Stelio MANGIAMELI, L’attuazione della riforma del Titolo V Cost. L’Amministrazione: tra Stato, Regioni ed Enti locali (Dicembre 2004)
Relazione al Convegno organizzato dall’ISSiRFA-CNR su Regionalismo in bilico tra attuazione e riforma della riforma, Roma, Sala del Cenacolo, 30 giugno 2004
SOMMARIO:
1. La legge n. 59 del 1997.
2. La legge n. 131 del 2003.
2.1. Segue: i principi della delega legislativa in materia di enti locali.
2.2. Segue: l’adeguamento del TUEL.
2.3. Segue: l’individuazione delle funzioni fondamentali.
2.4. Segue: l’istituzione delle Città metropolitane.
2.5. Segue: i controlli interni e la regionalizzazione della Corte dei conti.
3. Le sedi di raccordo.
3.1. Segue: l’accordo dell’8 agosto 2001 tra Governo e Regioni e province autonome in materia sanitaria.
3.2. Segue: l’intesa inter-istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali del 20 giugno 2002.
4. Attuazione del Titolo V e realtà costituzionale.
4.1. Segue: funzioni amministrative e competenza legislativa generale dello Stato.
4.2. Segue: la valorizzazione del principio della leale collaborazione.
4.3 Segue: la collaborazione e il potere sostitutivo.
Note
1. La legge n. 59 del 1997.
Vi sono diverse ragioni che, nell’analisi dell’attuazione della riforma del Titolo V, in relazione all’esercizio delle funzioni amministrative, spingono a prendere in considerazione, sia pure brevemente e preliminarmente, il c.d. “federalismo amministrativo”, od anche “federalismo a costituzione invariata” sperimentato dalla legge n. 59 del 1997 e dai relativi decreti delegati di attuazione (1).
In primo luogo, sussistono aspetti e relazioni di ordine linguistico che danno un particolare significato alle disposizione della revisione costituzionale. Infatti, già ad una semplice lettura dei testi normativi si riscontrano delle identità di espressione nella legge n. 59, cit., e nella legge costituzionale n. 3 del 2001. Basti pensare, in proposito, a termini come “sussidiarietà”, “adeguatezza” “differenziazione”, “funzioni conferite”.
In secondo luogo, si possono individuare argomenti di ordine sistematico. Infatti, sia la legge n. 59, che la legge costituzionale n. 3 si baserebbero sul c.d. principio di attribuzione della generalità delle funzioni ai Comuni e sulla necessità di un loro spostamento verso l’amministrazione regionale e statale solo per assicurare l’esercizio di carattere unitario delle funzioni.
In terzo luogo, infine, non sembra da trascurare l’esistenza di cause reali, dal momento che il complesso meccanismo della legge n. 59, collegato per l’effettivo “trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative” all’adozione dei DPCM, di fatto ha operato nel momento in cui veniva in essere la modifica costituzionale, anche se, realisticamente, può dirsi che non si sia ancora concluso.
Diffusa è stata, poi, la sensazione che sul piano dell’amministrazione il più era stato fatto in anticipo e che, addirittura, la stessa modifica costituzionale rappresentasse una semplice copertura di quanto già prodotto nell’ordinamento con la legge ordinaria e, perciò, l’adozione della riforma del Titolo V appariva imprescindibile solo per tacitare le critiche un po’ formali sulla sostenibilità del federalismo amministrativo (2).
Ora, pur non negando il ruolo che, anche rispetto all’adozione della riforma costituzionale, ha avuto la legge n. 59 del 1997, è bene muovere dalla premessa che tra l’impianto delle funzioni previsto dalle disposizioni costituzionali e il complesso delle funzioni implementato dal federalismo amministrativo sussistono sensibili differenze, e ciò anche a non tenere conto della diversità delle fonti di disciplina (costituzionale nel primo caso, legislativa nel secondo) che si ripercuote sulla sistematica dell’ordinamento.
Il modello della legge n. 59 è, per quanto distante possa sembrare, espressione degli strumenti costituzionali del vecchio Titolo V. In quella logica non riconosce, né in ampiezza, né in profondità, funzioni amministrative ai livelli di governo più prossimi ai cittadini, ma li affida alla determinazione della legge (secondo la vecchia previsione dell’art. 128, come interpretata dall’art. 3 della legge n. 142 del 1990). Anche nei confronti della Regione ammette una titolarità di funzioni amministrative che non è maggiore rispetto a quella dei precedenti riparti (DPR nn. 1-12 del 1972 e DPR n. 616 del 1977) e su cui avevano pesato il ritaglio delle materie in nome degli interessi nazionali, la previsione di una funzione di indirizzo e coordinamento, tale da delegificare le norme principio, e l’introduzione di un potere sostitutivo dello Stato in grado di azzerare la leale collaborazione o di ridurla a una mera consultazione niente affatto vincolante (3). Infatti, non su un riparto di competenza certo si basano le funzioni riconosciute a Regioni ed enti locali, ma su una attenuazione del titolo di esercizio, attraverso il conio della nozione di “conferimento”, che non distingue tra “trasferimento, delega o attribuzione di funzioni e compiti” (art. 1, comma 1).
A ciò si aggiunga che il legislatore del 1997, ipotizza un trasferimento a cascata: dal livello statale a quello regionale e da questo a quello locale (Comuni, Province, Comunità montane), sulla base di una visione che già si era fatta strada nell’ordinamento con l’art. 3 della legge n. 142 del 1990. In questo modo rende il livello maggiore comprensivo di tutta la competenza del livello inferiore, secondo una logica che è tipica del canone della “gerarchia”, anziché di quello della “competenza”.
Diversamente, il nuovo Titolo V si basa sul riconoscimento costituzionale di “funzioni proprie” per Comuni e Province (e Città metropolitane), che concorre con il “conferimento di funzioni” da parte dello Stato e della Regione secondo la rispettiva competenza (4).
Nella lettura che ne ha dato la dottrina è problematico, non solo il rapporto tra funzioni proprie e funzioni conferite, ma anche il rapporto tra il comma 2 e il comma 1 dell’art. 118 Cost., in quanto è controverso se il meccanismo dinamico, basato sui principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, che vuole le funzioni amministrative attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni e allo Stato, valga per tutto il novero delle funzioni amministrative, comprese quelle già attribuite e, in quanto tali, proprie delle diverse amministrazioni locali, oppure – come sembrerebbe più ragionevole – se sia da riferire solo alle funzioni che, ai sensi del comma 2, sono da conferire.
Quale che sia la lettura che si preferisce, si deve precisare come le funzioni locali siano inserite in un diverso contesto rispetto alla legge n. 59, dal momento che la Costituzione non consente che le funzioni dell’amministrazione locale possano essere disciplinate a cascata, in quanto hanno fonti di normazione differenziata (Costituzione, legge statale e legge regionale) e un regime di esercizio proprio, essendo tutte sottoposte alla disciplina delle fonti di autonomia: statuto e regolamenti locali, i quali ultimi determinano l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni attribuite.
In sostanza, può dirsi che il quadro costituzionale sia stato formulato tenendo conto delle regole di competenza sulla base della distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite, dove il primo termine viene introdotto per la prima volta ed è estraneo al sistema del federalismo amministrativo e il secondo ha un significato non coincidente con quello adoperato dalla legge n. 59, dal momento che diventerebbe un sorta di sinonimo della nozione di “attribuzione” come si evincerebbe dalla norma sulla potestà regolamentare, che si estenderebbe a tutte le funzioni comunque allocate a livello locale (a titolo proprio o di conferimento).
Lo stesso meccanismo di salvaguardia dell’esercizio unitario delle funzioni sembra essere stato capovolto. Infatti, nella legge n. 59 questo rappresenta la ragione per evitare il conferimento – secondo il principio di sussidiarietà ivi accolto – “alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicine ai cittadini interessati”; nel sistema dell’art. 118, comma 1, Cost., invece, l’esercizio unitario è il motivo del conferimento al livello superiore, rispetto al quale i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (tratti dal novero dei dieci criteri previsti dall’art. 4, comma 3, della legge n. 59), operano come un limite sostanziale all’operato del legislatore statale e di quello regionale, ponendo così le condizioni per un eventuale controllo di costituzionalità da parte del giudice delle leggi, in relazione alla ragionevolezza del sistema amministrativo realizzato con gli atti legislativi di conferimento.
Al di là di questi aspetti, in ogni caso, sussiste una diversità di fondo tra il sistema del federalismo amministrativo e quello della revisione del Titolo V. Infatti, mentre il riparto di competenza previsto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, si fonderebbe sulla competenza legislativa generale delle Regioni e non necessiterebbe di ulteriori interventi, tanto meno di ritaglio, il federalismo amministrativo risulterebbe ancorato pur sempre al riparto di competenza basato sull’enumerazione regionale, come si evince agevolmente anche da un semplice esame del D.L.vo n. 112 del 1998, che ricalca la partizione che già fu propria del DPR n. 616 del 1977 (Sviluppo economico – Territorio – Servizi alla persona) e prevede in molti articoli il richiamo a materie enumerate nel precedente art. 117, comma 1, Cost., come artigianato (art. 12), miniere (art. 32), fiere e mercati (art. 39), turismo (art. 43), urbanistica, opere pubbliche, viabilità, trasporti ecc. (art. 51), sanità (art. 113), assistenza sociale ei servizi sociali (art. 128), assistenza scolastica (art. 135), formazione professionale (art. 140), musei e biblioteche (art. 149) e polizia amministrativa regionale e locale (art. 158), con un intreccio tra compiti e funzioni trasferiti, riservati allo Stato (in nome dell’interesse nazionale) e da ulteriormente trasferire a Comuni, Province e Comunità montane.
2. La legge n. 131 del 2003.
2.1. La necessità di una revisione dell’intero assetto delle funzioni amministrative alla luce della riforma del Titolo V si imponeva chiaramente e, in tal senso, nella stessa legge n. 131 del 2003 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) si era previsto che “con i decreti legislativi di cui al comma 1, (si sarebbe dovuto provvedere), altresì, nell’ambito della competenza legislativa dello Stato, alla revisione delle disposizioni in materia di enti locali, per adeguarle alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3” (art. 2, comma 2) (5).
Tuttavia, il Comitato tecnico-scientifico, istituito dal Ministro degli Interni per lo studio delle questioni relative alla delega legislativa di cui all’art. 2 della legge n. 131 del 2003, che ha concluso i suoi lavori con una relazione pubblicata nel sito del Ministero (6), ha ritenuto di dovere interpretare questo frammento della delega ritenendo che “la lettera e la ratio della delega consentissero di prendere in considerazione, quanto alle disposizioni contenute in fonti diverse dal T.U.E.L., le sole norme di carattere ordinamentale, ritenendo invece esorbitante dalla delega stessa tutto ciò che attiene alle varie discipline di settore riguardanti l’esercizio di funzioni locali”.
Del resto lo stesso art. 7 della legge n. 131 ha previsto, in relazione all’art. 118 Cost., il meccanismo della revisione delle funzioni amministrative seguendo le previsioni dell’accordo inter-istituzionale del 20 giugno 2002 (7), del quale si dirà anche oltre, e cioè collegandolo ad accordi tra Stato e Regioni e autonomie locali, da inserire, ad opera del Governo, nei collegati alla finanziaria e, una volta diventati legge, da attuare attraverso dei DPCM, secondo la tecnica collaudata in occasione del D.L.vo n. 112 del 1998.
Il comma 6, dell’art. 7, però, ha previsto che “fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti previsti dal presente articolo, le funzioni amministrative continuano ad essere esercitate secondo le attribuzioni stabilite dalle disposizioni vigenti, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale”, con la conseguenza che è stato sufficiente non rispettare il disposto dei primi cinque commi dell’art. 7, per lasciare le funzioni amministrative al … loro posto.
2.2. Al di là del profilo ricordato, l’attuazione della riforma del Titolo V sul piano dell’amministrazione è stato vista in relazione all’ordinamento degli enti locali. Da questo punto di vista tre sono le questioni che maggiore rilievo avrebbero dovuto avere: l’adeguamento del TUEL; l’individuazione delle funzioni fondamentali; e l’istituzione delle Città metropolitane.
Con riferimento alla questione della revisione del TUEL, in realtà la legge di delega prevedeva la modifica “limitatamente alle norme che contrastano con il sistema costituzionale degli enti locali definito dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3” per cui ne risultava ristretto il potere di provvedere ad un più ampio adeguamento del Testo unico medesimo. Sul punto le indicazioni del Comitato hanno riguardato l’intero complesso normativo ed hanno suggerito di procedere all’abrogazione delle norme palesemente in contrasto con il Titolo V, alla modifica, nelle materie di competenza legislativa statale, quando tale intervento è stato ritenuto sufficiente a realizzare l’adeguamento ai nuovi principi costituzionali e alla previsione di forme di cedevolezza delle norme legislative (con rimessione degli oggetti al legislatore regionale o alle fonti di autonomia) lasciandoli in vigore sino alla loro sostituzione con le norme delle fonti competenti.
Nel dibattito in seno al Comitato è rimasta impregiudicata la questione se si possa ancora procedere alla formulazione di un vero e proprio “testo unico” o se, dopo la riforma, debba dirsi venuto meno un tale potere ordinatorio dello Stato, atteso che la sua competenza è limitata alla disciplina solo della legislazione elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, cui si possono aggiungere le leggi di principio relative all’armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e quelle adottate in attuazione dell’art. 119 Cost..
A tal riguardo, la dottrina, che aveva discusso la questione immediatamente dopo l’entrata in vigore della riforma del Titolo V (8), aveva dato, in genere, una risposta negativa, ritenendo che la legislazione dello Stato di cui alla lettera p, del comma 2 dell’art. 117 Cost., essendo limitata ad oggetti specifici, avesse perduto del tutto quella organicità che consentiva di ricorrere allo strumento del “testo unico”.
2.3. Quanto all’individuazione delle funzioni fondamentali era apparso chiaro che la legge n. 131 aveva disatteso l’orientamento che ricomprendeva in questa nozione solo le funzioni di carattere istituzionale e non anche quelle di carattere materiale (9). Infatti, l’art. 2, comma 1, faceva riferimento, per l’individuazione delle funzioni fondamentali a quelle funzioni “essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento”, ribadendo questo concetto al comma 4 lett. b (“individuare le funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane in modo da prevedere, anche al fine della tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica, per ciascun livello di governo locale, la titolarità di funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento, tenuto conto, in via prioritaria, per Comuni e Province, delle funzioni storicamente svolte”) (10).
Al momento dell’insediamento del Comitato tecnico-scientifico, avvenuto con una conferenza, tanto l’allora Presidente della Corte costituzionale, Riccardo Chieppa, quanto il Presidente del Consiglio di Stato, Roberto De Roberto, suggerivano di interpretare l’espressione “funzioni fondamentali” come un sinonimo di “funzioni proprie”, in questo modo semplificando una lunga controversia dottrinale sul novero delle funzioni locali e con un risvolto pratico alquanto immediato, in quanto sarebbe stato sufficiente riassumere il complesso dei poteri esercitati da Comuni e Province, per delineare al contempo il novero delle funzioni fondamentali.
Il Comitato, tuttavia, non seguiva questo prezioso consiglio, con la conseguenza che nella definizione delle funzioni fondamentali si è venuto a trovare in una particolare difficoltà. Infatti, una volta ammesso il carattere materiale delle funzioni fondamentali, appariva chiaro che la loro disciplina finiva con lo scivolare nell’ambito di competenze attribuito dalla Costituzione alle Regioni, per cui, “anche al fine di contemperare le due esigenze, potenzialmente antinomiche (disciplina regionale della materia e vincolo stabilito con legge statale), si esprimeva l’avviso che la definizione avrebbe dovuto ispirarsi ai seguenti criteri:
- necessità di evitare una individuazione delle funzioni fondamentali così dettagliata e specifica da tradursi in una compressione degli spazi che spettano alla potestà legislativa dello Stato e della Regione, nel disciplinare le materie di rispettiva attribuzione;
- necessità, tuttavia, di evitare anche che una eccessiva genericità delle formule di individuazione delle funzioni possa vanificare le finalità di garanzia delle competenze degli enti locali che la norma persegue.
Quasi sicuramente questa impostazione, per l’Amministrazione chiamata a redigere la bozza dei decreti legislativi, non si è tradotta in un vero e proprio criterio guida, atteso che l’applicabilità dell’indicazione data mancherebbe di concretezza. Tant’è che, in sede redazionale, sono stati elaborate due bozze di decreti legislativi, a seconda del criterio ritenuto prevalente nella definizione delle funzioni fondamentali (quello della specificità, o quello della genericità).
2.4. Infine, la questione relativa alle città metropolitane. Qui la delega appariva richiedere una disciplina esaustiva della fattispecie (v. art. 2, comma 4, lett. h, i, l) con la previsione delle procedure di istituzione, della legge elettorale, della disciplina degli organi di governo e, ovviamente, delle funzioni fondamentali (11).
Anche con riferimento a questo punto, al di là del carattere necessario riconosciuto a questo nuovo ente territoriale, il Comitato, anziché fornire delle indicazioni univoche, si è diviso tra coloro che ritenevano che la Città metropolitana dovesse consistere nel governo di area vasta e che avrebbe comportato la scomparsa della Provincia e del Comune capoluogo, e coloro che, invece, erano propensi a fare coincidere le Città metropolitane con i Comuni capoluogo, riconoscendo loro anche le competenze della Provincia.
Inutile dire che dietro questa divergenza di opinioni si situava il conflitto tra le associazioni degli enti (UPI ed ANCI). Una situazione questa che con molta probabilità parte da una non esatta percezione del problema delle aree metropolitane, che richiedono di costruire, anche sul piano istituzionale, un sistema di vantaggi reciproci tra i Comuni più piccoli e satellitari, aderenti all’area, e il Comune capoluogo, con la necessità di fissare regole che consentano effettivamente un equilibrio reciproco. Da questo punto di vista, occorre notare che l’impossibilità di giungere ad un accordo sul tema è derivato essenzialmente da due lacune di carattere costituzionale: in primo luogo, non sono previsti i meccanismi di legittimazione relativi alla formazione delle Città metropolitane (mentre sono indicati, per i Comuni, le Province e le Regioni: art. 132 e 133 Cost.); in secondo luogo, manca la previsione della necessaria scomparsa degli enti da cui può derivare la Città metropolitana, per cui si determina facilmente anche una tensione interna al sistema comunale, in quanto i Comuni inclusi nell’area vasta non intendono rinunciare alla loro identità e lo stesso Comune capoluogo non vuole pregiudicare la propria posizione, attraverso l’utilizzo delle proprie risorse a favore dei primi.
2.5. La legge di delega ha previsto anche che i decreti legislativi avrebbero dovuto rimettere “all’autonomia statutaria degli enti locali la potestà di individuare sistemi di controllo interno, al fine di garantire il funzionamento dell’ente, secondo criteri di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa, nonché forme e modalità di intervento, secondo criteri di neutralità, di sussidiarietà e di adeguatezza” (12).
Il punto toccato da questo principio della legge di delega è alquanto delicato. Infatti, subito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, con l’abrogazione dell’art. 130 (e dell’art. 125, comma 1) Cost. si sono ritenute, anche ad opera della giurisprudenza amministrativa (13), automaticamente caducate tutte le disposizioni del TUEL riguardanti il sistema dei controlli sugli atti degli enti locali; con la conseguenza che l’intero sistema locale è risultato primo di efficaci strumenti di monitoraggio e garanzia sullo svolgimento delle funzioni locali. Vero è che il TUEL prevedeva già (art. 147) che “gli enti locali, nell’ambito della loro autonomia normativa ed organizzativa, individuano strumenti e metodologie adeguati a: a) garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa; b) verificare, attraverso il controllo di gestione, l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (…); c) valutare le prestazioni del personale con qualifica dirigenziale; d) valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti”, ma la presenza, per un verso, della figura del “Segretario comunale”, sia pure in un quadro normativo che si era andato progressivamente modificando (14), e, per l’altro, dei controlli esterni dei Comitati regionali, aveva comportato (anche per il breve tempo trascorso tra la legificazione dei sistemi di controllo interno nelle pubbliche amministrazioni [con il D.L.vo n. 286 del 1999] e l’entrata in vigore del TUEL, prima, e della riforma del Titolo V, dopo) una configurazione dei controlli interni come meramente aggiuntivo e supplementare, per cui era mancato molto spesso da parte degli enti locali un investimento di risorse e strutture adeguato per l’implementazione dei meccanismi di internal auditing .
Questa circostanza era ben presente nel quadro di adeguamento delineato dalla legge di delega n. 131 e di qui la spinta a rivedere le disposizioni relative al controllo interno nell’ambito del TUEL anche per adeguarle al diverso sistema di riferimento. Infatti, il D.L.vo n. 286 struttura i controlli per l’amministrazione dello Stato e li pone al servizio delle funzioni proprie dell’organo di indirizzo che nel sistema ministeriale è rappresentato dal Ministro; diversamente nel sistema delle autonomie locali le disposizioni sul controllo interno devono consentire, soprattutto dopo l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia, agli organi di governo dell’ente di avere una piena contezza dell’azione amministrativa. Di conseguenza, sorge la necessità di intestare il controllo di regolarità amministrativa e contabile esclusivamente al Consiglio, che assume così la veste dell’organo di garanzia della legittimità (15), e di prevedere raccordi diretti tra Consiglio e Sindaco o Presidente della Provincia con riferimento al controllo strategico. Negli enti locali, infatti, il programma amministrativo (o, se si vuole, l’indirizzo politico) non è un atto esclusivo dell’organo monocratico, ma al contrario un atto collaborato con il Consiglio. Secondo previsioni che spetta allo Statuto determinare, il Sindaco (o il Presidente della Provincia) presenta al Consiglio le linee programmatiche (art. 46, comma 3) e questo partecipa altresì alla definizione, all’adeguamento e alla verifica periodica dell’attuazione delle linee programmatiche (art.42, comma 3).
La revisione del TUEL tiene conto del nuovo assetto e tende, in una qualche misura, ad assecondare lo sviluppo del sistema dei controlli interni; tanto più che in questo quadro si inserirebbe un nuovo ruolo istituzionale della Corte dei conti, come garante dell’equilibrio generale del sistema economico-finanziario e strumento di coesione e di collaborazione della democrazia locale (16). È per questa ragione che l’art. 7, comma 7, della legge n. 131 del 2003, innovando al quadro già delineato dall’art. 3, comma 4, della legge n. 20 del 1994 (17), avrebbe previsto che “la Corte dei conti, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, verifica il rispetto degli equilibri di bilancio da parte di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, in relazione al patto di stabilità interno ed ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano, nel rispetto della natura collaborativa del controllo sulla gestione, il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o regionali di principio e di programma, secondo la rispettiva competenza, nonché la sana gestione finanziaria degli enti locali ed il funzionamento dei controlli interni e riferiscono sugli esiti delle verifiche esclusivamente ai consigli degli enti controllati. (…) Per la determinazione dei parametri di gestione relativa al controllo interno, la Corte dei conti si avvale anche degli studi condotti in materia dal Ministero dell’interno” (18).
3. Le sedi di raccordo.
Quanto al sistema dei raccordi previsti dalla riforma, come è noto, tanto l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con i rappresentanti delle Regioni e degli Enti locali, prevista dall’art. 11 della legge cost. n. 1 del 2001, quanto l’istituzione in ogni Regione del Consiglio delle autonomie locali, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 123 Cost., non sono state realizzate e le disposizioni costituzionali citate sono rimaste pressoché inefficaci. Infatti, alla predisposizione dei testi dei regolamenti parlamentari da parte del “Comitato Mancino” non ha fatto seguito la loro formale adozione (19) e, per quanto riguarda gli statuti regionali, la loro deliberazione è così in ritardo che verosimilmente solo con la prossima legislatura sarà possibile istituire gli organi di consultazione degli enti locali. Si tenga anche conto che tutte le proposte di statuto regionale prevedono un rinvio esplicito alla legge regionale per la concreta istituzione (20).
In questo quadro, come era prevedibile, l’unico effettivo organo che può essere assunto a simbolo del raccordo tra Stato e Regione è il sistema delle Conferenze e, in particolare, la Conferenza unificata, per il semplice motivo che era stata istituita e disciplinata in precedenza (D.L.vo n. 281 del 1997) e che all’atto dell’entrata in vigore della riforma del Titolo V, nonostante la scelta di non procedere ad una sua costituzionalizzazione, si è trovata ad essere l’unica sede già funzionante (21).
Non è sicuramente questa il luogo per riesaminare il ruolo della Conferenza, rispetto al principio della leale collaborazione (22), né per discutere – come pure si sta facendo in vista dell’approvazione del nuovo disegno di legge costituzionale di riforma della parte seconda della Costituzione – se debba essere prevista nel testo delle nuove disposizioni costituzionali una copertura costituzionale per la Conferenza. Più significativo appare una sintetica valutazione sui dati che emergono dagli atti della Conferenza e dalle prassi seguite in tale sede, tenendo conto del carattere fortemente informale della collaborazione e del metodo tendenzialmente consensuale che dovrebbe caratterizzare la concertazione.
Se si guarda agli atti della Conferenza emergono con certezza due accordi siglati in Conferenza dal significato particolare per le vicende dell’attuazione del Titolo V: uno, in parte ante litteram, è l’accordo dell’8 agosto 2001 tra Governo e Regioni e province autonome in materia sanitaria; l’altro è l’accordo del 20 giugno 2002 “recante intesa inter-istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali, ai sensi dell’art. 9, comma 2, lett. c del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281”.
3.1. L’accordo in materia di sanità risultava particolarmente significativo, in quanto, come esso stesso afferma, pretende di determinare la spesa sanitaria cui concorre lo Stato per il 2001 in modo che questo possa essere “definito come ‘anno zero’ nel rapporto tra Stato e Regioni per la prefissione dell’entità complessiva dei finanziamenti a carico dello Stato” (punto 4).
Alle Regioni viene data una responsabilità piena della gestione del servizio con conseguente vincolo a finanziare con risorse proprie le eventuale eccedenze finanziarie che il servizio avrebbe eventualmente richiesto (punto 2 e 9).
Le Regioni avrebbero avuto la possibilità di sopportare i costi finanziari aggiuntivi del servizio sanitario, ricorrendo al mantenimento dei ticket (sui farmaci e sulla diagnostica), oppure attraverso la manovra di “un’addizionale regionale all’IRPEF o altri strumenti fiscali previsti dalla normativa vigente, nella misura necessaria a coprire l’incremento di spesa” (punto 2).
Occorre notare che l’accordo dell’8 agosto 2001 è stato stipulato dallo Stato e dalle Regioni piuttosto alla cieca, senza cioè avere una esatta contezza della consistenza degli oneri del servizio sanitario e con la premura di saldare le partite finanziarie pregresse, anziché guardare a quelle future. In particolare, nel momento in cui si è proceduto alla stipula dell’accordo non erano state ancora fissati i LEA previsti dal decreto legislativo n. 502 del 1992 e, pertanto, la stessa fisionomia del servizio sanitario poteva dirsi incerta, così come ignoti risultavano le variazioni territoriali del servizio stesso.
Per queste ragioni, con l’accordo in questione, viene preso l’impegno reciproco, da una parte, a regolamentare i LEA entro il 30 novembre 2001 (impegno mantenuto con l’adozione di uno specifico DPCM) e, dall’altro, “in sede di prima applicazione dei nuovi LEA, ad attivare un tavolo di monitoraggio e verifica, presso la segreteria della Conferenza (…), sui suddetti livelli effettivamente erogati e sulla corrispondenza ai volumi di spesa stimati e previsti, articolati per fattori produttivi e responsabilità decisionali, al fine di identificare i determinanti di tale andamento, a garanzia dell’efficienza e dell’efficacia del Servizio Sanitario Nazionale” (punto 15).
L’intento era quello di dare vita ad un tavolo comune anche per procedere al “riequilibrio tra le regioni medesime in un arco di tempo predefinito, che tenga conto della necessità di incentivare i comportamenti virtuosi, di rimuovere le situazioni di svantaggio e migliorare la qualità dei servizi”, con un impegno da parte delle regioni a rivedere anche i parametri di ponderazione (di cui all’art. 24 della legge n. 662 del 1996) (punto 16).
Il protocollo denota un procedimento collaborativo degno di nota e da prendere a modello delle relazioni tra Stato e Regioni. Peccato che non ha funzionato nei termini in cui stato stipulato.
Non solo l’assunzione di responsabilità da parte delle Regioni è stata bloccata da parte dello Stato, attraverso le misure previste dalle leggi finanziarie per il 2003 e il 2004, che non hanno consentito di attivare l’addizionale IRPEF, ma la spesa sanitaria – decisamente superiore alle previsioni – è stata finanziaria con risorse sottratte allo sviluppo e agli investimenti, prevedendo per queste ultime il ricorso all’indebitamento attraverso l’emissione dei BOR (23). In ultima analisi, il sistema regionale è diventato più costoso e meno efficiente, ma soprattutto meno autonomo e la collaborazione si è risolta in forme di decisione unilaterale. Tanto più che lo Stato di fatto tende a ritardare la pubblicazione dei dati raccolti dal tavolo congiunto di monitoraggio, dai quali potrebbe emergere la necessità di riequilibrare le partite finanziarie a favore delle Regioni.
3.2. Altrettanto singolare appare quanto è accaduto con l’intesa inter-istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali stipulata il 20 giugno 2002, “al fine di coordinare l’esercizio delle rispettive competenze e svolgere in collaborazione attività di interesse comune”.
Qui dopo una serie di premesse da manuale di diritto pubblico, come il richiamo al principio che “comuni, province, città metropolitane, regioni e stato hanno pari dignità, pur nella diversità delle rispettive competenze”, o come l’affermazione che “la separazione delle competenze comporta la valorizzazione del principio della leale collaborazione tra gli enti che compongono la Repubblica (…) per addivenire a soluzioni condivise in ordine alle rilevanti questioni interpretative e di attuazione poste dalla riforma costituzionale del Titolo V”, sono assunti una serie di impegni: alcuni riguardano l’esercizio delle competenze legislative, come l’individuazione dei principi fondamentali, altre le funzioni amministrative, come la determinazione delle funzioni fondamentali e la revisione del TUEL. Questi impegni di fatto sono stati trasfusi, per la loro attuazione, nella legge n. 131 del 2003.
Rispetto a questi, però l’accordo inter-istituzionale prevedeva di istituire subito “una conferenza mista per definire l’impianto complessivo del federalismo fiscale” e di determinare “l’avvio del trasferimento di una parte delle risorse necessarie per svolgere le competenze esclusive e le funzioni amministrative derivanti dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, da definire in legge finanziaria, senza oneri finanziari addizionali, con contestuale riduzione delle corrispondenti voci di costo a carico del bilancio dello Stato”.
Sostanzialmente l’accordo era quello di regolare in modo consensuale, in sede di legge finanziaria, tutte le partite che si sarebbero potuto regolare in termini di competenza e senza dare luogo ad oneri finanziari ulteriori.
Questa parte dell’accordo, la più importante, non è stata mai rispettata, e cioè lo Stato si è guardato bene dall’attivare la Conferenza prevista. Al suo posto è stata prevista, prima, una proroga dei termini e, successivamente, nella legge finanziaria 2003, l’istituzione dell’Alta Commissione (24), per cui questo meccanismo di regolazione consensuale delle competenze non si è mai attivato e lo Stato ha conservato per intero il potere di decidere su tutte le attribuzioni in precedenza esercitate.
Certamente non sfuggono le ragioni di questi comportamenti istituzionali, legati alle vicende della finanza pubblica e al rispetto del patto di stabilità, ma in questo modo si segue una via per la quale – quale che sia la maggioranza che governa – la finanza viene posta sempre in collisione con l’autonomia regionale (25).
I due atti considerati mettono in evidenza anche i tratti delle prassi affermatesi in sede di conferenza e se, da un lato, proprio questo organo ha registrato un incremento di attività sensibile, dall’altro il metodo concertativo ha mostrato di non funzionare anche perché di fronte all’opposizione di Regioni ed Enti locali (ad esempio nel caso di pareri negativi sui disegni di legge o sulle proposte di decreti ministeriali) il governo non si è ritenuto vincolato e ha proceduto oltre con la presentazione o l’approvazione dell’atto; gli accordi e le intese raggiunte in sede di Conferenza hanno riguardato attività amministrativa di non primaria rilevanza e in genere priva del carattere della programmazione.
Solo di recente è stata adottata qualche intesa ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge n. 131 del 2003, sostitutive dei vecchi atti di indirizzo e coordinamento e “dirette a favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”, ma i relativi effetti stentano a farsi sentire (26).
In sostanza anche la leale collaborazione attraverso la Conferenza non risulta essere stata esaltante e, per queste ragioni, sarebbe opportuno prestare attenzione al modello concreto, prima di propugnare la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze; anche perché, rispetto alle esigenze di raccordo tra Stato, Regioni ed Enti locali, la Conferenza presenta dei limiti di carattere strutturale notevoli, dei quali qui possono essere ricordati almeno due: in primo luogo, realizza il collegamento solo degli esecutivi e taglia fuori tutte le sedi assembleari di rappresentanza democratica, nelle quali si svolgono peraltro le funzioni di carattere normativo e, per le Regioni, anche di carattere legislativo; in secondo luogo, non può dimenticarsi che la Conferenza non costituisce una espressione del mondo delle autonomie territoriali, ma rappresenta – anche se la composizione è mista – un organo statale inserito nella complessa struttura del Governo (27).
4. Attuazione del Titolo V e realtà costituzionale.
L’attuazione del Titolo V con riferimento alle funzioni amministrative non è sicuramente un capitolo concluso, anzi l’intero sistema amministrativo appare in movimento in una misura tale che è persino difficile descrivere il suo divenire.
Tuttavia, se può cogliersi una tendenza evolutiva, dovrebbe dirsi che questa non sembra tenere conto delle norme scritte nella Costituzione, quanto meno del significato letterale e sistematico che da queste potrebbe desumersi, ma una tale evoluzione può descriversi solo seguendo i canoni della realtà costituzionale.
La Costituzione sembra distinguere, sia pure tendenzialmente e non in modo esaustivo, tra i diversi ruoli: allo Stato e alle Regioni spetterebbe un compito di programmazione, di direzione e di vigilanza; alle Regioni, in questa configurazione, sarebbe rimesso in particolare di produrre la maggior parte delle discipline di settore; ai Comuni e alle Province, invece, sarebbe attribuito un compito di gestione delle funzioni e, a questi fini, le disposizioni costituzionali prevedono il collegamento dell’amministrazione locale, tanto con lo Stato, quanto con la Regione, attraverso le leggi che, nell’ambito delle rispettive competenze, consentono di effettuare il conferimento delle funzioni e le previsioni normative che istituiscono i diversi strumenti di raccordo. Infatti, si presuppone esistente ed efficace un riparto del campo materiale per il quale le due fonti legislative avrebbero una determinata signoria in relazione alle funzioni amministrative da conferire e sono previste anche delle sedi di collegamento che consentirebbero, sia sul piano dell’adozione della legislazione e sia su quello dell’esercizio delle funzioni amministrative, di dare luogo ai diversi livelli di governo di istituire ed operare attraverso procedure collaborative e concertative.
Non può essere ignorato, anche se appare già superato dagli atti di esercizio delle competenze e dalla giurisprudenza costituzionale (28), che il nuovo riparto delle funzioni si baserebbe su una limitata enumerazione delle competenze statali, all’interno del quale, oltre alle classiche funzioni statali (politica estera, ordine pubblico, giurisdizione), consistente sarebbe il ruolo perequativo dello Stato, di garante delle condizioni del mercato e dei diritti civili e sociali, attraverso la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, mentre a livello regionale, sia a titolo concorrente e sia a norma del comma 4 dell’art. 117, si sarebbe spostata la legislazione costitutiva dell’assolvimento dei compiti pubblici (infrastrutture e servizi). Se è ammesso semplificare, in modo poco realistico – ma confacente alla situazione di crisi finanziaria nel quale è stato elaborato il nuovo Titolo V – il legislatore di revisione costituzionale avrebbe ipotizzato una sorta di divisione dei compiti nella quale allo Stato spetterebbe la cura dello “stato di diritto”, con tutte le garanzie, e alle Regioni quella dello “stato sociale”, con tutte le prestazioni.
In questo contesto l’Amministrazione che avrebbe dovuto subire maggiori cambiamenti era sicuramente quella statale, la quale si sarebbe dovuta ridurre e persino la legislazione statale dei compiti pubblici e delle funzioni amministrative avrebbe dovuto assumere un carattere trascurabile.
Invero, così non è stato e la realtà costituzionale ha dato vita, anche grazie al giudice costituzionale, ad un altro modello di distribuzione dei compiti pubblici e delle funzioni amministrative.
4.1. In primo luogo, nella giurisprudenza della Corte si ritiene che le enumerazioni delle materie e la clausola del comma 4 dell’art. 117 Cost. non siano affatto significative del riparto della legislazione (29). Questo riparto, invece, seguirebbe e dipenderebbe dall’individuazione delle funzioni amministrative la cui titolarità (che è cosa diversa dalla sua frazionabilità sino a livello comunale) si porta dietro il potere di disciplina della materia stessa, con una estensione (principi - dettaglio) non predeterminata. Risulta così superata anche la distinzione tra materie in senso tecnico e materie “funzioni”, pure in un primo momento abbozzato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (30).
Con la preminenza delle attribuzioni amministrative rispetto a quelle legislative, lo Stato conserva integra la sua competenza generale, e cioè può disporre in ogni ambito materiale, riservandosi il ruolo del soggetto che individua e, sulla base del principio di legalità, disciplina gli interessi pubblici generali. Lo Stato si configura, così, come ente in grado di porsi in posizione di supremazia in nome della sussidiarietà e dell’adeguatezza (31).
Il canone prescelto, anche per la facilità con cui si può spiegare, è quello tradizionale dell’interesse nazionale, o delle “istanze unitarie”, legate alla dimensione territoriale o politica dell’interesse perseguito, che – come afferma il giudice delle leggi – “pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze” (32).
Questo potere di deroga sarebbe, perciò, nella disponibilità dello Stato e, secondo la Corte, convivrebbe “con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V”; le condizioni per realizzare le deroghe sarebbero legate alla realizzazione sul piano amministrativo del principio della leale collaborazione, attraverso la stipula di accordi. Infatti, sempre secondo la Corte, “dal congiunto disposto degli artt. 117 e 118, primo comma, (sarebbe) desumibile anche il principio dell’intesa”, che conseguirebbe “alla peculiare funzione attribuita alla sussidiarietà”, la quale si discosterebbe in parte da quella già conosciuta nella legge n. 59 del 1997. Infatti, “accanto alla primitiva dimensione statica, che si (farebbe) evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, (sarebbe) resa attiva una vocazione dinamica della sussidiarietà, che (consentirebbe) ad essa di operare non più come ratio ispiratrice e fondamento di un ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate, ma come fattore di flessibilità di quell’ordine in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie” (33).
Ora, non pare necessario, in questa sede, procedere ad un sia pure superficiale scrutinio legato alle regole della logica ermeneutica, per affermare che si è in presenza di una vera e propria decisione normativa (di rango costituzionale) operata dalla Corte costituzionale, la quale supera il riparto per materie – sicuramente vetusto e non adatto ad un sistema sociale caratterizzato da spiccati processi di integrazione economica e sociale – e approda ad una valorizzazione del principio della leale collaborazione, al di là di quanto non abbia fatto il legislatore di revisione costituzionale, che lo ha espressamente menzionato solo all’art. 120, comma 2, quale tratto della legge che disciplina le procedure di esercizio del potere sostitutivo (34).
4.2. È il modello collaborativo, perciò, che – come già accaduto nel primo regionalismo – caratterizzerebbe la realtà costituzionale dell’attuazione del Titolo V revisionato e che porterebbe con sé la necessità di una procedimentalizzazione di tutta l’attività amministrativa. Le amministrazioni dei diversi livelli di governo, cioè, devono procedere non sulla base di una divisione dei compiti, ma sulla base di accordi ed intese, di programmi comuni o, quanto meno, condivisi, attraverso processi di armonizzazione e di convergenza e lo stesso esercizio delle funzioni amministrative per il perseguimento degli interessi pubblici risulterebbe collegato alla partecipazione congiunta dei diversi livelli di governo, come nel caso degli “asili nido”, in cui il giudice costituzionale ha riscontrato l’interesse concorrente dei Comuni, delle Regioni e dello Stato (35).
La necessaria compartecipazione sarebbe soddisfatta, sul piano operativo, da strumenti espressione dell’agire comune, come ad esempio la conferenza di servizi (36), gli sportelli unici (37) e le società pubbliche partecipate (38).
4.3. Bisogna considerare attentamente che nel modello delle funzioni amministrative, che di fatto si sta realizzando, il principio della leale collaborazione costituisca una chiave di lettura idonea a scardinare le regole di competenza, ma non tale da definire i processi amministrativi (39). L’attività amministrativa, infatti, nel sistema di cooperazione può andare incontro più facilmente a forme di paralisi, di blocco e di veto, per cui – alla fine – se non si realizza l’intesa, il sistema amministrativo tende comunque a raggiungere un livello accettabile di funzionalità, attraverso la realizzazione della decisione concreta. Questa, perciò, ove non viene assicurata dal principio di collaborazione, verrebbe garantita dalla gerarchizzazione delle relazioni amministrative tra i diversi livelli di governo: dallo Stato, alla Regione, alla Provincia e al Comune (40).
Nelle relazioni tra i diversi livelli di governo, nessun livello può reagire direttamente nei confronti del livello superiore e, in particolare, nei confronti dello Stato, anche nel caso di inadempimento o di adempimento distorto (si aprono solo le vie per una tutela giudiziaria lunga e defaticante o quelle della protesta istituzionale); all’incontrario, procedendo dal livello più distante verso quello più prossimo ai cittadini, invece, è stato individuato uno strumento di realizzazione quanto mai efficace: il potere sostitutivo.
La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 43 del 2004, affronta questo aspetto riconducendolo al principio di leale collaborazione (41).
Come è noto, all’indomani della riforma costituzionale, insieme alla soppressione dei controlli si ritenevano escluse forme di ingerenza sulle Regioni da parte dello Stato e sugli enti locali da parte dello Stato e delle Regioni, con la sola eccezione del potere sostitutivo di cui all’art. 120, comma 2, della Costituzione (e dei controlli sugli organi). La questione era stata discussa e risolta in tal senso, alla luce della riforma costituzionale e con riferimento al dibattito sull’art. 5 del D.L.vo n. 112, che prevedeva l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato, e alle numerose leggi regionali che disciplinavano, in attuazione del Decreto legislativo citato, il potere sostitutivo delle Regioni.
La Corte ribalta questo assunto, dando luogo, sul punto, ad una continuità tra l’impostazione seguita prima della revisione costituzionale e il nuovo Titolo V. In particolare, il giudice delle leggi, al fine di ammettere un potere di disciplina delle Regioni, disancora il potere sostitutivo per gli enti locali dalla materia della lett. p del comma 2 dell’art. 117 e sul potere sostitutivo di cui all’art. 120, comma 2, non esita a definirlo straordinario, tale da lasciare “impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione di settore, statale o regionale, in capo ad organi dello Stato o delle Regioni o di altri enti territoriali, in correlazione con il riparto delle funzioni amministrative da essa realizzato e con le ipotesi specifiche che li possano rendere necessari”.
Quanto alla questione del fondamento di un tale potere, la Corte non si preoccupa della compatibilità del regime del potere sostitutivo (con la creazione di un organo straordinario dell’ente sostituito), rispetto al principio costituzionale di autonomia, ma procede attraverso una semplificazione. Essa, infatti, sostiene che, poiché l’art. 118, comma 1, consente lo spostamento delle funzioni per assicurare l’esercizio unitario, “anche l’eventuale previsione di eccezionali sostituzioni di un livello ad un altro di governo per il compimento di specifici atti o attività, considerati dalla legge necessari per il perseguimento degli interessi unitari coinvolti, e non compiuti tempestivamente dall’ente competente, non può che rientrare, in via di principio (…) nello stesso schema logico, affidato nella sua attuazione al legislatore competente per materia, sia esso quello statale o quello regionale”. Anche perché diversamente ragionando – sempre secondo la Corte – si giungerebbe al“l’assurda conseguenza che, per evitare la compromissione di interessi unitari che richiedono il compimento di determinati atti o attività, derivante dall’inerzia anche solo di uno degli enti competenti, il legislatore (statale o regionale) non avrebbe altro mezzo se non collocare la funzione ad un livello di governo più comprensivo, assicurandone ‘l’esercizio unitario’ ai sensi del primo comma dell’articolo 118 della Costituzione: conseguenza evidentemente sproporzionata e contraria al criterio generale insito nel principio di sussidiarietà” (42).
Lo stesso giudice costituzionale, sempre con realismo giuridico, norma, poi, questo nuovo potere sostitutivo, riassumendo dalla sua pregressa giurisprudenza, “una serie di limiti e condizioni”. In primo luogo, è necessario che il potere sostitutivo sia previsto “da una legge che fissi precisi presupposti sostanziali e procedurali” (sentenza n. 338 del 1989); in secondo luogo, che concerna “atti la cui obbligatorietà sia espressiva di interessi di dimensione più ampia” (sentenza n. 177 del 1988); in terzo luogo, che l’esercizio del potere sostitutivo provenga da (o sia imputabile a) “organi di governo della Regione” (sentenze n. 460 del 1989 e n. 313 del 2003); ed infine che “sia previsto un apposito procedimento, nel cui ambito, in conformità al principio di leale collaborazione, sia consentito all’ente, che deve essere sostituito, di interloquire ed eventualmente di provvedere direttamente” (sentenza n. 416 del 1995 e ordinanza n. 53 del 2003) (43).
NOTE
(1) V. E. GIANFRANCESCO, Il federalismo a Costituzione invariata: profili problematici del conferimento di funzioni amministrative a Regioni ed enti locali previsto dalla L. n. 59/1997, in Scritti in onore di Serio Galeotti, Milano 1998, I, 627 ss..
(2) V., in proposito, M. Mazziotti DI CELSO, Le funzioni parlamentari, Relazione generale, in Il Parlamento, Atti del XV Convegno nazionale dell’AIC, Padova 2001, 111 ss., in part. 121 ss..
(3) Sul punto, v. A. D’ATENA, Regione (in generale), (1988) ora in Costituzione e Regioni, Milano 1991, 3 ss..
(4) Sia consentito rinviare al nostro L’autonomia locale nel disegno della riforma costituzionale, in La riforma del regionalismo italiano, Torino 2001.
(5) Il termine previsto dalla delega legislativa dell’art. 2 della legge n. 131 del 2003 è ampiamente scaduta. Allo stato, però, pende dinnanzi alle Camere un disegno di legge sulla proroga dei termini e rinnovo della delega che riguarda un complesso di deleghe legislative tra cui anche quelle previste dalla legge n. 131, cit..
(6) In www.interno.it/news/pages/2004/200405/news_000019606.htm
(7) Intesa inter-istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali, ai sensi dell’art. 9, comma 2 lett. c) decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, in GURI n. 159 del 9 luglio 2002. Dove, al punto 5 si prescrive che “per quanto riguarda l’esercizio delle funzioni statutarie, regolamentari e amministrative spettanti alle Istituzioni locali, occorre dare piena attuazione alle disposizioni dettate dagli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione. In tale fase, vanno determinate le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lett. p), e vanno osservati i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza nell’attribuzione delle funzioni amministrative, il cui esercizio e organizzazione compete ai Comuni, singoli o associati, anche nelle forme delle Unioni di Comuni e delle Comunità montane, e qualora lo richiedano esigenze di unitarietà, alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni ed allo Stato. Tali obiettivi sono raggiunti attraverso la revisione del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, quale intervento necessario, accanto all'adozione di ulteriori leggi statali e di leggi regionali, per attuare gli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione”.
(8) V. S. MANGIAMELI, L’autonomia locale nel disegno di riforma costituzionale, in La riforma del regionalismo italiano, cit., 259 ss.. Cfr. F. MERLONI, Il destino degli enti locali (e del relativo Testo unico) nel nuovo titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 409; S. CIVITARESE, L’autonomia istituzionale e normativa delle autonomie locali dopo la revisione del titolo V: il caso dei controlli, in Le Regioni, 2002 n. 2. Diversamente cfr: A. CORPACI, Revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo, in Le Regioni, 2001, 1305; A. FERRARA; L’incerta collocazione dell’ordinamento degli enti locali tra federalismo e municipalismo e il nodo delle funzioni fondamentali, in www.Federalismi.it (n. 4/2004); R. Bin, La funzione amministrativa nel nuovo titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 365, G. C. DE MARTIN, Funzioni fondamentali degli enti locali matrici per l’attuazione dell’art. 118 Cost,. in Anci Rivista, 2003, 57. V. inoltre P. PAPADIA, Gli effetti giuridici della l.c. n. 3/2001 del d.lgs n. 267/2000 e sui nuovi contenuti autonomi ed indipendenti di statuti e regolamenti, rispetto alle funzioni fondamentali, proprie e conferite degli enti locali, in Comuni d’Italia, 2002, 1249.
(9) In tal senso le funzioni fondamentali, da determinare con legge statale, comprenderebbero quelle funzioni che concorrono a delineare la fisionomia essenziale degli enti locali. Sul punto vedi S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, regionale e statale tra nuove competenze legislative, autonomia normativa ed esigenze di concertazione, in G. BERTI –G. C. DE MARTIN (a cura di), Il sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione, Roma 2002. Quanto al dibattito apertosi sul significato giuridico da attribuire alle controverse etichette costituzionali coniate dal legislatore di revisione, v. l’impostazione di A. D’ATENA, Il nodo delle funzioni amministrative, in G. BERTI –G. C. DE MARTIN (a cura di), Il sistema amministrativo dopo la riforma, cit., secondo il quale l’espressione funzioni fondamentali deve essere intesa come sinonimo si funzioni indefettibili (o più importanti). Altra parte della dottrina equipara le funzioni fondamentali alle funzione proprie, in tal senso cfr. M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2001, 1273, A. CORPACI, Revisone del Titolo V, cit, F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico esploso, in Quaderni reg., 2002, 17. Secondo F.S. MARINI, Il nuovo titolo V: l’epilogo delle garanzie costituzionali sull’allocazione delle funzioni amministrative, in Le Regioni, 2002, 399, l’espressione funzioni fondamentali avrebbe una portata meramente descrittiva.
(10) Sull’art. 2 della legge n. 131 del 2003 v. F. PIZZETTI, Delega al governo per l’attuazione dell’art. 117, secondo comma lett. p) della Costituzione per l’adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, in AA.VV., Legge la loggia. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del titolo V della Costituzione, Rimini 2003; M.A. SANDULLI, Commento all’art. 2. Le funzioni fondamentali degli Enti locali, in P. CAVALERI – E. LAMARQUE, L’attuazione del nuovo titolo V, parte seconda della Costituzione. Commento alla legge “La Loggia”, Torino 2004, 28.
(11) V. Legge n. 131, cit., art. 2, comma 4, “h) adeguare i procedimenti di istituzione della Città metropolitana al disposto dell’articolo 114 della Costituzione, fermo restando il principio di partecipazione degli enti e delle popolazioni interessati; i) individuare e disciplinare gli organi di governo delle Città metropolitane e il relativo sistema elettorale, secondo criteri di rappresentatività e democraticità che favoriscano la formazione di maggioranze stabili e assicurino la rappresentanza delle minoranze, anche tenendo conto di quanto stabilito per i Comuni e le Province; l) definire la disciplina dei casi di ineleggibilità, di incompatibilità e di incandidabilità alle cariche elettive delle Città metropolitane anche tenendo conto di quanto stabilito in materia per gli amministratori di Comuni e Province;”.
(12) V. Legge n. 131, cit., art. 2, comma 4, lett. e).
(13) TAR Sicilia Catania, Sez. I, 22 gennaio 2002, n. 79; TAR Campania Napoli, Sez. I, 28 maggio 2003, n. 6064;TAR Abruzzo Pescara, 22 Marzo 2002, n. 336; TAR Abruzzo Pescara, 6 marzo 2003, n. 302, Consiglio di Stato, sez V, 8 Agosto 2003, n. 4598.
(14) Il ruolo di segretario comunale, disciplinato nella L. 2248/1865 allegato A) viene regolamentato dal TULCP del 1915. Successivamente il RDL 17.08.1928 n. 1953, il RD 21.03.1929 n. 371 e la legge 27.06.1929 n.1104 statalizzano il ruolo del segretario comunale che diventa il garante statale della legalità degli enti locali. Il TULCP del 1934 rafforzò il controllo dello Stato su tali dipendenti. E tale impostazione rimane nella legislazione successiva (L. n. 604 del 1962; L. n. 107 del 1968, DPR n. 749 del 1972, L. n. 142 del 1990). Un mutamento radicale si è avuto con la L. n. 127 del 1997 che fa del segretario comunale una figura “scelta” dal sindaco. In seguito alla revisione del Titolo V questa figura deve ricollocarsi in uno scenario completamente modificato. Sul punto v. le osservazioni di S. GLINIANSKI, Il rapporto tra fonti normative locali e leggi statali e regionali, in riferimento anche al ruolo del segretario comunale alla luce della legge 131/03, in Nuova rass., 2003, 1806; L. OLIVIERI, L’inconfigurabilità del segretario comunale come “organo necessario allo svolgimento delle funzioni fondamentali degli enti locali” dopo la riforma della Costituzione, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 2003, 817; S. FOÀ, Il segretario comunale e provinciale nell’assetto costituzionale dopo la legge 131 del 2003, in www.federalismi.it, F. PINTO, Lo status degli amministratori locali nel nuovo Testo unico, in Comuni d’Italia., 2001, 22.
(15) In questo quadro va segnalata anche la modifica dell’art. 141, comma 2. Questa disposizione affida all’organo di controllo di predisporre il bilancio al posto della giunta e il compito di mettere in mora il Consiglio per l’approvazione del bilancio, in una procedura che poteva giungere sino allo scioglimento del Consiglio medesimo. Con il venire meno degli organi regionali di controllo la previsione di modifica dell’articolo citato incentrerebbe sul Consiglio medesimo il compito di sostituire la Giunta inadempiente e di provvedere ad individuare l’eventuale organo del sistema locale chiamato ad agire in sostituzione dello stesso Consiglio.
(16) F. Balsamo, L’assetto dei controlli dopo la legge costituzionale n. 3/01, in Amministrazione it., 2002, 689; F. Battini, L’attuazione della L. 131/03 e la “regionalizzazione” della Sezione autonomie della Corte dei Conti, in Giornale di Diritto amministrativo, 2003, 983;; G. D’Auria –P. Le Noci, Sulla nuova organizzazione della Corte dei conti per l’esercizio delle funzioni di controllo, in Foro it., 2002, III, 169; M. Santini, Le funzioni di controllo della Corte dei conti alla luce del titolo V della Costituzione, in Nuova rass., 2003, 2433;
(17) “La Corte dei conti svolge, anche in corso di esercizio, il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria, verificando la legittimità e la regolarità delle gestioni, nonché il funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione. Accerta, anche in base all’esito di altri controlli, la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’azione amministrativa”.
(18) Rilevanti appaiono anche i commi 8 e 9 dell’art. 7 che prevedono il cosiddetto “controllo collaborativo” (Le Regioni possono richiedere ulteriori forme di collaborazione alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti ai fini della regolare gestione finanziaria e dell’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, nonché pareri in materia di contabilità pubblica. Analoghe richieste possono essere formulate, di norma tramite il Consiglio delle autonomie locali, se istituito, anche da Comuni, Province e Città metropolitane) e la possibilità di integrazione, da parte delle Regioni e degli enti locali, delle Sezioni regionali della Corte (“Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti possono essere integrate, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, da due componenti designati, salvo diversa previsione dello statuto della Regione, rispettivamente dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali …”).
(19) Sull’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, v.: S. Mangiameli, Brevi osservazioni sull’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in La riforma del regionalismo, cit., 315; Cfr., 192, E. Gianfrancesco, Problemi connessi all’attuazione dell’art. 11 della l.c. n. 3 del 2001, in Un Senato delle autonomie, a cura della Presidenza della Provincia di Roma, Napoli 2003, 97; P. Siconolfi, L’attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3/2001: problemi e prospettive, in Quad. reg., 2003, 107;
Per l’attuazione dell’art. 11 cit., i Presidenti delle Camere hanno promosso la costituzione di un comitato paritetico i cui lavori sono stati coordinati dal senatore Mancino. Il Comitato ha elaborato le ipotesi di modifica dei regolamenti parlamentari, finalizzate all’attuazione di questa norma, per le quali si vedano le osservazioni di R. Bifulco, La commissione parlamentare per le questioni regionali integrata tra ipotesi normative e proposte dottrinali, in E. Rozo Acuna (a cura di), Lo Stato, le autonomie, le regioni nel nuovo titolo V della Costituzione. L’esperienza italiana a confronto con altri Paesi, Torino 2003.
(20) Liguria, approvato in seconda lettura il 28.09.04, art. 66 comma 4; Marche, approvato in prima lettura il 4.10.04, art. 37 comma 3; Lazio, approvato in seconda lettura il 3.08.04, art. 66 comma 3; Molise, approvato in Commissione il 30.10.03, art. 57 comma 7; Campania, approvato in prima lettura il 18.09.04, art. 21 comma 3; Abruzzo, approvato in prima lettura il 9.10.04 art. 70 comma 4; Basilicata, testo licenziato dalla Commissione il 22.12.03, art 51 comma 3; Piemonte, approvato in seconda lettura il 19.11.04, art 89 comma 3; Sicilia, bozza approvata dalla Commissione statuto il 17.03.04, art. 16 comma 2; Umbria, approvato in seconda lettura il 29 luglio 2004, art 28 comma 2; Emilia Romagna, approvato in seconda lettura il 14.09.04 art. 23; Toscana, approvato in seconda lettura il 19.07.04, art. 66 comma 2; Veneto, testo licenziato dalla Commissione il 7.08.04, art. 17 comma 3; Puglia, approvato in seconda lettura il 5 febbraio 2004, art. 45 comma 3; Calabria, approvato in seconda lettura il 6 .07.04, art. 48 comma 3;
(21) L’idea della costituzionalizzazione prendeva corpo durante i lavori svolti in Commissione Affari costituzionali della Camera, per giungere ad un testo unificato (a partire dal disegno di legge di revisione costituzionale D’Alema - Amato n. 5830 del 18 marzo 1999) sull’“Ordinamento federale della Repubblica”. In particolare, l’art. 9 avrebbe previsto una nuova versione dell’art. 124 della Costituzione, dove, al posto del Commissario del Governo, si disponeva che “la legge (avrebbe disciplinato) la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni, le Province, le Città metropolitane e i Comuni”; inoltre, con riferimento alla composizione, si affermava che “essa (starebbe stata composta) da Ministri, presidenti di Regioni e di province e sindaci di Città metropolitane e Comuni in relazione agli argomenti oggetto di trattazione nelle singole riunioni”; infine, si prevedeva una articolazione “su base territoriale” della Conferenza (“nelle forme e secondo le modalità stabilite dalla legge, che ne [avrebbe previsto] l’organizzazione sulla base di sezioni distaccate in ciascun capoluogo di Regione, presso le quali sono convocate le riunioni della Conferenza di interesse esclusivamente locale”).
Sulla Conferenza unificata, quale “terzo organo” distinto dalle due Conferenze di cui pure si compone, v. G. Mor, Tra Stato-regioni e Stato-città, in Le Regioni, 1997, 1313 ss., nonché F. Pizzetti, Commento al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, in Giorn. dir. amm., 1998, 11 ss.
(22) V. S. Mangiameli, La Conferenza Stato Regioni e la riforma costituzionale del Titolo V: dalla rappresentanza alla collaborazione, Studio per il Dipartimento Affari regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 2002.
(23) Si tenga conto che, in base all’art. 119, ultimo comma, gli enti territoriali “possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento”.
(24) Per l'attuazione del titolo V la legge finanziaria 2003 (Legge 27 dicembre 2002, n. 289 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato") pubblicata in GURI n. 305 del 31 dicembre 2002 - Supplemento Ordinario n. 240 ha disposto l'istituzione dell'Alta Commissione di studio per la definizione dei principi generali della finanza pubblica e del sistema tributario, regolamentata dal Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri del 9.4.2003. La norma dispone: L’Alta Commissione ha il compito di indicare (art. 3 comma 1 lett. b della legge finanziaria) “al Governo, (…), i principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ai sensi degli articoli 117, terzo comma, 118 e 119 della Costituzione. Per consentire l'applicazione del principio della compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio di comuni, province, città metropolitane e regioni, previsto dall'articolo 119 della Costituzione, l'Alta Commissione di cui al precedente periodo propone anche i parametri da utilizzare per la regionalizzazione del reddito delle imprese che hanno la sede legale e tutta o parte dell'attività produttiva in regioni diverse. In particolare, ai fini dell'applicazione del disposto dell'articolo 37 dello statuto della Regione siciliana, di cui al regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455, l'Alta Commissione propone le modalità mediante le quali, sulla base dei criteri stabiliti dall'articolo 4, comma 2, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, i soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, che esercitano imprese industriali e commerciali con sede legale fuori dal territorio della Regione siciliana, ma che in essa dispongono di stabilimenti o impianti, assolvono la relativa obbligazione tributaria nei confronti della Regione stessa. In dottrina v. F. Pica, L’Alta Commissione di studio e il decentramento istituzionale, in Rivista dei tributi locali, 2003, 457
(25) C. Pinelli, Patto di stabilità interno e finanza regionale, in Giur. Cost., 2004, 514; A. S. Foà, Legge collegata alla finanziaria: beni pubblici e Cassa depositi e prestiti. Il patrimonio immobiliare dello Stato e degli enti territoriali come strumento correttivo della finanza pubblica, in Gior dir. Amm., 2004, 358.
(26) Intesa del 24 luglio 2003, ai sensi dell’art. 8 comma 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131: “Accordo tra il Ministro della salute, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sulla tutela della salute dei non fumatori, di cui all’art. 51, comma 2 della legge 16 giugno 2003 n. 3. in G. U. n. 228 del 1.10.2003 Intesa, ai sensi dell’art. 8 comma 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131 tra il Ministero della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano per l’attuazione della raccomandazione della Commissione Europea del 10 gennaio 2003, n. 2003/10/CE, relativa ad un programma comunitario coordinato di controllo ufficiale dei prodotti alimentari per il 2003; Repertorio atti n. 1903 del 15 gennaio 2004. Intesa, ai sensi dell’art. 8 comma 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra il Governo e le Regioni, recante “Protocollo operativo per il prelievo in deroga, di cui all’art. 1 della legge 3 ottobre 2002, n. 221”. Repertorio atti n. 1969 del 29 aprile 2004.
(27) Sulla posizione della Conferenza Stato-Regioni v.: P.A. Capotosti, Regione, IV Conferenza Stato-Regioni, in Enc. giur. Treccani, 1991, XXVI; P. Caretti, La Conferenza permanente Stato-Regioni: novità e incertezze interpretative della disciplina di cui all’art. 12 della legge 400/88, in Foro it., V, 330; A. Sandulli, La Conferenza Stato-Regioni e le sue prospettive, in Le Regioni, 1995, 837; F. Pizzetti, Il sistema delle Conferenze e la forma di governo italiana, in Le Regioni, 2000, 473.
(28) Il giudice delle leggi, confermando i dubbi che la dottrina più attenta aveva messo in luce dopo l’entrata in vigore della Legge costituzionale n. 3 del 2001, ricostruisce in maniera flessibile il sistema delle competenze, attraverso una lettura dinamica del riparto di cui all’art. 117: v. Corte costituzionale n. 282 del 2002, nella quale si legge: “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali non sono una materia in senso stretto, ma una competenza legislativa statale idonea ad investire tutte le materie, (…)”; n. 536 del 2002 (in materia di caccia); n. 300 del 2003 (in materia di casse di risparmio); n. 303 del 2003 (in materia di lavori pubblici) “si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere iscritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà concorrenti”: 407 del 2002 e 222 del 2003 (sulla tutela dell’ambiente); 307 e 308 del 2003 (in materia di comunicazioni); 370 del 2003 (in materia di asili nido); n. 6 del 2004, dove si afferma “il problema della competenza legislativa dello Stato non può essere risolto esclusivamente alla luce dell’art. 117 Cost., è infatti indispensabile una ricostruzione che tenga conto dell’esercizio del potere legislativo di allocazione delle funzioni amministrative di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, di cui al primo comma dell’art. 118”; n. 12 del 2004 (in materia di profilassi internazionale; n. 14 del 2004 (sulla tutela della concorrenza).
Innumerevoli i commenti della dottrina, tra gli altri v. A. Datena, Materie legislative e tipologie delle competenze, in Quad. costituzionali, 2003, 23; S. Mangiameli, Sull’arte di definire le materie dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2003, 344; F.S. Marini; La Corte costituzionale nel labirinto delle materie "trasversali" dalla sentenza n. 282 alla 407 del 2002, in Giur. cost., 2002, 2951.
(29) V. le sentenze della Corte costituzionale n. 303 del 2003 la Corte afferma il principio secondo cui “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente (…) vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da un pluralismo istituzionale giustificano, (…), una deroga alla normale ripartizione di competenza; n. 370 del 2003: “in via generale, occorre inoltre affermare l’impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all’ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni (…) per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell’art. 117 della Costituzione”; e, inoltre, n. 6 del 2004, cit.. In proposito v. le osservazioni di A. D’Atena, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte costituzionale, in Giur. Cost., 2003, 2776; A. Anzon, Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni, in Giur. Cost., 2003, 2782; A. Moscarini, Sussidiarietà e Supremacy clause sono davvero perfettamente equivalenti?, in Giur. Cost., 2003, 2791; A. Gentilini, Dalla sussidiarietà amministrativa alla sussidiarietà legislativa, a cavallo del principio di legalità, ivi, 2805.
(30) V. Corte cost. sentenza n. 282 del 2002, cit.
(31) Corte cost., sentenza n. 303 del 2003, in Giur. Cost., 2003, 2675.
(32) Corte cost., sentenza n. 303 del 2003, cit.
(33) Corte cost., sentenza n. 303 del 2003 2.2 del considerato in diritto.
(34) Sul potere sostitutivo si rinvia a P. Cavaleri, Il potere sostitutivo sui Comuni e sulle Province, nota ad ordinanza n. 15 del 2003, in Le Regioni, 2003, 846 ss.; E. Gianfrancesco, Il potere sostitutivo, in T. Groppi – M. Olivetti, La Repubblica delle autonomie, cit., 236; C. Mainardis, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, in Le Regioni, 2001, 1358 ss. D. Piccione, Gli enigmatici orizzonti dei poteri sostitutivi del Governo: un tentativo di razionalizzare, in Giur. cost., 2003, 1207; Veronesi G., Il regime dei poteri sostitutivi alla luce del nuovo art. 120, comma 2, della Costituzione, in Le istituzioni del federalismo, 2002, 733;
(35) Corte cost., sentenza n. 370 del 2003
(36) C. Ciaglia, La nuova disciplina della conferenza di servizi, in Enti pubb., 2002, 16; G. Morbidelli, La Conferenza di servizi, in AA. VV., Diritto Amministrativo, Bologna 1998; Forte, La conferenza di servizi, Padova 2000, F.G. Scoca, Analisi giuridica della Conferenza di Servizi, in Dir. Amm., 1999, n. 2; M. Santini, Conferenza di servizi e titolo V della Costituzione, analisi e prospettive, in www.federalismi.it ;
(37) F. Martinelli –M. Santini, Sportello unico e conferenza di servizi, “derogatoria” al vaglio del giudice costituzionale, in Urb. e app,. 2002, 174; M., Sgroi, Lo sportello unico per le attività produttive: prospettive e problemi di un nuovo modello di amministrazione, in Dir. Amm., 2001, 223.
(38) R. Garofoli, Le privatizzazioni degli enti dell’economia. Profili giuridici, Milano 1998.
(39) … basti considerare l’inciso in cui il giudice costituzionale (sentenza n. 303 del 2003) afferma la necessità “che una intesa vi sia”, anche se “non è rilevante se essa preceda … ovvero sia successiva ad una unilaterale attività del Governo”.
(40) Senza contare, peraltro, che una siffatta gerarchizzazione delle relazioni tra i diversi livelli di governo avrebbe delle ripercussioni amministrative anche nei confronti dei cittadini (art. 11, comma 4, legge n. 241 del 1990), con buona pace del principio di sussidiarietà orizzontale dell’art. 118, comma 4, Cost..
(41) V. i commenti di: R. Dickmann, La Corte riconosce la legittimità dei poteri sostitutivi regionali (osservazioni a Corte cost., 27 gennaio 2004, n. 43), n. 4/2004, 19 febbraio 2004, nella rivista telematica federalismi.it; F. Merloni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regionali, nel Forum di quaderni costituzionali; G. Marazzita, I poteri sostitutivi fra emergency clause e assetto dinamico delle competenze, nel Forum di quaderni costituzionali.
(42) Corte cost. sentenza n. 43 del 2004, punto 3.2 del considerato in diritto.
(43) Corte cost. n. 43 del 2004, cit.
SOMMARIO:
1. La legge n. 59 del 1997.
2. La legge n. 131 del 2003.
2.1. Segue: i principi della delega legislativa in materia di enti locali.
2.2. Segue: l’adeguamento del TUEL.
2.3. Segue: l’individuazione delle funzioni fondamentali.
2.4. Segue: l’istituzione delle Città metropolitane.
2.5. Segue: i controlli interni e la regionalizzazione della Corte dei conti.
3. Le sedi di raccordo.
3.1. Segue: l’accordo dell’8 agosto 2001 tra Governo e Regioni e province autonome in materia sanitaria.
3.2. Segue: l’intesa inter-istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali del 20 giugno 2002.
4. Attuazione del Titolo V e realtà costituzionale.
4.1. Segue: funzioni amministrative e competenza legislativa generale dello Stato.
4.2. Segue: la valorizzazione del principio della leale collaborazione.
4.3 Segue: la collaborazione e il potere sostitutivo.
Note
1. La legge n. 59 del 1997.
Vi sono diverse ragioni che, nell’analisi dell’attuazione della riforma del Titolo V, in relazione all’esercizio delle funzioni amministrative, spingono a prendere in considerazione, sia pure brevemente e preliminarmente, il c.d. “federalismo amministrativo”, od anche “federalismo a costituzione invariata” sperimentato dalla legge n. 59 del 1997 e dai relativi decreti delegati di attuazione (1).
In primo luogo, sussistono aspetti e relazioni di ordine linguistico che danno un particolare significato alle disposizione della revisione costituzionale. Infatti, già ad una semplice lettura dei testi normativi si riscontrano delle identità di espressione nella legge n. 59, cit., e nella legge costituzionale n. 3 del 2001. Basti pensare, in proposito, a termini come “sussidiarietà”, “adeguatezza” “differenziazione”, “funzioni conferite”.
In secondo luogo, si possono individuare argomenti di ordine sistematico. Infatti, sia la legge n. 59, che la legge costituzionale n. 3 si baserebbero sul c.d. principio di attribuzione della generalità delle funzioni ai Comuni e sulla necessità di un loro spostamento verso l’amministrazione regionale e statale solo per assicurare l’esercizio di carattere unitario delle funzioni.
In terzo luogo, infine, non sembra da trascurare l’esistenza di cause reali, dal momento che il complesso meccanismo della legge n. 59, collegato per l’effettivo “trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative” all’adozione dei DPCM, di fatto ha operato nel momento in cui veniva in essere la modifica costituzionale, anche se, realisticamente, può dirsi che non si sia ancora concluso.
Diffusa è stata, poi, la sensazione che sul piano dell’amministrazione il più era stato fatto in anticipo e che, addirittura, la stessa modifica costituzionale rappresentasse una semplice copertura di quanto già prodotto nell’ordinamento con la legge ordinaria e, perciò, l’adozione della riforma del Titolo V appariva imprescindibile solo per tacitare le critiche un po’ formali sulla sostenibilità del federalismo amministrativo (2).
Ora, pur non negando il ruolo che, anche rispetto all’adozione della riforma costituzionale, ha avuto la legge n. 59 del 1997, è bene muovere dalla premessa che tra l’impianto delle funzioni previsto dalle disposizioni costituzionali e il complesso delle funzioni implementato dal federalismo amministrativo sussistono sensibili differenze, e ciò anche a non tenere conto della diversità delle fonti di disciplina (costituzionale nel primo caso, legislativa nel secondo) che si ripercuote sulla sistematica dell’ordinamento.
Il modello della legge n. 59 è, per quanto distante possa sembrare, espressione degli strumenti costituzionali del vecchio Titolo V. In quella logica non riconosce, né in ampiezza, né in profondità, funzioni amministrative ai livelli di governo più prossimi ai cittadini, ma li affida alla determinazione della legge (secondo la vecchia previsione dell’art. 128, come interpretata dall’art. 3 della legge n. 142 del 1990). Anche nei confronti della Regione ammette una titolarità di funzioni amministrative che non è maggiore rispetto a quella dei precedenti riparti (DPR nn. 1-12 del 1972 e DPR n. 616 del 1977) e su cui avevano pesato il ritaglio delle materie in nome degli interessi nazionali, la previsione di una funzione di indirizzo e coordinamento, tale da delegificare le norme principio, e l’introduzione di un potere sostitutivo dello Stato in grado di azzerare la leale collaborazione o di ridurla a una mera consultazione niente affatto vincolante (3). Infatti, non su un riparto di competenza certo si basano le funzioni riconosciute a Regioni ed enti locali, ma su una attenuazione del titolo di esercizio, attraverso il conio della nozione di “conferimento”, che non distingue tra “trasferimento, delega o attribuzione di funzioni e compiti” (art. 1, comma 1).
A ciò si aggiunga che il legislatore del 1997, ipotizza un trasferimento a cascata: dal livello statale a quello regionale e da questo a quello locale (Comuni, Province, Comunità montane), sulla base di una visione che già si era fatta strada nell’ordinamento con l’art. 3 della legge n. 142 del 1990. In questo modo rende il livello maggiore comprensivo di tutta la competenza del livello inferiore, secondo una logica che è tipica del canone della “gerarchia”, anziché di quello della “competenza”.
Diversamente, il nuovo Titolo V si basa sul riconoscimento costituzionale di “funzioni proprie” per Comuni e Province (e Città metropolitane), che concorre con il “conferimento di funzioni” da parte dello Stato e della Regione secondo la rispettiva competenza (4).
Nella lettura che ne ha dato la dottrina è problematico, non solo il rapporto tra funzioni proprie e funzioni conferite, ma anche il rapporto tra il comma 2 e il comma 1 dell’art. 118 Cost., in quanto è controverso se il meccanismo dinamico, basato sui principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, che vuole le funzioni amministrative attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni e allo Stato, valga per tutto il novero delle funzioni amministrative, comprese quelle già attribuite e, in quanto tali, proprie delle diverse amministrazioni locali, oppure – come sembrerebbe più ragionevole – se sia da riferire solo alle funzioni che, ai sensi del comma 2, sono da conferire.
Quale che sia la lettura che si preferisce, si deve precisare come le funzioni locali siano inserite in un diverso contesto rispetto alla legge n. 59, dal momento che la Costituzione non consente che le funzioni dell’amministrazione locale possano essere disciplinate a cascata, in quanto hanno fonti di normazione differenziata (Costituzione, legge statale e legge regionale) e un regime di esercizio proprio, essendo tutte sottoposte alla disciplina delle fonti di autonomia: statuto e regolamenti locali, i quali ultimi determinano l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni attribuite.
In sostanza, può dirsi che il quadro costituzionale sia stato formulato tenendo conto delle regole di competenza sulla base della distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite, dove il primo termine viene introdotto per la prima volta ed è estraneo al sistema del federalismo amministrativo e il secondo ha un significato non coincidente con quello adoperato dalla legge n. 59, dal momento che diventerebbe un sorta di sinonimo della nozione di “attribuzione” come si evincerebbe dalla norma sulla potestà regolamentare, che si estenderebbe a tutte le funzioni comunque allocate a livello locale (a titolo proprio o di conferimento).
Lo stesso meccanismo di salvaguardia dell’esercizio unitario delle funzioni sembra essere stato capovolto. Infatti, nella legge n. 59 questo rappresenta la ragione per evitare il conferimento – secondo il principio di sussidiarietà ivi accolto – “alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicine ai cittadini interessati”; nel sistema dell’art. 118, comma 1, Cost., invece, l’esercizio unitario è il motivo del conferimento al livello superiore, rispetto al quale i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (tratti dal novero dei dieci criteri previsti dall’art. 4, comma 3, della legge n. 59), operano come un limite sostanziale all’operato del legislatore statale e di quello regionale, ponendo così le condizioni per un eventuale controllo di costituzionalità da parte del giudice delle leggi, in relazione alla ragionevolezza del sistema amministrativo realizzato con gli atti legislativi di conferimento.
Al di là di questi aspetti, in ogni caso, sussiste una diversità di fondo tra il sistema del federalismo amministrativo e quello della revisione del Titolo V. Infatti, mentre il riparto di competenza previsto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, si fonderebbe sulla competenza legislativa generale delle Regioni e non necessiterebbe di ulteriori interventi, tanto meno di ritaglio, il federalismo amministrativo risulterebbe ancorato pur sempre al riparto di competenza basato sull’enumerazione regionale, come si evince agevolmente anche da un semplice esame del D.L.vo n. 112 del 1998, che ricalca la partizione che già fu propria del DPR n. 616 del 1977 (Sviluppo economico – Territorio – Servizi alla persona) e prevede in molti articoli il richiamo a materie enumerate nel precedente art. 117, comma 1, Cost., come artigianato (art. 12), miniere (art. 32), fiere e mercati (art. 39), turismo (art. 43), urbanistica, opere pubbliche, viabilità, trasporti ecc. (art. 51), sanità (art. 113), assistenza sociale ei servizi sociali (art. 128), assistenza scolastica (art. 135), formazione professionale (art. 140), musei e biblioteche (art. 149) e polizia amministrativa regionale e locale (art. 158), con un intreccio tra compiti e funzioni trasferiti, riservati allo Stato (in nome dell’interesse nazionale) e da ulteriormente trasferire a Comuni, Province e Comunità montane.
2. La legge n. 131 del 2003.
2.1. La necessità di una revisione dell’intero assetto delle funzioni amministrative alla luce della riforma del Titolo V si imponeva chiaramente e, in tal senso, nella stessa legge n. 131 del 2003 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) si era previsto che “con i decreti legislativi di cui al comma 1, (si sarebbe dovuto provvedere), altresì, nell’ambito della competenza legislativa dello Stato, alla revisione delle disposizioni in materia di enti locali, per adeguarle alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3” (art. 2, comma 2) (5).
Tuttavia, il Comitato tecnico-scientifico, istituito dal Ministro degli Interni per lo studio delle questioni relative alla delega legislativa di cui all’art. 2 della legge n. 131 del 2003, che ha concluso i suoi lavori con una relazione pubblicata nel sito del Ministero (6), ha ritenuto di dovere interpretare questo frammento della delega ritenendo che “la lettera e la ratio della delega consentissero di prendere in considerazione, quanto alle disposizioni contenute in fonti diverse dal T.U.E.L., le sole norme di carattere ordinamentale, ritenendo invece esorbitante dalla delega stessa tutto ciò che attiene alle varie discipline di settore riguardanti l’esercizio di funzioni locali”.
Del resto lo stesso art. 7 della legge n. 131 ha previsto, in relazione all’art. 118 Cost., il meccanismo della revisione delle funzioni amministrative seguendo le previsioni dell’accordo inter-istituzionale del 20 giugno 2002 (7), del quale si dirà anche oltre, e cioè collegandolo ad accordi tra Stato e Regioni e autonomie locali, da inserire, ad opera del Governo, nei collegati alla finanziaria e, una volta diventati legge, da attuare attraverso dei DPCM, secondo la tecnica collaudata in occasione del D.L.vo n. 112 del 1998.
Il comma 6, dell’art. 7, però, ha previsto che “fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti previsti dal presente articolo, le funzioni amministrative continuano ad essere esercitate secondo le attribuzioni stabilite dalle disposizioni vigenti, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale”, con la conseguenza che è stato sufficiente non rispettare il disposto dei primi cinque commi dell’art. 7, per lasciare le funzioni amministrative al … loro posto.
2.2. Al di là del profilo ricordato, l’attuazione della riforma del Titolo V sul piano dell’amministrazione è stato vista in relazione all’ordinamento degli enti locali. Da questo punto di vista tre sono le questioni che maggiore rilievo avrebbero dovuto avere: l’adeguamento del TUEL; l’individuazione delle funzioni fondamentali; e l’istituzione delle Città metropolitane.
Con riferimento alla questione della revisione del TUEL, in realtà la legge di delega prevedeva la modifica “limitatamente alle norme che contrastano con il sistema costituzionale degli enti locali definito dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3” per cui ne risultava ristretto il potere di provvedere ad un più ampio adeguamento del Testo unico medesimo. Sul punto le indicazioni del Comitato hanno riguardato l’intero complesso normativo ed hanno suggerito di procedere all’abrogazione delle norme palesemente in contrasto con il Titolo V, alla modifica, nelle materie di competenza legislativa statale, quando tale intervento è stato ritenuto sufficiente a realizzare l’adeguamento ai nuovi principi costituzionali e alla previsione di forme di cedevolezza delle norme legislative (con rimessione degli oggetti al legislatore regionale o alle fonti di autonomia) lasciandoli in vigore sino alla loro sostituzione con le norme delle fonti competenti.
Nel dibattito in seno al Comitato è rimasta impregiudicata la questione se si possa ancora procedere alla formulazione di un vero e proprio “testo unico” o se, dopo la riforma, debba dirsi venuto meno un tale potere ordinatorio dello Stato, atteso che la sua competenza è limitata alla disciplina solo della legislazione elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, cui si possono aggiungere le leggi di principio relative all’armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e quelle adottate in attuazione dell’art. 119 Cost..
A tal riguardo, la dottrina, che aveva discusso la questione immediatamente dopo l’entrata in vigore della riforma del Titolo V (8), aveva dato, in genere, una risposta negativa, ritenendo che la legislazione dello Stato di cui alla lettera p, del comma 2 dell’art. 117 Cost., essendo limitata ad oggetti specifici, avesse perduto del tutto quella organicità che consentiva di ricorrere allo strumento del “testo unico”.
2.3. Quanto all’individuazione delle funzioni fondamentali era apparso chiaro che la legge n. 131 aveva disatteso l’orientamento che ricomprendeva in questa nozione solo le funzioni di carattere istituzionale e non anche quelle di carattere materiale (9). Infatti, l’art. 2, comma 1, faceva riferimento, per l’individuazione delle funzioni fondamentali a quelle funzioni “essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento”, ribadendo questo concetto al comma 4 lett. b (“individuare le funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane in modo da prevedere, anche al fine della tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica, per ciascun livello di governo locale, la titolarità di funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento, tenuto conto, in via prioritaria, per Comuni e Province, delle funzioni storicamente svolte”) (10).
Al momento dell’insediamento del Comitato tecnico-scientifico, avvenuto con una conferenza, tanto l’allora Presidente della Corte costituzionale, Riccardo Chieppa, quanto il Presidente del Consiglio di Stato, Roberto De Roberto, suggerivano di interpretare l’espressione “funzioni fondamentali” come un sinonimo di “funzioni proprie”, in questo modo semplificando una lunga controversia dottrinale sul novero delle funzioni locali e con un risvolto pratico alquanto immediato, in quanto sarebbe stato sufficiente riassumere il complesso dei poteri esercitati da Comuni e Province, per delineare al contempo il novero delle funzioni fondamentali.
Il Comitato, tuttavia, non seguiva questo prezioso consiglio, con la conseguenza che nella definizione delle funzioni fondamentali si è venuto a trovare in una particolare difficoltà. Infatti, una volta ammesso il carattere materiale delle funzioni fondamentali, appariva chiaro che la loro disciplina finiva con lo scivolare nell’ambito di competenze attribuito dalla Costituzione alle Regioni, per cui, “anche al fine di contemperare le due esigenze, potenzialmente antinomiche (disciplina regionale della materia e vincolo stabilito con legge statale), si esprimeva l’avviso che la definizione avrebbe dovuto ispirarsi ai seguenti criteri:
- necessità di evitare una individuazione delle funzioni fondamentali così dettagliata e specifica da tradursi in una compressione degli spazi che spettano alla potestà legislativa dello Stato e della Regione, nel disciplinare le materie di rispettiva attribuzione;
- necessità, tuttavia, di evitare anche che una eccessiva genericità delle formule di individuazione delle funzioni possa vanificare le finalità di garanzia delle competenze degli enti locali che la norma persegue.
Quasi sicuramente questa impostazione, per l’Amministrazione chiamata a redigere la bozza dei decreti legislativi, non si è tradotta in un vero e proprio criterio guida, atteso che l’applicabilità dell’indicazione data mancherebbe di concretezza. Tant’è che, in sede redazionale, sono stati elaborate due bozze di decreti legislativi, a seconda del criterio ritenuto prevalente nella definizione delle funzioni fondamentali (quello della specificità, o quello della genericità).
2.4. Infine, la questione relativa alle città metropolitane. Qui la delega appariva richiedere una disciplina esaustiva della fattispecie (v. art. 2, comma 4, lett. h, i, l) con la previsione delle procedure di istituzione, della legge elettorale, della disciplina degli organi di governo e, ovviamente, delle funzioni fondamentali (11).
Anche con riferimento a questo punto, al di là del carattere necessario riconosciuto a questo nuovo ente territoriale, il Comitato, anziché fornire delle indicazioni univoche, si è diviso tra coloro che ritenevano che la Città metropolitana dovesse consistere nel governo di area vasta e che avrebbe comportato la scomparsa della Provincia e del Comune capoluogo, e coloro che, invece, erano propensi a fare coincidere le Città metropolitane con i Comuni capoluogo, riconoscendo loro anche le competenze della Provincia.
Inutile dire che dietro questa divergenza di opinioni si situava il conflitto tra le associazioni degli enti (UPI ed ANCI). Una situazione questa che con molta probabilità parte da una non esatta percezione del problema delle aree metropolitane, che richiedono di costruire, anche sul piano istituzionale, un sistema di vantaggi reciproci tra i Comuni più piccoli e satellitari, aderenti all’area, e il Comune capoluogo, con la necessità di fissare regole che consentano effettivamente un equilibrio reciproco. Da questo punto di vista, occorre notare che l’impossibilità di giungere ad un accordo sul tema è derivato essenzialmente da due lacune di carattere costituzionale: in primo luogo, non sono previsti i meccanismi di legittimazione relativi alla formazione delle Città metropolitane (mentre sono indicati, per i Comuni, le Province e le Regioni: art. 132 e 133 Cost.); in secondo luogo, manca la previsione della necessaria scomparsa degli enti da cui può derivare la Città metropolitana, per cui si determina facilmente anche una tensione interna al sistema comunale, in quanto i Comuni inclusi nell’area vasta non intendono rinunciare alla loro identità e lo stesso Comune capoluogo non vuole pregiudicare la propria posizione, attraverso l’utilizzo delle proprie risorse a favore dei primi.
2.5. La legge di delega ha previsto anche che i decreti legislativi avrebbero dovuto rimettere “all’autonomia statutaria degli enti locali la potestà di individuare sistemi di controllo interno, al fine di garantire il funzionamento dell’ente, secondo criteri di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa, nonché forme e modalità di intervento, secondo criteri di neutralità, di sussidiarietà e di adeguatezza” (12).
Il punto toccato da questo principio della legge di delega è alquanto delicato. Infatti, subito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, con l’abrogazione dell’art. 130 (e dell’art. 125, comma 1) Cost. si sono ritenute, anche ad opera della giurisprudenza amministrativa (13), automaticamente caducate tutte le disposizioni del TUEL riguardanti il sistema dei controlli sugli atti degli enti locali; con la conseguenza che l’intero sistema locale è risultato primo di efficaci strumenti di monitoraggio e garanzia sullo svolgimento delle funzioni locali. Vero è che il TUEL prevedeva già (art. 147) che “gli enti locali, nell’ambito della loro autonomia normativa ed organizzativa, individuano strumenti e metodologie adeguati a: a) garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa; b) verificare, attraverso il controllo di gestione, l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (…); c) valutare le prestazioni del personale con qualifica dirigenziale; d) valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti”, ma la presenza, per un verso, della figura del “Segretario comunale”, sia pure in un quadro normativo che si era andato progressivamente modificando (14), e, per l’altro, dei controlli esterni dei Comitati regionali, aveva comportato (anche per il breve tempo trascorso tra la legificazione dei sistemi di controllo interno nelle pubbliche amministrazioni [con il D.L.vo n. 286 del 1999] e l’entrata in vigore del TUEL, prima, e della riforma del Titolo V, dopo) una configurazione dei controlli interni come meramente aggiuntivo e supplementare, per cui era mancato molto spesso da parte degli enti locali un investimento di risorse e strutture adeguato per l’implementazione dei meccanismi di internal auditing .
Questa circostanza era ben presente nel quadro di adeguamento delineato dalla legge di delega n. 131 e di qui la spinta a rivedere le disposizioni relative al controllo interno nell’ambito del TUEL anche per adeguarle al diverso sistema di riferimento. Infatti, il D.L.vo n. 286 struttura i controlli per l’amministrazione dello Stato e li pone al servizio delle funzioni proprie dell’organo di indirizzo che nel sistema ministeriale è rappresentato dal Ministro; diversamente nel sistema delle autonomie locali le disposizioni sul controllo interno devono consentire, soprattutto dopo l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia, agli organi di governo dell’ente di avere una piena contezza dell’azione amministrativa. Di conseguenza, sorge la necessità di intestare il controllo di regolarità amministrativa e contabile esclusivamente al Consiglio, che assume così la veste dell’organo di garanzia della legittimità (15), e di prevedere raccordi diretti tra Consiglio e Sindaco o Presidente della Provincia con riferimento al controllo strategico. Negli enti locali, infatti, il programma amministrativo (o, se si vuole, l’indirizzo politico) non è un atto esclusivo dell’organo monocratico, ma al contrario un atto collaborato con il Consiglio. Secondo previsioni che spetta allo Statuto determinare, il Sindaco (o il Presidente della Provincia) presenta al Consiglio le linee programmatiche (art. 46, comma 3) e questo partecipa altresì alla definizione, all’adeguamento e alla verifica periodica dell’attuazione delle linee programmatiche (art.42, comma 3).
La revisione del TUEL tiene conto del nuovo assetto e tende, in una qualche misura, ad assecondare lo sviluppo del sistema dei controlli interni; tanto più che in questo quadro si inserirebbe un nuovo ruolo istituzionale della Corte dei conti, come garante dell’equilibrio generale del sistema economico-finanziario e strumento di coesione e di collaborazione della democrazia locale (16). È per questa ragione che l’art. 7, comma 7, della legge n. 131 del 2003, innovando al quadro già delineato dall’art. 3, comma 4, della legge n. 20 del 1994 (17), avrebbe previsto che “la Corte dei conti, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, verifica il rispetto degli equilibri di bilancio da parte di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, in relazione al patto di stabilità interno ed ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano, nel rispetto della natura collaborativa del controllo sulla gestione, il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o regionali di principio e di programma, secondo la rispettiva competenza, nonché la sana gestione finanziaria degli enti locali ed il funzionamento dei controlli interni e riferiscono sugli esiti delle verifiche esclusivamente ai consigli degli enti controllati. (…) Per la determinazione dei parametri di gestione relativa al controllo interno, la Corte dei conti si avvale anche degli studi condotti in materia dal Ministero dell’interno” (18).
3. Le sedi di raccordo.
Quanto al sistema dei raccordi previsti dalla riforma, come è noto, tanto l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con i rappresentanti delle Regioni e degli Enti locali, prevista dall’art. 11 della legge cost. n. 1 del 2001, quanto l’istituzione in ogni Regione del Consiglio delle autonomie locali, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 123 Cost., non sono state realizzate e le disposizioni costituzionali citate sono rimaste pressoché inefficaci. Infatti, alla predisposizione dei testi dei regolamenti parlamentari da parte del “Comitato Mancino” non ha fatto seguito la loro formale adozione (19) e, per quanto riguarda gli statuti regionali, la loro deliberazione è così in ritardo che verosimilmente solo con la prossima legislatura sarà possibile istituire gli organi di consultazione degli enti locali. Si tenga anche conto che tutte le proposte di statuto regionale prevedono un rinvio esplicito alla legge regionale per la concreta istituzione (20).
In questo quadro, come era prevedibile, l’unico effettivo organo che può essere assunto a simbolo del raccordo tra Stato e Regione è il sistema delle Conferenze e, in particolare, la Conferenza unificata, per il semplice motivo che era stata istituita e disciplinata in precedenza (D.L.vo n. 281 del 1997) e che all’atto dell’entrata in vigore della riforma del Titolo V, nonostante la scelta di non procedere ad una sua costituzionalizzazione, si è trovata ad essere l’unica sede già funzionante (21).
Non è sicuramente questa il luogo per riesaminare il ruolo della Conferenza, rispetto al principio della leale collaborazione (22), né per discutere – come pure si sta facendo in vista dell’approvazione del nuovo disegno di legge costituzionale di riforma della parte seconda della Costituzione – se debba essere prevista nel testo delle nuove disposizioni costituzionali una copertura costituzionale per la Conferenza. Più significativo appare una sintetica valutazione sui dati che emergono dagli atti della Conferenza e dalle prassi seguite in tale sede, tenendo conto del carattere fortemente informale della collaborazione e del metodo tendenzialmente consensuale che dovrebbe caratterizzare la concertazione.
Se si guarda agli atti della Conferenza emergono con certezza due accordi siglati in Conferenza dal significato particolare per le vicende dell’attuazione del Titolo V: uno, in parte ante litteram, è l’accordo dell’8 agosto 2001 tra Governo e Regioni e province autonome in materia sanitaria; l’altro è l’accordo del 20 giugno 2002 “recante intesa inter-istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali, ai sensi dell’art. 9, comma 2, lett. c del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281”.
3.1. L’accordo in materia di sanità risultava particolarmente significativo, in quanto, come esso stesso afferma, pretende di determinare la spesa sanitaria cui concorre lo Stato per il 2001 in modo che questo possa essere “definito come ‘anno zero’ nel rapporto tra Stato e Regioni per la prefissione dell’entità complessiva dei finanziamenti a carico dello Stato” (punto 4).
Alle Regioni viene data una responsabilità piena della gestione del servizio con conseguente vincolo a finanziare con risorse proprie le eventuale eccedenze finanziarie che il servizio avrebbe eventualmente richiesto (punto 2 e 9).
Le Regioni avrebbero avuto la possibilità di sopportare i costi finanziari aggiuntivi del servizio sanitario, ricorrendo al mantenimento dei ticket (sui farmaci e sulla diagnostica), oppure attraverso la manovra di “un’addizionale regionale all’IRPEF o altri strumenti fiscali previsti dalla normativa vigente, nella misura necessaria a coprire l’incremento di spesa” (punto 2).
Occorre notare che l’accordo dell’8 agosto 2001 è stato stipulato dallo Stato e dalle Regioni piuttosto alla cieca, senza cioè avere una esatta contezza della consistenza degli oneri del servizio sanitario e con la premura di saldare le partite finanziarie pregresse, anziché guardare a quelle future. In particolare, nel momento in cui si è proceduto alla stipula dell’accordo non erano state ancora fissati i LEA previsti dal decreto legislativo n. 502 del 1992 e, pertanto, la stessa fisionomia del servizio sanitario poteva dirsi incerta, così come ignoti risultavano le variazioni territoriali del servizio stesso.
Per queste ragioni, con l’accordo in questione, viene preso l’impegno reciproco, da una parte, a regolamentare i LEA entro il 30 novembre 2001 (impegno mantenuto con l’adozione di uno specifico DPCM) e, dall’altro, “in sede di prima applicazione dei nuovi LEA, ad attivare un tavolo di monitoraggio e verifica, presso la segreteria della Conferenza (…), sui suddetti livelli effettivamente erogati e sulla corrispondenza ai volumi di spesa stimati e previsti, articolati per fattori produttivi e responsabilità decisionali, al fine di identificare i determinanti di tale andamento, a garanzia dell’efficienza e dell’efficacia del Servizio Sanitario Nazionale” (punto 15).
L’intento era quello di dare vita ad un tavolo comune anche per procedere al “riequilibrio tra le regioni medesime in un arco di tempo predefinito, che tenga conto della necessità di incentivare i comportamenti virtuosi, di rimuovere le situazioni di svantaggio e migliorare la qualità dei servizi”, con un impegno da parte delle regioni a rivedere anche i parametri di ponderazione (di cui all’art. 24 della legge n. 662 del 1996) (punto 16).
Il protocollo denota un procedimento collaborativo degno di nota e da prendere a modello delle relazioni tra Stato e Regioni. Peccato che non ha funzionato nei termini in cui stato stipulato.
Non solo l’assunzione di responsabilità da parte delle Regioni è stata bloccata da parte dello Stato, attraverso le misure previste dalle leggi finanziarie per il 2003 e il 2004, che non hanno consentito di attivare l’addizionale IRPEF, ma la spesa sanitaria – decisamente superiore alle previsioni – è stata finanziaria con risorse sottratte allo sviluppo e agli investimenti, prevedendo per queste ultime il ricorso all’indebitamento attraverso l’emissione dei BOR (23). In ultima analisi, il sistema regionale è diventato più costoso e meno efficiente, ma soprattutto meno autonomo e la collaborazione si è risolta in forme di decisione unilaterale. Tanto più che lo Stato di fatto tende a ritardare la pubblicazione dei dati raccolti dal tavolo congiunto di monitoraggio, dai quali potrebbe emergere la necessità di riequilibrare le partite finanziarie a favore delle Regioni.
3.2. Altrettanto singolare appare quanto è accaduto con l’intesa inter-istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali stipulata il 20 giugno 2002, “al fine di coordinare l’esercizio delle rispettive competenze e svolgere in collaborazione attività di interesse comune”.
Qui dopo una serie di premesse da manuale di diritto pubblico, come il richiamo al principio che “comuni, province, città metropolitane, regioni e stato hanno pari dignità, pur nella diversità delle rispettive competenze”, o come l’affermazione che “la separazione delle competenze comporta la valorizzazione del principio della leale collaborazione tra gli enti che compongono la Repubblica (…) per addivenire a soluzioni condivise in ordine alle rilevanti questioni interpretative e di attuazione poste dalla riforma costituzionale del Titolo V”, sono assunti una serie di impegni: alcuni riguardano l’esercizio delle competenze legislative, come l’individuazione dei principi fondamentali, altre le funzioni amministrative, come la determinazione delle funzioni fondamentali e la revisione del TUEL. Questi impegni di fatto sono stati trasfusi, per la loro attuazione, nella legge n. 131 del 2003.
Rispetto a questi, però l’accordo inter-istituzionale prevedeva di istituire subito “una conferenza mista per definire l’impianto complessivo del federalismo fiscale” e di determinare “l’avvio del trasferimento di una parte delle risorse necessarie per svolgere le competenze esclusive e le funzioni amministrative derivanti dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, da definire in legge finanziaria, senza oneri finanziari addizionali, con contestuale riduzione delle corrispondenti voci di costo a carico del bilancio dello Stato”.
Sostanzialmente l’accordo era quello di regolare in modo consensuale, in sede di legge finanziaria, tutte le partite che si sarebbero potuto regolare in termini di competenza e senza dare luogo ad oneri finanziari ulteriori.
Questa parte dell’accordo, la più importante, non è stata mai rispettata, e cioè lo Stato si è guardato bene dall’attivare la Conferenza prevista. Al suo posto è stata prevista, prima, una proroga dei termini e, successivamente, nella legge finanziaria 2003, l’istituzione dell’Alta Commissione (24), per cui questo meccanismo di regolazione consensuale delle competenze non si è mai attivato e lo Stato ha conservato per intero il potere di decidere su tutte le attribuzioni in precedenza esercitate.
Certamente non sfuggono le ragioni di questi comportamenti istituzionali, legati alle vicende della finanza pubblica e al rispetto del patto di stabilità, ma in questo modo si segue una via per la quale – quale che sia la maggioranza che governa – la finanza viene posta sempre in collisione con l’autonomia regionale (25).
I due atti considerati mettono in evidenza anche i tratti delle prassi affermatesi in sede di conferenza e se, da un lato, proprio questo organo ha registrato un incremento di attività sensibile, dall’altro il metodo concertativo ha mostrato di non funzionare anche perché di fronte all’opposizione di Regioni ed Enti locali (ad esempio nel caso di pareri negativi sui disegni di legge o sulle proposte di decreti ministeriali) il governo non si è ritenuto vincolato e ha proceduto oltre con la presentazione o l’approvazione dell’atto; gli accordi e le intese raggiunte in sede di Conferenza hanno riguardato attività amministrativa di non primaria rilevanza e in genere priva del carattere della programmazione.
Solo di recente è stata adottata qualche intesa ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge n. 131 del 2003, sostitutive dei vecchi atti di indirizzo e coordinamento e “dirette a favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”, ma i relativi effetti stentano a farsi sentire (26).
In sostanza anche la leale collaborazione attraverso la Conferenza non risulta essere stata esaltante e, per queste ragioni, sarebbe opportuno prestare attenzione al modello concreto, prima di propugnare la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze; anche perché, rispetto alle esigenze di raccordo tra Stato, Regioni ed Enti locali, la Conferenza presenta dei limiti di carattere strutturale notevoli, dei quali qui possono essere ricordati almeno due: in primo luogo, realizza il collegamento solo degli esecutivi e taglia fuori tutte le sedi assembleari di rappresentanza democratica, nelle quali si svolgono peraltro le funzioni di carattere normativo e, per le Regioni, anche di carattere legislativo; in secondo luogo, non può dimenticarsi che la Conferenza non costituisce una espressione del mondo delle autonomie territoriali, ma rappresenta – anche se la composizione è mista – un organo statale inserito nella complessa struttura del Governo (27).
4. Attuazione del Titolo V e realtà costituzionale.
L’attuazione del Titolo V con riferimento alle funzioni amministrative non è sicuramente un capitolo concluso, anzi l’intero sistema amministrativo appare in movimento in una misura tale che è persino difficile descrivere il suo divenire.
Tuttavia, se può cogliersi una tendenza evolutiva, dovrebbe dirsi che questa non sembra tenere conto delle norme scritte nella Costituzione, quanto meno del significato letterale e sistematico che da queste potrebbe desumersi, ma una tale evoluzione può descriversi solo seguendo i canoni della realtà costituzionale.
La Costituzione sembra distinguere, sia pure tendenzialmente e non in modo esaustivo, tra i diversi ruoli: allo Stato e alle Regioni spetterebbe un compito di programmazione, di direzione e di vigilanza; alle Regioni, in questa configurazione, sarebbe rimesso in particolare di produrre la maggior parte delle discipline di settore; ai Comuni e alle Province, invece, sarebbe attribuito un compito di gestione delle funzioni e, a questi fini, le disposizioni costituzionali prevedono il collegamento dell’amministrazione locale, tanto con lo Stato, quanto con la Regione, attraverso le leggi che, nell’ambito delle rispettive competenze, consentono di effettuare il conferimento delle funzioni e le previsioni normative che istituiscono i diversi strumenti di raccordo. Infatti, si presuppone esistente ed efficace un riparto del campo materiale per il quale le due fonti legislative avrebbero una determinata signoria in relazione alle funzioni amministrative da conferire e sono previste anche delle sedi di collegamento che consentirebbero, sia sul piano dell’adozione della legislazione e sia su quello dell’esercizio delle funzioni amministrative, di dare luogo ai diversi livelli di governo di istituire ed operare attraverso procedure collaborative e concertative.
Non può essere ignorato, anche se appare già superato dagli atti di esercizio delle competenze e dalla giurisprudenza costituzionale (28), che il nuovo riparto delle funzioni si baserebbe su una limitata enumerazione delle competenze statali, all’interno del quale, oltre alle classiche funzioni statali (politica estera, ordine pubblico, giurisdizione), consistente sarebbe il ruolo perequativo dello Stato, di garante delle condizioni del mercato e dei diritti civili e sociali, attraverso la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, mentre a livello regionale, sia a titolo concorrente e sia a norma del comma 4 dell’art. 117, si sarebbe spostata la legislazione costitutiva dell’assolvimento dei compiti pubblici (infrastrutture e servizi). Se è ammesso semplificare, in modo poco realistico – ma confacente alla situazione di crisi finanziaria nel quale è stato elaborato il nuovo Titolo V – il legislatore di revisione costituzionale avrebbe ipotizzato una sorta di divisione dei compiti nella quale allo Stato spetterebbe la cura dello “stato di diritto”, con tutte le garanzie, e alle Regioni quella dello “stato sociale”, con tutte le prestazioni.
In questo contesto l’Amministrazione che avrebbe dovuto subire maggiori cambiamenti era sicuramente quella statale, la quale si sarebbe dovuta ridurre e persino la legislazione statale dei compiti pubblici e delle funzioni amministrative avrebbe dovuto assumere un carattere trascurabile.
Invero, così non è stato e la realtà costituzionale ha dato vita, anche grazie al giudice costituzionale, ad un altro modello di distribuzione dei compiti pubblici e delle funzioni amministrative.
4.1. In primo luogo, nella giurisprudenza della Corte si ritiene che le enumerazioni delle materie e la clausola del comma 4 dell’art. 117 Cost. non siano affatto significative del riparto della legislazione (29). Questo riparto, invece, seguirebbe e dipenderebbe dall’individuazione delle funzioni amministrative la cui titolarità (che è cosa diversa dalla sua frazionabilità sino a livello comunale) si porta dietro il potere di disciplina della materia stessa, con una estensione (principi - dettaglio) non predeterminata. Risulta così superata anche la distinzione tra materie in senso tecnico e materie “funzioni”, pure in un primo momento abbozzato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (30).
Con la preminenza delle attribuzioni amministrative rispetto a quelle legislative, lo Stato conserva integra la sua competenza generale, e cioè può disporre in ogni ambito materiale, riservandosi il ruolo del soggetto che individua e, sulla base del principio di legalità, disciplina gli interessi pubblici generali. Lo Stato si configura, così, come ente in grado di porsi in posizione di supremazia in nome della sussidiarietà e dell’adeguatezza (31).
Il canone prescelto, anche per la facilità con cui si può spiegare, è quello tradizionale dell’interesse nazionale, o delle “istanze unitarie”, legate alla dimensione territoriale o politica dell’interesse perseguito, che – come afferma il giudice delle leggi – “pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze” (32).
Questo potere di deroga sarebbe, perciò, nella disponibilità dello Stato e, secondo la Corte, convivrebbe “con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V”; le condizioni per realizzare le deroghe sarebbero legate alla realizzazione sul piano amministrativo del principio della leale collaborazione, attraverso la stipula di accordi. Infatti, sempre secondo la Corte, “dal congiunto disposto degli artt. 117 e 118, primo comma, (sarebbe) desumibile anche il principio dell’intesa”, che conseguirebbe “alla peculiare funzione attribuita alla sussidiarietà”, la quale si discosterebbe in parte da quella già conosciuta nella legge n. 59 del 1997. Infatti, “accanto alla primitiva dimensione statica, che si (farebbe) evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, (sarebbe) resa attiva una vocazione dinamica della sussidiarietà, che (consentirebbe) ad essa di operare non più come ratio ispiratrice e fondamento di un ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate, ma come fattore di flessibilità di quell’ordine in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie” (33).
Ora, non pare necessario, in questa sede, procedere ad un sia pure superficiale scrutinio legato alle regole della logica ermeneutica, per affermare che si è in presenza di una vera e propria decisione normativa (di rango costituzionale) operata dalla Corte costituzionale, la quale supera il riparto per materie – sicuramente vetusto e non adatto ad un sistema sociale caratterizzato da spiccati processi di integrazione economica e sociale – e approda ad una valorizzazione del principio della leale collaborazione, al di là di quanto non abbia fatto il legislatore di revisione costituzionale, che lo ha espressamente menzionato solo all’art. 120, comma 2, quale tratto della legge che disciplina le procedure di esercizio del potere sostitutivo (34).
4.2. È il modello collaborativo, perciò, che – come già accaduto nel primo regionalismo – caratterizzerebbe la realtà costituzionale dell’attuazione del Titolo V revisionato e che porterebbe con sé la necessità di una procedimentalizzazione di tutta l’attività amministrativa. Le amministrazioni dei diversi livelli di governo, cioè, devono procedere non sulla base di una divisione dei compiti, ma sulla base di accordi ed intese, di programmi comuni o, quanto meno, condivisi, attraverso processi di armonizzazione e di convergenza e lo stesso esercizio delle funzioni amministrative per il perseguimento degli interessi pubblici risulterebbe collegato alla partecipazione congiunta dei diversi livelli di governo, come nel caso degli “asili nido”, in cui il giudice costituzionale ha riscontrato l’interesse concorrente dei Comuni, delle Regioni e dello Stato (35).
La necessaria compartecipazione sarebbe soddisfatta, sul piano operativo, da strumenti espressione dell’agire comune, come ad esempio la conferenza di servizi (36), gli sportelli unici (37) e le società pubbliche partecipate (38).
4.3. Bisogna considerare attentamente che nel modello delle funzioni amministrative, che di fatto si sta realizzando, il principio della leale collaborazione costituisca una chiave di lettura idonea a scardinare le regole di competenza, ma non tale da definire i processi amministrativi (39). L’attività amministrativa, infatti, nel sistema di cooperazione può andare incontro più facilmente a forme di paralisi, di blocco e di veto, per cui – alla fine – se non si realizza l’intesa, il sistema amministrativo tende comunque a raggiungere un livello accettabile di funzionalità, attraverso la realizzazione della decisione concreta. Questa, perciò, ove non viene assicurata dal principio di collaborazione, verrebbe garantita dalla gerarchizzazione delle relazioni amministrative tra i diversi livelli di governo: dallo Stato, alla Regione, alla Provincia e al Comune (40).
Nelle relazioni tra i diversi livelli di governo, nessun livello può reagire direttamente nei confronti del livello superiore e, in particolare, nei confronti dello Stato, anche nel caso di inadempimento o di adempimento distorto (si aprono solo le vie per una tutela giudiziaria lunga e defaticante o quelle della protesta istituzionale); all’incontrario, procedendo dal livello più distante verso quello più prossimo ai cittadini, invece, è stato individuato uno strumento di realizzazione quanto mai efficace: il potere sostitutivo.
La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 43 del 2004, affronta questo aspetto riconducendolo al principio di leale collaborazione (41).
Come è noto, all’indomani della riforma costituzionale, insieme alla soppressione dei controlli si ritenevano escluse forme di ingerenza sulle Regioni da parte dello Stato e sugli enti locali da parte dello Stato e delle Regioni, con la sola eccezione del potere sostitutivo di cui all’art. 120, comma 2, della Costituzione (e dei controlli sugli organi). La questione era stata discussa e risolta in tal senso, alla luce della riforma costituzionale e con riferimento al dibattito sull’art. 5 del D.L.vo n. 112, che prevedeva l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato, e alle numerose leggi regionali che disciplinavano, in attuazione del Decreto legislativo citato, il potere sostitutivo delle Regioni.
La Corte ribalta questo assunto, dando luogo, sul punto, ad una continuità tra l’impostazione seguita prima della revisione costituzionale e il nuovo Titolo V. In particolare, il giudice delle leggi, al fine di ammettere un potere di disciplina delle Regioni, disancora il potere sostitutivo per gli enti locali dalla materia della lett. p del comma 2 dell’art. 117 e sul potere sostitutivo di cui all’art. 120, comma 2, non esita a definirlo straordinario, tale da lasciare “impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione di settore, statale o regionale, in capo ad organi dello Stato o delle Regioni o di altri enti territoriali, in correlazione con il riparto delle funzioni amministrative da essa realizzato e con le ipotesi specifiche che li possano rendere necessari”.
Quanto alla questione del fondamento di un tale potere, la Corte non si preoccupa della compatibilità del regime del potere sostitutivo (con la creazione di un organo straordinario dell’ente sostituito), rispetto al principio costituzionale di autonomia, ma procede attraverso una semplificazione. Essa, infatti, sostiene che, poiché l’art. 118, comma 1, consente lo spostamento delle funzioni per assicurare l’esercizio unitario, “anche l’eventuale previsione di eccezionali sostituzioni di un livello ad un altro di governo per il compimento di specifici atti o attività, considerati dalla legge necessari per il perseguimento degli interessi unitari coinvolti, e non compiuti tempestivamente dall’ente competente, non può che rientrare, in via di principio (…) nello stesso schema logico, affidato nella sua attuazione al legislatore competente per materia, sia esso quello statale o quello regionale”. Anche perché diversamente ragionando – sempre secondo la Corte – si giungerebbe al“l’assurda conseguenza che, per evitare la compromissione di interessi unitari che richiedono il compimento di determinati atti o attività, derivante dall’inerzia anche solo di uno degli enti competenti, il legislatore (statale o regionale) non avrebbe altro mezzo se non collocare la funzione ad un livello di governo più comprensivo, assicurandone ‘l’esercizio unitario’ ai sensi del primo comma dell’articolo 118 della Costituzione: conseguenza evidentemente sproporzionata e contraria al criterio generale insito nel principio di sussidiarietà” (42).
Lo stesso giudice costituzionale, sempre con realismo giuridico, norma, poi, questo nuovo potere sostitutivo, riassumendo dalla sua pregressa giurisprudenza, “una serie di limiti e condizioni”. In primo luogo, è necessario che il potere sostitutivo sia previsto “da una legge che fissi precisi presupposti sostanziali e procedurali” (sentenza n. 338 del 1989); in secondo luogo, che concerna “atti la cui obbligatorietà sia espressiva di interessi di dimensione più ampia” (sentenza n. 177 del 1988); in terzo luogo, che l’esercizio del potere sostitutivo provenga da (o sia imputabile a) “organi di governo della Regione” (sentenze n. 460 del 1989 e n. 313 del 2003); ed infine che “sia previsto un apposito procedimento, nel cui ambito, in conformità al principio di leale collaborazione, sia consentito all’ente, che deve essere sostituito, di interloquire ed eventualmente di provvedere direttamente” (sentenza n. 416 del 1995 e ordinanza n. 53 del 2003) (43).
NOTE
(1) V. E. GIANFRANCESCO, Il federalismo a Costituzione invariata: profili problematici del conferimento di funzioni amministrative a Regioni ed enti locali previsto dalla L. n. 59/1997, in Scritti in onore di Serio Galeotti, Milano 1998, I, 627 ss..
(2) V., in proposito, M. Mazziotti DI CELSO, Le funzioni parlamentari, Relazione generale, in Il Parlamento, Atti del XV Convegno nazionale dell’AIC, Padova 2001, 111 ss., in part. 121 ss..
(3) Sul punto, v. A. D’ATENA, Regione (in generale), (1988) ora in Costituzione e Regioni, Milano 1991, 3 ss..
(4) Sia consentito rinviare al nostro L’autonomia locale nel disegno della riforma costituzionale, in La riforma del regionalismo italiano, Torino 2001.
(5) Il termine previsto dalla delega legislativa dell’art. 2 della legge n. 131 del 2003 è ampiamente scaduta. Allo stato, però, pende dinnanzi alle Camere un disegno di legge sulla proroga dei termini e rinnovo della delega che riguarda un complesso di deleghe legislative tra cui anche quelle previste dalla legge n. 131, cit..
(6) In www.interno.it/news/pages/2004/200405/news_000019606.htm
(7) Intesa inter-istituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali, ai sensi dell’art. 9, comma 2 lett. c) decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, in GURI n. 159 del 9 luglio 2002. Dove, al punto 5 si prescrive che “per quanto riguarda l’esercizio delle funzioni statutarie, regolamentari e amministrative spettanti alle Istituzioni locali, occorre dare piena attuazione alle disposizioni dettate dagli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione. In tale fase, vanno determinate le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lett. p), e vanno osservati i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza nell’attribuzione delle funzioni amministrative, il cui esercizio e organizzazione compete ai Comuni, singoli o associati, anche nelle forme delle Unioni di Comuni e delle Comunità montane, e qualora lo richiedano esigenze di unitarietà, alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni ed allo Stato. Tali obiettivi sono raggiunti attraverso la revisione del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, quale intervento necessario, accanto all'adozione di ulteriori leggi statali e di leggi regionali, per attuare gli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione”.
(8) V. S. MANGIAMELI, L’autonomia locale nel disegno di riforma costituzionale, in La riforma del regionalismo italiano, cit., 259 ss.. Cfr. F. MERLONI, Il destino degli enti locali (e del relativo Testo unico) nel nuovo titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 409; S. CIVITARESE, L’autonomia istituzionale e normativa delle autonomie locali dopo la revisione del titolo V: il caso dei controlli, in Le Regioni, 2002 n. 2. Diversamente cfr: A. CORPACI, Revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo, in Le Regioni, 2001, 1305; A. FERRARA; L’incerta collocazione dell’ordinamento degli enti locali tra federalismo e municipalismo e il nodo delle funzioni fondamentali, in www.Federalismi.it (n. 4/2004); R. Bin, La funzione amministrativa nel nuovo titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 365, G. C. DE MARTIN, Funzioni fondamentali degli enti locali matrici per l’attuazione dell’art. 118 Cost,. in Anci Rivista, 2003, 57. V. inoltre P. PAPADIA, Gli effetti giuridici della l.c. n. 3/2001 del d.lgs n. 267/2000 e sui nuovi contenuti autonomi ed indipendenti di statuti e regolamenti, rispetto alle funzioni fondamentali, proprie e conferite degli enti locali, in Comuni d’Italia, 2002, 1249.
(9) In tal senso le funzioni fondamentali, da determinare con legge statale, comprenderebbero quelle funzioni che concorrono a delineare la fisionomia essenziale degli enti locali. Sul punto vedi S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, regionale e statale tra nuove competenze legislative, autonomia normativa ed esigenze di concertazione, in G. BERTI –G. C. DE MARTIN (a cura di), Il sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione, Roma 2002. Quanto al dibattito apertosi sul significato giuridico da attribuire alle controverse etichette costituzionali coniate dal legislatore di revisione, v. l’impostazione di A. D’ATENA, Il nodo delle funzioni amministrative, in G. BERTI –G. C. DE MARTIN (a cura di), Il sistema amministrativo dopo la riforma, cit., secondo il quale l’espressione funzioni fondamentali deve essere intesa come sinonimo si funzioni indefettibili (o più importanti). Altra parte della dottrina equipara le funzioni fondamentali alle funzione proprie, in tal senso cfr. M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2001, 1273, A. CORPACI, Revisone del Titolo V, cit, F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico esploso, in Quaderni reg., 2002, 17. Secondo F.S. MARINI, Il nuovo titolo V: l’epilogo delle garanzie costituzionali sull’allocazione delle funzioni amministrative, in Le Regioni, 2002, 399, l’espressione funzioni fondamentali avrebbe una portata meramente descrittiva.
(10) Sull’art. 2 della legge n. 131 del 2003 v. F. PIZZETTI, Delega al governo per l’attuazione dell’art. 117, secondo comma lett. p) della Costituzione per l’adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, in AA.VV., Legge la loggia. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del titolo V della Costituzione, Rimini 2003; M.A. SANDULLI, Commento all’art. 2. Le funzioni fondamentali degli Enti locali, in P. CAVALERI – E. LAMARQUE, L’attuazione del nuovo titolo V, parte seconda della Costituzione. Commento alla legge “La Loggia”, Torino 2004, 28.
(11) V. Legge n. 131, cit., art. 2, comma 4, “h) adeguare i procedimenti di istituzione della Città metropolitana al disposto dell’articolo 114 della Costituzione, fermo restando il principio di partecipazione degli enti e delle popolazioni interessati; i) individuare e disciplinare gli organi di governo delle Città metropolitane e il relativo sistema elettorale, secondo criteri di rappresentatività e democraticità che favoriscano la formazione di maggioranze stabili e assicurino la rappresentanza delle minoranze, anche tenendo conto di quanto stabilito per i Comuni e le Province; l) definire la disciplina dei casi di ineleggibilità, di incompatibilità e di incandidabilità alle cariche elettive delle Città metropolitane anche tenendo conto di quanto stabilito in materia per gli amministratori di Comuni e Province;”.
(12) V. Legge n. 131, cit., art. 2, comma 4, lett. e).
(13) TAR Sicilia Catania, Sez. I, 22 gennaio 2002, n. 79; TAR Campania Napoli, Sez. I, 28 maggio 2003, n. 6064;TAR Abruzzo Pescara, 22 Marzo 2002, n. 336; TAR Abruzzo Pescara, 6 marzo 2003, n. 302, Consiglio di Stato, sez V, 8 Agosto 2003, n. 4598.
(14) Il ruolo di segretario comunale, disciplinato nella L. 2248/1865 allegato A) viene regolamentato dal TULCP del 1915. Successivamente il RDL 17.08.1928 n. 1953, il RD 21.03.1929 n. 371 e la legge 27.06.1929 n.1104 statalizzano il ruolo del segretario comunale che diventa il garante statale della legalità degli enti locali. Il TULCP del 1934 rafforzò il controllo dello Stato su tali dipendenti. E tale impostazione rimane nella legislazione successiva (L. n. 604 del 1962; L. n. 107 del 1968, DPR n. 749 del 1972, L. n. 142 del 1990). Un mutamento radicale si è avuto con la L. n. 127 del 1997 che fa del segretario comunale una figura “scelta” dal sindaco. In seguito alla revisione del Titolo V questa figura deve ricollocarsi in uno scenario completamente modificato. Sul punto v. le osservazioni di S. GLINIANSKI, Il rapporto tra fonti normative locali e leggi statali e regionali, in riferimento anche al ruolo del segretario comunale alla luce della legge 131/03, in Nuova rass., 2003, 1806; L. OLIVIERI, L’inconfigurabilità del segretario comunale come “organo necessario allo svolgimento delle funzioni fondamentali degli enti locali” dopo la riforma della Costituzione, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 2003, 817; S. FOÀ, Il segretario comunale e provinciale nell’assetto costituzionale dopo la legge 131 del 2003, in www.federalismi.it, F. PINTO, Lo status degli amministratori locali nel nuovo Testo unico, in Comuni d’Italia., 2001, 22.
(15) In questo quadro va segnalata anche la modifica dell’art. 141, comma 2. Questa disposizione affida all’organo di controllo di predisporre il bilancio al posto della giunta e il compito di mettere in mora il Consiglio per l’approvazione del bilancio, in una procedura che poteva giungere sino allo scioglimento del Consiglio medesimo. Con il venire meno degli organi regionali di controllo la previsione di modifica dell’articolo citato incentrerebbe sul Consiglio medesimo il compito di sostituire la Giunta inadempiente e di provvedere ad individuare l’eventuale organo del sistema locale chiamato ad agire in sostituzione dello stesso Consiglio.
(16) F. Balsamo, L’assetto dei controlli dopo la legge costituzionale n. 3/01, in Amministrazione it., 2002, 689; F. Battini, L’attuazione della L. 131/03 e la “regionalizzazione” della Sezione autonomie della Corte dei Conti, in Giornale di Diritto amministrativo, 2003, 983;; G. D’Auria –P. Le Noci, Sulla nuova organizzazione della Corte dei conti per l’esercizio delle funzioni di controllo, in Foro it., 2002, III, 169; M. Santini, Le funzioni di controllo della Corte dei conti alla luce del titolo V della Costituzione, in Nuova rass., 2003, 2433;
(17) “La Corte dei conti svolge, anche in corso di esercizio, il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria, verificando la legittimità e la regolarità delle gestioni, nonché il funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione. Accerta, anche in base all’esito di altri controlli, la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’azione amministrativa”.
(18) Rilevanti appaiono anche i commi 8 e 9 dell’art. 7 che prevedono il cosiddetto “controllo collaborativo” (Le Regioni possono richiedere ulteriori forme di collaborazione alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti ai fini della regolare gestione finanziaria e dell’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, nonché pareri in materia di contabilità pubblica. Analoghe richieste possono essere formulate, di norma tramite il Consiglio delle autonomie locali, se istituito, anche da Comuni, Province e Città metropolitane) e la possibilità di integrazione, da parte delle Regioni e degli enti locali, delle Sezioni regionali della Corte (“Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti possono essere integrate, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, da due componenti designati, salvo diversa previsione dello statuto della Regione, rispettivamente dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali …”).
(19) Sull’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, v.: S. Mangiameli, Brevi osservazioni sull’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in La riforma del regionalismo, cit., 315; Cfr., 192, E. Gianfrancesco, Problemi connessi all’attuazione dell’art. 11 della l.c. n. 3 del 2001, in Un Senato delle autonomie, a cura della Presidenza della Provincia di Roma, Napoli 2003, 97; P. Siconolfi, L’attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3/2001: problemi e prospettive, in Quad. reg., 2003, 107;
Per l’attuazione dell’art. 11 cit., i Presidenti delle Camere hanno promosso la costituzione di un comitato paritetico i cui lavori sono stati coordinati dal senatore Mancino. Il Comitato ha elaborato le ipotesi di modifica dei regolamenti parlamentari, finalizzate all’attuazione di questa norma, per le quali si vedano le osservazioni di R. Bifulco, La commissione parlamentare per le questioni regionali integrata tra ipotesi normative e proposte dottrinali, in E. Rozo Acuna (a cura di), Lo Stato, le autonomie, le regioni nel nuovo titolo V della Costituzione. L’esperienza italiana a confronto con altri Paesi, Torino 2003.
(20) Liguria, approvato in seconda lettura il 28.09.04, art. 66 comma 4; Marche, approvato in prima lettura il 4.10.04, art. 37 comma 3; Lazio, approvato in seconda lettura il 3.08.04, art. 66 comma 3; Molise, approvato in Commissione il 30.10.03, art. 57 comma 7; Campania, approvato in prima lettura il 18.09.04, art. 21 comma 3; Abruzzo, approvato in prima lettura il 9.10.04 art. 70 comma 4; Basilicata, testo licenziato dalla Commissione il 22.12.03, art 51 comma 3; Piemonte, approvato in seconda lettura il 19.11.04, art 89 comma 3; Sicilia, bozza approvata dalla Commissione statuto il 17.03.04, art. 16 comma 2; Umbria, approvato in seconda lettura il 29 luglio 2004, art 28 comma 2; Emilia Romagna, approvato in seconda lettura il 14.09.04 art. 23; Toscana, approvato in seconda lettura il 19.07.04, art. 66 comma 2; Veneto, testo licenziato dalla Commissione il 7.08.04, art. 17 comma 3; Puglia, approvato in seconda lettura il 5 febbraio 2004, art. 45 comma 3; Calabria, approvato in seconda lettura il 6 .07.04, art. 48 comma 3;
(21) L’idea della costituzionalizzazione prendeva corpo durante i lavori svolti in Commissione Affari costituzionali della Camera, per giungere ad un testo unificato (a partire dal disegno di legge di revisione costituzionale D’Alema - Amato n. 5830 del 18 marzo 1999) sull’“Ordinamento federale della Repubblica”. In particolare, l’art. 9 avrebbe previsto una nuova versione dell’art. 124 della Costituzione, dove, al posto del Commissario del Governo, si disponeva che “la legge (avrebbe disciplinato) la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni, le Province, le Città metropolitane e i Comuni”; inoltre, con riferimento alla composizione, si affermava che “essa (starebbe stata composta) da Ministri, presidenti di Regioni e di province e sindaci di Città metropolitane e Comuni in relazione agli argomenti oggetto di trattazione nelle singole riunioni”; infine, si prevedeva una articolazione “su base territoriale” della Conferenza (“nelle forme e secondo le modalità stabilite dalla legge, che ne [avrebbe previsto] l’organizzazione sulla base di sezioni distaccate in ciascun capoluogo di Regione, presso le quali sono convocate le riunioni della Conferenza di interesse esclusivamente locale”).
Sulla Conferenza unificata, quale “terzo organo” distinto dalle due Conferenze di cui pure si compone, v. G. Mor, Tra Stato-regioni e Stato-città, in Le Regioni, 1997, 1313 ss., nonché F. Pizzetti, Commento al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, in Giorn. dir. amm., 1998, 11 ss.
(22) V. S. Mangiameli, La Conferenza Stato Regioni e la riforma costituzionale del Titolo V: dalla rappresentanza alla collaborazione, Studio per il Dipartimento Affari regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 2002.
(23) Si tenga conto che, in base all’art. 119, ultimo comma, gli enti territoriali “possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento”.
(24) Per l'attuazione del titolo V la legge finanziaria 2003 (Legge 27 dicembre 2002, n. 289 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato") pubblicata in GURI n. 305 del 31 dicembre 2002 - Supplemento Ordinario n. 240 ha disposto l'istituzione dell'Alta Commissione di studio per la definizione dei principi generali della finanza pubblica e del sistema tributario, regolamentata dal Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri del 9.4.2003. La norma dispone: L’Alta Commissione ha il compito di indicare (art. 3 comma 1 lett. b della legge finanziaria) “al Governo, (…), i principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ai sensi degli articoli 117, terzo comma, 118 e 119 della Costituzione. Per consentire l'applicazione del principio della compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio di comuni, province, città metropolitane e regioni, previsto dall'articolo 119 della Costituzione, l'Alta Commissione di cui al precedente periodo propone anche i parametri da utilizzare per la regionalizzazione del reddito delle imprese che hanno la sede legale e tutta o parte dell'attività produttiva in regioni diverse. In particolare, ai fini dell'applicazione del disposto dell'articolo 37 dello statuto della Regione siciliana, di cui al regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455, l'Alta Commissione propone le modalità mediante le quali, sulla base dei criteri stabiliti dall'articolo 4, comma 2, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, i soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, che esercitano imprese industriali e commerciali con sede legale fuori dal territorio della Regione siciliana, ma che in essa dispongono di stabilimenti o impianti, assolvono la relativa obbligazione tributaria nei confronti della Regione stessa. In dottrina v. F. Pica, L’Alta Commissione di studio e il decentramento istituzionale, in Rivista dei tributi locali, 2003, 457
(25) C. Pinelli, Patto di stabilità interno e finanza regionale, in Giur. Cost., 2004, 514; A. S. Foà, Legge collegata alla finanziaria: beni pubblici e Cassa depositi e prestiti. Il patrimonio immobiliare dello Stato e degli enti territoriali come strumento correttivo della finanza pubblica, in Gior dir. Amm., 2004, 358.
(26) Intesa del 24 luglio 2003, ai sensi dell’art. 8 comma 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131: “Accordo tra il Ministro della salute, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sulla tutela della salute dei non fumatori, di cui all’art. 51, comma 2 della legge 16 giugno 2003 n. 3. in G. U. n. 228 del 1.10.2003 Intesa, ai sensi dell’art. 8 comma 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131 tra il Ministero della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano per l’attuazione della raccomandazione della Commissione Europea del 10 gennaio 2003, n. 2003/10/CE, relativa ad un programma comunitario coordinato di controllo ufficiale dei prodotti alimentari per il 2003; Repertorio atti n. 1903 del 15 gennaio 2004. Intesa, ai sensi dell’art. 8 comma 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra il Governo e le Regioni, recante “Protocollo operativo per il prelievo in deroga, di cui all’art. 1 della legge 3 ottobre 2002, n. 221”. Repertorio atti n. 1969 del 29 aprile 2004.
(27) Sulla posizione della Conferenza Stato-Regioni v.: P.A. Capotosti, Regione, IV Conferenza Stato-Regioni, in Enc. giur. Treccani, 1991, XXVI; P. Caretti, La Conferenza permanente Stato-Regioni: novità e incertezze interpretative della disciplina di cui all’art. 12 della legge 400/88, in Foro it., V, 330; A. Sandulli, La Conferenza Stato-Regioni e le sue prospettive, in Le Regioni, 1995, 837; F. Pizzetti, Il sistema delle Conferenze e la forma di governo italiana, in Le Regioni, 2000, 473.
(28) Il giudice delle leggi, confermando i dubbi che la dottrina più attenta aveva messo in luce dopo l’entrata in vigore della Legge costituzionale n. 3 del 2001, ricostruisce in maniera flessibile il sistema delle competenze, attraverso una lettura dinamica del riparto di cui all’art. 117: v. Corte costituzionale n. 282 del 2002, nella quale si legge: “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali non sono una materia in senso stretto, ma una competenza legislativa statale idonea ad investire tutte le materie, (…)”; n. 536 del 2002 (in materia di caccia); n. 300 del 2003 (in materia di casse di risparmio); n. 303 del 2003 (in materia di lavori pubblici) “si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere iscritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà concorrenti”: 407 del 2002 e 222 del 2003 (sulla tutela dell’ambiente); 307 e 308 del 2003 (in materia di comunicazioni); 370 del 2003 (in materia di asili nido); n. 6 del 2004, dove si afferma “il problema della competenza legislativa dello Stato non può essere risolto esclusivamente alla luce dell’art. 117 Cost., è infatti indispensabile una ricostruzione che tenga conto dell’esercizio del potere legislativo di allocazione delle funzioni amministrative di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, di cui al primo comma dell’art. 118”; n. 12 del 2004 (in materia di profilassi internazionale; n. 14 del 2004 (sulla tutela della concorrenza).
Innumerevoli i commenti della dottrina, tra gli altri v. A. Datena, Materie legislative e tipologie delle competenze, in Quad. costituzionali, 2003, 23; S. Mangiameli, Sull’arte di definire le materie dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2003, 344; F.S. Marini; La Corte costituzionale nel labirinto delle materie "trasversali" dalla sentenza n. 282 alla 407 del 2002, in Giur. cost., 2002, 2951.
(29) V. le sentenze della Corte costituzionale n. 303 del 2003 la Corte afferma il principio secondo cui “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente (…) vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da un pluralismo istituzionale giustificano, (…), una deroga alla normale ripartizione di competenza; n. 370 del 2003: “in via generale, occorre inoltre affermare l’impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all’ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni (…) per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell’art. 117 della Costituzione”; e, inoltre, n. 6 del 2004, cit.. In proposito v. le osservazioni di A. D’Atena, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte costituzionale, in Giur. Cost., 2003, 2776; A. Anzon, Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni, in Giur. Cost., 2003, 2782; A. Moscarini, Sussidiarietà e Supremacy clause sono davvero perfettamente equivalenti?, in Giur. Cost., 2003, 2791; A. Gentilini, Dalla sussidiarietà amministrativa alla sussidiarietà legislativa, a cavallo del principio di legalità, ivi, 2805.
(30) V. Corte cost. sentenza n. 282 del 2002, cit.
(31) Corte cost., sentenza n. 303 del 2003, in Giur. Cost., 2003, 2675.
(32) Corte cost., sentenza n. 303 del 2003, cit.
(33) Corte cost., sentenza n. 303 del 2003 2.2 del considerato in diritto.
(34) Sul potere sostitutivo si rinvia a P. Cavaleri, Il potere sostitutivo sui Comuni e sulle Province, nota ad ordinanza n. 15 del 2003, in Le Regioni, 2003, 846 ss.; E. Gianfrancesco, Il potere sostitutivo, in T. Groppi – M. Olivetti, La Repubblica delle autonomie, cit., 236; C. Mainardis, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, in Le Regioni, 2001, 1358 ss. D. Piccione, Gli enigmatici orizzonti dei poteri sostitutivi del Governo: un tentativo di razionalizzare, in Giur. cost., 2003, 1207; Veronesi G., Il regime dei poteri sostitutivi alla luce del nuovo art. 120, comma 2, della Costituzione, in Le istituzioni del federalismo, 2002, 733;
(35) Corte cost., sentenza n. 370 del 2003
(36) C. Ciaglia, La nuova disciplina della conferenza di servizi, in Enti pubb., 2002, 16; G. Morbidelli, La Conferenza di servizi, in AA. VV., Diritto Amministrativo, Bologna 1998; Forte, La conferenza di servizi, Padova 2000, F.G. Scoca, Analisi giuridica della Conferenza di Servizi, in Dir. Amm., 1999, n. 2; M. Santini, Conferenza di servizi e titolo V della Costituzione, analisi e prospettive, in www.federalismi.it ;
(37) F. Martinelli –M. Santini, Sportello unico e conferenza di servizi, “derogatoria” al vaglio del giudice costituzionale, in Urb. e app,. 2002, 174; M., Sgroi, Lo sportello unico per le attività produttive: prospettive e problemi di un nuovo modello di amministrazione, in Dir. Amm., 2001, 223.
(38) R. Garofoli, Le privatizzazioni degli enti dell’economia. Profili giuridici, Milano 1998.
(39) … basti considerare l’inciso in cui il giudice costituzionale (sentenza n. 303 del 2003) afferma la necessità “che una intesa vi sia”, anche se “non è rilevante se essa preceda … ovvero sia successiva ad una unilaterale attività del Governo”.
(40) Senza contare, peraltro, che una siffatta gerarchizzazione delle relazioni tra i diversi livelli di governo avrebbe delle ripercussioni amministrative anche nei confronti dei cittadini (art. 11, comma 4, legge n. 241 del 1990), con buona pace del principio di sussidiarietà orizzontale dell’art. 118, comma 4, Cost..
(41) V. i commenti di: R. Dickmann, La Corte riconosce la legittimità dei poteri sostitutivi regionali (osservazioni a Corte cost., 27 gennaio 2004, n. 43), n. 4/2004, 19 febbraio 2004, nella rivista telematica federalismi.it; F. Merloni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regionali, nel Forum di quaderni costituzionali; G. Marazzita, I poteri sostitutivi fra emergency clause e assetto dinamico delle competenze, nel Forum di quaderni costituzionali.
(42) Corte cost. sentenza n. 43 del 2004, punto 3.2 del considerato in diritto.
(43) Corte cost. n. 43 del 2004, cit.