantificati in modo da assicurare somme di ammontare pari a quello percepito prima della riforma - avvenga in un “periodo di tempo sostenibile” (art. 10, c. 3 per le regioni e art. 16, c. 3 per gli enti locali). Se anche nei futuri provvedimenti di riforma non si riuscisse a definire un termine certo per la fine del periodo transitorio, concordato con gli enti territoriali, qualsiasi innovazione in materia di perequazione, per quanto valida, rischierebbe di restare un esercizio teorico.
Finora è stata messa in evidenza l’importanza, ai fini della promozione dell’accountability degli enti territoriali, del riconoscimento ad essi di una significativa capacità di autofinanziamento, accompagnata da un sistema di perequazione che, pur consentendo a tutti gli enti di esercitare le funzioni di cui sono responsabili, faccia comunque percepire ai cittadini di ogni ente i costi di una gestione inefficiente delle risorse.
Altrettanto essenziale, tuttavia, è che gli enti territoriali godano di un’effettiva e ampia autonomia di spesa, senza la quale il decentramento di funzioni sarebbe solo un modo per rendere più costosa la gestione della spesa pubblica.
L’autonomia di spesa può riguardare vari aspetti e, su ognuno di questi, in tutti i modelli operanti di federalismo fiscale si riscontrano limitazioni poste da livelli superiori di governo.
Il primo aspetto, che si può definire “autonomia di spesa quantitativa” riguarda la possibilità degli enti territoriali di decidere variazioni delle spese complessive. Almeno per quelle in aumento, in tutti i Paesi i livelli sub centrali di governo sono assoggettati a vincoli derivanti dalla normativa che regola la manovrabilità delle entrate proprie e il ricorso all’indebitamento. In presenza di situazioni di crisi della finanza pubblica può anche riscontrarsi, come avviene in Italia, la previsione di tetti generalizzati alla crescita delle spese, riguardanti grandi aggregati (come le spese correnti), o voci specifiche (come la spesa per il personale, per l’acquisto di beni e servizi, per gli organi istituzionali).
Il secondo aspetto, che si può definire “autonomia di spesa funzionale”, riguarda la possibilità di decidere l’allocazione delle risorse disponibili tra i settori di intervento di competenza degli enti territoriali e, quindi, di stabilire tra di essi un ordine di priorità che, con tutta probabilità , potrebbe essere diverso da ente a ente, a seconda delle preferenze locali. Anche questo aspetto dell’autonomia di spesa incontra tradizionalmente dei vincoli esterni, normalmente imposti attraverso l’assegnazione di trasferimenti da utilizzare necessariamente in determinati settori o per specifici interventi.
Vincoli all’autonomia di spesa funzionale possono però essere introdotti anche a prescindere dall’assegnazione di entrate di scopo. In particolare se le norme dello Stato obbligano gli enti territoriali a mantenere un livello di spesa prefissato in determinati settori o a garantire un livello obbligatorio di prestazioni per particolari servizi. Questo approccio limita l’autonomia di spesa funzionale come l’assegnazione di fondi di scopo, ma in modo meno trasparente, visto che il vincolo, in genere, non risulta dai bilanci degli enti territoriali.
Il terzo aspetto, che può essere definito come “autonomia di spesa gestionale”, riguarda la possibilità per ogni ente territoriale di decidere come organizzare il processo produttivo attraverso il quale esercitare le funzioni ed erogare i servizi di sua competenza. Esso consente di sfruttare meglio i vantaggi di un assetto di tipo federale – tra i quali soprattutto una maggiore efficienza della spesa pubblica - e riguarda una pluralità di questioni. Ad esempio: se esercitare le funzioni direttamente o attraverso altri enti (territoriali o strumentali); come e dove acquistare i beni e servizi necessari; come retribuire il personale e quanto e quale personale impiegare; come e in che misura applicare forme di apertura alla concorrenza e al mercato per la produzione di servizi pubblici. Anche questo aspetto dell’autonomia di spesa degli enti territoriali incontra molti vincoli, alcuni derivanti da normative sopranazionali (come le norme comunitarie in materia di appalti e di affidamento dei servizi pubblici), altri dalla legislazione nazionale (come i contratti nazionali per i dipendenti degli enti locali e per quelli dei settori produttivi di loro competenza, o l’obbligo per le regioni di esercitare le proprie funzioni attraverso gli enti locali, in omaggio al principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118 Cost.), altri ancora dalla legislazione regionale (come l’istituzione di centrali regionali di acquisto, prevista in diverse leggi finanziarie regionali per il 2007).
I vincoli all’autonomia di spesa a cui sopra si è fatto riferimento hanno una loro precisa ragion d’essere: quelli sull’autonomia quantitativa, per garantire il coordinamento della finanza pubblica e il concorso degli enti territoriali al suo risanamento; quelli sull’autonoma funzionale per garantire il raggiungimento di obiettivi di interesse generale nelle materie decentrate e per assicurare ai cittadini, su tutto il territorio, determinati livelli di prestazioni per i servizi per i quali si ritiene politicamente importante ottenere tale risultato; quelli sulla gestione, di nuovo per contribuire al risanamento della finanza pubblica, ma anche per altre finalità, come assicurare ai dipendenti degli enti locali un livello di retribuzione uniforme sul territorio o promuovere forme di gestione ritenute in grado di assicurare ai cittadini servizi più efficienti.
Bisogna però tener presente che tali limitazioni all’autonomia di spesa contribuiscono, nel loro insieme, a indebolire la catena di responsabilità tra amministratori e cittadini e a riportare al centro una parte (a volte significativa) del potere decisionale relativamente alle materie decentrate.
A questo punto è interessante chiedersi quale sia il livello attuale di autonomia finanziaria. Almeno per quella funzionale è possibile tentarne una quantificazione, usando come indicatore il rapporto tra entrate libere da vincoli di destinazione e totale delle entrate degli enti territoriali: infatti, tanto maggiore è l’incidenza delle entrate libere sul totale delle entrate, tanto maggiore può essere considerata la loro autonomia di spesa. Per effettuare tale calcolo è però necessario definire il concetto di entrate libere. In via di prima approssimazione possono essere considerate tali tutte le entrate diverse dai trasferimenti di scopo. Fino alla fine degli anni ’80, questi ultimi – costituiti in gran parte dal Fondo sanitario - sono stati utilizzati in modo massiccio dal governo centrale per indirizzare e tenere sotto controllo soprattutto le spese delle regioni a statuto ordinario, tanto che essi rappresentavano addirittura la principale fonte di finanziamento di questo livello di governo. L’autonomia di spesa delle regioni ordinarie era, quindi, molto ridotta – le entrate libere erano pari a non più del 10% del totale delle entrate – ed esse potevano a ragione essere considerate quasi agenzie del governo centrale. Da ciò è nata una forte e generalizzata opposizione ai trasferimenti di scopo che ha portato – con una serie di provvedimenti adottati nel corso degli anni ’90 e, nel 2000, con il completamento della riforma del sistema di finanziamento del servizio sanitario di cui al d. lgs. n. 56 - a sostituirli con entrate tributarie e con trasferimenti generici. La sostituzione dei trasferimenti di scopo con entrate libere ha fatto crescere l’autonomia di spesa e, nel 2005, essa risulta pari all’80%. Inoltre, il vigente art. 119 della Cost. è stato scritto in modo da evitare che, in futuro, l’uso massiccio di trasferimenti di scopo possa di nuovo mettere in pericolo l’autonomia di spesa delle regioni e, più in generale, di tutti gli enti territoriali. Da un lato, infatti, il comma 4 prevede che il normale esercizio delle funzioni decentrate sia finanziato con entrate libere. Dall’altro, il comma 5, se interpretato alla lettera, consente il ricorso ai fondi speciali solo per determinate finalità e solo se destinati a singoli enti.
Come si è detto in precedenza, vincoli all’autonomia di spesa funzionale possono tuttavia essere introdotti anche a prescindere dall’utilizzo di trasferimenti di scopo. Ad esempio, se lo Stato stabilisce dei livelli essenziali di prestazioni per alcuni dei servizi di competenza degli enti territoriali, come, del resto, esplicitamente ammesso all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.. Il caso delle regioni a statuto ordinario mette bene in evidenza l’importanza di tenere conto di questo tipo di vincoli. Nel 2001, in concomitanza con l’abolizione del Fondo sanitario nazionale, sono stati introdotti in modo operativo i livelli essenziali di assistenza in sanità (Lea), unitamente alla stima, per il complesso delle regioni e per ciascuna di esse, delle spese necessarie a garantirli. In una situazione di questo tipo è evidente che considerare “libere” tutte le entrate diverse dai trasferimenti di scopo porterebbe a sopravalutare il loro ammontare e, quindi, l’autonomia di spesa delle regioni. Per calcolare quest’ultima in modo più realistico, è necessario sottrarre dalle entrate libere così definite la quota da utilizzare per garantire i Lea. Così facendo, dato l’ammontare di tale quota, l’autonomia di spesa delle regioni ordinarie torna a ridursi in modo evidente e, nel 2005, risulta pari ad appena il 12%, come nel 1990.
D’altra parte, essendo oggettivamente importante garantire i livelli essenziali di assistenza in sanità su tutto il territorio nazionale, un risultato di questo tipo – cioè un’autonomia di spesa funzionale delle regioni molto contenuta - è probabilmente da considerare inevitabile. Va tuttavia osservato che se non viene almeno tutelata l’autonomia gestionale delle regioni – in sanità e negli altri settori eventualmente protetti da livelli essenziali di prestazioni - il decentramento di competenze finisce per perdere molta della sua significatività.
Visto che il cammino per il risanamento della finanza pubblica è, in Italia, ancora lungo e problematico, vincoli quantitativi sulla dinamica delle spese degli enti territoriali, come quelli imposti attraverso il Patto di stabilità interno, sono da considerare necessari. E’ tuttavia possibile limitare gli effetti negativi sull’autonomia degli enti territoriali, in particolare se lo Stato, rispettando gli indirizzi di varie sentenze dalla Corte Costituzionale, si limitasse ad imporre il rispetto di determinati saldi di bilancio e non anche le modalità specifiche attraverso le quali raggiungerli (ad esempio, blocco delle assunzioni o taglio delle spese per consulenze).
Le disposizioni del ddl delega di cui all’art. 2, c. 1, lettere a) e d), in effetti, sembrano proprio andare in questa direzione. In base alla lettera a) gli enti territoriali sono tenuti a seguire, per la propria politica di bilancio “regole coerenti con quelle derivanti dall’applicazione del Patto di stabilità e crescita adottato dall’Unione europea” che, appunto, fa riferimento esclusivamente a un controllo dei saldi. In base alla lettera d), inoltre, il Dpef dovrà fissare, per ciascun livello di governo, “il livello programmato dei saldi, il livello di indebitamento, nonché il livello programmato della pressione tributaria” (cosa, quest’ultima, come si è detto, oggettivamente difficile da prevedere in presenza di una effettiva capacità degli enti territoriali di influire sull’entità del prelievo fiscale).
Per quanto riguarda i vincoli all’autonomia di spesa funzionale derivanti dall’assegnazione di entrate di scopo, il ddl delega appare orientato a sposare una interpretazione letterale del comma 5 dell’art. 119 Cost.. L’art. 4, c. 3 del ddl delega prevede, infatti, che i finanziamenti “aventi carattere di generalità” siano soppressi e che gli interventi cui sono destinati siano finanziati nell’ambito del finanziamento ordinario. Tale disposizione - pur non riguardando il Fondo per le aree sottoutilizzate, essendo le sue finalità e caratteristiche coerenti con quelle indicate al comma 5 dell’art. 119 – renderebbe comunque impossibile, per il governo centrale, prevedere trasferimenti di scopo destinati all’insieme delle regioni o degli enti locali per favorire la realizzazione di interventi di interesse generale, come invece avviene in tutti i paesi - anche a struttura federale - e come finora avviene anche in Italia in un ventaglio di settori sicuramente ampio. L’espressione “aventi carattere di generalità” potrebbe però essere interpretata anche in modo meno restrittivo. Ad esempio, si potrebbe ritenere che, con essa, il ddl delega intenda escludere solo i fondi destinati a tutti gli enti di un determinato livello di governo. Oppure che si sia inteso escludere solo i fondi l’effettiva assegnazione dei quali è non subordinata alla presentazione di specifici piani o programmi da parte dei singoli enti: in presenza di tale adempimento, infatti, l’assegnazione delle risorse, decisa dopo l’approvazione dei piani o programmi presentati, può essere considerata un trasferimento ai singoli enti richiedenti, a prescindere dal carattere di generalità del fondo da cui essa trae origine. La parola “soppressi” - utilizzata all’art. 4 c. 3, del ddl delega - potrebbe anche essere riferita solo ai fondi esistenti al momento dell’attuazione della delega, non impedendo, così, che nuovi fondi “aventi carattere di generalità” possano essere successivamente istituiti, sia pure per periodi di tempo limitati. Accettando le interpretazioni qui proposte, le norme del ddl delega sarebbero coerenti con le indicazioni di alcune sentenze della Corte Costituzionale in materia di contributi speciali dello Stato. In base ad esse, infatti, i trasferimenti vincolati destinati alla generalità delle regioni sarebbero ammissibili, a patto che essi servano a raggiungere le finalità previste nell’art. 119 Cost. e che sulla loro quantificazione e riparto ci sia l’intesa delle regioni stesse. Assumerebbero inoltre maggior senso i commi 1 e 2 dello stesso art. 4 del ddl delega. Il primo prevede che i contributi speciali confluiscano in appositi fondi destinati alle regioni, alle città metropolitane, alle province e ai comuni, pur mantenendo le loro finalità, cosa che dovrebbe favorire la trasparenza sull’entità complessiva di tali finanziamenti e sull’entità delle assegnazioni a favore dei singoli enti, attualmente difficile da ricostruire. Il secondo prevede che gli obiettivi e i criteri di utilizzazione dei contributi speciali siano definiti “sentita” la Conferenza Unificata (anche se, per rispettare le indicazioni della Corte, sarebbe stato meglio prevedere il raggiungimento di una “intesa”), in questo modo promuovendo la leale collaborazione con gli enti territoriali,
Infine va osservato che il ddl delega – come previsto al comma 4 dell’art. 119 Cost. - esclude il ricorso ai contributi speciali per il finanziamento ordinario degli enti territoriali, già ora, comunque, molto contenuto. Per le regioni, in base all’art. 8 del ddl delega, tutte le spese, a prescindere dal quelle di cui all’art. 6, c.1 lett. d, dovranno essere finanziate con entrate tributarie e con assegnazioni del fondo perequativo. Per i comuni e province all’art. 11, c.2, si afferma esplicitamente che le entrate tributarie e, eventualmente, le assegnazioni del fondo perequativo assicurano “i mezzi necessari al normale svolgimento delle funzioni fondamentali e al raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni ad esse eventualmente riferiti” (art. 11, c. 2).
Resta da esaminare la questione dei vincoli imposti, non con l’assegnazione di fondi scopo, ma attraverso norme che impongono agli enti territoriali determinati comportamenti di spesa.
Di questo tipo di vincoli il ddl delega prevede, oggettivamente, un uso massiccio, almeno per quanto riguarda le regioni. Rileva, in primo luogo, la disciplina della cosiddetta perequazione regionale verso i comuni minori, in base alla quale le regioni dovranno trasferire a tali enti tutte le risorse – formalmente libere - ad esse attribuite dallo Stato sotto forma di compartecipazioni e di assegnazioni del fondo perequativo (art. 9, c. 5).
Ma ancora più significativi sono i commi 2 e 4 dell’art. 6. In base al primo, rispetto alle funzioni attuali, livelli essenziali di prestazioni (Lep) dovrebbero essere garantiti in materia di sanità e assistenza pubblica. In base al secondo, un “livello adeguato di servizi su tutto il territorio nazionale” dovrebbe essere previsto anche per il trasporto pubblico locale. Alla base delle norme citate c’è la giusta esigenza di tutelare il concetto di cittadinanza nazionale. Ammesso che ciò sia vero per tutti e tre i servizi a cui fa riferimento il ddl delega – le spese relative ai quali attualmente assorbono, in media, il 70% delle uscite correnti delle regioni ordinarie – resta comunque il problema di evitare che i vincoli sul livello di prestazioni mettano in discussione la catena di responsabilità tra amministratori e cittadini. Finanziare la sanità con entrate libere – come previsto nel d. lgs. n. 56 del 2000 e come riproposto nel ddl delega anche per l’assistenza sociale e il trasporto pubblico locale - presenta indubbiamente, da questo punto di vista, un importante vantaggio. Le regioni dovrebbero infatti essere incentivate a superare il livello di efficienza preso a riferimento dallo Stato per quantificare le risorse necessarie a garantire i livelli di prestazione previsti, in modo da liberarne una parte, ad esempio per fornire servizi sanitari ai propri cittadini ad un livello superiore a quello essenziale, per sostenere le spese in altri settori, oppure per ridurre la pressione fiscale. Tuttavia, affinché questo effetto a favore della funzionalità possa verificarsi, è necessario che venga tutelato al massimo il terzo versante dell’autonomia di spesa degli enti territoriali, cioè quello che prima è stato definito come “autonomia gestionale”. Rispetto alle funzioni protette da Lep, infatti, questo è il profilo rispetto al quale il decentramento di funzioni – comunque problematico, anche per quanto riguarda il semplice controllo della dinamica delle spese – può produrre i migliori risultati, permettendo la sperimentazione di soluzioni innovative in specifici enti e, qualora esse si dimostrino efficienti, la loro adozione su vasta scala. All’autonomia di spesa sotto il profilo gestionale, tuttavia, il ddl delega non fa alcun riferimento esplicito.
La finanza degli enti territoriali, rappresentando una parte, a volte consistente, del sistema di finanza pubblica dei paesi con più livelli di governo, è sempre soggetta a forme di coordinamento da parte del centro, in particolare per quanto riguarda la gestione contabile, l’autonomia tributaria, il sistema dei trasferimenti, il ricorso all’indebitamento. Negli Stati europei dell’area euro, il coordinamento centrale della finanza degli enti territoriali è anche una delle condizioni necessarie affinché i singoli paesi possano rispettare gli impegni previsti dal Patto di stabilità e crescita e le norme in cui tale coordinamento si sostanzia sono necessariamente soggette a periodici aggiornamenti e revisioni. Costanti interventi sulla disciplina della finanza degli enti territoriali sono poi particolarmente necessari in Italia, sia per la mancanza di una legge organica in materia, sia, e soprattutto, in quanto il risanamento della finanza pubblica nei termini previsti dal Patto è ancora lontano dall’essere raggiunto.
Se è vero che il coordinamento centrale della finanza degli enti territoriali è essenziale, è anche vero che il modo con il quale viene esercitato può favorire o meno l’accountability degli amministratori degli enti territoriali.
Da questo punto di vista rileva, in primo luogo, il contenuto delle norme di coordinamento e, in particolare, del Patto di stabilità interno. Su questo aspetto ci si è, tuttavia, già soffermati per mettere in evidenza sia come tale contenuto può condizionare l’autonomia finanziaria degli enti territoriali, sia la soluzione al problema prevista nel ddl delega: cioè un patto di stabilità essenzialmente volto a disciplinare i saldi di bilancio, in modo da lasciare alle regioni e agli enti locali la responsabilità di individuare le strategie migliori attraverso i quali raggiungerli.
Rispetto alla questione dell’accountability, sono però rilevanti anche altri aspetti del coordinamento centrale della finanza degli enti territoriali. Ci si riferisce, da un lato, ai tempi entro i quali le norme di coordinamento vengono portate a conoscenza degli enti che ad esse devono dare attuazione e, dall’altro, a chi esercita tale coordinamento.
Per quanto riguarda i tempi, va osservato che, finora, le regole del Patto di stabilità interno e, più in generale, quelle volte al risanamento della finanza pubblica sono contenute nella legge finanziaria, approvata alla fine del mese di dicembre di ogni anno. Per poter tenere conto di tali disposizioni, diventa quindi normale che, dalle regioni e dagli enti locali, la rispettiva manovra di bilancio venga approvata ad esercizio già iniziato; cosa che, invece, dovrebbe essere del tutto eccezionale al fine di consentire una corretta ed efficiente gestione delle risorse.
Circa il livello di governo competente ad esercitare il coordinamento, è ovvio che tale funzione debba spettare al governo centrale. Ciò non esclude, tuttavia, che il governo centrale possa coinvolgere le regioni nell’esercizio di tale funzione nei confronti degli enti locali, demandando ad esse la modulazione territoriale delle regole del Patto interno, nonché il riparto dei trasferimenti ordinari, una volta fissate le quote complessivamente spettanti alle province e ai comuni di ogni regione. Questa soluzione presenta diversi vantaggi.
In primo luogo, le regioni, per la loro migliore conoscenza delle realtà locali potrebbero positivamente contribuire ad adattare le regole nazionali in materia alle specifiche esigenze dei singoli enti.
In secondo luogo, gli enti locali, se costretti a interagire con le regioni su un tema importante come quello della finanza, potrebbero svolgere un’efficace azione di stimolo nei confronti di questo livello di governo, che, non erogando quasi mai servizi direttamente ai cittadini, è oggettivamente meno esposto a valutazioni dal basso – cioè da parte degli elettori - del proprio livello di funzionalità.
Infine, affidare alle regioni il compito del riparto tra gli enti locali dei trasferimenti ordinari contribuirebbe a semplificare la gestione del sistema di finanziamento di questi ultimi, vista l’oggettiva difficoltà di procedere, direttamente del centro, all’assegnazione di fondi agli oltre 8.000 comuni e alle più di 100 province oggi esistenti. Una sperimentazione in questo campo è già da tempo in corso nelle regioni a statuto speciale del nord e, apparentemente, senza particolari problemi. Ciononostante l’attribuzione anche alle regioni a statuto ordinario di un ruolo di coordinamento in materia di finanza locale ha trovato, finora, una forte opposizione sia da parte del centro, sia, e soprattutto, da parte degli enti locali.
Se il modo in cui viene esercitato il coordinamento della finanza pubblica può influire sull’accountability, l’esistenza di un valido sistema di monitoraggio sulla gestione delle risorse da parte degli enti territoriali ne rappresenta certamente una condizione preliminare. Infatti, solo la disponibilità di dati analitici, comparabili, affidabili e pubblici, può consentire ai cittadini di verificare se le promesse elettorali dei loro amministratori sono state mantenute e di confrontare la performance di questi ultimi con quella degli amministratori di altri enti. Da questo punto di vista, in Italia, si è tuttavia ancora molto indietro. In particolare per le regioni, operazioni per così dire elementari come l’analisi comparata delle spese per settori di intervento e per categoria economica o l’analisi comparata delle entrate secondo la loro natura economica, richiede necessariamente la riclassificazione dei singoli capitoli dei bilanci in base ad uno schema uniforme, in modo da neutralizzare il più possibile le grandi differenze esistenti da regione a regione per quanto riguarda i criteri di aggregazione delle entrate e delle spese. Con l’avvio, dal 2007, della piena operatività del Siope (Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici) è stato fatto un passo avanti importante nella direzione della disponibilità di dati comparabili sulle operazioni di cassa delle regioni, essendo esse tenute, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, a classificare tali operazioni in base ad uno schema uniforme e a comunicarle in tempo reale alla Banca d’Italia, che gestisce il sistema per conto del ministero dell’economia. Tuttavia il Siope fotografa solo una fase della gestione finanziaria - appunto quella di cassa – e non è chiaro quale pubblicità verrà data ai dati raccolti.
Sui versanti del coordinamento della finanza pubblica e del monitoraggio, il ddl delega contiene importanti e positive innovazioni.
In materia di coordinamento, il ddl delega interviene sia sul modo di esercizio che sul chi dovrà esercitarlo. Per il modo di esercizio, sono di particolare interesse le disposizioni del Capo I relative a tempi, modalità e procedure per il periodico adeguamento delle regole in materia di finanza degli enti territoriali, a partire da quelle del Patto di stabilità interno. In base all’art. 2, c.1 lett. c), un volta stabilite, con i decreti delegati, le regole fondamentali del finanziamento degli enti territoriali, gli inevitabili adeguamenti annuali dovrebbero essere introdotti con un apposito disegno di legge, definito “previa una fase di confronto e valutazione congiunta con la conferenza Unificata da iniziare entro il mese di aprile”. Tale disegno di legge dovrebbe essere presentato alle Camere insieme al Documento di programmazione economica e finanziaria, in modo che possa essere approvato entro il mese di ottobre. Si suppone che il collegato di adeguamento contenga tutta la manovra riguardante gli enti territoriali e, quindi, la disciplina delle entrate tributarie e dei trasferimenti, le norme sul contenimento delle spese, l’istituzione di nuovi fondi speciali e, in primo luogo, le regole del patto di stabilità, comprese quelle riguardanti il settore sanitario.
Una norma di questo tipo potrebbe produrre almeno tre effetti positivi, qualora venisse ripresa nel futuro provvedimento di riforma del federalismo fiscale:
- agevolare la costruzione della legge finanziaria e l’iter parlamentare per la sua definitiva approvazione, fasi ora tra le più critiche di tutto il processo di bilancio dello Stato;
- permettere agli enti territoriali di partecipare fin dall’inizio alla definizione dei contenuti della manovra annuale che più direttamente li riguardano, così favorendo il rispetto delle regole del patto di stabilità interno e il raggiungimento degli obiettivi di risanamento della finanza pubblica previsti;
- permettere agli enti territoriali di conoscere le norme dello Stato rilevanti per la loro manovra di bilancio al massimo entro il mese di ottobre di ogni anno e, quindi, di definire quest’ultima - tenendo conto di tali disposizioni - entro l’inizio dell’esercizio nel quale essa è destinata a produrre i propri effetti.
Passando, ora, alla questione del livello di governo competente per il coordinamento della finanza pubblica, il ddl delega, oltre a confermare il ruolo fondamentale del governo centrale, attribuisce alle regioni ordinarie alcune competenze in materia di finanza locale, cosa che, come si è detto, potrebbe avere positivi effetti anche per la promozione dell’accountability. In aggiunta al ruolo di coordinamento in materia tributaria di cui si è già detto – il ddl delega prevede che esse:
- possano adattare le regole del patto di stabilità interno nei confronti degli enti locali del proprio territorio in base a criteri sanciti in Conferenza unificata e nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica (art. 2, c.1, lett. i);
- provvedano alla perequazione relativa al finanziamento delle funzioni fondamentali dei comuni di minori dimensioni demografiche, in questo modo subentrando allo Stato che, tuttavia, trasferirà alle regioni le risorse necessarie (art. 6, c. 1, lett. b) e art. 9, c. 3, lett. a);
- possano modificare il riparto del fondo perequativo assegnato dallo Stato ai comuni diversi da quelli di cui al precedente alinea e alle province – fermo restando l’ammontare regionale del fondo individuato dal centro – procedendo, nei confronti di questi enti, a proprie valutazioni della spesa corrente standardizzata e delle entrate standardizzate sulla base dei criteri individuati dallo Stato, nonché a stime autonome dei fabbisogni di infrastrutture. Per l’esercizio di tale potere è tuttavia necessario non solo il previo raggiungimento di accordi in Conferenza Unificata, ma anche il raggiungimento di “intese”, presso ogni regione, in sede di Consiglio delle autonomie locali (art. 15, c. 8);
- possano volgere una funzione di coordinamento delle spese di investimento degli enti locali relative a grandi opere (art. 15, c. 7).
Per quanto riguarda, infine, il monitoraggio della gestione delle risorse da parte degli enti territoriali - che, come si è detto, rappresenta una condizione essenziale per la promozione dell’accountability – sono di particolare interesse le disposizioni del ddl delega volte a favorire la trasparenza, la leggibilità e la confrontabilità dei bilanci degli enti territoriali: la presenza di tali elementi, infatti, è una delle condizioni necessarie affinché i cittadini possano valutare l’operato dei loro amministratori, tenendo conto anche dei risultati raggiunti in altri enti. Ci si riferisce, in particolare all’art. 2 c. 1, lett. b) del ddl delega, che, per le regioni e gli enti locali, oltre a introdurre l’obbligo di registrare le poste di entrata e di uscita in modo che possano essere ricondotte ai criteri rilevanti per l’osservanza del Patto di stabilità e crescita adottato dall’Unione europea, prevede che i bilanci siano redatti “in base a criteri standardizzati coerenti con il bilancio dello Stato”. E importante è pure che la messa a punto di meccanismi di sanzione venga prevista sia in caso di scostamento tra obiettivi programmati (dei saldi di bilancio) e risultati realizzati, sia in caso di mancato rispetto della standardizzazione dei bilanci (art. 2. c. 1, lett. h).
Per quanto riguarda la promozione dell’accountability, il sistema di finanziamento delle regioni a statuto speciale e delle province autonome è additato, in genere, come un esempio da non seguire. Il fatto che l’80,0% delle loro entrate tributarie provenga da compartecipazioni a tributi erariali assegnate in base al criterio geografico (contro il 3,1% per le ordinarie) e che tali compartecipazioni assicurino, in media, il 59,0% delle entrate correnti (contro il 2,6% delle regioni ordinarie) - significa infatti che esse sono in gran parte finanziate con trasferimenti automatici, assegnati a prescindere da qualsiasi riferimento a parametri di efficienza.
Nel territorio delle regioni speciali e delle province autonome si riscontrano, tuttavia, almeno altri due problemi.
Il primo è che il totale delle spese pro capite di Stato, regioni e enti locali è sempre superiore, soprattutto al nord, a quello che si riscontra nel territorio delle regioni ordinarie confinanti, sia in termini pro capite che come incidenza sul Pil regionale. Il che significa che la “specialità” comporta un costo per il Paese, a prescindere dal livello di decentramento delle funzioni.
Il secondo è che nel territorio delle regioni speciali del nord e nelle province autonome di Trento e Bolzano, oggettivamente ad elevata capacità fiscale, il gettito dei tributi erariali è pressoché interamente impiegato per il finanziamento della spesa pubblica nella stessa area. Da ciò deriva che il contributo alla perequazione fornito da questa parte del paese risulta inadeguato rispetto al suo livello di sviluppo economico e comunque nettamente inferiore a quello delle regioni ordinarie confinanti.
Circa l’eccessivo peso delle compartecipazioni a tributi erariali nel sistema di finanziamento delle regioni e province ad autonomia differenziata il ddl delega non offre alcuna soluzione. Vengono invece affrontate le altre questioni attinenti alle caratteristiche della spesa pubblica in questa parte del territorio nazionale.
In merito, il ddl delega, all’art. 19, c. 1, prevede che le regioni speciali e le province autonome “concorrano al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà” e, cosa di cui non è chiaro il significato, “all’esercizio dei diritti e doveri da essi derivanti”, nonché “all’assolvimento degli obblighi posti dall’ordinamento comunitario”. Il comma 2 dello stesso articolo, specifica, poi, i criteri di massima in base ai quali dovrà essere definito il contributo di ogni regione (dimensioni della finanza di ciascuna, funzioni esercitate e relativi oneri, livelli di reddito pro capite). Infine il comma 3 specifica che il contributo alla perequazione potrà avvenire, tra l’altro anche “mediante l’assunzione di oneri derivanti dal trasferimento o dalla delega di funzioni statali …. ovvero da altre misure finalizzate al conseguimento di risparmi per il bilancio dello Stato”. Il che potrebbe significare che i risparmi ottenuti dallo Stato rappresenteranno il contributo fornito dal territorio delle regioni speciali e province autonome alla perequazione, la quale, però, resterebbe di esclusiva competenza del centro, mantenendo, così, il suo carattere “verticale”.
La concreta adozione delle misure sopra indicate è rinviata a future norme di attuazione degli statuti delle singole regioni, da definire, con le procedure previste dagli statuti medesimi, entro un anno dall’entrata in vigore della legge delega (art.19, c. 1).
L’art. 19 relativo alle regioni speciali è inserito nel Capo V del ddl delega, Capo che, all’art. 18, affronta anche, in termini generali, il problema dell’attuazione dell’art. 116 Cost., relativo al riconoscimento di forme particolari di autonomia ad una o più regioni ordinarie, su richiesta delle stesse regioni. In materia il ddl delega si limita a stabilire che la legge con la quale si provvederà al riconoscimento di tali forme speciali di autonomia – cioè all’attribuzione in competenza esclusiva di funzioni diverse da quelle spettanti alla generalità delle regioni ordinarie – dovrà anche prevedere l’assegnazione delle relative risorse finanziarie sotto forma di tributi propri e di compartecipazioni a tributi erariali “tenendo conto delle esigenze di perequazione in favore dei territori aventi minore capacità fiscale”. L’espressione riportata tra virgolette può essere intesa nel senso che, se funzioni ulteriori verranno riconosciute a regioni “ricche” – come la Lombardia che, in effetti, ha già avanzato richieste in proposito – esse avranno diritto ad un finanziamento adeguato a far fronte ai nuovi compiti, ma a prescindere da qualsiasi riduzione del contributo alla perequazione nei confronti delle aree economicamente deboli, fornito dal loro territorio. Così intesa, tale disposizione eviterebbe che l’egoismo fiscale rappresenti il vero obiettivo della richiesta di ulteriori funzioni e, in questi termini, essa appare da condividere, riducendo il rischio che l’attuazione del comma 2 dell’art. 116 Cost. diventi un ostacolo al mantenimento dell’unità nazionale.
Nella presentazione al Libro verde sulla spesa pubblica (Ministero dell’economia e delle finanze, Doc. 2007/6, p. III) si afferma che in quella dell’Italia “ciò che lascia a desiderare non è tanto il suo livello elevato (circa il 50% del prodotto interno lordo, leggermente superiore alla media europea) quanto la qualità insufficiente rispetto ai bisogni del Paese. Riqualificare la spesa è perciò divenuto un imperativo urgente e ineludibile; per lo Stato, ma anche per le Regioni, Province e Comuni. Solo attraverso una forte riqualificazione dell’uso delle risorse che i contribuenti conferiscono alla collettività, governi e amministrazioni possono sospingere la crescita, elevare il benessere, rinsaldare il loro rapporto di fiducia con la società, offrire una prospettiva ai giovani”.
Nelle pagine precedenti si è dimostrato che, per quanto riguarda la qualità della spesa degli enti territoriali, una riforma del sistema di federalismo fiscale mirata a promuovere l’accountability potrebbe contribuire in modo decisivo a migliorarla. In tale analisi, oltre a evidenziare gli aspetti sui quali appare più necessario intervenire, sono state esaminate in dettaglio le norme del disegno di legge delega in materia, presentato nel giugno 2007. A tale disegno di legge è stata qui dedicata una particolare attenzione, in quanto si ritiene che il nuovo governo scaturito dalle elezioni politiche del 2008 potrebbe utilmente riprendere almeno alcune delle proposte in esso contenute nel momento in cui verrà di nuovo affrontato il problema dell’attuazione dell’art. 119 Cost., da troppo tempo ancora rimasto insoluto.
Quanto appena detto vale sicuramente per le disposizioni del disegno di legge in materia di coordinamento e monitoraggio della finanza pubblica. Ci si riferisce, nello specifico: alle norme volte a consentire agli enti territoriali la predisposizione in tempo utile dei propri strumenti di programmazione, inserendo le regole sul patto di stabilità interno e, più in generale, sul coordinamento della finanza pubblica, in un apposito provvedimento collegato alla legge finanziaria, da approvare prima di quest’ultima; alla scelta di strutturare il Patto di stabilità in modo da consentire il proseguimento del percorso di risanamento della finanza pubblica, ma senza imporre vincoli che mortifichino l’autonomia di spesa degli enti territoriali; alla riconoscimento alle regioni a statuto ordinario di un ruolo significativo in materia di finanza degli enti locali.
Un valutazione in complesso positiva può essere fatta anche per le disposizioni concernenti la perequazione, visto che il quadro delineato nel disegno di legge risulta innovativo e indubbiamente a orientato a promuovere l’accountability. Il sistema proposto, infatti, sia per le regioni che per gli enti locali, prevede, in generale, l’abbandono del criterio della spesa storica a favore di un sistema di riparto basato sulla capacità fiscale standard e sui costi oggettivi di esercizio delle funzioni, in questo modo favorendo un uso efficiente delle risorse, proprie o trasferite che siano.
Per la perequazione si riscontrano, tuttavia, almeno tre elementi di criticità.
Il primo riguarda la sottovalutazione delle “altre spese” delle regioni, cioè delle spese diverse dalla perequazione verso i comuni minori e da quelle relative a funzioni con livelli di prestazioni, fissati dallo Stato, da garantire su tutto il territorio. In questo caso, infatti, da un lato si prefigura un sistema di perequazione che tiene conto delle differenze di capacità fiscale per abitante, ma non dei costi oggettivi di esercizio delle funzioni. Dall’altro, la limitazione dell’obiettivo della perequazione alla riduzione (e non all’eliminazione) delle differenze di capacità fiscale, si traduce in una penalizzazione ingiustificata nei confronti delle regioni meridionali che, per intervenire in questi campi, dopo una tale riforma disporrebbero di risorse inferiori a quelle del periodo precedente.
Il secondo riguarda il metodo di calcolo della capacità fiscale standard. Esso, nel caso delle regioni, appare troppo riduttivo per quanto riguarda le fonti di entrata da considerare, al contrario di quanto previsto per gli enti locali per i quali, nel disegno di legge, si propone di tenere conto non solo di tutte le entrate tributarie ma anche di quelle tariffarie derivanti dai principali servizi.
Il terzo è l’estrema vaghezza del disegno di legge in merito alla durata del periodo transitorio necessario a consentire un abbandono non traumatico dell’attuale sistema, essenzialmente basato sul criterio della spesa storica. Per un ddl delega, una volta indicati i principi di fondo della perequazione, come è stato fatto, fissare un termine per la conclusione del periodo transitorio, è forse più importante che entrare nel merito degli aspetti tecnici, essendo essi comunque da affrontare compiutamente nei decreti legislativi di attuazione.
Come si è sottolineato nel testo, per avere un sistema di federalismo fiscale volto a consentire a tutti gli enti territoriali l’esercizio delle funzioni decentrate, rispettando criteri di efficienza nella gestione delle risorse, è pure necessario rafforzare, rispetto ai livelli attuali, la loro autonomia finanziaria. Su questo versante, quando il tema dell’attuazione dell’art. 119 Cost. verrà ripreso, appare opportuno seguire un approccio più innovativo di quello proposto nel disegno di legge delega.
Per quanto riguarda l’autonomia di entrata e, in particolare, l’autonomia tributaria, i fronti su cui è necessario intervenire sono due: i tributi propri istituiti con legge dello Stato; e i nuovi tributi regionali e locali introdotti per iniziativa autonoma degli enti territoriali. Dei due fronti, quello più importante è il primo. Per i nuovi tributi, infatti, la legge di coordinamento dalla quale dipende la possibilità degli territoriali di intervenire in questo campo, al fine di evitare conseguenze negative per il sistema tributario del Paese e per gli stessi cittadini, non potrà che lasciare alle regioni e agli enti locali margini di autonomia, in definitiva, molto ristretti. E, in effetti, i principi di fondo di tale legge di coordinamento, indicati nel disegno di legge delega, sembrano andare proprio in questa direzione.
Ma anche per i tributi regionali e locali istituiti dallo Stato il ddl delega dimostra una particolare prudenza, in questo caso eccessiva. Esso, infatti, non estende la gamma di quelli previsti dalla legislazione vigente e, rispetto ad essi, l’unica vera novità è un eventuale ampliamento dei margini di manovrabilità riconosciuti agli enti territoriali.
Innovazioni particolarmente significative, del resto, non emergono neppure per l’autonomia di spesa, in particolare per quella delle regioni a statuto ordinario. I vantaggi derivanti dalle disposizioni volte a contenere, forse in modo addirittura esagerato, il ricorso a trasferimenti di scopo, risultano di fatto annullati dalla previsione di livelli minimi o standard di prestazioni per una gamma di materie che coprono, mediamente, circa l’80% delle spese di questo livello di governo, comprendendo non solo la sanità, ma anche l’assistenza pubblica e il trasporto locale e alle quali, in futuro, potrebbe aggiungersi l’istruzione, quando e se le competenze in materia verranno decentrate.
Come si è visto, il finanziamento di questi servizi con entrate libere da vincoli formali di destinazione, proposto nel ddl delega, potrebbe contribuire a salvaguardare ugualmente la catena di responsabilità tra amministratori e cittadini, ma a patto che alle regioni sia riconosciuta una effettiva autonomia sotto il profilo della gestione. Questo specifico aspetto dell’autonomia di spesa nel ddl delega appare, tuttavia, trascurato. Inoltre, il fatto che le entrate formalmente libere, sia proprie che da assegnazioni del fondo perequativo, siano distinte in base alle spese che sono destinate a finanziare – funzioni dei comuni minori, servizi con livelli di prestazioni garantiti, altre funzioni - fa presumere una analoga suddivisione del bilancio nella parte uscite. Il fondamentale principio della unità del bilancio andrebbe invece tutelato, anche per evitare che, in futuro, per le regioni si continuino ad adottare più di patti di stabilità: uno per l’assistenza sanitaria e gli altri servizi protetti - molto dettagliato sugli aspetti gestionali - e uno per le rimanenti spese. L’esperienza ha infatti dimostrato che questo approccio indebolisce la catena di responsabilità tra amministratori e cittadini e, proprio per questo, lascia lo Stato per lo meno corresponsabile della copertura delle spese effettive.
Una riforma del sistema di federalismo fiscale mirata alla promozione dell’accountability, infine, non può trascurare la questione delle regioni a statuto speciale, il cui sistema di finanziamento, per la presenza troppo massiccia di compartecipazioni a tributi erariali, da questo punto di vista lascia particolarmente a desiderare. Nel disegno di legge tale questione - oggettivamente spinosa e comunque da risolvere con norme di attuazione dello Statuto di ogni regione - non viene affrontata. E’ tuttavia da apprezzare che, nei confronti delle regioni ad autonomia differenziata e delle regioni ordinarie che decidano di avvalersi dell’art. 116, c. 2, Cost., il ddl delega, pur restando nel vago circa le soluzioni da adottare, miri almeno ad evitare che l’esercizio di un ventaglio di competenze più ampio di quello normalmente riconosciuto metta in discussione la responsabilità delle aree ricche del paese a sostenere la spesa pubblica nel mezzogiorno.
Quello della mancanza di chiarezza è, però, un problema più generale del provvedimento preso in esame, che, in futuro, si dovrebbe cercare in tutti i modi di evitare. Ad esempio, per l’autonomia tributaria e per l’autonomia di spesa degli enti territoriali, il testo del ddl non permette di stabilire se e in che misura la sua attuazione comporterebbe miglioramenti rispetto alla situazione attuale e ciò anche per la mancanza di stime ufficiali sugli effetti di una sua eventuale applicazione. Ancora più significativa è la mancata definizione di un orizzonte temporale per l’attuazione della riforma, visto che - date le prevedibili resistenze al cambiamento, soprattutto per quanto riguarda la perequazione – ciò può significare rendere molto cedevoli le fondamenta di qualsiasi modello ipotizzato.