Stelio Mangiameli
Professore ordinario di Diritto costituzionale
Direttore dell’Issirfa-CNR, Roma

 
  
1. Un disegno riformista problematico

2. Un regionalismo non identitario, ma funzionale

3. Né materie, né funzioni; ma politiche pubbliche distribuite tra Stato e Regioni
 
 
 
1. Un disegno riformista problematico. — Tra i costituzionalisti è da tempo aperta una accesa e viva discussione sulle vicende del nostro regionalismo. Ciò ha portato a un diffuso senso di insoddisfazione sul recente disegno di legge costituzionale di revisione della seconda parte della Costituzione (AS/1429 - «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione»).
 
A 13 anni dall’adozione delle leggi costituzionali del 1999 e del 2001, l’attuale proposta non rappresenta una messa a punto del regionalismo, bensì la messa in discussione del regionalismo medesimo, come forma dello Stato italiano, e del sistema storico delle autonomie locali. La sua caratteristica principale, infatti, risiede nella volontà di rendere “fittizio” il ruolo delle Regioni: le Regioni non vengono cancellate, come le Province, ma ridotte soprattutto nelle funzioni legislative a meri soggetti attuatori di atti di legislazione statale e vincolate esclusivamente alla cura di attività nell’ambito locale di riferimento. Inoltre, anche se non è modificato espressamente l’art. 118 Cost., il diverso riparto delle competenze legislative di fatto ridimensiona il ruolo dell’amministrazione regionale a quello tipico di un ampio dipartimento e l’autonomia finanziaria resta sostanzialmente delimitata dai consistenti tagli operati negli anni della crisi economica.
Le Regioni resterebbero, ma non avrebbero più un ruolo politicamente rilevante; ne è testimonianza anche la proposta di composizione del Senato delle autonomie e, soprattutto, il funzionamento di questo. Il tutto non senza contraddizioni: si ammette, infatti, che il Senato possa partecipare alla formazione delle leggi costituzionali, ma se interviene una legge che tocca le Regioni medesime o le autonomie locali i suoi poteri sono assai più modesti.
 
Quella che si vuole realizzare non è una semplificazione della forma di Stato e una fluidificazione dei rapporti tra il centro e i livelli di governo territoriali, bensì una trasformazione neo-centralista dello Stato in sintonia con la logica di questi ultimi anni in cui l’inefficienza degli apparati pubblici e, soprattutto il loro costo, è stata scaricata, con il contributo dei media, sulle Regioni e sulle Province. Gli studiosi che praticano i dati di spesa pubblica e conoscono bene l’organizzazione della Repubblica, sanno perfettamente, con riferimento al Titolo V, che «una riforma della riforma» sarebbe necessaria, ma sono in grado di dimostrare che il nodo reale da cui partire è l’Amministrazione statale: senza riforma dello Stato, infatti, non è possibile comprendere la funzionalità del regionalismo e il ruolo degli enti locali.
 
 
2. Un regionalismo non identitario, ma funzionale. — In relazione a questo aspetto, la considerazione dalla quale bisogna partire è che, nonostante di Regioni se ne parli già dalla formazione dello Stato unitario, e per certi aspetti anche prima, il fondamento del regionalismo italiano non è di tipo identitario.
 
Forse di identità si può parlare per le Regioni speciali, ma solo per la loro condizione di essere al contempo espressione di minoranze linguistiche, oppure di essere geograficamente staccate e distinte dalla penisola, come nel caso della Sicilia e della Sardegna. Tuttavia, il principio di autogoverno, in Italia, non si è espresso attraverso la dimensione regionale, bensì su quella dei Comuni medioevali su cui si è formato il sistema provinciale alla fine del ‘700, dopo la rivoluzione francese, innestato nello Stato unitario grazie all’istituto prefettizio.
 
Torniamo al nostro regionalismo. Se si condivide l’assunto che non ha un carattere identitario, che dia forza ad un sentimento popolare di autogoverno, esso non può che essere una scelta organizzativa e, in tal senso, come si è detto, dipende dal modello di Stato (rectius: di Repubblica) che si vuole costruire con la riforma.
Da questo punto di vista la Costituzione del 1947 ha prefigurato il regionalismo come un elemento caratterizzante la forma di Stato della Repubblica italiana: lo “Stato regionale”, di cui parlava Costantino Mortati; ben consapevole che si trattava di un momento tecnico-organizzativo dell’ordinamento giuridico italiano – secondo un orientamento che può farsi risalire a Hans Kelsen – la cui “formula politica istituzionalizzata” (espressione, questa, da ricondurre al pensiero di Giorgio Lombardi) è stata sintetizzata dall’art. 5 Cost., da inverare dinamicamente attraverso il principio di adeguamento (IX Disp. trans. e fin. – “La Repubblica, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”) e rafforzata dalla revisione del 2001.
La stessa Corte costituzionale, prima che il Paese entrasse nel “tunnel” della crisi economica, ha mostrato di accogliere questa visione del regionalismo italiano e, con l’autorevolezza della sua posizione, ha sollecitato più volte la creazione di forme di raccordo più efficaci tra le funzioni legislative statali e quelle regionali: la riforma del Parlamento statale con la creazione di una Camera delle regioni e delle autonomie locali, od anche la semplice attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001. La Corte ha, altresì, richiesto una rapida attuazione dell’art. 119 Cost., per rendere stabili le competenze attribuite dall’art. 117 Cost. e le funzioni amministrative di cui all’art. 118 Cost..
 
Ora, in che cosa consiste la “formula politica istituzionalizzata” del regionalismo sintetizzata dall’art. 5 della Costituzione?
Si tenga conto che l’art. 5 dovrebbe essere considerato un principio fondamentale della Costituzionale e come tale – almeno secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988) – in grado di limitare anche i poteri di revisione costituzionale.
 
Il regionalismo presuppone e deriva dalla decisione politica sulla distribuzione dei “compiti statali” tra due livelli: uno centrale (statale), che sintetizza il momento dell’unificazione dell’ordinamento, e uno decentrato (regionale) che esprime il momento della differenziazione. Il concetto di “compiti statali” è intrinsecamente connesso con il riconoscimento di una potestà legislativa propria.
È evidente, poi, che questi due livelli devono riuscire a stare in equilibrio, per cui, mentre il momento dell’unificazione deve avere la capacità di fare evolvere l’ordinamento nel suo insieme e senza che forze centripete abbiano il sopravvento, distanziando, ad esempio una parte del Paese, rispetto a un’altra parte; il momento della differenziazione deve mantenere un adeguato spessore politico e non può essere ridotto a forme minimali.
Il disegno di legge costituzionale, da questo punto di vista, non corregge alcuni “difetti”, manifestati dal riparto delle competenze della legge costituzionale n. 3 del 2001, su cui peraltro sussiste ormai una cospicua letteratura che ha anche indicato i possibili rimedi, bensì tende a ridurre a fatto locale la legge regionale, tanto da giustificare l’incipit della relazione di Eduardo Gianfrancesco, che evoca l’interpretazione di Guido Zanobini, per il quale le Regioni, alla fine, non erano altro che dei grandi enti locali e non la novità che avrebbe dovuto caratterizzare lo Stato.
 
È il caso di ricordare qui che alla trasformazione della Repubblica sulla base del principio autonomista aveva dedicato un commento appassionato uno dei maggiori costituzionalisti italiani del tempo, Carlo Esposito (1954), il quale osservava: «uno stato non rispetta le autonomie … per il fatto che riconosca a qualche ente il potere di disciplinare con forza e con gli effetti della legge formale alcune sporadiche materie, ma se esso consente che vi siano enti posti in grado di disciplinare in concreto tanta materia e in maniera tanto organica che ne sorgano ordinamenti particolari entro l’ordinamento territoriale dello Stato. Perciò, nella nostra costituzione, – egli continua – l’art. 117 non concretizza il principio della autonomia delle regioni solo perché conferisce forza di legge alle disposizioni normative emesse dalle regioni (…), ma perché attribuisce alle regioni di disciplinare numerose materie».
 
Se il testo del disegno di legge costituzionale dovesse essere approvato così come è stato scritto (art. 26 del disegno di legge), la sensazione che si avverte è quella di una sostanziale fuoriuscita dell’Italia dalla forma dello “Stato regionalizzato”, con violazione del principio dell’art. 5 Cost.. Verrebbe meno, infatti, l’essenza stessa della formula politica istituzionalizza che costituisce il regionalismo medesimo. Possono ancora esservi degli enti territoriali che si nominano “Regioni”, ma ciò non sarebbe di per sé solo sufficiente a dar vita a un “regionalismo” e ciò quand’anche fosse istituita una seconda Camera delle autonomie.
 
Peraltro – sia osservato per inciso – il Senato delle autonomie previsto dal disegno di legge AS/1429 e il riparto delle competenze propugnato dallo stesso, sembrano completarsi vicendevolmente, in senso negativo, ovviamente. A un riparto di competenze che affida alle Regioni poteri meramente residuali e localistici e comunque privi di una garanzia effettiva sul piano costituzionale, per cui anche quei pochi margini di autonomia legislativa potrebbero essere sottratti facilmente alle Regioni dallo Stato, corrisponde un Senato non rappresentativo del ruolo regionale, ma confuso in una rappresentanza che sembra ibridare profili diversi e, comunque, con la sola eccezione (contraddittoria) dell’approvazione della legge costituzionale, nei poteri scarsamente significativo.
 
 
3. Né materie, né funzioni; ma politiche pubbliche distribuite tra Stato e Regioni. — Secondo il disegno di legge costituzionale AS/1429 l’inizio dell’art. 117, comma 2, Cost. sarebbe così riscritto: «Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie e funzioni:» e nella relazione di accompagno si legge: «La scelta di fondo che è stata operata nel disegno di legge è diretta a superare l’attuale assetto, fondato su una rigida ripartizione legislativa per materie, in favore di una regolazione delle potestà legislative ispirata a una più flessibile ripartizione anche per azioni, superando il riferimento alle materie di legislazione concorrente e alla mera statuizione da parte dello Stato dei principi fondamentali entro i quali può dispiegarsi la potestà legislativa regionale e includendo nei criteri di ripartizione delle competenze legislative anche una prospettiva funzionale-teleologica che riguarda sia lo Stato sia le Regioni».
 
Anche in questa ipotesi si cerca di portare nell’alveo del testo costituzionale una problematica lungamente discussa nel dibattito di quest’ultimo decennio, anche alla luce delle innovazioni che al riparto delle competenze ha apportato la giurisprudenza costituzionale. Questa, infatti, ha dato vita ad un vero e proprio strumentario sulle materie nel secondo regionalismo, grazie al quale ha potuto disattendere i vincoli nascenti dalle espressioni linguistiche contenute nelle enumerazioni dell’art. 117, Cost.. Si è trattato prevalentemente di operazioni di carattere politico e non meramente interpretative, grazie alle quali il giudice costituzionale ha potuto collocare materie regionali sotto la competenza statale.
 
Ora, al di là della legittimazione delle prassi seguite dal giudice costituzionale, risulta confermato da un complesso di riferimenti, soprattutto derivanti dall’ordinamento europeo, che un riparto per materie risale alla teoria del federalismo duale, ampiamente superata, perché non in grado di dividere i compiti statali lì dove questi assumono un carattere dinamico, per interventi pubblici attivi e non meramente regolativi.
Nel contesto attuale i poteri pubblici appaiono difficilmente distribuibili per oggetti (materie) o per funzioni, in quanto gli stessi oggetti e le medesime funzioni possono interessare i due legislatori (quello statale e quello regionale), qualora siano afferenti a una politica pubblica che li contempla e per la quale è richiesto l’intervento dello Stato e delle Regioni secondo un canone di competenza articolato diversamente, ad esempio, per livello di costruzione della politica (pianificazione, attuazione; oppure dimensione nazionale e dimensione territoriale).
In molte materie, peraltro, che di questo si tratti, è già testimoniato anche dall’ultimo rapporto sulla legislazione delle Regioni, curato dall’Issirfa per la Camera dei Deputati, dal quale si evince con chiarezza una complessa trasversalità della legislazione regionale. Infatti, se si considerano le politiche attive, ai primi sei posti si collocano due materie di competenza concorrente: tutela della salute e governo del territorio; due materie di competenza esclusiva/residuale delle Regioni: servizi sociali e agricoltura; e due materie di competenza esclusiva dello Stato: ambiente e beni culturali.
 
Molto concretamente la discrasia con il riparto costituzionale delle competenze, anche secondo le modalità di intervento fatte proprie dalla Corte costituzionale, deriva dalla necessità di seguire una logica diversa dall’attribuzione delle materie (e di funzioni), e cioè di dover corrispondere all’esigenza di concretizzazione delle politiche pubbliche, in massima parte elaborate e disciplinate da atti normativi dell’Unione europea, nelle quali si innestano insieme compiti dei diversi legislatori e di più livelli territoriali di governo.
 
Anche quando una politica pubblica e una materia possono essere individuate con il medesimo nomen, non è detto che le due categorie coincidano. Anzi, la logica porta a considerare che esse indichino ambiti legislativi e ammnistrativi diversi.
Per comprendere ciò, a mo’ d’esempio, si consideri la materia del “turismo” e la politica pubblica del “turismo”. La prima, che rientrerebbe nelle competenze esclusive delle Regioni, di cui all’art. 117, comma 4, Cost., si estrinseca sostanzialmente nella vigilanza dell’industria alberghiera e in pochi limitati servizi di informazione e promozione turistica. La seconda, la politica turistica, abbraccia un complesso di oggetti in via di principio, dal punto di vista del riparto delle competenze, afferenti a materie diverse. Solo per esemplificare, si considerino: l’agricoltura, l’artigianato, i porti, gli aeroporti, i trasporti e la viabilità, i beni culturali e ambientali, la caccia e la pesca, le acque termali, l’alimentazione, il governo del territorio, l’ordinamento sportivo, le professioni, e tutta una serie di materie di competenza esclusiva dello Stato, a partire dall’ordinamento civile, alla tutela della concorrenza, ai rapporti internazionali, all’ordine pubblico.
 
In un quadro siffatto, e con riferimento alle politiche pubbliche, la dialettica tra Stato e Regioni non può essere ricomposta – come ha pensato la Corte costituzionale – sulla base di moduli concertativi, legati all’attiva delle Conferenze, che permettono l’interferenza del legislatore statale sulle materie di competenza legislativa regionale, dal momento che queste intervengono a valle dell’esercizio delle competenze legislative, riguardano solo i rispettivi esecutivi e non coordinano la legislazione delle politiche pubbliche.
E neppure appare sufficiente, per risolvere i problemi posti dalla necessità di sviluppare le politiche pubbliche da parte dello Stato e delle Regioni, il modo in cui opera il ddlc n. 1429, e ciò sotto due profili distinti e concorrenti. In primo luogo, l’interferenza viene risolta con la centralizzazione della competenza in capo allo Stato, senza alcuna garanzia per il ruolo legislativo delle Regioni; e, in secondo luogo, una volta ricondotte al centro materie e funzioni di una politica pubblica, alle Regioni non è assicurata una vera partecipazione attraverso il Senato delle autonomie.
 
Ora, bisogna considerare che, nel caso delle politiche pubbliche, la relazione tra la legge regionale e la fonte statale non si sviluppa secondo lo schema dell’esclusività e neppure secondo quello della concorrenza, basato sulla distinzione tra principio fondamentale e disciplina della materia, bensì sulla base di una ripartizione di ruoli (e cioè: un diverso riparto delle competenze) che ubbidiscono alla realizzazione dei medesimi obiettivi attinenti alle politiche pubbliche.
Di conseguenza, il riparto delle competenze in Costituzione dovrebbe essere conformativo dei poteri legislativi statali e regionali, e costituire lo schema di realizzazione delle politiche pubbliche. Tutto ciò richiede che le enumerazioni siano costruite tenendo conto della territorialità o del carattere unitario di (frammenti di) politiche e, soprattutto che siano dotate in modo equilibrato di clausole di flessibilità (che consentano allo Stato di sottrarre motivatamente oggetti e funzioni alle Regioni, o di delegarli dal proprio ambito di competenza) e di clausole di garanzia per i legislatori regionali (ai quali dovrebbe essere riconosciuto, in determinate condizioni, anche il potere di legiferare in deroga alla disciplina statale).
 
Sul primo versante il disegno di legge costituzionale AS/1429 appare soddisfare le condizioni della centralizzazione, ma sull’altro versante, quello della clausola di garanzia per le Regioni, mancherebbe di qualsiasi formulazione e né gioverebbe, nei termini in cui è formulata, la previsione del Senato delle autonomie.
È in questo contesto che l’abolizione della competenza concorrente appare problematica, in quanto scomparirebbe una enumerazione di poteri legati alla territorialità e che di per sé costituisce una garanzia per le Regioni. Ovviamente questo non vuol dire che l’enumerazione stessa non possa essere rivista proprio alla luce dei criteri indicati.
In conclusione, anche alla luce dell’esperienza vissuta dall’ordinamento dopo la revisione del 2001, non si tratta più, semplicemente, di assicurare la supremazia dello Stato, quanto di essere certi che lo Stato e le Regioni esercitino la loro competenza inerente a una determinata politica pubblica, senza inadempimenti (da parte di entrambi) che comporterebbero il mancato raggiungimento degli obiettivi e la mancata realizzazione dei diritti dei cittadini. 

Menu

Contenuti