Sommario:
 
 
 
 
 
 
 
 
1. Introduzione
L’interesse nazionale, prima della riforma del Titolo V della Costituzione, è stato utilizzato secondo diverse accezioni: innanzitutto, seppur previsto come limite di merito dai Costituenti, è stato trasformato dal legislatore statale e dalla Corte costituzionale in limite di legittimità delle leggi regionali. Inoltre, è stato inteso quale interesse non frazionabile, perché rispondente a esigenze di uniformità e unitarietà, e interpretato congiuntamente al principio di uguaglianza o a quello di unità. Infine, è stato utilizzato per giustificare diversi istituti di creazione legislativa (funzione d’indirizzo e coordinamento, interventi in via sostitutiva, interventi diretti) e come principio di chiusura del sistema[1].
In questa maniera, la garanzia delle diverse sfere di competenza è stata subordinata all’esigenza di preservare il funzionamento del sistema nel suo complesso per assicurare la tutela degli interessi generali: l’interesse nazionale è stato, perciò, invocato per supplire a una rigida ripartizione delle competenze e rendere il sistema più flessibile.
Dopo la riforma del 2001, l’interesse nazionale non è più menzionato in Costituzione, né sembrerebbe ricavabile dai soli principi di unità e indivisibilità espressi dall’art. 5 Cost.[2], per non cadere nell’errore, tipico dei periodi di transizione, di interpretare le nuove previsioni costituzionali alla luce delle categorie sorte nel precedente contesto. L’interesse nazionale genericamente inteso non esisterebbe più[3] quale “limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale”[4]: vi sarebbero soltanto dei titoli abilitanti, puntuali e distinti, con riferimento a singoli istituti. La netta separazione fra centro e periferia, la mancanza di sedi di raccordo costituzionalizzate, l’assenza di clausole generali di chiusura e la sola previsione di ipotesi tipizzate porterebbero, appunto, a ritenere che, oggi, l’art. 5 Cost. esprima l’esigenza di unità nei soli casi in cui la stessa Costituzione preveda strumenti adeguati di tutela.
Si rende, allora, necessario verificare come il principio unitario dell’art.5 Cost. sia stato interpretato e applicato nel riformato Titolo V, allo scopo di verificare il suo contenuto e come si ponga nei confronti dell’autonomia, ma soprattutto se quest’ultima, le esigenze unitarie, gli interessi non frazionabili e il principio di cooperazione trovino un’adeguata tutela.
 
2. Il principio di sussidiarietà istituzionale
Prima della riforma del 2001, l’interesse nazionale consentiva l’assunzione di funzioni da parte dello Stato attraverso una definizione unilaterale: mancava perciò una distinzione fra procedimento di individuazione dell’interesse da tutelare e quest’ultimo.
L’intervenuta riforma ha compiuto un’innovazione attraverso la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà (art. 118, I co., Cost.): detto criterio impone di tener conto dei diversi interessi e dei differenti ambiti territoriali ai quali poterli riferire, nel momento in cui si procede alla definizione della funzione da svolgere.
Nell’art. 117 Cost. è stata invece compiuta una valutazione in astratto a proposito della prevalenza o del concorso degli interessi statali e regionali, procedendo di conseguenza all’individuazione del soggetto titolare della potestà legislativa; tuttavia, non è una valutazione esaustiva degli interessi pubblici, poiché il procedimento di ricognizione della dimensione delle finalità da perseguire e delle funzioni da svolgere, ossia la concretizzazione degli interessi da tutelare è, invece, demandata a un momento successivo: quello dell’allocazione delle funzioni amministrative fra le diverse entità territoriali.
Per quanto riguarda l’interesse nazionale, dobbiamo allora dire che, mentre in precedenza questo rilevava sia come interesse pubblico, inteso quale strumento giuridico per far valere interessi concreti, sia come fine reale da tutelare, adesso, è stata posta una distinzione fra meccanismo logico-giuridico di individuazione delle finalità concrete da soddisfare (art. 118 Cost.) e interessi pubblici territorialmente articolati da conseguire.
In questa prospettiva, il principio unitario parrebbe non coincidere più con l’interesse statale, poiché il primo ha una valenza onnicomprensiva e costituisce un limite per lo stesso Parlamento (e anche per il legislatore regionale verso le autonomie locali) nella misura in cui un fine, ancorché comune, può essere adeguatamente soddisfatto a livello infrastatale (o infraregionale) garantendo, al contempo, l’uguaglianza sostanziale attraverso la diversità di scelte.
 
3. L’attrazione in sussidiarietà: necessaria implicazione dell’art. 118, I co., della Costituzione
Analogamente alla versione originaria, il nuovo Titolo V ha presentato (e presenta) la necessità di un’adeguata interpretazione, talvolta esplicativa di quanto è scritto o non espressamente enunciato nel testo[5]: di conseguenza, un ruolo determinante è stato (e viene) svolto dalla Corte costituzionale.
La dottrina[6] (quasi) unanime riconosce una valenza assolutamente creativa alla sent. n. 303 del 2003 con la quale la Corte costituzionale ha affermato che, in presenza di esigenze a carattere unitario e nel rispetto di alcuni parametri che analizzeremo, lo Stato può attrarre in sussidiarietà le funzioni amministrative in materie di potestà legislativa concorrente e (con la successiva sent. n. 6/2004) anche di potestà residuale regionale, avocando a sé la corrispondente potestà legislativa in ossequio al principio di legalità, poiché le funzioni assunte in sussidiarietà devono essere organizzate e regolate dalla legge, ma, prima ancora, nel rispetto del principio del buon andamento, altrimenti la disciplina delle funzioni amministrative attratte a livello nazionale sarebbe rimessa a normative differenziate delle singole Regioni[7].
La creatività[8] di questa pronuncia sarebbe allora data dalla possibilità per il legislatore statale di adottare atti legislativi in deroga al riparto di competenze contemplato nell’art. 117 Cost. e dalla necessità di utilizzare i meccanismi di leale cooperazione fra Stato e Regioni[9], poiché verrebbe così realizzato un aggiustamento temporaneo per garantire la funzionalità costituzionale del riparto delle competenze, seppure espressione limite dell’inventiva della Corte costituzionale, oltre la quale si renderebbe indispensabile un nuovo intervento del legislatore di revisione costituzionale[10].
A noi pare, piuttosto, che l’importanza di questa pronuncia debba essere riscontrata nell’acuto utilizzo di alcune ricostruzioni e di principi maturati nell’esperienza precedente — una volta verificatane l’immutata validità — alla luce dei parametri posti dal nuovo Titolo V della Costituzione, sopperendo agli inconvenienti di una riforma incompiuta, pur ritenendo che non si debba parlare propriamente di creatività, trattandosi di una soluzione implicita e necessitata.
Alcune ricostruzioni dottrinali immediatamente successive alla sent. n. 303/2003 hanno parlato di inversione del rapporto legge-amministrazione[11], in aperto contrasto con la regola secondo la quale per il principio di legalità è la legge a dover prima definire la funzione amministrativa e solo dopo ad allocarla. A ben guardare, non vi è alcun capovolgimento del principio di legalità, ma più semplicemente si vengono a contrapporre due profili distinti: i criteri ordinatori dell’ordinamento e il dato reale. Le materie che rientrano nella potestà legislativa sono un qualcosa di astratto: successivamente, occorre guardare all’interesse concreto da soddisfare perché soltanto in questa maniera è possibile ricostruire la funzione da svolgere e la fonte normativa può fornire il substrato normativo e allocare detta funzione. Questo necessario procedimento logico non costituisce però una novità, ma si era già rivelato nei tre trasferimenti di funzioni avvenuti negli anni ’70 e ’90, in occasione dei quali si è parlato anche di parallelismo rovesciato, proprio perché gli ambiti di competenza legislativa regionale sono stati costruiti sulla base delle competenze amministrative. Ma non potrebbe essere diversamente: infatti, “amministrare” non vuol dire attuare un precetto, ma svolgere una funzione che, di regola, non si manifesta per singoli profili, bensì nella sua complessità, è suscettibile di evolvere nel tempo e, perciò, deve essere definita in ragione delle peculiarità contestuali. Peraltro, è proprio questo il disegno descritto negli artt. 117 e 118 Cost., sempreché non venga compiuta una lettura disgiunta delle due previsioni e purché la ricostruzione non muova da un astratto formalismo volto a riconoscere supposte priorità alla funzione legislativa quale potere sovrano per eccellenza.
Il meccanismo dell’avocazione in sussidiarietà è, dunque, la necessaria implicazione dell’art. 118, I co., Cost., poiché la possibilità che si debba derogare al riparto contenuto nell’art. 117 Cost. è già indicata nell’art. 118 Cost.[12]: se la definizione delle funzioni da allocare può portare ad attribuirle anziché ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni, anche allo Stato in ragione delle istanze unitarie che si presentano e che, a priori, non sono pienamente valutabili, sarà possibile che questi presupposti ricorrano anche in materie affidate di regola alla potestà legislativa concorrente o residuale regionale. In altre parole, il riformato Titolo V Cost., pur dovendo procedere ad una ripartizione della potestà legislativa fra Stato e Regioni, sottolinea che, in sede di definizione della funzione da allocare, debbano essere considerati tutti gli interessi, dovendo in questa maniera allocare la funzione, quando ricorrano esigenze di carattere unitario, all’ente di livello superiore, non escluso lo Stato: di conseguenza, si potrà verificare il caso in cui la preminenza di esigenze a carattere unitario si riferisca anche a materie di potestà legislativa concorrente o residuale regionale. In questi casi, l’allocazione delle funzioni amministrative deve quindi fare i conti con i principi (del buon andamento e di legalità) che connotano la nostra forma di Stato determinando così anche l’assunzione della corrispondente potestà legislativa. Il vero problema che si è trovata ad affrontare la Corte costituzionale è che, in queste ipotesi, nel nuovo Titolo V Cost. difetta la previsione di una sede nella quale confrontare i diversi interessi in gioco tutelando adeguatamente le autonomie regionali.
In mancanza di ciò, la Corte costituzionale ha recuperato il principio di leale collaborazione affermatosi nella precedente esperienza, rigettando così le critiche mosse da una parte della dottrina[13], secondo le quali la soluzione dualista del riparto delle competenze fra Stato e Regioni e l’assenza di un’enunciazione generalizzata di detto criterio avrebbero segnato il venir meno di questo, salvi i casi di espresso richiamo. La Corte costituzionale ha invece continuato a utilizzare il principio di leale cooperazione, implicitamente ritenendo che le ipotesi in cui vi è adesso un’esplicita indicazione non siano eccezionali, ma costituiscano appunto l’espressione di un principio generale implicito anche dopo la riforma, che deve sempre essere rispettato, ponendovi maggiore attenzione quando sia enunciato, vista la peculiarità dei casi.
A questo punto si poneva il problema di individuare il momento in cui soddisfare il principio di leale cooperazione: poiché la soluzione attrattiva viene realizzata con la fonte legislativa, la logica vorrebbe che l’accordo fra Stato e Regioni preceda l’atto legislativo e che, soprattutto, investa il procedimento legislativo. La Corte costituzionale, in assenza di una Camera rappresentativa delle Regioni e vista la mancata trasformazione dei procedimenti legislativi anche soltanto attraverso l’attuazione dell’art. 11, l. cost. n. 3/2001[14], ha però dovuto collocare le attività concertative in sede amministrativa, vista la costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’esercizio della funzione legislativa sfugge ai meccanismi della leale collaborazione[15] , negando perciò alle procedure collaborative la possibilità di rilevare “ai fini del sindacato di legittimità degli atti legislativi, salvo che l’osservanza delle stesse sia imposta, direttamente o indirettamente, dalla Costituzione”[16].
 
4. La sent. n. 303 del 2003 della Corte costituzionale e la giurisprudenza successiva
Il test elaborato nella sent. n. 303/2003 (e perfezionato nelle sentt. nn. 6 e 27 del 2004) dalla Corte costituzionale richiede che la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione delle funzioni debba essere proporzionata, non irragionevole alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità e soddisfare il principio di leale collaborazione attraverso la previsione di una cd. “intesa forte”[17], necessaria in ragione della deroga al riparto di competenze, ex art. 117 della Costituzione[18]. Occorre dunque compiere un determinato procedimento logico nella definizione dell’avocazione in sussidiarietà, caratterizzato da complessità e dal fatto che i parametri di cui tener conto non hanno confini netti: è perciò fondamentale poter comprendere il ragionamento che ha condotto al compimento di quella scelta, tanto che la Corte costituzionale ha ritenuto altresì necessario che, in caso di attrazione in sussidiarietà da parte dello Stato, “di regola il titolo del legiferare deve essere reso evidente in maniera esplicita”[19]. Infatti, solamente in questa maniera sarà possibile verificare la non contraddittorietà e la congruità delle soluzioni prospettate rispetto al fine da raggiungere, nonché l’osservanza dei limiti posti all’esercizio della valutazione discrezionale del legislatore.
L'applicazione giurisprudenziale mostra però come, in taluni casi, il bene oggetto di tutela sia stato ritenuto di tale valore da giustificare un intervento dello Stato anche in assenza di minime procedure di collaborazione con la Regione, al di là del riparto di competenze per materia e pur andando a riflettersi su una materia di competenza regionale[20].
L'esame della giurisprudenza evidenzia ancora come la Corte costituzionale, spesso, non compia neppure una verifica di tutti i parametri del test di costituzionalità elaborato per l'attrazione in sussidiarietà, limitandosi a rinvenire l'esistenza di forme di cooperazione[21], anche di minore intensità rispetto all’intesa forte, in ragione del grado di interferenza del fine unitario con gli interessi regionali[22], senza quindi commisurare l'intervento all'effettiva esigenza di unitarietà[23], ritenendo perciò dette attività collaborative in grado di esaurire da sole gli altri criteri di proporzionalità e ragionevolezza.
Inoltre, la Corte costituzionale — partendo dall’assunto che l’attrazione in sussidiarietà debba essere limitata a quanto strettamente indispensabile, poiché opera in deroga al favor per il livello territoriale meno ampio — ha ammesso l’avocazione in sussidiarietà da parte dello Stato della sola funzione legislativa, senza l’assunzione di quella amministrativa, quando il livello regionale venga ritenuto comunque il più idoneo a seguire l’iter amministrativo: il procedimento di attrazione può allora essere finalizzato all’imposizione alle Regioni di una procedura amministrativa uniforme relativamente agli accertamenti e ai criteri da dover rispettare, oppure lo Stato trattiene una funzione di indirizzo e coordinamento[24] o, talvolta, la potestà regolamentare[25], contrariamente all’iniziale indirizzo contenuto nella sentenza leading case. In sostanza, la Corte costituzionale ha reso indipendenti l’assunzione in sussidiarietà e la disciplina delle funzioni amministrative da parte dello Stato dall’esercizio di queste ultime che rimane alle Regioni; l’art. 118 Cost. è così divenuto un autonomo criterio che consente al legislatore statale di intervenire per salvaguardare esigenze di unitarietà in qualsiasi materia, senza sottrarre alle Regioni lo svolgimento delle funzioni amministrative. Tutto questo non toglie però che, ogni qualvolta venga operata un’attrazione in sussidiarietà, occorra esplicitare in maniera articolata le finalità unitarie da perseguire e che, in sede di controllo di costituzionalità, queste debbano essere opportunamente verificate, contrariamente a quanto è accaduto in alcuni casi[26].
La giurisprudenza costituzionale non si è, però, fermata qui, poiché ha ritenuto che la complessità degli interessi da soddisfare determini, talvolta, un intreccio inestricabile di competenze e, allo scopo di individuare dei criteri che consentano di determinare l'area di confine tra gli spazi di intervento statale e quelli di spettanza regionale, ha stabilito che quando ricorra il criterio della prevalenza — potendo indicare l'appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo a una materia piuttosto che ad altre[27] allora il titolare dell'interesse prevalente vedrà riconosciuta la relativa competenza a legiferare: laddove, invece, non sia possibile un tale riscontro, vi sarà una concorrenza di competenze che impone il ricorso a strumenti di collaborazione[28], la cui modulazione è rimessa alla discrezionalità del legislatore[29]. Poiché questi criteri, secondo la Corte costituzionale, si elidono a vicenda[30], l'accertata appartenenza del nucleo essenziale di una disciplina a una determinata materia — talvolta a beneficio delle Regioni[31] e in altri casi a vantaggio dello Stato[32] — escluderebbe l'operatività del principio di leale collaborazione, nonostante che il giudizio sulla materia prevalente evidenzi in realtà la coesistenza di altri interessi, seppure minoritari che, in questa maniera, non vengono in alcun modo presi in considerazione.
Questa ricostruzione finisce col pregiudicare lo stesso spirito della leale cooperazione che presuppone non già una pari ordinazione di interessi, ma una pluralità degli stessi da comporre attraverso le possibili differenti forme di raccordo, dando vita a un nuovo indirizzo che non corrisponde alle posizioni assunte nella passata giurisprudenza costituzionale, quando la preminenza dell'interesse nazionale non ha portato a escludere il principio di cooperazione, ma a richiedere la misura di collaborazione di minore intensità, ossia il parere[33].
Tuttavia, dobbiamo sottolineare che, nelle più recenti pronunce[34] in tema di tutela dell'ambiente, la Corte costituzionale si è parzialmente discostata dalla ricostruzione sopra descritta a proposito del criterio di prevalenza. Infatti, dopo aver precisato che detta materia ha un valore al contempo oggettivo perché l'ambiente è un bene, ma anche finalistico e che questa materia è di esclusiva competenza statale, di modo che le competenze regionali non possono avere come scopo anche la tutela dell'ambiente, il giudice costituzionale ha precisato che, scrutinando le leggi statali, non debbano essere ricercate materie prevalenti, ma occorra individuare la ratio della disciplina e verificare se vengano in gioco anche competenze regionali, nel qual caso occorrerà un'intesa forte con le Regioni interessate, da esperirsi in sede amministrativa[35].
 
5.  Valutazioni conclusive
 
5.1  La sede di individuazione dell’interesse unitario
La lettura compiuta dal giudice costituzionale degli artt. 117 e 118 Cost. ha ricondotto il principio di leale collaborazione, in caso di attrazione in sussidiarietà, nella fase della definizione del riparto delle funzioni amministrative perché, come abbiamo detto, manca una sede di cooperazione a livello legislativo fra Stato e Regioni e le procedure collaborative non sono vincolanti ai fini dell’esercizio della funzione legislativa.
La prima conseguenza è, però, che il legislatore statale potrà anche revocare l’atto legislativo di attrazione senza dover prima sentire le Regioni, facendo così venir meno anche la necessità di un momento di confronto sul piano dell’esercizio delle funzioni amministrative perché non vi sarà più la fonte giustificativa di queste[36].
Tutto ciò non esclude, però, che il legislatore statale debba rendere evidenti le ragioni per le quali le esigenze unitarie non sussistono più: gli spazi di legittimità sindacabili della decisione legislativa potranno essere molto ridotti, soprattutto quando la motivazione sia legata ad esigenze di contenimento della spesa, ma ciò non esclude che debbano ricorrere margini di ragionevolezza nella decisione assunta, anche perché, a seconda del momento in cui viene compiuta l’operazione di revoca e contrariamente a quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 79/2011, delle conseguenze sul piano economico e, comunque, delle ripercussioni sulle altre funzioni regionali potranno anche verificarsi, poiché le Regioni potranno essere messe nella condizione di dover rivedere le scelte finanziarie, legislative e amministrative già compiute sul presupposto dell’originaria attrazione in sussidiarietà da parte dello Stato.
Inoltre, dobbiamo aggiungere il fatto che, costituendo la determinazione della funzione amministrativa un prius logico rispetto all’atto legislativo che la deve definire e di conseguenza allocare, la procedura di collaborazione deve necessariamente essere svolta nella fase che porta all’adozione dell’atto legislativo perché è in quel momento che si individuano e bilanciano gli interessi proprio per delimitare la portata della funzione e, di conseguenza, il destinatario della medesima.
Fra l’altro, abbiamo detto che le indicazioni contenute nella sent. n. 303/2003 sono state spesso disattese nei casi sottoposti, successivamente, al sindacato della Corte costituzionale[37] e la loro portata si è notevolmente ridotta nel senso che il test di sussidiarietà non sempre è stato utilizzato nella sua compiuta articolazione[38]: tra i motivi sicuramente vi rientra il fatto che, se non viene seguita l'indicazione giurisprudenziale di spiegare le ragioni della scelta compiuta[39], la Corte costituzionale incontra difficoltà nel ricostruire e valutare il percorso decisionale compiuto dal legislatore, sempreché non decida di adottare posizioni intransigenti verso queste omissioni, come ha fatto, di recente, nella sent. n. 232/2011.
In quest’ultimo caso, infatti, il giudice delle leggi ha ritenuto fondati i dubbi di legittimità costituzionale “in ragione della assenza nel contesto dispositivo di una qualsiasi esplicitazione” dell’esigenza di assicurare l’esercizio unitario, della congruità in termini di proporzionalità e ragionevolezza dell’avocazione rispetto al fine voluto e ai mezzi predisposti per raggiungerlo, nonché dell’impossibilità che le funzioni amministrative in questione potessero essere adeguatamente svolte ai livelli infrastatali, posto che la giustificazione della chiamata in sussidiarietà non può essere data dal semplice richiamo del principio e dell’art. 118 Cost.[40].
Tutte le criticità evidenziate denunciano i limiti dell’attuale sistema, unitamente ad una perdurante non completa cultura dell’autonomia, ma soprattutto la necessità che venga introdotta una sede di cooperazione fra Stato e Regioni a livello legislativo.
 
5.2 La clausola di chiusura del sistema
Vista la natura procedimentale del principio di sussidiarietà, non è quest’ultimo, neppure nella sua dimensione ascendente, a costituire la clausola di chiusura del sistema, ma pur sempre il principio di unità (e indivisibilità) espresso nell’art. 5 della Costituzione. Le istanze unitarie presuppongono sempre l’esistenza di un interesse statale, ma si può avere anche la compresenza di quest’ultimo senza che si verifichi la necessità di un intervento esclusivo dall’alto: tuttavia, lo stesso art. 114 Cost. non comporta affatto una totale equiparazione fra i diversi livelli territoriali[41] per quanto riguarda gli esiti decisionali, bensì la necessità di garantire una posizione equivalente di partenza e una sostanziale “parità di armi” nella fase procedurale, fermo rimanendo che, quando l’unità funzionale — intesa come perseguimento delle fondamentali finalità di solidarietà politica, economica e sociale e del principio di uguaglianza sostanziale — non possa essere adeguatamente soddisfatta dalla diversità di scelte, sarà lo Stato a doversene far carico.
L’esame della giurisprudenza costituzionale evidenzia come il giudice delle leggi, nella valutazione del bilanciamento degli interessi in gioco, tenda solitamente ad attribuire un significato ampio alle finalità riconducibili nel principio di coordinamento della finanza pubblica, nelle materie di potestà esclusiva statale e, in particolare, nelle materie cosiddette trasversali (basti pensare alla tutela della concorrenza o dell’ambiente, ai livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, ecc.), salve alcune delimitazioni contenutistiche, individuate col tempo. Quando una ricostruzione del genere non sia possibile, vista la compresenza di una pluralità di materie e di interessi, la Corte costituzionale verifica l’esistenza di una materia prevalente — quasi sempre a beneficio dello Stato — escludendo, di regola, la necessità di forme di raccordo fra i diversi livelli territoriali. Soltanto quando una soluzione di questo tipo non possa essere prospettata, allora il giudice costituzionale rileva la pluralità di interessi da dover contemperare attraverso procedure di collaborazione la cui intensità viene rimessa all’apprezzamento del legislatore statale. Infine, quando non ricorra alcuna delle ipotesi descritte e il profilo unitario non abbia una valenza specifica e attenga alla dimensione della funzione da svolgere, la Corte costituzionale riscontra l’esistenza dei presupposti necessari per procedere all’attrazione in sussidiarietà, dando spazio, di regola, allo strumento di raccordo più incisivo.
Queste operazioni ricostruttive della Corte costituzionale evidenziano la loro complementarietà e, dunque, il fatto che il sistema necessita di margini di flessibilità, pur non potendo pregiudicare il principio di autonomia.
In questa prospettiva, gli interventi compiuti dallo Stato in sede di attrazione in sussidiarietà non dovrebbero essere finalizzati a rendere uniforme l’azione dei livelli di governo territoriali, ma a far loro sviluppare il massimo delle capacità, poiché autonomia e differenziazione, in quanto strumenti di garanzia dell’uguaglianza sostanziale e degli altri valori costituzionali, sono anch’esse elementi necessari della forma di Stato e della stessa unità.
Inoltre, nell’ambito di una medesima materia, vi può essere la compresenza di una pluralità di interessi che fanno capo a livelli territoriali diversi. Le conseguenze sono: innanzitutto, che l’allocazione delle competenze non dovrà più avvenire in ragione del soggetto, ma della funzione da svolgere. Inoltre, i mezzi di raccordo fra i diversi livelli territoriali nella definizione della funzione e del soggetto destinatario diventeranno imprescindibili per prevenire conflitti e scongiurare la rinascita dell’interesse nazionale nell’accezione antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione, non solo nel caso dell’attrazione in sussidiarietà, ma ugualmente quando venga riscontrata la prevalenza di una sola materia e anche nel caso in cui l’intervento sia riconducibile nell’ambito di una materia trasversale, perché vi sarà pur sempre, anche in maniera del tutto marginale, la presenza di interessi regionali che dovranno trovare un adeguato spazio e quanto meno la possibilità di essere manifestati.
Tutto ciò non pregiudica il fatto che la clausola di chiusura sia pur sempre data dal principio di unità (e indivisibilità), il quale però impone, per un verso, la necessità che vengano spiegate le operazioni ricostruttive compiute e, per un altro verso e ancora una volta, l’esigenza di una sede di raccordo a livello legislativo.
Inoltre, nel riscontro del test di costituzionalità in caso di attrazione in sussidiarietà, la riconduzione del principio di collaborazione a quello di sussidiarietà, come talvolta la Corte costituzionale ha fatto limitandosi a verificare l’esistenza di una qualche forma di collaborazione e non anche degli altri presupposti, porta a disconoscere il fondamento costituzionale autonomo della leale cooperazione: in questa maniera, la Corte svilisce lo stesso principio di sussidiarietà, poiché la legittimità della scelta operata finisce col dipendere unicamente dalla previsione dell’intesa o della diversa forma di cooperazione, prescindendo dalla necessità dell'intervento statale in ragione dell'interesse da attuare. In questo modo, però, lo Stato si riappropria di ambiti che vanno oltre la tutela dell'interesse unitario e quanto previsto dall'art. 5 Cost. per contemperare unità e autonomia, compensando al più le Regioni attraverso forme di cooperazione snaturate, poiché utilizzate quale criterio di riparto delle competenze, anziché come modo di esercizio delle stesse, secondo un modo di procedere tipico della passata esperienza che determina la rinascita dell’interesse nazionale nella vecchia accezione.
 
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[1] M. Picchi, L’autonomia amministrativa delle Regioni, Milano, Giuffrè, 2005, pagg. 3 e ss., 55 e ss.
[2] Per un’immediata reazione volta a ribadire che il limite dell’interesse nazionale permane implicitamente quale espressione dell’unità della Repubblica, immediatamente riferibile all’art. 5 Cost., si veda A. Barbera, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, in Quad. cost., 2/2001, pag. 345 e ss.
[3] G. Falcon, Modello e “transizione” nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Reg., 6/2001, pag. 1247 e ss.
[4] Cfr. Corte cost., sent. n. 303/2003 (p.to 2.2 cons. dir.).
[5] R. Bin, Divagazioni sul ruolo del giudice (e della Corte costituzionale), a proposito di due sentenze di Carlo Mezzanotte, in Reg., 4-5/2008, pag. 804 e ss.
[6] A. Anzon Demmig, Istanze di unità e istanze autonomistiche nel “secondo regionalismo”: le sentenze nn. 303 del 2003 e 14 del 2004 della Corte costituzionale e il loro seguito, in Reg., 4-5/2008, pag. 786 e ss.; P. Caretti, Le sentenze nn. 3/2003 e 14/2004: due letture “creative” del nuovo Titolo V della Costituzione, in Reg., 4-5/2008, pag. 808; G. Falcon, Riflessioni sulle sentenze della Corte costituzionale 303 del 2003 e 14 del 2004, ricordando Carlo Mezzanotte, in Reg., 4-5/2008, pag. 771.
[7] M. Picchi, L’autonomia amministrativa delle Regioni, op. cit., pag. 510 e ss.; A. D’Atena, Le aperture dinamiche del riparto delle competenze, tra punti fermi e nodi non sciolti, in Reg., 4-5/2008, pag. 812.
[8] A. Ruggeri, Il problematico “bilanciamento” tra politica e diritto costituzionale (tornando a riflettere su Corte cost. n. 303 del 2003), in Reg., 4-5/2008, pag. 850, parla di “un’originale inventiva”; R. Tosi, Competenze statali costituzionalmente giustificate e insufficienza del sindacato, in Reg., 4-5/2008, pag. 875, ritiene invece che l’apporto creativo non sia maggiore rispetto a quello espresso dalla Corte nel corso del tempo nella definizione dei rapporti tra Stato e Regioni.
[9] V. Onida, Applicazione flessibile e interpretazione correttiva del riparto di competenze in due sentenze “storiche”, in Reg., 4-5/2008, pag. 774. In merito, si veda anche G. Falcon, Un problema, due risposte, alcune riflessioni, in Reg., 4-5/2008, pag. 820.
[10] S. Mangiameli, Giurisprudenza costituzionale creativa e costituzione vivente. A proposito delle sentenze n. 303 del 2003 e n. 14 del 2004, in Reg., 4-5/2008, pag. 825 e ss.
[11] Fra le prime vi è quella di L. Torchia, In principio sono le funzioni (amministrative): la legislazione seguirà (a proposito della sentenza 303/2003 della Corte costituzionale), in www.atridonline.it, 2003, pag. 1 e ss.
[12] Contra, A. Ruggeri, Il problematico “bilanciamento” …, op. cit., pag. 856.
[13] A. Anzon Demmig, Istanze di unità …, op. cit., pag. 779 e ss.
[14] Cfr. Corte cost., sent. n. 6/2004 (p.to 7 cons. dir.).
[15] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 88, 107, 225, 232, 249 e 284 del 2009, 16 e 100 del 2010, 207/2011.
[16] Cfr., da ultimo, Corte cost., sent. n. 79/2011 (p.to 5 cons. dir.) e, in precedenza, sentt. nn. 387/2007, 278 e 371 del 2009, 33/2011. In particolare, la Corte costituzionale aveva già affermato come l’esclusione della rilevanza di tali procedure, formulata per il procedimento legislativo ordinario, valga a maggior ragione per una fonte come il decreto-legge, la cui adozione è subordinata alla presenza di casi straordinari di necessità e urgenza (sent. n. 298/2009). Tuttavia, il giudice delle leggi ha altresì affermato che le Regioni possono avere un ruolo attraverso il sistema delle Conferenze nella determinazione del contenuto dei decreti legislativi, quando incidano su materie di competenza regionale, qualora sia previsto nella relativa legge di delega (sentt. nn. 401/2007 e 33/2011).
[17] La Corte costituzionale ha precisato che il mancato raggiungimento dell’intesa fra Stato e Regioni non può essere superato unilateralmente attraverso una decisione statale assunta nell’esercizio del potere governativo di sostituzione, ex art. 120 Cost.: questi accordi devono essere ricercati con spirito di leale collaborazione e il legislatore può prevedere dei procedimenti volti a superare situazioni di stallo e a favorire l’adozione dell’atto finale che, perciò, non potrà “prescindere dalla permanente garanzia della posizione paritaria delle parti coinvolte”, pur non escludendo, quale estrema ratio, il ricorso alla Corte in sede di conflitto (sentt. nn. 339 e 383 del 2005, 24/2007, 121//2010). Successivamente, il giudice delle leggi ha riconosciuto la validità di alcune disposizioni che disciplinano il superamento del dissenso regionale in presenza di discipline che impongono il raggiungimento di intese forti: in particolare, ha ritenuto che la previsione di un procedimento per il raggiungimento dell’accordo tra lo Stato e le Regioni anche attraverso la nomina di un organo terzo e, in caso di esito negativo, l’attribuzione della prevalenza alla volontà dello Stato, ad esempio attraverso l’emanazione di un dPR adottato previa deliberazione del Consiglio dei Ministri cui prenda parte il Presidente della Regione interessata, possa costituire una valida soluzione perché istituzionalizza una fase di trattative ulteriori per favorire l’intesa, consentendo comunque l’eventuale controllo della Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzione (sent. n. 33/2011, richiamata nella sent. n. 165/2011).
[18] Nella sent. n. 79/2011, la Corte costituzionale ha avuto modo di ribadire che “l’intesa […] è indispensabile per dare validità a uno spostamento di competenza legislativa e amministrativa”, ritenendo però che la medesima non sia invece necessaria nel caso in cui lo Stato decida di revocare unilateralmente il proprio finanziamento e la precedente avocazione in sussidiarietà poiché, procedendo in tal senso, non impedisce “alla Regione di esercitare la sua competenza, legislativa e amministrativa, sul medesimo oggetto”, infatti l’assetto dei rapporti fra lo Stato e la Regione “ritorna così nell’alveo ordinario, quale tracciato dall’art. 117 Cost.” (p.to 5 cons. dir.). La pronuncia è criticata da C. Bertolino, Un tassello o un cuneo nella “chiamata in sussidiarietà” ad opera della Corte Costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it, pag. 1 e ss.
[19] Cfr. Corte cost., sent. n. 303/2003 (p.to 4.1 cons. dir.).
[20] Cfr. Corte cost., sent. nn. 307/2004, 31/2005 e 153/2011, in tema di sviluppo della cultura e della ricerca scientifica.
[21] Cfr. Corte cost., sent. n. 76/2009. Nella sent. n. 79/2011, la Corte costituzionale, pur rilevando l’incostituzionalità della previsione istitutiva di un Fondo per le infrastrutture portuali di rilevanza nazionale nella parte in cui non contemplava il raggiungimento di un’intesa in Conferenza Stato-Regioni ai fini della ripartizione di questo, nella valutazione dell’avocazione in sussidiarietà si è limitata ad affermare in maniera del tutto assertiva che, trattandosi “di porti a rilevanza nazionale, si deve ritenere che la competenza legislativa in materia sia attratta in sussidiarietà allo Stato”.
[22] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 376/2003, 414/2004, 151 e 285 del 2005, 278/2010.
[23] Cfr. Corte cost., sent. n. 63/2006: M. Picchi, Sussidiarietà e leale cooperazione: l'incidenza della giurisprudenza costituzionale sul modello regionalistico, in R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana. “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, Napoli, ESI, 2006, vol. VIII, pag. 457 e ss. Sul tema si veda anche R. Bin, Prevalenza senza criterio, in Reg., 3-4/2009, pag. 618 e ss.
[24] Cfr. Corte cost., sent. n. 339/2007.
[25] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 285/2005, 214/2006, 88/2007.
[26] M. Picchi, La “legge quadro” in materia di agriturismo e la sussidiarietà tradita, in Giur. cost., 1/2008, pag. 486 e ss.
[27] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 370/2003, 50 e 51 del 2005, 114 e 246 del 2009, 52, 226 e 278 del 2010.
[28] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 308/2003, 219/2006, 24 e 58 del 2007, 51/2008, 124, 233, 249, 250 e 339 del 2009, 1 e 278 del 2010.
[29] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 62, 219, 231 e 385 del 2005, 213/2006.
[30] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 133/2006, 148/2009, 33/2011.
[31] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 370/2003 e 181/2006. Contra, F. Benelli, R. Bin, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle Regioni, in Reg., 6/2009, pag. 1209 e ss., secondo i quali il criterio della prevalenza (con espresso riferimento all'ultima sentenza citata) non opererebbe mai a favore delle Regioni.
[32] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 234 e 285 del 2005, 222/2006, 401/2007, 12, 88, 148, 239, 246 e 247 del 2009, 186/2010.
[33] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 514/1988, 180/1989, 21 e 482 del 1991.
[34] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 367 e 378 del 2007, ma soprattutto sentt. nn. 61, 272 e 307 del 2009, 331/2010.
[35] Inoltre, la Corte costituzionale ha affermato che la disciplina statale a tutela dell'ambiente non può esaurirsi nella previsione di standards minimi di tutela validi per tutto il territorio, ma deve prevedere una tutela dell'ambiente adeguata e non riducibile, mentre le Regioni possono optare per livelli anche più elevati purché nell'intento di meglio esercitare le proprie competenze (tutela della salute, governo del territorio, ecc.) e non già per apprestare una maggiore tutela ambientale che rimane di esclusiva competenza statale: P. Maddalena, L'interpretazione dell'art. 117 e dell'art. 118 della Costituzione secondo la recente giurisprudenza costituzionale in tema di tutela e di fruizione dell'ambiente, in Fed., 9/2010, pag. 14 e ss.
[36] Contra, C. Bertolino, Un tassello o un cuneo …, op. cit., pag. 11 e ss., secondo la quale, prima di esercitare la potestà legislativa per l’avocazione, sarebbe necessario l’esplicazione degli strumenti di cooperazione. Non dimentichiamoci però che, per costante giurisprudenza, anche gli eventuali accordi intercorsi in Conferenza Stato/Regioni non sono vincolanti per il legislatore e, dunque, anche il riconoscimento del carattere preliminare per le forme di cooperazione non costituirebbe un valido strumento di tutela dell’autonomia regionale, sempreché non maturi un diverso indirizzo giurisprudenziale.
[37] Negli ultimi tempi sembra esservi però una rinnovata attenzione alla verifica del rispetto del test di costituzionalità. Ad esempio, nella sent. n. 215/2010, il giudice costituzionale è stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell'art. 4, d.l. n. 78/2009 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 103/2009 (Disposizioni correttive del d.l. anticrisi n. 78 del 2009), il quale prevedeva che il Consiglio dei Ministri potesse individuare interventi relativi alla produzione, al trasporto e alla distribuzione dell'energia, da realizzare con capitale prevalentemente o interamente privato, quando ricorressero particolari ragioni di urgenza in riferimento allo sviluppo socio-economico e dovessero essere effettuati con mezzi e poteri straordinari, richiedendo l'intesa con la Regione solo per l'individuazione degli interventi relativi alla produzione e non anche per quelli concernenti il trasporto e la distribuzione. La Corte costituzionale ha ritenuto che la materia produzione, trasmissione e distribuzione dell'energia possa in astratto, anche in ragione della pregressa giurisprudenza costituzionale, giustificare un'attrazione in sussidiarietà: tuttavia, quando lo spostamento di competenze è motivato con l'urgenza nell'esecuzione delle opere, deve essere supportato da valide e convincenti argomentazioni. Inoltre, trattandosi di iniziative di rilievo strategico, ogni motivo d'urgenza dovrebbe comportare l'assunzione diretta, da parte dello Stato, della realizzazione delle opere. Questa pertinenza difettava nella disposizione impugnata, poiché gli interventi contemplati dovevano essere realizzati con capitale interamente o prevalentemente privato che, per sua natura, è aleatorio sia nell'an sia nel quantum. Secondo la Corte costituzionale poneva problemi anche il canone della proporzionalità poiché, se le presunte ragioni dell'urgenza non sono tali da rendere certo che sia lo Stato, per esigenze di esercizio unitario, a doversi occupare dell'esecuzione immediata delle opere, non vi è motivo per sottrarre alle Regioni la competenza nella realizzazione degli interventi.
[38] A. Anzon Demmig, "Flessibilità dell'ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni", in www.forumcostituzionale.it, pag. 5 e ss., osserva come, mentre nell'ordinamento comunitario l'introduzione del principio di sussidiarietà ha comportato una procedimentalizzazione dell'attività delle istituzioni comunitarie, volta a rendere evidenti le motivazioni giustificative per avere elementi di valutazione in grado di agevolare il controllo giurisdizionale, nella giurisprudenza costituzionale il principio di collaborazione venga spesso dedotto da quello di sussidiarietà o, comunque, la ricorrenza di formule di cooperazione finiscano con l'assumere valore decisivo della questione.
[39] Secondo Q. Camerlengo, Dall'amministrazione alla legge, seguendo il principio di sussidiarietà. Riflessioni in merito alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, pag. 3, poiché la Corte costituzionale afferma che, nell'articolarsi del procedimento, la pretesa attrattiva potrebbe risultare vanificata qualora la Regione dimostri la propria adeguatezza e la propria capacità di svolgere in tutto o in parte la funzione, mentre lo Stato avrebbe un dovere generico di motivazione relativamente all'iniziativa finalizzata all'attrazione, le Regioni dovrebbero invece fornire la prova della propria idoneità: sarebbe stata posta, perciò, una “presunzione relativa di inadeguatezza dell'autonomia (legislativa e amministrativa) regionale”. Questa ricostruzione rischia di ridimensionare eccessivamente, se non di svuotare, l'autonomia regionale perché sembra giungere ad affermare una sorta di "inversione dell'onere della prova" in caso di attrazione in deroga ai canoni ordinari della sussidiarietà. Aldilà dell'evoluzione maturatasi nella stessa giurisprudenza costituzionale e delle deroghe compiute al test elaborato dal giudice delle leggi, occorrerebbe invece che l'obbligo di motivazione da parte del legislatore statale — soprattutto in assenza di una Camera che dia voce alle Regioni — fosse puntuale e articolato: soltanto a questa condizione si potrebbe poi riversare sulle autonomie regionali l'onere di dimostrare la propria idoneità, in maniera altrettanto precisa, per superare le ragioni del legislatore statale.
[40] Cfr. p.to 5.5 cons. dir.
[41] Cfr. Corte cost., sent. 274/2003 (p.to 2.1 cons. dir.).

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