Europa - Costituzione - Identità: tra economia e politica *
di Stelio Mangiameli

 

     1. La crisi sembra essere la cifra di lettura più appropriata per l’Europa in questo primo scorcio di XXI secolo. Il termine crisi, che indica la condizione di perturbazione acuta nella vita di una collettività con effetti (più o meno gravi e) duraturi, infatti, descrive meglio di altri (come cambiamento, evoluzione, revisione, trasformazione, ecc.) la crescita che il sistema europeo sta vivendo.
     Questa, forse, può sembrare una contraddizione: che vi sia crisi, e vi sia, al contempo, crescita. Per un verso, gli eventi trascorsi hanno mostrato i limiti dell’azione europea, come mostrerebbe la crisi costituzionale del 2004 dell’Unione europea, al cui interno si è situata anche quella determinata dalla seconda guerra del Golfo. Inoltre, non si può trascurare il peso della questione migratoria e del terrorismo sulle vicende europee, così come gli effetti della crisi finanziaria del 2008/2010. Tutti questi eventi, peraltro, hanno messo in discussione le acquisizioni dello stato sociale all’interno degli Stati membri e la capacità dell’Unione di sviluppare una vera e propria politica estera e di sicurezza comune, come ancora la recente vicenda libica conferma. Per l’altro, tutte le fratture e i momenti di discontinuità non hanno impedito di rimettere in moto i processi di stabilizzazione, unificazione e crescita, per l’appunto, del vecchio continente. In primo luogo, a partire dall’allargamento del 2004, che molti probabilmente considereranno un elemento anch’esso della crisi, ma che in realtà ha dato una dimensione non provinciale all’Europa ed ha restituito alla loro propria tradizione europea Paesi che per circa cinquant’anni avevano vissuto un tentativo di sradicamento dovuto all’idea di uomo nuovo, propugnata dalla dittatura comunista. In secondo luogo, la ricomposizione costituzionale dell’Unione europea, realizzata – se si vuole – in modo imperfetto con il Trattato di Lisbona, è stata tale da riannodare quel filo spezzato derivato dall’abbandono del Trattato costituzionale di Roma che si estrinseca su elementi come la riaffermazione della pace e del benessere dei popoli europei, così come “nelle relazioni con il resto del mondo” nel contributo dell’Europa “alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all'eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani” (art. 3 TUE). Di qui, in particolare, la configurazione di una Unione che si richiama alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, e la sua concreta organizzazione attorno alla cittadinanza europea che costituisce un elemento di unificazione sensibile, in parte avversato dalla cultura nazionalista, poco generosa e alquanto cieca degli Stati membri.
     Chi ritiene sussistente una via di uscita dall’Europa e soluzioni positive ai problemi in modo unilaterale, sì da mettere in discussione la necessità stessa dell’ordinamento comune, sottovaluta la presenza di attori in parte inediti sulla scena mondiale, come la Cina, la Russia, l’India, la Turchia, ecc. Già solo per dimensioni demografiche, il confronto tra i singoli paesi europei e questi attori è impari: se a ciò si aggiunge la consistenza di altri elementi di raffronto come, ad esempio, l’invecchiamento della popolazione, la propensione al consumo, il costo del lavoro, appare evidente che nessun confronto sembra possibile tra i singoli paesi europei e ciascuno di questi Stati che agisce ormai nel mondo globalizzato in modo costante.
     Ciò che restituisce all’Europa un ruolo effettivo ed importante e che è frutto della sua tradizione, in primo luogo, religiosa e, poi, anche culturale sono i valori che essa propugna: “il rispetto della dignità umana, la libertà, la democrazia, l'uguaglianza, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Valori che vengono proclamati “come comuni agli Stati membri”, ma che adesso trovano espressione “in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” (art. 2 TUE): per l’appunto, la società europea e l’Europa dei cittadini.
     L’“Europa dei cittadini” è ormai un concetto consolidato non solo del linguaggio europeo, ma soprattutto della dinamica istituzionale dell’Unione. Esso, a partire dal “rapporto Tindemans” (e dalla Commissione Adonnio), ha rappresentato la reazione politica diretta rispetto al deficit democratico e di legittimazione della Comunità. Il Trattato di Maastricht che ha implementato la cittadinanza non si è limitato semplicemente a prevedere uno status di diritti politici più, o meno, equivalente a quello tipico della cittadinanza nazionale, ma ha iniziato un processo di avvicinamento delle Istituzioni ai cittadini: l’identità europea diventa così espressione dell’unione raggiunta, “rammentando l’importanza storica della fine della divisione del continente europeo”, la quale può garantire l’indipendenza europea, ancora una volta “al fine di promuovere la pace, la sicurezza e il progresso in Europa e nel mondo”, gettando in tal modo le basi per una politica estera e di sicurezza comune, comprensiva della politica di difesa comune; e, tuttavia, l’identità europea non opera solo verso l’esterno. Essa, infatti, acquista una più specifica rilevanza all’interno, in quanto non coincide con la semplice unificazione degli Stati membri in determinate politiche comuni, ma configura un’entità dai caratteri peculiari, rispetto alla quale il concetto di “Europa dei cittadini” acquista un carattere fondativo e costituzionale. Si tratta pur sempre di guidare “il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa”, ma adesso si aggiunge: “in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della sussidiarietà”. Di qui, anche la necessità di conformare l’Unione “ai principi della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché dello stato di diritto”.
     Il Trattato di Lisbona rappresenta in tal senso una tappa peculiare del processo di realizzazione dell’“Europa dei cittadini”, non solo perché ribadisce i valori dell’Unione (art. 2 TUE) e la tradizione di pace e libertà (art. 3.1 TUE) che ha permesso di creare le Istituzioni europee, quanto perché, per la prima volta, disegna i contorni di una società europea, come “società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.
     Il significato di questa disposizione è sicuramente ancora da scoprire. Tuttavia, non sembra azzardato affermare come questa espressione sia complementare al concetto di “Europa dei cittadini”, in quanto rappresenta il contesto unitario nel quale i cittadini dell’Europa si collocano. La società dei cittadini europei, perciò, nel sistema dei trattati non è assunta come un’espressione di significato sociologico o etnografico e culturale, ma come soggetto attivo del processo di integrazione.
     Sono note le querelle sulla possibilità di configurare un popolo europeo. Gli stessi trattati, proprio per evitare la suscettibilità di alcune parti contraenti, hanno fatto riferimento sempre ai “popoli dell’Europa”, intesa, questa espressione, come antidoto all’unificazione anche solo formale del popolo europeo. Eppure, il processo di formazione di un soggetto storico unitario in Europa è andato avanti comunque, grazie al principio della diretta riferibilità delle norme ai cittadini. La stessa base democratica dell’Europa non riposa più sulla rappresentanza “dei popoli degli Stati membri riuniti nella Comunità” (art. 189 TCE), bensì su quella “dei cittadini dell’Unione” (art. 14.2 TUE); non i popoli, ma “i cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo” (art. 10.2 TUE). In tal senso, il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa (art. 10.1 TUE), ma – accanto a questa – sussiste anche il diritto alla diretta partecipazione di “ogni cittadino” “alla vita democratica dell’Unione”, quale presupposto per la realizzazione concreta del principio di prossimità (art. 10.3 TUE), che culmina anche nel riconoscimento del potere di iniziativa legislativa popolare (art. 11.4 TUE).
     La stessa configurazione dei partiti politici europei, apparsi per la prima volta nel Trattato di Maastricht, quale “importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione”, risulta rafforzata dalla collocazione che riceve nel Trattato di Lisbona (art. 10, par. 4, TUE - “I partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”), a sottolineare il nesso che dovrebbe sussistere tra democrazia rappresentativa, come forma di funzionamento dell’Unione, e sistema europeo dei partiti politici.
     Il Trattato di Lisbona, non a caso, colloca tra i principi democratici i partiti politici europei (art. 10.4 TUE), riferimento questo rinvenibile anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE che all’art. 12.2 afferma che “I partiti politici a livello dell'Unione contribuiscono a esprimere la volontà politica dei cittadini dell'Unione”, inserendo detta disposizione nell’ambito delle libertà (Titolo II) e, in particolare, di quella d’associazione.
     Non cogliere gli aspetti positivi di questa esperienza politica europea sarebbe un errore, dal momento che i partiti politici europei, il cui ruolo concreto è alquanto cresciuto già nella breve esperienza degli ultimi due anni, nella quale si è proceduto alla nomina del Presidente della Commissione europea, del Presidente dell’Unione europea e dell’Alto rappresentante per la politica estera, possono rappresentare un elemento di unità dell’Europa attorno alle idee forti della stessa cultura europea che contribuisce a rafforzare la “società dei cittadini europei”. Questa, infatti, appare essere l’anima dell’identità dell’Europa; e rappresenta un soggetto che svolge una funzione attiva nel processo di integrazione e, perciò, un soggetto al quale non può non riconoscersi un carattere costituzionale.
     L’identità europea non sarebbe data più da un sistema economico integrato nel mercato comune, né apparirebbe più, semplicemente, come il frutto di un ordinamento dotato di meccanismi di efficacia giuridica, assicurati in via giudiziaria dalla Corte di giustizia, e neppure come l’insieme di una serie di principi giuridici propri di un ordinamento unitario ispirato al costituzionalismo, ma come una realtà dinamica vivificata dall’azione della società dei cittadini europei.
     Il Trattato di Lisbona rende palese il tentativo, da tempo pronosticato, di sviluppare una “identità politica” quale portato di una comunione europea che si è sviluppata a partire da un modello di cittadinanza in senso moderno. In tal senso, i “cittadini dell’Europa” non sono un espediente per risolvere il problema del deficit di legittimazione all’interno della Comunità degli Stati, ma la formalizzazione a livello europeo del principio della sovranità popolare, che nel sistema istituzionale dell’Unione (come in quello di ogni Federazione) si accompagna al principio di rappresentanza degli Stati medesimi (“Gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di Stato o di governo e nel Consiglio dai rispettivi governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini” – art. 10.2, seconda frase, TUE). 

     2. Risulta evidente che la realizzazione di questo progetto non è affatto lineare e che i limiti (e forse anche i fallimenti) dell’azione europea si sono manifestati già nell’azione pregressa dell’Unione, basti pensare all’Agenda di Lisbona. Si può anche ritenere che per molti aspetti non siano neppure realistici gli obiettivi dell’Europa 20 20. Tuttavia, il compito della scienza giuridica europea deve essere rivolto a valutare le criticità dell’ordinamento europeo e, di fronte alla prospettazione da parte delle forze politiche e degli Stati, ad analizzare problematicamente le proposte avanzate.
     Così, non si può tacere che all’interno del Trattato di Lisbona si celi anche una diversa sostanza. Questo, infatti, proviene da un lungo percorso e da un processo di adeguamento alquanto complesso, volto ad esorcizzare l’idea stessa di costituzionalizzazione dell’Unione europea, e vorrebbe segnare per molti aspetti un recupero di potere da parte degli Stati membri: una sorta di indipendenza o, quanto meno, di allentamento del vincolo europeo. Ciò risulta in modo particolare dallo spirito con cui è scritto il riparto delle competenze, finalizzato essenzialmente a delimitare e costringere le possibilità di intervento dell’Unione.
     In realtà, la crisi in atto, che determina un banco di prova della Costituzione europea, mette fuori gioco l’assetto istituzionale del Trattato così come era stato concepito e delinea una nuova fase di necessità per gli Stati membri dell’Europa, la quale richiede una ricentralizzazione di poteri e funzioni.
     Il principio attorno al quale si è discusso nel Consiglio europeo del 28/29 ottobre 2010 e in quello del 16/17 dicembre 2010 – dove è stata affrontata la questione dell’adozione delle misure atte a determinare un tasso di crescita e i provvedimenti idonei a realizzare il rientro dal debito eccessivo di alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, – è che “ciò che accade in uno stato membro è rilevante per gli altri stati membri e per l’Unione”.  
     La discussione politica europea richiederà perciò la crescita della politica e della decisione a livello europeo, peraltro già in atto. 
    L’idea cui il Consiglio europeo sembra volere giungere è quella assai impervia dell’automaticità delle misure e, in particolare, delle sanzioni, che semmai possono essere politicamente fermate.
    Il ruolo della crisi, in conclusione, riapre l’esigenza di una crescente istituzionalizzazione del livello europeo, per cui un diverso assetto dell’organizzazione europea e una più compiuta considerazione delle politiche da parte degli Stati membri saranno tanto più necessari nel momento in cui le proposte di modifica dei Trattati europei, ipotizzate nel Consiglio europeo del 28 e 29 ottobre 2010, saranno formulate e successivamente discusse e approvate. Infatti, il rafforzamento della disciplina di bilancio, l’ampliamento della sorveglianza economica e l’approfondimento del coordinamento europeo, in vista di un quadro solido per la gestione delle crisi e di un rafforzamento sostanziale del pilastro economico dell'UEM, imporranno agli Stati membri una verifica dei sistemi previdenziali e una precisazione sulla gestione dei debiti pubblici in una luce diversa da quella dell’art. 125.1 TFUE.
     Le politiche di risanamento che l’Unione vuole tentare non possono essere basate solo sulla sanzione per gli inadempimenti, perché altrimenti l’Unione stessa apparirebbe in una luce sinistra, ma richiedono necessariamente l’avvio di una politica economica europea, affinché si realizzino le condizione di ripresa del mercato, e ciò in quanto non è possibile riuscire nel risanamento, senza attivare lo sviluppo. Come questa politica economica europea debba essere realizzata e quali siano le norme da scrivere nei trattati per realizzarla, resta una questione aperta.  
     Sinora si sono privilegiate le misure finanziarie di sostegno come nel caso del fondo EFSF (European Financial Stability Facility), istituito nel maggio 2010, il cui ammontare di 750 miliardi di euro conferisce una capacità di emettere obbligazioni garantite sino ad un massimo di 440 miliardi di euro per gli Stati membri in situazione di difficoltà, a condizioni di negoziato con la Commissione europea in collegamento con la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, ed in più con la preventiva approvazione dei paesi dell’Eurogruppo. 
     Proprio questo Fondo, le cui caratteristiche istituzionali non sono del tutto chiare e che comportano un diverso ruolo della BCE, ha fatto sorgere delle perplessità di legittimità che richiederebbero la modifica dei trattati come sopra indicata.
     Le misure di carattere finanziario, peraltro, continuano ad essere discusse, così si ritiene: di elevare ulteriormente la capacità di prestito del fondo EFSF; di abbassare i tassi di interesse dei prestiti del fondo; di realizzare una nuova serie di stress test per le banche a condizioni più severe e possibilmente con maggiore trasparenza rispetto a quelle realizzate nella prima fase della crisi; di allungare le scadenze sui debiti; o, infine, di estendere le linee di credito a un paese a rischio che ha fondamentali economici e politiche di bilancio solide, ma che potrebbe trovarsi temporaneamente in difficoltà sui mercati.
     Tuttavia, non si può pensare che le misure finanziarie, anche se di ampia portata, possano implementare una vera e propria politica economica europea, anzi corrono il rischio di risultare persino inefficaci se non accedono ad un indirizzo dotato di un certo carisma economico.
     A tal riguardo, si è pensato di mettere in piedi il c.d. “patto di competitività”, spingendo i paesi della zona euro ad adottare misure economiche e fiscali che includano: limiti ai debiti sovrani da introdurre nelle leggi nazionali e, possibilmente, nelle costituzioni; un aumento dell'età pensionabile legato all'andamento demografico; una base comune di valutazione delle tasse per le imprese; l’abolizione delle norme che legano l'incremento dei salari all'inflazione; l’introduzione di regimi unificati anti-crisi per le banche.
     Queste misure sono state contrastate da diversi paesi e non è detto che si riesca a farle inserire o accogliere nelle legislazioni nazionali, ma quand’anche ciò dovesse accadere non saremmo ancora di fronte ad una politica economica europea.
     A questi fini sono stati avanzate ipotesi di cambiamento dell’assetto istituzionale europeo che consentano una più stretta direzione di tipo federale nei confronti dei paesi dell’Eurozona. Ciò presuppone un governo centrale dotato di una capacità di bilancio alquanto elevata e con un ruolo macroeconomico, e cioè in grado di effettuare spese e imporre tasse anticicliche, sulla falsariga della welfare clause della costituzione americana, non a caso inserita a fronte della debolezza finanziaria della confederazione.
     Altrimenti detto, si tratterebbe di mettere in condizione le Istituzioni europee di realizzare la politica di pareggio del bilancio europeo in relazione a quella degli Stati nazionali, di modo che il bilancio dell’Unione possa ammortizzare automaticamente gli shock nazionali attraverso un'azione discrezionale e una stabilizzazione dei trasferimenti agli Stati: una siffatta politica concretizzerebbe la solidarietà europea, contribuendo così a rafforzare l'Unione stessa.
    Tuttavia, una simile prospettiva non pare concretamente praticabile, al momento attuale della capacità politica europea; infatti, il bilancio europeo si aggira intorno all'1% del PIL, appena un quinto della spesa pubblica totale e nessuno, nemmeno gli integrazionisti europei più convinti, pensa che possa raggiungere il 5% del PIL, anzi è più probabile che diminuisca. Ma anche un bilancio UE pari al 5% del PIL sarebbe insufficiente a rivestire un ruolo macroeconomico significativo; basti fare il confronto con la percentuale di PIL che è assorbita dal bilancio federale statunitense che è pari a circa il 20%.
     Di conseguenza, è da chiedersi se non si debba continuare con le politiche perequative europee, basate sui fondi, al fine di ridurre le differenze di reddito tra le diverse parti dell’Europa. Si tratterebbe cioè di una diversa forma di solidarietà, che esiste di già nell’UE, per la quale i fondi per lo sviluppo regionale sono destinati alle regioni più povere con l'obiettivo di incentivarne la crescita.
     Ora, questi trasferimenti hanno accelerato la convergenza, quando sono andati a buon fine (come, ad esempio, in diverse province spagnole), ma sono stati inefficaci quando sono andati sprecati (come in Grecia). Si sono così alimentati dubbi sulla loro utilità concreta. Inoltre, l’allargamento ha reso meno efficace l’utilizzo di questo strumento per i limiti quasi naturali dei fondi medesimi e, politicamente, ha reso particolarmente invisi i fondi agli Stati membri più ricchi che dovrebbero finanziare in perpetuo le regioni deboli dell’Unione.
     Che fare, allora?
    Per l’Eurozona la necessità di una efficace solidarietà nasce dalla salvaguardia della comune moneta e serve a dare forza al sistema anche se alcuni paesi sono in difficoltà. Occorre, però, riflettere che senza un bilancio europeo pesante o un costante incremento dei trasferimenti, non si realizza alcuna solidarietà.
     Le misure più accettabili che considerano la politica economica europea come un potere di direzione dell’economia da parte delle Istituzioni richiede una riduzione della sovranità nazionale a favore di quella europea e gli Stati nazionali anche se maldisposti, oggi, sembrano comprendere questa comune necessità e ciò basta al momento per continuare ad andare avanti nella ricerca. Se ciò dovesse, per esempio, comportare un vaglio da parte dell'UE dei bilanci nazionali, prima della loro approvazione nei parlamenti, o misure diverse, quello che conta è che ormai sussiste la consapevolezza della necessità di misure di coordinamento tra gli Stati anche se la effettiva accettazione delle loro conseguenze non sempre si manifesta.
     Come è stato detto da Jean Piani-Ferry, “Gli europei hanno iniziato ad assemblare i mattoni per costruire un nuovo edificio, ma senza essersi prima accordati sulle dimensioni e sul modello”. 

     3. Altri aspetti della crisi europea rimarranno fuori dall’orizzonte del nostro seminario; in particolare, la continua debolezza della politica estera e della politica di difesa comune.
     Il seminario è stato elaborato in una prospettiva nella quale l’aspetto giuridico, l’aspetto economico, quello sociale e, particolarmente, quello filosofico devono costituire il centro della riflessione comune della nostra rete.
     La scelta è stata dettata dalla necessità di comprendere come l’assetto istituzionale si combini con la questione economica europea e quale forza possa trarre l’Europa dalla propria identità, dalle proprie tradizioni, dalle sue eredità culturali, religiose e umanistiche.
     La crisi libica, come già la guerra del Golfo, rimette in evidenza che le federazioni misurano la loro nascita e la loro affermazione, non solo con l’unificazione del mercato interno, ma anche con quella della politica estera e della capacità militare.
     Qui la condizione dell’Europa è ancora infelice, perché il trattato di Lisbona ha compiuto solo piccoli passi in avanti, ed anche perché quelle cariche rappresentative, come il Presidente del Consiglio europeo e l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nelle quali avrebbe dovuto prendere corpo il carisma dell’Unione europea sono risultate sottostimate, considerate secondarie, attribuite a figure politiche grigie.
     Avremo modo certamente di parlarne in un prossimo seminario della rete, e abbiamo la speranza che in Europa si possa fare meglio. Per il momento, la nostra riflessione può partire sui temi considerati e sono certo che relazioni e dibattito costituiranno un approfondimento di consistente portata. 

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Nota
* Introduzione al Convegno La crisi europea. Interpretazioni e risposte, tenutosi nei giorni 24-25 marzo 2011, presso la Sala del Pentagono del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Roma, organizzato dall’ISSiRFA – Istituto di Studi sui sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie “Massimo Severo Giannini”. L’iniziativa è parte della Settimana del diritto del 2011, promossa dall’Ufficio Pastorale Universitaria - Vicariato di Roma, in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e con il Consiglio Nazionale delle Ricerche.

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