AVVERTENZA: Relazione presentata al seminario su Meccanismi e tecniche di normazione fra livello comunitario e livello nazionale e subnazionale, Teramo, 28-29 aprile 2006, del quale sono in stampa gli atti nella collana DPCE-Convegni. La relazione è frutto di una comune riflessione sul tema che ne è oggetto; G. Parodi (Professore ordinario di Diritto pubblico comparato nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia) ha provveduto alla stesura della Parte I, M. E. Puoti (Magistrato di Cassazione, Vice Capo di Gabinetto del Ministro per le Politiche Europee) alla stesura della Parte II.
 
Il presente contributo è dedicato alla memoria di Giuseppe G. Floridia.
 
 
 
Sommario:
 
Parte I. Profili costituzionali e di tecnica legislativa
 
Parte II. La prassi recente
Allegato: Tabella riepilogativa delle decisioni emesse dalla Commissione nei confronti dell’Italia il 4aprile 2006
 
 
 
Parte I
Profili costituzionali e di tecnica legislativa
 
1. I rapporti tra fase ascendente e discendente.
 
Con l’approvazione della legge n. 11 del 2005 e con l’adozione, in Conferenza Stato-Regioni, dei primi strumenti cooperativi di attuazione dell’art. 5 della legge n. 131 del 2003 si sono, almeno in parte, realizzate le condizioni per sottoporre ad una prima verifica un assunto consolidato, indotto, probabilmente, anche dall’osservazione comparatistica.
Si tratta dell’assunto, fatto proprio dalla dottrina largamente prevalente, in base al quale l’efficienza dell’attività di attuazione del diritto comunitario da parte delle Regioni sarebbe, per così dire, direttamente proporzionale alla misura del loro coinvolgimento nella cosiddetta fase ascendente.
A questo riguardo, in un documento della Conferenza dei Presidenti delle Regioni (ora Conferenza delle Regioni e delle Province autonome), successivo all’entrata in vigore del nuovo Titolo V, veniva registrato un esercizio soltanto “frammentato” ed “episodico” della competenza attuativa di cui al quinto comma dell’art. 117 della Costituzione (1) e in dottrina, a distanza di qualche anno dalla novella costituzionale, si è constatato che, rispetto ai compiti relativi alla fase discendente, solo alcune Regioni sono in grado di esprimere una propria organica ed autonoma normativa di attuazione del diritto comunitario (2). Altre Regioni, è stato osservato, potrebbero addirittura preferire che sia lo Stato a provvedere, anche nelle materie di competenza regionale, in attesa dell’attivazione del legislatore periferico (3).
Il quadro delle garanzie di partecipazione alla fase di formazione delle politiche e delle norme comunitarie è ben lontano dalla razionalizzazione operata nelle costituzioni tedesca (art. 23) e austriaca (art. 23d), ed anche dalla disciplina pattizia applicata in Belgio (4). Tuttavia, attraverso una serie di provvedimenti successivi alla revisione costituzionale del 2001, il ruolo regionale nella fase ascendente, rispetto al passato, si è indubbiamente consolidato.
I margini di coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni nella fase di formazione della posizione italiana si sono ampliati, attraverso l’istituto dell’intesa (debole) di cui all’art. 5, c. 4, della legge n. 11 e l’eventuale richiesta al Governo di apporre la riserva di esame in sede di Consiglio dei ministri dell’Unione europea, contemplata dal successivo c. 5.
Più estese sono le garanzie di partecipazione ai tavoli di coordinamento nazionali (art. 5, c. 7), al CIACE e al Comitato tecnico permanente (5).
Di indubbio significato sono poi le forme della partecipazione ai processi decisionali in sede comunitaria, disciplinati dall’art. 5 della legge n. 131, ora attuato dall’Accordo generale di cooperazione sancito dalla Conferenza Stato-Regioni il 16 marzo 2006, anche se, almeno rispetto ai provvedimenti comunitari, per così dire, di routine, sarà probabilmente ancora la burocrazia ministeriale unitamente alla Rappresentanza permanente a prevalere sul livello politico e di raccordo con le Regioni.
L’esperienza dei prossimi anni mostrerà se i nuovi “diritti di partecipazione” (Mittwirkungsrechte) al segmento nazionale ed alle fasi europee dei processi ascendenti avranno significativi riflessi sulla fase discendente a livello regionale, considerata sia sotto il profilo quantitativo, sia sotto il profilo della qualità e della tempestività.
 
2. Le (poche) novità introdotte dalla legge n. 11: A) in materia di attuazione regionale del diritto comunitario.
 
2.1. Limiti.
 
Si registra un sostanziale accordo nel dire che la legge n. 11 non innova in modo sostanziale rispetto alla legge “La Pergola” n. 86 del 1989 (e successive modifiche), per quanto concerne la disciplina dell’attuazione del diritto comunitario nelle materie di competenza regionale.
Anzitutto va notato che l’art. 16, c. 1, primo periodo della legge n. 11 riprende la formula dell’art. 9, c. 1 e 2 della legge “La Pergola”, stabilendo che “le regioni e le province autonome, nelle materie di propria competenza, possono dare immediata attuazione alle direttive comunitarie”. A questo riguardo, si è osservato che il tenore dell’art. 117, primo e quinto comma, ed anche l’art. 120, secondo comma, avrebbero dovuto suggerire al legislatore ordinario formule più cogenti di quella meramente facoltizzante.
Dalle richiamate disposizioni costituzionali risulta infatti non soltanto un sistema di limiti negativi, ma anche un obbligo positivo di adempimento degli obblighi comunitari, che grava sia sul legislatore statale, sia su quello regionale, sebbene solo il primo sia responsabile a livello comunitario.
Sotto questo profilo, appare pertanto più appagante la formulazione dell’art. 8, c. 1, della legge n. 11, a norma del quale “lo Stato, le regioni e le province autonome, nelle materie di propria competenza legislativa, danno tempestiva attuazione alle direttive comunitarie”.
Il citato art. 8, c. 1, nel limitare i compiti regionali alle materie di competenza legislativa, implica – in virtù del parallelismo tra funzioni legislative e regolamentari regionali – il riconoscimento del ruolo (eventuale) della fonte secondaria regionale, mentre tace in ordine all’attuazione in via amministrativa, nei limiti in cui tale forma di attuazione sia possibile.
Né, sotto il profilo dell’attuazione regolamentare e amministrativa, la legge n. 11 fornisce indicazioni in merito ai rapporti tra attribuzioni regionali e locali, che vanno pertanto inseriti nel quadro delineato in generale dagli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, della Costituzione.
Per ciò che concerne il limite dei princìpi fondamentali, è sufficiente notare che – come nel quadro della precedente l. n. 86 del 1989 – la legge n. 11, all’art. 9, c. 1, lettera f) stabilisce che la legge comunitaria reca le “disposizioni che individuano i princìpi fondamentali nel rispetto dei quali le regioni e le province autonome esercitano la propria competenza normativa per dare attuazione o assicurare l’applicazione di atti comunitari nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione” (6).
Il legislatore statale ha fino ad ora manifestato la tendenza a non conformarsi a tale modello di predeterminazione espressa dei princìpi fondamentali in sede di legge comunitaria annuale, mostrando di preferire un implicito rinvio ai princìpi direttamente desumibili dalla legislazione statale vigente e dalle stesse direttive comunitarie, in conformità ad alcune pronunce della Corte costituzionale (7).
In questo senso pare doversi interpretare la legge comunitaria 2004 (8), laddove genericamente prevede il “rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e, nelle materie di competenza concorrente, dei princìpi fondamentali stabiliti dalla legislazione dello Stato” (9).
Diversamente orientato è il disegno di legge comunitaria per il 2006, approvato dal Consiglio dei ministri il 10 febbraio 2006, che reca una puntuale individuazione dei principi fondamentali in alcune materie di competenza concorrente (10).
Per quanto riguarda l’attuazione in via amministrativa, qualche perplessità ha suscitato la disciplina contenuta nel comma 4 dell’art. 16 della legge n. 11 (11).
Si tratta di una disposizione che ripropone la funzione statale di indirizzo e coordinamento nell’àmbito dell’attuazione in via amministrativa del diritto comunitario, nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato. La disciplina introdotta dal comma richiamato prevede in effetti atti statali di indirizzo e coordinamento rispetto all’esercizio di funzioni amministrative che, data l’assenza di un necessario parallelismo tra funzioni legislative ed amministrative, dovrebbero ritenersi di spettanza regionale anche in sede di attuazione del diritto comunitario e pur nell’àmbito delle materie elencate al secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, qualora i princìpi di sussidiarietà e adeguatezza non ne impongano l’accentramento a livello statale (12).
 
2.2. “Norme di procedura”.
 
Per ciò che concerne le norme di procedura di cui all’art. 117, quinto comma, era apparso ragionevole riferire le medesime, prioritariamente, alla fase ascendente (13).
Ma la giurisprudenza costituzionale ne ha fornito un’interpretazione estensiva, ed anzi le ha ricondotte ad una competenza del legislatore statale particolarmente incisiva e non limitata ai princìpi, “ulteriore e speciale” rispetto a quelle contemplate negli altri commi dell’art. 117, diversa da quella di cui al terzo comma, in materia di “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni” (14).
Nella citata sentenza n. 239 del 2004, concernente l’art. 5 della legge n. 131 del 2003, la Corte non riferisce esplicitamente le norme di procedura statali – alle quali l’art. 117, quinto comma, fa rinvio – alla fase discendente, non considerata dall’impugnato art. 5. Ma tale estensione è probabilmente implicita e confermata dalla sent. n. 238 del 2004, che ha riportato a tale categoria alcune disposizioni dell’art. 6 della legge “La Loggia”, concernenti l’attuazione regionale degli accordi internazionali (15). Va detto peraltro che, nella legge n. 11, le norme di procedura concernenti la fase discendente non sono molte, né si tratta di disposizioni particolarmente incisive.
Tra le norme di procedura latamente intese può includersi la previsione che “nelle materie di loro competenza le regioni e le province autonome verificano lo stato di conformità dei propri ordinamenti in relazione ai suddetti atti [normativi e di indirizzo emanati dagli organi dell’Unione europea e delle Comunità europee] e ne trasmettono le risultanze alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le politiche comunitarie con riguardo alle misure da intraprendere” (16).
A tale adempimento, sempre in una logica di leale cooperazione volta ad evitare l’insorgere di responsabilità statali, si aggiunge il compito della Conferenza delle Regioni di predisporre, entro il 25 gennaio di ogni anno, affinché sia allegato alla relazione al disegno di legge comunitaria, “l’elenco degli atti normativi con i quali nelle singole regioni e province autonome si è provveduto a dare attuazione alle direttive nelle materie di loro competenza, anche con riferimento a leggi annuali di recepimento eventualmente approvate dalle regioni e dalle province autonome” (art. 8, c. 5, lettera e).
La citata disposizione fa evidentemente riferimento allo strumento “eventuale” della legge comunitaria regionale.
Dal un punto di vista più strettamente procedurale, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge comunitaria 2000 (17), il comma 2bis dell’art. 9 della legge n. 86 del 1989 prevedeva che i provvedimenti regionali e provinciali – da comunicare comunque al Dipartimento per le politiche comunitarie – recassero l’indicazione esplicita del numero identificativo delle direttive oggetto di attuazione. Tale disposizione della legge n. 86 risulta sostanzialmente trasposta nell’art. 16, comma 2, della legge n. 11. 
Garanzie procedurali di coinvolgimento delle Regioni nella fase discendente sono previste dall’art. 8, c. 2, il quale prevede l’informazione delle Regioni, per il tramite delle Conferenze dei presidenti di giunta e di assemblea, in merito agli “atti normativi e di indirizzo emanati dagli organi dell’Unione europea e delle Comunità europee”. Sotto il profilo delle garanzie di partecipazione attraverso la Conferenza Stato-Regioni, la legge n. 11 consente inoltre alle Regioni di esprimere un parere in merito al disegno di legge comunitaria, in termini analoghi alla precedente legge “La Pergola” (art. 10, c. 2, lettera b-bis, aggiunta dalla l. n. 128 del 1998).
 
3. Segue. B) in materia di poteri sostitutivi statali.
 
In materia di poteri sostitutivi statali in caso di inadempienza, la legge n. 11 si conforma all’orientamento dottrinale e giurisprudenziale favorevole al perdurante ricorso al regolamento cedevole, pur con le garanzie e gli adattamenti resi necessari dalla disciplina costituzionale introdotta nel 2001.
L’art. 16, comma 3, indica la strada maestra della sostituzione tramite atto legislativo, rinviando ai requisiti previsti per la sostituzione in via regolamentare, senza tuttavia prevedere alcun passaggio in Conferenza Stato-Regioni (18).
La possibilità di fare ricorso a regolamenti governativi e ministeriali nelle materie di competenza legislativa regionale era ammessa dall’art. 9, comma 4, della legge n. 86 del 1989 (19) e dalla giurisprudenza costituzionale in base alla quale, al fine di intervenire in via sostitutiva, anche preventiva, per garantire l’attuazione delle direttive comunitarie, lo Stato poteva ricorrere in via suppletiva sia a regolamenti governativi (20), sia a regolamenti ministeriali (21), che non dovevano considerarsi lesivi delle attribuzioni regionali in quanto “cedevoli” e destinati a lasciare posto alle norme regionali, una volta intervenute.
Nonostante la previsione del sesto comma dell’art. 117 Cost., che attribuisce allo Stato la potestà regolamentare solo nelle materie di competenza legislativa statale esclusiva, la prassi dei regolamenti statali cedevoli continua ad essere giustificata – anche sulla base dell’art. 117, quinto comma – in quanto necessaria per evitare l’insorgere di una responsabilità comunitaria dello Stato (22).
Nonostante il richiamato orientamento dottrinale e giurisprudenziale – pur in assenza di nuovi ed espliciti interventi della Corte costituzionale – anche dopo la legge n. 11, che ha fortemente valorizzato la versione “garantista” e collaborativa della sostituzione regolamentare, le leggi comunitarie più recenti hanno preferito il ricorso al decreto legislativo, allo scopo apparente di evitare tensioni e conflittualità con le Regioni e le Province autonome.
Qualche ambiguità presenta l’opzione accolta nell’ultima legge comunitaria, n. 29 del 2006, la quale, all’art. 1, c. 7, stabilisce che “in relazione a quanto disposto dall’art. 117, quinto comma, della Costituzione e dall’art. 16, comma 3, della legge 4 febbraio 2005, n. 11, si applicano le disposizioni di cui all’art. 11, comma 8, della medesima legge 11 del 2005”.
Attraverso il rinvio all’art. 16, comma 3, della l. n. 11, il legislatore ha richiamato il meccanismo di sostituzione di tipo legislativo, mentre, attraverso il rinvio all’intero art. 11, c. 8, ha richiamato il meccanismo sostitutivo affidato alla fonte regolamentare statale. Probabilmente, la disposizione in discorso dell’ultima legge comunitaria intende non già abilitare la fonte secondaria statale in funzione sostitutiva, in via generale, anche laddove il ricorso a tale fonte non sarebbe consentito; bensì, piuttosto, rinviare alle garanzie procedurali di cui all’art. 11, comma 8, richiamate, limitatamente al secondo periodo di tale comma, dall’art. 16, comma 3 della legge n. 11 (23).
Ma la circostanza che il comma 8 dell’art. 11 sia richiamato integralmente dalla legge comunitaria 2005 sembra implicare il proposito della stessa di prevedere anche la garanzia di coinvolgimento delle Regioni di cui al terzo periodo del citato comma 8, che richiede il “preventivo esame” da parte della Conferenza Stato-Regioni, con un rafforzamento della partecipazione regionale al procedimento di adozione di misure sostitutive di rango legislativo (24).
Si tratterebbe peraltro – sotto il profilo della tecnica legislativa – di una disciplina non del tutto coerente con la funzione della legge n. 11, la quale, attuando l’art. 117, quinto comma, per quanto riguarda le norme di procedura e la disciplina dei poteri sostitutivi, si presenta come legge, provvista di una particolare copertura costituzionale, modificabile o sostituibile ma, tendenzialmente, non derogabile, di volta in volta, dalle singole leggi comunitarie (25).
Tornando alla disciplina contenuta nelle legge n. 11, c’è da chiedersi quale reale praticabilità possa avere la pur comprensibile e condivisibile previsione che impone alla fonte statale sostitutiva (decreto legislativo, o regolamento) di esplicitare la natura sostitutiva e cedevole delle disposizioni in essa contenute (artt. 11, c. 8, e 16, c. 3), prevista anche nelle leggi comunitarie del 2002 e del 2004 (26). Da un lato, infatti, vi è motivo di dubitare che un provvedimento statale sostitutivo di rango primario possa ritenersi illegittimo in quanto sprovvisto dell’espressa indicazione circa la sua natura sostitutiva e cedevole. Dall’altro lato, è possibile che l’autoqualificazione risulti discutibile, in quanto non è sempre agevole separare nettamente, nell’àmbito di materie complesse, gli aspetti di competenza statale da quelli di competenza regionale.
Quest’ultimo inconveniente viene superato nella prassi attraverso l’inserimento di una “clausola di cedevolezza” all’interno del decreto legislativo adottato in materia di competenza regionale. In tal caso, non è l’atto legislativo che, nella sua interezza, viene autoqualificato come sostitutivo e cedevole, né sue disposizioni “nominate”, ma solo le disposizioni, innominate, destinate ad incidere nelle materie di competenza regionale, attraverso una clausola di cedevolezza che tuttavia – e difficilmente potrebbe essere diversamente – rimette all’interprete l’individuazione delle norme statali cedevoli (27).
Più rara, nella prassi recente, l’adozione di regolamenti sostitutivi (28), essendo elevato il timore di generare possibili conflitti.
Importante, in tema di poteri sostitutivi, è poi la previsione che impone alle Regioni di indicare espressamente la natura attuativa di un atto normativo, attraverso l’obbligatoria indicazione della direttiva che si recepisce. Si tratta infatti di un adempimento necessario anche per un ordinato avvicendamento tra fonti statali sostitutive e successive fonti regionali di trasposizione, in assenza del quale, probabilmente, sarebbe in sede applicativa ancora più difficile accertare quando il provvedimento statale debba ritenersi superato da una fonte regionale “di attuazione”.
Il sistema disciplinato dalla legge n. 11 non pare peraltro lasciare spazio ad un sindacato giurisdizionale sulla corretta successione nel tempo di provvedimenti statali e regionali, quanto meno in presenza di una legge regionale che esplicitamente si presenti come attuativa di una direttiva comunitaria, rimanendo aperta – in caso di non corretta trasposizione – solo la strada del giudizio di costituzionalità, in riferimento all’art. 117, primo, terzo (in caso di violazione di princìpi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente) e quinto comma.
Ma su quest’ultimo aspetto si tornerà fra breve (29).
 
4. Il ruolo del CIACE rispetto all’esercizio dei poteri sostitutivi statali.
 
L’art. 2, comma 2, del citato Regolamento per il funzionamento del Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (30) disciplina una serie di ipotesi nelle quali il CIACE può, nell’ambito delle proprie funzioni, intervenire al fine di consentire il puntuale adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
Ai presenti fini interessa soffermarsi brevemente su un aspetto in particolare, e precisamente sulla possibilità, per il Comitato, di “formulare valutazioni e proposte ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi previsti dalla legislazione vigente, esprimendosi sulla opportunità di intervenire con provvedimento legislativo” (art. 2, c. 2, lettera d).
Si tratta di una previsione opportuna, inserita nel regolamento al fine di evitare i problemi che, in alcuni casi, possono derivare dall’esercizio di poteri sostitutivi in forma regolamentare. In dottrina si è infatti ripetutamente sottolineato come sia dubbia l’idoneità della fonte regolamentare statale ad attuare in via sostitutiva il diritto comunitario in materie di competenza legislativa regionale, in presenza di previgenti leggi regionali di contenuto diverso e incompatibile (31). E ciò non solo, o non tanto, sotto il profilo della legittimità dell’intervento statale sostitutivo, bensì dal punto di vista della capacità della fonte regolamentare statale di prevalere sulla previgente legislazione regionale.
D’altro canto, anche chi ammette la prevalenza sulla legge regionale del regolamento governativo “cedevole”, riconosce che la sostituzione in forma regolamentare non può ammettersi in materie coperte da riserva assoluta di legge, o in materie coperte da riserva relativa, qualora i princìpi ed criteri necessari per circoscrivere la discrezionalità regolamentare non siano desumibili dalla legge statale – eventualmente dalla stessa legge comunitaria – o, quanto meno, dalla medesima normativa comunitaria oggetto di trasposizione (32).
Per tale ragione, non è inutile che il Governo, anche nella sede del CIACE, possa essere sensibilizzato sulla necessità, o sull’opportunità, di fare ricorso alla sostituzione in forma legislativa.
 
5. La disciplina statutaria e legislativa regionale dell’adempimento degli obblighi comunitari.
 
Se rispetto alla partecipazione regionale alla fase ascendente il ruolo della singola Regione e dei suoi organi di governo risulta inevitabilmente ridimensionato dalla necessaria centralità del sistema delle Conferenze, rispetto alla fase discendente gli spazi di intervento e le responsabilità della singola Regione appaiono, per ragioni evidenti, decisamente più rilevanti, cosicché si estende l’àmbito rimesso alla fonte statutaria e legislativa regionale.
In ordine all’attuazione legislativa degli atti normativi comunitari, la maggior parte degli statuti non prevede né lo strumento della legge comunitaria regionale, per l’organizzazione e la disciplina periodica degli strumenti normativi ed amministrativi necessari per l’adempimento degli obblighi comunitari all’interno dell’ordinamento regionale; né uno strumento analogo, comunque diretto a disciplinare il periodico recepimento delle direttive; né, infine, una sessione comunitaria del Consiglio.
Non sono tuttavia pochi i casi nei quali tali strumenti specifici sono invece previsti e compiutamente disciplinati.
Lo strumento della legge comunitaria regionale è previsto dagli statuti della Regione Lazio (33) e della Regione Piemonte (34). Molto articolata è la disciplina della legge comunitaria regionale nella legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 2 aprile 2004, n. 10, “Disposizioni sulla partecipazione della Regione Friuli-Venezia Giulia ai processi normativi dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari”. Uno strumento analogo alla legge comunitaria regionale, diretto a disciplinare il periodico recepimento delle direttive, è previsto dallo Statuto della Regione Emilia-Romagna (35).
Una sessione comunitaria del Consiglio è prevista dallo Statuto della Regione Piemonte (36) e dalla legge della Regione Sardegna n. 20 del 3 luglio 1998, recante “Norme sulla partecipazione regionale ai processi decisionali comunitari e sull’esecuzione degli atti dell’Unione Europea e abrogazione della legge regionale 3 novembre 1995, n. 25”.
La necessità di assicurare l’attuazione degli atti normativi comunitari, con le connesse responsabilità, regionali e statali, ha indotto in qualche caso il legislatore statutario a limitare, nella materia di cui si tratta, il ricorso agli istituti di democrazia diretta, in armonia, per ciò che concerne i limiti all’autonomia referendaria, con la giurisprudenza costituzionale sul referendum abrogativo disciplinato dall’art. 75 Cost. (37).
Per quanto riguarda il riparto interorganico delle funzioni regolamentari, le esigenze di tempestività nell’adeguamento alle normative comunitarie ed il carattere solitamente “tecnico” di queste ultime, nelle materie non riservate alla legge, hanno suggerito al legislatore statutario, in alcune Regioni, di attribuire alla Giunta la competenza ad approvare, a determinate condizioni e previo parere obbligatorio della Commissione consiliare competente, i regolamenti regionali di esecuzione e di attuazione degli atti normativi comunitari.
Pur non prevedendo una legge comunitaria regionale, né un’apposita sessione comunitaria del Consiglio, alcuni statuti affermano in termini generali la competenza del Consiglio alludendo evidentemente, in via prioritaria, alle attribuzioni legislative del medesimo (38), assegnando invece alla Giunta, qualora una disciplina regolamentare regionale sia possibile, il compito di adottare, previo parere obbligatorio della commissione consiliare competente, regolamenti di attuazione ed esecuzione del diritto comunitario, ipotizzabili sia per il recepimento di direttive che non comportino modificazioni di leggi e che non versino in materie coperte da riserva di legge, sia per l’esecuzione di regolamenti comunitari “non autosufficienti” (39).
A questo riguardo, occorre osservare come il concreto operare di tale riparto delle funzioni tra Consiglio e Giunta risulti sostanzialmente rimesso all’iniziativa ed all’interpretazione di tali organi, con il pericolo di qualche tensione tra legislativo ed esecutivo regionale. L’eventualità di un conflitto positivo di competenza e di una conseguente sovrapposizione di atti costituisce un inconveniente che, in alcuni Statuti regionali, si cerca di prevenire stabilendo che i regolamenti di Giunta in funzione di attuazione comunitaria sono ammissibili solo se, di volta in volta, espressamente previsti dalla legge regionale (40).
D’altro canto, questa differente soluzione statutaria potrebbe comportare inconvenienti diversi, sotto il profilo dell’efficiente e tempestiva attuazione ed esecuzione di atti normativi comunitari non rientranti in materie riservate alla legge. Si tratta di profili di indeterminatezza della disciplina statutaria destinati a trovare soluzione nella normativa regionale di attuazione, di tipo sia legislativo che regolamentare interno, oltre che nella prassi degli organi di governo della Regione (41).
 
6. Inerzia regionale, non corretta attuazione e violazione di norme comunitarie tra “inadempienza” e “mancato rispetto”.
 
Qualora dovessero avere un séguito significativo le disposizioni statutarie e legislative regionali che hanno introdotto la strumentazione sopra considerata, relativa all’adempimento degli obblighi comunitari, le linee di tensione tra Stato e Regioni nella fase discendente potrebbero assumere una diversa e inedita fisionomia.
Fino ad oggi, infatti, molte Regioni hanno in larga misura confidato sull’attuazione del diritto comunitario disposta con atto legislativo statale anche in materie di loro competenza, riservandosi di intervenire successivamente con propri provvedimenti legislativi di attuazione, destinati a prevalere sulla legislazione nazionale cedevole.
Si è notato che l’attività legislativa regionale nel campo dell’attuazione comunitaria non è mai stata sistematica e massiccia. Nondimeno, se i richiamati strumenti regionali di attuazione del diritto comunitario dovessero avere lo sviluppo che alcuni ipotizzano, le occasioni di contrasto tra lo Stato, responsabile e garante per il pieno adempimento degli obblighi comunitari, e le Regioni, potrebbero spostarsi dal terreno abituale dell’inadempienza per inerzia regionale a quello, meno consueto, della non corretta attuazione delle direttive e della violazione di norme e princìpi comunitari ad opera del legislatore regionale (42).
In altri termini, l’elemento maggiormente meritevole di segnalazione è costituito dal probabile spostamento della conflittualità intersoggettiva dal momento della sostituzione “anticipata” del legislatore regionale, mediante provvedimenti adottati a norma dell’art. 117, quinto comma, a quello delle iniziative governative successive in caso di scorretta attuazione o violazione della normativa comunitaria.
Non è improbabile che le Regioni nelle quali non vi sono le condizioni statutarie e legislative, ma anche politiche ed organizzative, per una efficiente organizzazione e predisposizione degli strumenti per l’adempimento degli obblighi derivanti dalle norme comunitarie, continueranno ad accettare la sostituzione anticipata ad opera soprattutto dei decreti legislativi previsti dalla legge comunitaria annuale.
Le altre Regioni, più attrezzate sul terreno degli strumenti della fase discendente, svilupperanno invece altrettante e necessariamente differenziate normative di attuazione, dalle quali il Governo potrà trarre occasione di impugnazione in via principale, in riferimento all’art. 117, primo comma, per violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario; ovvero – in presenza di un’attuazione regionale affidata alla fonte regolamentare o al provvedimento amministrativo – ragioni di attivazione delle misure sostitutive previste all’art. 120, secondo comma, della Costituzione e disciplinate dall’art. 8 della legge n. 131 del 2003, qualora si ritenga ammissibile l’intervento sostitutivo a competenze regionali esercitate, ciò che nella materia comunitaria dovrebbe essere, se si vuole assegnare un qualche significato al menzionato art. 120, secondo comma, nella parte in cui fa riferimento al mancato rispetto della normativa comunitaria, posto che le ipotesi di inerzia trovano già la loro disciplina nell’àmbito dell’art. 117, quinto comma, e della legislazione di attuazione del medesimo.
I casi di non corretta attuazione o violazione del diritto comunitario attraverso leggi regionali che formalmente si autoqualificano come attuative di una determinata direttiva solo astrattamente possono essere riportati al quinto comma dell’art. 117, nel quadro di una interpretazione ampia – peraltro del tutto plausibile – di inadempienza, e al “mancato rispetto” di cui all’art. 120, II comma, Cost.
Infatti, per quanto riguarda l’attuazione dell’art. 117, quinto comma, la legge n. 11 sembra contemplare solo rimedi legislativi o regolamentari di tipo anticipato, in caso di “inerzia” regionale (diversamente, rispetto all’attuazione del medesimo quinto comma, ma con riferimento agli accordi internazionali, l’art. 6, commi 1 e 6, della legge n. 131 del 2003 rinvia problematicamente all’art. 8, commi 1, 4 e 5 della medesima legge n. 131, “in quanto compatibili”) (43).
Per quanto riguarda invece le misure di cui all’art. 120, secondo comma, della Costituzione – pur ipotizzandone l’adozione, ciò che peraltro non tutti ammettono (44), in presenza di provvedimenti regionali contrari al diritto comunitario di natura regolamentare o amministrativa – rimane fortemente dubbio il loro impiego in presenza di leggi regionali contrarie al diritto comunitario per le quali sia scaduto il termine per l’impugnativa in via principale, sebbene la citata disciplina legislativa di attuazione faccia riferimento a provvedimenti sostitutivi del Governo “anche normativi”.
In caso di mancato rispetto del diritto comunitario da parte di una   legge regionale, alcuni ipotizzano il ricorso alla decretazione d’urgenza (45). Tuttavia, neppure tale strumento pare incluso tra quelli contemplati dagli artt. 120 Cost. e 8 l. n. 131, che delineano un sistema di sostituzione interamente affidato al Governo, senza prevedere alcun coinvolgimento delle Camere (46).
Problematico appare altresì il ricorso al regolamento cedevole, basato non sull’art. 117, quinto comma, ma sulle disposizioni appena richiamate, e non solo in presenza di riserve di legge.
In primo luogo, infatti, la giustificazione giurisprudenziale e dottrinale di tale eccezionale (rispetto all’art. 117, sesto comma) rimedio fa riferimento alle ipotesi di inerzia del legislatore regionale, distinte da quella di violazione di norme comunitarie, che configurano, anche secondo la giurisprudenza costituzionale, un’ipotesi di incostituzionalità per violazione di norma interposta, in riferimento all’art. 117, primo comma (47).
In secondo luogo, una sostituzione in via regolamentare – ed anche legislativa, peraltro – della legge regionale contraria al diritto comunitario presupporrebbe una forma del tutto anomala di privazione di efficacia della medesima, non contemplata dal sistema costituzionale ed elusiva dei termini per impugnare la legge regionale in via principale.
In terzo luogo, qualora si teorizzasse la cedevolezza dei provvedimenti sostitutivi – regolamentari o legislativi – di cui si tratta, si finirebbe per promuovere l’avvicendarsi di leggi regionali di attuazione ed atti sostitutivi del Governo in una sequenza destinata ad interrompersi solo attraverso l’intervento della Corte costituzionale, chiamata ad intervenire dalla Regione sostituita, o dal Governo, qualora la Regione legiferi nuovamente in modo ritenuto scorretto.
Un sistema tutto sommato antieconomico e inefficiente.
Quanto precede evidenzia una lacuna nel sistema dei rimedi atti ad evitare l’esposizione dello Stato a responsabilità in ambito comunitario in caso di scorretta attuazione, o di violazione, del diritto comunitario, non prontamente censurata dal Governo attraverso il ricorso ex art. 127 della Costituzione e rende decisivo il potere governativo di impugnazione in via principale determinandone, tra l’altro, una qualche, parziale, trasformazione.
A tale riguardo, infatti, è lecito domandarsi se, in riferimento ad un parametro come il primo comma dell’art. 117 e in assenza di strumenti alternativi idonei ad evitare l’insorgere di una responsabilità dello Stato di fronte all’Unione europea, si possa ritenere facoltativa o discrezionale l’impugnativa in via principale e rinunciabile il ricorso, qualora la Regione non abbia nel frattempo provveduto alla eliminazione della legge contraria al diritto comunitario (48).
Come si è già avuto occasione di osservare, il mancato rispetto degli obblighi comunitari assunti dallo Stato, anche alla luce del primo comma dell’art. 117, che rinvia all’“ordinamento comunitario”, imporrà al Governo di impugnare ogni legge regionale in contrasto non solo con “atti normativi comunitari”, ma con l’intero acquis communautaire (49), nell’àmbito di un controllo esteso, tra l’altro, al rispetto da parte del legislatore regionale dell’obbligo di astenersi dall’adottare provvedimenti idonei a compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva comunitaria, anche prima della scadenza del termine per la sua attuazione (50).
Nel caso in cui il Governo non abbia impugnato la legge regionale in via principale, possono operare rimedi ulteriori, nessuno dei quali, forse, risolutivo, e tuttavia degni di attenzione.
In primo luogo, il rimedio costituito dalla non applicazione della legge regionale contraria a norme comunitarie direttamente applicabili.
In secondo luogo, non vanno escluse a priori forme cooperative di risoluzione del problema determinato dalla violazione o non corretta attuazione del diritto comunitario ad opera delle Regioni, ispirate al principio di leale collaborazione, allo scopo di evitare l’avvio di procedure di infrazione, o di determinarne l’interruzione.
Constatata l’impraticabilità di tali rimedi, ed in presenza di una eventuale sentenza di condanna della Corte di giustizia in esito ad una procedura di infrazione occasionata dalla norma regionale contraria al diritto comunitario, andrebbe valutata l’applicabilità dell’art. 10, comma 3, della legge n. 11, a norma del quale “il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le politiche comunitarie può proporre al Consiglio dei Ministri l’adozione dei provvedimenti, anche urgenti, necessari a fronte di atti normativi e di sentenze degli organi giurisdizionali delle Comunità europee e dell’Unione europea che comportano obblighi statali di adeguamento solo qualora la scadenza risulti anteriore alla data di presunta entrata in vigore della legge comunitaria relativa all’anno in corso”.
Tale sistema può apparire tardivo e inappagante. Nondimeno, si tratta di una soluzione tutto sommato più equilibrata di quella accolta in alcuni ordinamenti federali nei quali la dichiarazione di inadempimento e la condanna dello Stato membro da parte del giudice comunitario costituiscono condizione necessaria per l’esercizio di poteri sostitutivi federali anche rispetto all’ipotesi dell’inadempienza.
Notevolmente garantita è, in particolare, la posizione dei Länder austriaci (51) e delle regioni e comunità belghe (52), attraverso previsioni costituzionali che ammettono l’esercizio di poteri sostitutivi da parte degli organi federali solo dopo l’accertamento dell’inadempimento o della violazione ad opera della Corte di giustizia (53).
Al di là di quest’ultima ipotesi e alla luce del diritto vigente, il giudizio in via di azione risulta forse l’unico strumento a disposizione del Governo per intervenire in caso sia di violazione, sia di inadeguata o scorretta attuazione delle norme comunitarie non self-executing, o comunque non autosufficienti (54). E in effetti, nel periodo recente, la Corte costituzionale è ripetutamente intervenuta per controllare la legittimità della legislazione regionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, sotto il profilo del rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (55).
In tale situazione non pare più eludibile la questione della necessità che, in presenza dei presupposti richiesti, la Corte costituzionale, come giurisdizione nazionale di ultima istanza, proceda al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, come accade in Austria e in Belgio, dove, rispettivamente il Verfassungsgerichtshof e la Cour d’arbitrage non avvertono un particolare disagio nel promuovere in via pregiudiziale, ove necessario, l’intervento del giudice comunitario.
Nei casi in cui la Corte è chiamata dal Governo ad intervenire in via principale per giudicare della legittimità costituzionale di una legge regionale in riferimento all’art. 117, primo comma, essa è, in effetti, l’unico giudice abilitato ad intervenire, evidentemente in ultima istanza (un ragionamento analogo può riguardare il conflitto di attribuzione, anche se rispetto al conflitto la situazione appare meno grave, rimanendo aperta la possibilità di un giudizio amministrativo parallelo).
Negare alla Regione resistente l’accesso al giudice precostituito dal Trattato ai fini della interpretazione del diritto comunitario che il ricorrente chiede alla Corte di applicare in danno dell’altra parte appare in effetti alquanto inappagante (56).
 
 
Parte II
La prassi recente
 
1. Profili problematici della partecipazione delle Regioni alla fase ascendente.
 
La riforma del Titolo V della Costituzione e le relative leggi di attuazione sono all’origine del profondo mutamento in corso nei rapporti tra enti statali e substatali.
I nuovi criteri di attribuzione delle competenze, delineati dall’art. 117 della Costituzione, il concorso diretto delle Regioni alla formazione degli atti comunitari e la partecipazione di queste ultime all’attività delle istituzioni europee impongono una riflessione sulle forme nelle quali si svilupperà l’intervento regionale.
Tra gli aspetti di maggiore difficoltà interpretativa della disciplina introdotta dalla legge n. 11 del 2005 è, infatti, da annoverare la partecipazione delle Regioni alla fase ascendente, essendo stata prevista una pluralità di interventi, senza però che risulti chiarito il contesto sistematico in cui ciascuno di essi si colloca.
La prima questione che merita di essere esaminata concerne le condizioni cui è sottoposta la presenza delle Regioni nel Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE), istituito dall’art. 2 della citata legge n. 11 del 2005 ed attuato con d.P.C.m. 9 gennaio 2006 e d.M. 9 gennaio 2006 (57).
Con una previsione che ha destato non poche perplessità e che ha generato un ampio dibattito, l’art. 2, comma 2, della legge n. 11 del 2005 ha stabilito che, quando si trattano questioni che interessano anche le Regioni e le Province autonome, alle riunioni del CIACE possono chiedere di partecipare il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano.
Durante i lavori preparatori, le Regioni hanno contrastato tale disposizione per il timore che il CIACE potesse soppiantare il ruolo della Conferenza Stato-Regioni e che si finisse con il sostituire ad essa un diverso sistema di partecipazione delle Regioni, nel quale però si limitava la presenza soltanto al Presidente della Conferenza delle Regioni; benché comprensibile il timore allora manifestato, una lettura coordinata delle diverse disposizioni della legge n. 11 consente, tuttavia, di fugare ogni dubbio, a condizione che si riesca a delineare in maniera organica le varie forme di intervento delle Regioni.
A differenza di quanto è previsto per i ministri, la cui presenza al CIACE è stabilita dalla legge sul fondamento di un criterio oggettivo, rappresentatodalla competenza relativa alle materie oggetto dei provvedimenti e dei temi inseriti all’ordine del giorno, la partecipazione delle Regioni alle riunioni del predetto comitato interministeriale può essere chiesta quando sono trattate “questioni che interessano” le medesime.
La genericità della formula utilizzata dal legislatore, accompagnata dalle considerazioni circa la mancata qualificazione, nella norma in esame, del tipo di interesse e il mancato riferimento ai criteri di ripartizione delle competenze, induce a reputare che la partecipazione possa essere sollecitata su qualunque tema di rilievo, per il quale le Regioni ritengano semplicemente opportuna la propria presenza, sia pure per il tramite del Presidente della Conferenza delle Regioni.
E’, quindi, ipotizzabile che la richiesta possa essere avanzata anche quando all’ordine del giorno siano poste questioni su temi di politica generale, come ad esempio le prospettive finanziarie dell’Unione europea o la questione dell’allargamento a nuovi Paesi. (58).
In ogni caso, poiché la partecipazione delle Regioni è subordinata all’apprezzamento dell’effettiva sussistenza di un interesse, occorre domandarsi se la valutazione di tale interesse sia affidata alle sole Regioni o se su di essa debba esprimersi anche il CIACE e se sia, ed in quale misura, ammissibile il rigetto da parte di quest’ultimo della richiesta di partecipazione, con contestazione dell’esistenza del rivendicato interesse regionale (59).
Un argomento di carattere formale a favore della sindacabilità dell’interesse si individua nella scelta, altrimenti di difficile interpretazione, della locuzione “può chiedere di partecipare”, inserita nell’art. 2 della legge n. 11 del 2005 e riferita al Presidente della Conferenza delle Regioni: se si fosse voluta attribuire una facoltà da esercitare senza condizioni di alcun genere, non vi sarebbe stata la necessità della preventiva richiesta e si sarebbe espresso il concetto semplicemente con l’uso della proposizione “può partecipare”.
Qualora si aderisse alla tesi più formale, che porrebbe però delicate implicazioni di equilibrio costituzionale, resterebbe da domandarsi quali siano gli strumenti di reazione delle Regioni contro il diniego di partecipazione opposto dal CIACE.
Si potrebbe verificare anzitutto la praticabilità della via del conflitto di attribuzione innanzi alla Corte costituzionale mediante il riconoscimento della relativa facoltà al Presidente della Conferenza delle Regioni o, comunque, al Presidente della Regione. In questo caso, l’atto invasivo della sfera di attribuzione regionale dovrebbe essere individuato nella declaratoria, da parte del CIACE, della insussistenza dell’interesse del Presidente della Conferenza delle Regioni a partecipare alla riunione del comitato interministeriale e l’oggetto del giudizio costituzionale dovrebbe consistere nella verifica circa la legittimità dell’esercizio del potere del CIACE di escludere la rilevanza del dedotto interesse regionale.
Un altro modo di risolvere la questione, evitando di investire del conflitto la Corte costituzionale, potrebbe essere individuato nella sottoposizione dell’argomento alla Conferenza Stato-Regioni, in vista della conclusione di un accordo generale per lo svolgimento di attività di interesse comune, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 281 del 1997.
Sarà, comunque, la prassi che si formerà nel prossimo futuro a determinare l’effettiva rilevanza concreta del sollevato problema.
 
2. La complementarità tra le funzioni del comitato tecnico integrato e quelle dei tavoli di coordinamento nazionali.
L’art. 4 del d.M. 9 gennaio 2006, che disciplina il funzionamento dell’organo incaricato dell’attività istruttoria e di coordinamento, di cui si avvale il CIACE per la preparazione delle proprie riunioni, esordisce con un’importante affermazione diretta a porre l’accento sulla circostanza che l’effettiva partecipazione delle Regioni al processo di formazione della posizione italiana, relativamente agli atti normativi comunitari, si attua con le procedure previste dall’art. 5 della legge n. 11 del 2005; da ciò la garanzia che la Conferenza Stato-Regioni resta la sede favorita nella quale si svolge la funzione paritaria di codecisione.
Occorre però domandarsi, nell’individuazione del concreto procedimento di funzionamento del comitato tecnico e del CIACE nelle rispettive composizioni integrate, come si combinano le diverse forme di partecipazione regionale previste dagli artt. 2 e 5 della legge n. 11 del 2005.
Un primo elemento per appurare l’esistenza di una qualche diversità funzionale nei vari interventi regionali è dato dal fatto che la presenza delle Regioni nel CIACE e nel comitato tecnico è posta in rapporto alla circostanza che vi sia un interesse riguardo all’argomento da discutere. L’art. 5 disciplina, invece, la partecipazione delle Regioni alla formazione di atti comunitari nelle materie di loro competenza. Da ciò consegue, in modo coerente, che la legge n. 11 del 2005 quando tratta dell’interesse delle Regioni prevede la partecipazione della Conferenza delle Regioni, mentre l’esistenza di una materia di competenza di queste determina l’ingresso della Conferenza Stato-Regioni.
Questa considerazione potrebbe essere sufficiente ad escludere il pericolo, paventato da più parti, di una possibile sovrapposizione delle funzioni tra le due sedi (60) o di una spoliazione dei compiti della Conferenza Stato-Regioni in favore del CIACE (61), trattandosi di attività nettamente distinte, che operano su piani diversi.
Il luogo da cui prende avvio la fase ascendente nelle materie di competenza legislativa regionale sembra essere costituito dai tavoli di coordinamento nazionali, previsti dall’art. 5, comma 7, della legge n. 11 del 2005, con cui si designano le riunioni tecniche convocate dal Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie, cui spetta istituzionalmente, nella fase di predisposizione della normativa comunitaria, il ruolo di coordinamento delle amministrazioni dello Stato competenti per settore, delle Regioni, degli operatori privati e delle parti sociali interessate, al fine della definizione della posizione italiana da sostenere, d'intesa con il Ministero degli affari esteri, in sede di Unione europea, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303.
 Per ogni progetto di atto comunitario che riguardi anche solo parzialmente materie di competenza delle Regioni, il Dipartimento svolgerà l’attività di propria spettanza, convocando “ai singoli tavoli di coordinamento nazionali i rappresentanti delle Regioni e delle province autonome”. La stessa disposizione demanda alla Conferenza delle Regioni la scelta dei criteri per l’individuazione dei rappresentanti delle Regioni e delle province autonome, così come è previsto per gli esperti designati dagli enti locali, a norma dell’art. 6, comma 2, della legge. Se nei tavoli di coordinamento è stata concordata una posizione unitaria, questa potrebbe essere formalizzata dalla Conferenza Stato-Regioni con lo strumento dell’intesa e i risultati potrebbero essere trasmessi al comitato tecnico integrato, nel caso in cui questi debba ulteriormente procedere ad individuare la posizione del Governo (62) oppure, più semplicemente, al solo fine di trasmettere al CIACE le risultanze dell’intesa. 
Qualora non si sia ottenuto nei tavoli un accordo sulla posizione da sostenere, la questione, su istanza anche di una sola regione, dovrebbe allora essere rimessa alla Conferenza Stato-Regioni per il raggiungimento dell’intesa. Se l’intesa si ottiene, essa deve essere trasmessa al CIACE, che dovrebbe ritenersi vincolato ai suoi contenuti in base al principio di leale collaborazione. Nel caso in cui non sia stato possibile raggiungere l’intesa prevista dall’art. 5, comma 4, della legge n. 11 del 2005, che, come si desume dalla stessa norma, ha carattere di intesa debole, la proposta di atto comunitario è rimessa prima al comitato tecnico integrato, perché componga il conflitto, e successivamente al CIACE, tra i cui compiti l’art. 2, comma 1, lettera b), del relativo regolamento di funzionamento indica anche quello di “esaminare, su richiesta del Ministro per le politiche comunitarie, questioni di particolare rilievo emerse nel corso della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, convocata dal Governo a norma dell’art. 5, comma 4, della legge 4 febbraio 2005, n. 11.
In tutte le ipotesi considerate, resta ferma l’applicabilità della previsione relativa alla riserva di esame, stabilita dall’art. 5, comma 5, della legge n. 11.
La ricostruzione proposta, che si fonda sulla distinzione delle fattispecie in cui si discutono argomenti di interesse delle Regioni da quelle nelle quali si trattano materie di competenza delle Regioni, potrebbe consentire l’individuazione di un modus operandi atto ad evitare interferenze tra i diversi piani di partecipazione regionale.
In qualunque modo si vogliano considerare i distinti procedimenti di intervento delle Regioni nella formazione della legislazione comunitaria, non si potrà omettere di far confluire nel CIACE tutti gli esiti del dibattito sugli affari comunitari ovunque esso si sia svolto. Soltanto così il processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’Unione europea potrà considerarsi veramente attuato in conformità a quel principio di partecipazione democratica, solennemente enunciato nell’art. 1, comma 1, della legge n. 11 del 2005.
 
3. La partecipazione delle Regioni alla fase discendente del diritto comunitario.
 
L’attribuzione alle Regioni della potestà di attuare gli atti normativi dell’Unione europea, prevista dall’art. 117, quinto comma, della Costituzione, e la configurazione del potere sostitutivo esercitabile dallo Stato in caso di inadempienza hanno indotto la dottrina a sollevare dubbi e interrogativi principalmente sui temi dei confini della legislazione statale di principio e dell’adozione di strumenti regolamentari nell’esercizio statale dei poteri sostitutivi (63).
Le indicate questioni, di indubbio rilievo teorico, si rivelano però di minore incidenza pratica, quando, passando all’esperienza reale, si indaga sulla effettiva attuazione delle direttive da parte delle Regioni (64).
I dati a disposizione obbligano a conferire maggiore attenzione, più che all’inerzia del legislatore regionale, alla situazione delle infrazioni, che per l’Italia è sempre stata particolarmente preoccupante per ragioni riconducibili in parte ad una scarsa considerazione degli obblighi europei, in parte alla complessità delle normative, soprattutto in alcune materie come l’ambiente o gli appalti, e in parte alla difficoltà di operare un efficace coordinamento tra enti statali e substatali.
Le procedure di infrazione imputabili a soggetti diversi dallo Stato sono determinate nella maggior parte dei casi da comportamenti che danno luogo a violazioni del diritto comunitario, mentre solo in ipotesi di importanza numerica residuale sono causate da una omessa o non corretta trasposizione di direttive da parte delle Regioni nelle materie attribuite alla loro competenza legislativa.
E’ sufficiente considerare, infatti, che, alla data del 1° gennaio 2006, le procedure di infrazione complessivamente aperte erano 272 e che, di queste, ben 190, pari al 76,93%, sono rappresentate da violazioni del diritto comunitario, mentre il restante 23,07% è costituito dalla mancata attuazione di direttive comunitarie (65). Tra queste ultime, la percentuale di direttive in materie di competenza regionale potrebbe stimarsi intorno al 10%. (66).
Il rapporto numerico tra le procedure di infrazione per mancata attuazione e quelle aperte per violazioni del diritto comunitario e, più precisamente, la netta maggioranza percentuale di queste ultime rispetto alle prime costituisce un dato di fatto, che impone una seria riflessione.
Occorre tener conto, al riguardo, di un fondamentale aspetto per comprendere appieno la gravità della situazione e l’urgenza di individuare efficaci sistemi per porvi rimedio.
Questo elemento consiste nella mancanza di “soggettività comunitaria” delle Regioni (67) e, pertanto, nella esclusiva responsabilità di fronte alle istituzioni europee dello Stato membro unitariamente considerato, al quale è imputato l’inadempimento degli obblighi comunitari, anche quando esso sia, invece, concretamente addebitabile al comportamento di altri soggetti.
Il principio dell’assoluta indifferenza dell’ordinamento comunitario alle regole interne degli Stati membri e ai criteri di ripartizione, da questi stabiliti, delle attribuzioni e delle competenze è una costante delle pronunce della Corte di giustizia (68), che ha sottolineato come ciascuno Stato membro, benché sia libero di articolare le competenze al proprio interno nel modo ritenuto più opportuno, sia tenuto comunque ad assicurare sempre una corretta, completa e tempestiva attuazione degli atti comunitari non direttamente applicabili.
Poiché lo Stato, indipendentemente dalla organizzazione interna che ha ritenuto di darsi, è e rimane l’unico interlocutore riconosciuto delle istituzioni o degli altri Stati membri, sono del tutto irrilevanti, nell’apertura delle procedure di infrazione, così come nella pronuncia delle sentenze di condanna, le circostanze connesse al sistema interno o ad altre contingenze nazionali, che possono eventualmente giustificare solo una richiesta di proroga dei termini fissati dalla Commissione (69). 
Nei confronti delle istituzioni europee, le Regioni sono quindi irresponsabili, pur essendo sempre più numerosi i casi di violazioni del diritto comunitario ad esse addebitabili.
Può ricordarsi, a sostegno di quanto appena affermato, che, nella materia del mercato interno e specificamente degli appalti, il 52,17% delle procedure di infrazione per violazione di principi comunitari è riferibile a comportamenti di Regioni, Province e Comuni e che questa percentuale raggiunge addirittura il 76% nella materia ambientale (70).
Le cause di questa situazione possono individuarsi in parte nella complessità delle materie, essendosi constatato che nel settore del mercato interno il maggior numero delle violazioni deriva da una erronea interpretazione e applicazione delle direttive appalti, in relazione alle quali risulta spesso adottato un concetto estensivo della possibilità, invece limitatissima, di procedere all’affidamento diretto, facendosi il più delle volte un improprio ricorso alla disciplina degli appalti in house, con la conseguenza che le relative disposizioni risultano applicate in difetto dei necessari presupposti.
D’altra parte i confini esistenti tra negozi giuridici affini risultano nell’applicazione pratica di difficile individuazione, sì che è estremamente elevato il numero delle procedure avviate per contestazioni relative proprio alla qualificazione giuridica del contratto (71) e alla disciplina ad esso applicata.
In materia ambientale un frequente motivo che determina l’elevato numero di procedure si individua, invece, in una lettura troppo semplificata delle procedure sulla valutazione e sulla verifica di impatto ambientale, mentre per le violazioni connesse allo smaltimento dei rifiuti vengono in considerazioni ragioni di carattere finanziario, legate agli oneri economici, spesso insostenibili da parte degli enti locali, necessari per l’attivazione di discariche o per l’individuazione di altre modalità di smaltimento.
La complessità delle discipline e la difficoltà di una corretta interpretazione delle norme, pur costituendo delle circostanze attenuanti valutabili a favore delle Regioni, non consentono però di trascurare il fenomeno dell’incremento costante delle procedure di infrazione, che richiede l’attuazione di una efficace controffensiva.
 
4. Le conseguenze dell’inadempimento delle Regioni in relazione alle nuove misure sanzionatorie proposte dalla Commissione europea.
 
Un ulteriore motivo che desta viva preoccupazione, relativamente alla situazione delle infrazioni, è costituito dall’inasprimento delle sanzioni pecuniarie proposte dalla Commissione europea, nelle ipotesi di ricorso alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 228 del Trattato CE.
Il Collegio dei Commissari, con decisione del 13 dicembre 2005, ha approvato la nuova comunicazione in materia di sanzioni pecuniarie per l’inosservanza da parte degli Stati membri delle sentenze di condanna pronunciate dalla Corte di giustizia ex art. 228 (72) ed ha stabilito che, a decorrere dal 1° gennaio 2006, tutti i ricorsi proposti alla Corte conterranno, in questi casi, una richiesta di applicazione cumulativa della penalità di mora e della sanzioneforfettaria.
La decisione è fondata sulla constatazione che l’applicazione della sola penalità di mora, come finora avvenuto, non ha determinato l’effetto deterrente che la Commissione si proponeva di raggiungere, dal momento che è sempre più frequente la prassi degli Stati membri di conformarsi al giudicato della Corte solo in una fase avanzata e, talvolta, addirittura nell’ultimo stadio della procedura ex art. 228.
La consuetudine fino a questo momento adottata dalla Commissione, consistente nel richiedere, all’atto della seconda pronuncia da parte della Corte di giustizia, l’applicazione della sola penalità per inadempimento, ha comportato che la regolarizzazione tardiva, eseguita prima della sentenza, non abbia mai dato luogo a sanzione e quindi che non si sia mai verificato l’effetto dissuasivo. Per questa ragione, la Commissione ha deciso che non desisterà più dalla procedura a seguito del tardivo adempimento da parte dello Stato membro ma chiederà la prosecuzione del giudizio per l’irrogazione della sanzione forfettaria, con la quale si censura, in definitiva, il permanere dell’infrazione fino al momento della regolarizzazione.
In una comunità di diritto come quella europea, la perdurante mancata esecuzione di una sentenza della Corte rappresenta in sé un grave attentato al principio di legalità e alla sicurezza giuridica, per cui la Commissione, nella sua veste di “guardiano dei Trattati”, ha deliberato che a decorrere dal 1° gennaio 2006 saranno applicate le nuove regole a tutte le decisioni di ricorso alla Corte di giustizia. In ciò confortata purtroppo dalla recente decisione della Corte di giustizia, che per la prima volta ha applicato il cumulo delle sanzioni, inaugurando una giurisprudenza già sottoposta a critiche e contestazioni. (73)
La determinazione delle sanzioni della penalità di mora e della somma forfettaria sarà effettuata tenendo conto di tre elementi, rappresentati dalla gravità dell’infrazione, dalla sua durata e dalla necessità di assicurare l’effetto dissuasivo per evitare la recidiva; questi criteri costituiscono, a loro volta, applicazioni del principio di proporzionalità, con riferimento sia al concreto inadempimento nella fattispecie considerata sia alla capacità di pagamento da parte dello Stato membro.
Particolarmente interessanti sono i meccanismi individuati dalla Commissione per la determinazione del quantum della sanzione.
La penalità di mora, volta a censurare la mancata esecuzione di una sentenza della Corte di giustizia, è la somma calcolata per ogni giorno di ritardo, decorrente dalla decisione della Corte fino al momento in cui lo Stato membro condannato pone fine all’infrazione.
L’ammontare della penalità giornaliera si calcola moltiplicando una somma forfettaria di base per un coefficiente di gravità e per un coefficiente di durata; il risultato ottenuto è moltiplicato per un fattore fisso, stabilito distintamente per ciascuno Stato membro (il cd. fattore “n”), in base alla capacità di pagamento del medesimo e al numero di voti di cui questo dispone al Consiglio.
Il forfait di base uniforme è l’ammontare fisso (determinato in 600 euro al giorno), a cui si applicano i coefficienti moltiplicatori, che è diretto a penalizzare sia la violazione del principio di legalità sia il mancato rispetto della decisione della Corte.
Il coefficiente di gravità è fissato in relazione ad una scala di parametri (da 1 a 20), che tiene conto, anzitutto, dell’importanza delle disposizioni comunitarie violate e delle conseguenze dell’infrazione per gli interessi generali e particolari. L’importanza è determinata in primo luogo dal rango gerarchico della fonte, nel senso che le violazioni dei principi fondamentali consacrati dai Trattati sono considerate più gravi rispetto alle violazioni di norme stabilite da regolamenti o direttive. Si considera, inoltre, la circostanza che la decisione della Corte si inserisca nell’ambito di una giurisprudenza costante, dal momento che la chiarezza o l’ambiguità della regola infranta può rappresentare un elemento determinante, e, infine, si attribuisce rilievo alle misure adottate dallo Stato membro per conformarsi alla decisione della Corte, essendo evidentemente più grave la omissione di qualunque misura rispetto all’attuazione di misure reputate dalla Commissione insufficienti a regolarizzare la situazione.
Le conseguenze dell’infrazione sugli interessi di ordine generale o particolare devono essere valutate caso per caso, con riferimento a diversi elementi, quali la perdita di risorse proprie per la Comunità, l’incidenza dell’infrazione sul funzionamento della Comunità, il danno grave o irreparabile determinato alla salute umana o all’ambiente, il pregiudizio economico o non economico subito da privati o da operatori economici, il vantaggio finanziario che lo Stato membro ritrae dal mancato adempimento della decisione della Corte, il fatto che l’infrazione rappresenti un fatto isolato o che costituisca, invece, un caso di recidiva, e così via.  
Il coefficiente di durata (da 1 a 3) considera il periodo intercorrente tra la prima decisione della Corte, emessa ai sensi dell’art. 226, e la decisione di ricorso ex art. 228 e si calcola in ragione dello 0,10 per ciascun mese dalla pronuncia della Corte.
La capacità di pagamento dello Stato membro è valutata ai fini della irrogazione di una sanzione che sia al tempo stesso proporzionata e dissuasiva, in modo da indurre lo Stato membro a regolarizzare la propria situazione e ad astenersi dalla reiterazione del comportamento. Questa capacità è la sintesi di una media matematica (fattore speciale “n”, per l’Italia pari al 19,84) fondata sul prodotto interno lordo dello Stato membro e sulla ponderazione dei voti al Consiglio, come stabilito dall’art. 205 del Trattato.
Per calcolare l’ammontare della penalità di mora giornaliera da applicare ad uno Stato membro, il risultato ottenuto dall’applicazione dei coefficienti di gravità e di durata al forfait di base è moltiplicato per il fattore invariabile “n” del singolo Stato membro. Questo fattore è sottoposto a revisione da parte della Commissione, in relazione ai mutamenti intervenuti nella situazione reale o alle modifiche della ponderazione dei voti al Consiglio, e, comunque, sarà rivisto ogni tre anni dalla Commissione stessa.
La formula che sintetizza il metodo di calcolo è la seguente:
penalità giornaliera (= forfait di base x coefficiente di durata x coefficiente di gravità) x n.
La seconda sanzione, rappresentata dalla somma forfettaria, è invece determinata in funzione della finalità dissuasiva e dei principi di proporzionalità e di parità di trattamento.
La Commissione ha elaborato un sistema che consiste da una parte nella definizione di una somma forfettaria minima fissa e dall’altra nella individuazione di un ammontare giornaliero moltiplicato per il numero di giorni di persistenza dell’infrazione, applicabile quando il risultato superi la somma forfettaria minima.
In occasione dei ricorsi alla Corte  art. 228, la Commissione chiederà sempre, d’ora in poi, la condanna al pagamento almeno di una somma forfettaria minima fissa, già definita per ciascuno Stato membro (per l’Italia è pari a euro 9.920.000), al fine di sottolineare che ogni inadempimento alle pronunce della Corte rappresenta in sé un grave attentato al principio di legalità. La soglia minima fissa, inoltre, evita la richiesta di un ammontare puramente simbolico, che sarebbe sprovvisto del carattere dissuasivo e che rischierebbe di sminuire la stessa autorità delle decisioni della Corte. 
La Commissione, infine, proporrà alla Corte di determinare la somma forfettaria con criteri di calcolo simili a quelli utilizzati per la penalità di mora e precisamente mediante la moltiplicazione di un forfait di base fisso, stabilito in 200 euro al giorno, pari ad un terzo di quello previsto per la penalità di mora, per il coefficiente di gravità; il risultato ottenuto sarà moltiplicato per il fattore “n” e per il numero di giorni di persistenza dell’inadempimento, a decorrere dalla pronuncia della Corte ex art. 226 e fino alla pronuncia art. 228. Sia il coefficiente di gravità che il fattore “n” saranno i medesimi presi in considerazione per la determinazione della penalità di mora.
La formula è la seguente:
somma forfetaria = forfait di base (200) x coefficiente di gravità x “n” x giorni di ritardo.
In sostanza, per ogni decisione di ricorso alla Corte,  art. 228, lo Stato italiano rischia l’irrogazione di una penalità di mora compresa tra un minimo di 11.904 euro al giorno ed un massimo di 714.240 euro al giorno e l’irrogazione di una sanzione forfettaria nella misura minima di 9.920.000 euro: quasi una piccola legge finanziaria.
Nonostante le osservazioni critiche formulate dagli esperti giuridici di alcuni Stati membri, come l’Italia, la Francia e il Belgio, a cui si sono associati altri dodici Paesi, la Commissione ha tenuto ferma la decisione (74). Ciò desta notevole preoccupazione per la sua possibile applicazione futura, qualora l’Italia non si conformi al giudicato emesso nei numerosi giudizi di inadempimento art. 226 e non provveda ad attuare le misure necessarie al ripristino della legalità.
 
5. Prospettive di riforma e nuove prassi per il contenimento delle infrazioni.
 
Allo scopo di ridurre il numero delle infrazioni, l’interprete può escogitare idonei strumenti da commisurare in relazione all’autorità deputata alla loro attuazione, alla fase in cui essi trovano concreta applicazione e alla incisività dell’effetto.
Una prima questione pertiene alla possibilità di fare ricorso ai procedimenti previsti in relazione alla fase ascendente, per renderli rispondenti alle esigenze anche della fase discendente.
Un esempio può essere costituito dai tavoli di coordinamento nazionali, che rappresentano un’occasione per attuare discussioni e confronti su temi di rilevante impatto nel settore delle infrazioni. Al riguardo, il Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie, in accordo con la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e con la Conferenza Stato-Città ed Autonomie locali, ha già avviato il procedimento per la scelta delle aree tematiche e dei criteri di designazione dei rappresentanti e degli esperti. A tal fine, sono stati individuati dieci tavoli di coordinamento, che riflettono le diverse formazioni del Consiglio dei ministri dell’Unione europea, per consentire una immediata corrispondenza tra gli uni e gli altri e facilitare le modalità di lavoro (75).
Non è da escludere che nelle riunioni convocate dal Dipartimento ai sensi dell’art. 5, comma 7, della legge n. 11 del 2005, esaurita la discussione sulle normative comunitarie in itinere, si affrontino questioni di carattere generale sulle violazioni più frequenti dei principi comunitari oppure questioni particolari relative a singole procedure di infrazione, così da rendere più agevole la definizione del caso.
Un altro importante modo per consentire la partecipazione e il coordinamento delle amministrazioni interessate è la nomina di un responsabile per gli affari europei in ogni amministrazione centrale o locale, che assumerebbe una funzione di grande ausilio nel settore delle infrazioni.
Occorrerebbe poi, in casi di particolare urgenza, provvedere alla attuazione dei provvedimenti necessari a sanare situazioni di non conformità al diritto comunitario, rilevate dalla Commissione europea o dalla Corte di giustizia, mediante l’esercizio del potere sostitutivo, previsto dall’art. 120 della Costituzione e disciplinato dall’art. 8 della legge n. 131 del 2003.
Le conseguenze di tipo conflittuale nei rapporti tra Stato e Regioni, che potrebbero derivare da un intervento statale sostitutivo in ipotesi diverse da quelle concernenti l’inerzia nella emanazione di atti legislativi attuativi di direttive in materie di competenza regionale, hanno finora scoraggiato l’applicazione di questo rimedio, cui dovrebbe invece farsi ricorso, sia pure con tutte le cautele del caso.
Sembrerebbe, infine, giunto il momento di proporre un disegno di legge che introduca nell’ordinamento la previsione di un’azione obbligatoria di rivalsa, esercitabile dallo Stato nei confronti del soggetto a cui risale il comportamento omissivo o commissivo, che ha dato luogo alla sentenza di condanna dello Stato medesimo al pagamento di sanzioni pecuniarie da parte della Corte di giustizia.
La rivalsa potrebbe eventualmente operare con il meccanismo della compensazione di fondi destinati alle Regioni, alle Province o agli enti locali, responsabili dell’infrazione.
Il sostegno della dottrina nell’approfondimento degli argomenti di cui si è fin qui fatto cenno è non solo auspicabile ma necessario, perché darebbe l’occasione di mettere a confronto teoria e pratica e di studiare e sperimentare l’attuabilità di nuove prassi, particolarmente nel campo minato delle procedure di infrazione.
 
 
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NOTE
 
(1) Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, documento adottato a Palermo, in data 31 ottobre 2002.
(2) P. Ivaldi, Esecuzione e attuazione regionale degli atti dell’Unione europea, in Le Regioni e le autonomie territoriali nel diritto internazionale ed europeo, Atti del X Convegno SIDI, Trieste – Gorizia, 23 e 24 giugno 2005, Napoli, in stampa.
(3) In questi termini E. Cannizzaro, La riforma della «legge La Pergola» e le competenze di Stato e Regioni nei processi di formazione e di attuazione di norme dell’Unione europea, in RDI,2005, pp. 153-156, spec. p. 155.
(4) Cfr. l’Accord de coopération entre l’Etat fédérale, les Communautés et les Régions, relatif à la représentation du Royaume de Belgique au sein du Conseil de Ministres de l’Union Européenne, du 8 mars 1994.
(5) Cfr. l’art. 2 della legge n. 11 e i relativi decreti di attuazione: D.P.C.M. 9-01-2006, Regolamento per il funzionamento del Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE), istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi dall'articolo 2 della L. 4 febbraio 2005, n. 11; D.M. 9-01-2006, Regolamento per il funzionamento del Comitato tecnico permanente istituito presso il Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie dall'articolo 2, comma 4, della L. 4 febbraio 2005, n. 11.
(6) Tale disposizione viene ripresa e ulteriormente precisata al comma 1 del successivo art. 16: “Nelle materie di competenza concorrente la legge comunitaria indica i princìpi fondamentali non derogabili dalla legge regionale o provinciale sopravvenuta e prevalenti sulle contrarie disposizioni eventualmente già emanate dalle regioni e dalle province autonome”.
(7) Cfr. Corte cost, sent. n. 383 del 1998 (la quale peraltro riguardava poteri regolamentari statali); sent. n. 425 del 1999, punto 5.3.2 del Considerato in diritto.
(8) Cfr. l’art. 1, c. 6, della l. 18 aprile 2005, n. 62.
(9) Differente è il tenore della legge comunitaria 2003 – art. 1, c. 5, della l. 31 ottobre 2003, n. 306 – che non limita il rinvio ai princìpi fondamentali alle materie di legislazione concorrente, convalidando i dubbi avanzati da chi, in dottrina, aveva ipotizzato il rischio, per le Regioni, di una sovraintepretazione della materia di legislazione concorrente “rapporti con l’Unione europea delle Regioni”, tale da comportare una degradazione della competenza residuale, in presenza di direttive comunitarie da recepire.
(10) Cfr. il disegno di legge comunitaria presentato al Senato il 24 febbraio 2006, S. 3794, recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2006”, che all’art. 8 (Individuazione di princìpi fondamentali in particolari materie di competenza concorrente) espressamente formula princìpi fondamentali “nel rispetto dei quali le regioni e le province autonome esercitano la propria competenza normativa per dare attuazione o assicurare l’applicazione degli atti comunitari di cui agli allegati alla presente legge” in materia di tutela e sicurezza del lavoro e di tutela della salute, mentre, per la materia “professioni” rinvia al “decreto legislativo emanato in attuazione dell’articolo 1, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131, e successive modificazioni”.
(11) Dopo aver stabilito che “nelle materie di cui all’articolo 117, secondo comma, della Costituzione, cui hanno riguardo le direttive, il Governo indica i criteri e formula le direttive ai quali si devono attenere le regioni e le province autonome ai fini del soddisfacimento di esigenze di carattere unitario, del perseguimento degli obiettivi della programmazione economica e del rispetto degli impegni derivanti dagli obblighi internazionali”, al secondo periodo, il citato comma 4 precisa che “detta funzione, fuori dai casi in cui sia esercitata con legge o con atto avente forza di legge o, sulla base della legge comunitaria, con i regolamenti previsti dall’articolo 11, è esercitata mediante deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro per le politiche comunitarie, d’intesa con i Ministri competenti secondo le modalità di cui all’articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59”.
(12) Va peraltro ricordato che la legge n. 131 del 2003, all’art. 8, u.c., ha soppresso la funzione di indirizzo e coordinamento solo nelle materie di cui ai commi terzo e quarto dell’art. 117.
(13) Cfr. A. D’Atena, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, in Rassegna parlamentare, 2002, pp. 913-939.
(14) Corte cost., sent. n. 239 del 2004.
(15) Sull’attuazione regionale degli accordi internazionali cfr. G. Parodi, Regioni e adattamento al diritto internazionale, in Studi in memoria di Livio Paladin, Napoli, Jovene, 2004, pp. 1489-1541.
(16) Si tratta di un adempimento che grava anche sulle amministrazioni statali in base al medesimo c. 3 dell’art. 8 e che, per quanto riguarda le Regioni, dovrebbe costituire un passaggio preliminare utile ai fini di una successiva, organica predisposizione interna degli strumenti di trasposizione.
(17) Si tratta della legge 29 dicembre 2000, n. 422, recante Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2000.
(18) Stabilisce infatti il comma 3 del citato art. 16: “Ai fini di cui all’articolo 117, quinto comma, della Costituzione, le disposizioni legislative adottate dallo Stato per l’adempimento degli obblighi comunitari, nelle materie di competenza legislativa delle regioni e delle province autonome, si applicano, per le regioni e le province autonome, alle condizioni e secondo la procedura di cui all’articolo 11, comma 8, secondo periodo”.
(19) Stabiliva l’art. 9, c. 4, della legge “La Pargola”: “In mancanza degli atti normativi della Regione, previsti nei commi 1, 2 e 3, si applicano tutte le disposizioni dettate per l’adempimento degli obblighi comunitari dalla legge dello Stato ovvero dal regolamento di cui all’articolo 4”.
(20) Corte cost., sent. n. 425 del 1999.
(21) Corte cost., ord. n. 106 del 2001.
(22) Nel parere del 25 febbraio 2002, il Consiglio di Stato, Ad. gen., fondando l’assunto della perdurante applicabilità dello schema delineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 1999 sull’argomento principe dell’unitarietà della responsabilità comunitaria dello Stato, affermava che il quinto comma del nuovo art. 117 Cost. “prevede espressamente un potere sostitutivo dello Stato in caso di inadempienza delle Regioni o delle Province autonome” e “rende espressa una norma riconducibile agli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione e cioè al generale potere dovere dello Stato di rispettare i vincoli comunitari per i quali è responsabile unitariamente”.
Il C.S. aveva inoltre precisato come l’esercizio di tali poteri sostitutivi di natura regolamentare doveva ritenersi soggetto al principio di leale collaborazione; al limite territoriale (applicabilità nel solo territorio della regione inadempiente); al principio di legalità; alla previa consultazione della Conferenza Stato-Regioni (ai sensi dell’art. 2, comma 3 e dell’art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 281 del 1997, n. 281) e comunque limitato all’attuazione delle direttive comunitarie “per le quali è scaduto il termine … per la conformazione senza che vi sia stata nel diritto interno attuazione di esse”.
“Poiché la norma costituzionale prevede il potere sostitutivo in caso di inadempienza”, prosegue il C.S., “la norma statale, se emanata anteriormente, avrà effetto soltanto dalla scadenza dell’obbligo comunitario di attuazione della direttiva nei confronti delle sole Regioni inadempienti”; si tratta di un aspetto di primaria importanza, risultando la prassi dei regolamenti cedevoli forse teorizzabile in una logica di specialità della materia comunitaria – in base al quinto comma dell’art. 117 Cost. – ma nei limiti di una sostituzione (non già preventiva, bensì esclusivamente) successiva al prodursi dell’inadempimento, alla scadenza del termine fissato dalla direttiva.
In linea con questa impostazione, era già l’art. 3, c. 4, della legge comunitaria per il 2002.
(23) La legge di cui si discute prevede il preventivo esame della Conferenza Stato-Regioni ai fini dell’adozione di provvedimenti sostitutivi di rango regolamentare, mentre non impone una analoga garanzia di previa consultazione per le disposizioni statali di rango primario. L’art. 16, c. 3, della legge 11 stabilisce infatti che “ai fini di cui all’articolo 117, quinto comma, della Costituzione, le disposizioni legislative adottate dallo Stato per l’adempimento degli obblighi comunitari, nelle materie di competenza legislativa delle regioni e delle province autonome, si applicano, per le regioni e le province autonome, alle condizioni e secondo la procedura di cui all’articolo 11, comma 8, secondo periodo”.
(24) Perplessità in ordine ad un eccessivo rafforzamento delle garanzie partecipative nella disciplina dei poteri sostitutivi sono avanzate da F. Bona Galvagno, L’attuazione del diritto comunitario: il ritardo storico dell’Italia e le leggi “Fabbri” e “La Pergola”, in L. Mezzetti, La Costituzione delle autonomie. Le riforme del Titolo V, Parte II della Costituzione, Napoli, 2004, p. 234.
(25) Cfr., prima delle legge n. 11 e con riferimento alla legge di attuazione dell’art. 117, quinto comma, della Costituzione, G.U. Rescigno, Attuazione regionale delle direttive comunitarie e potere sostitutivo dello Stato, in Le Regioni, 2002, p. 737.
(26) Art. 1, c. 5, della l. 3 febbraio 2003, n. 14 (legge comunitaria 2002); art. 1, c. 6, della l. 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004).
(27) Il tenore consueto di tali clausole è, ad esempio, il seguente: “In relazione a quanto disposto dall’articolo 117, quinto comma, della Costituzione, e fatto salvo quanto previsto dall’articolo 16, comma 3, della legge 4 febbraio 2005, n. 11, per le norme afferenti a materie di competenza esclusiva delle regioni e province autonome, le norme del presente decreto e dei decreti ministeriali applicativi nelle materie di legislazione concorrente si applicano per le regioni e province autonome che non abbiano ancora provveduto al recepimento della direttiva 2002/91/CE fino alla data di entrata in vigore della normativa di attuazione adottata da ciascuna regione e provincia autonoma”: si tratta dell’art. 17 del D.Lgs. 18.8.2005 n. 192,  “Attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia”. Si noti che la riportata clausola di cedevolezza prevede regolamenti ministeriali cedevoli nelle materie di legislazione concorrente, ma non in quelle di “competenza esclusiva delle regioni e province autonome”. Si vedano anche: l’art. 21 del D.Lgs. 19.8.2005. n. 193, "Attuazione della direttiva 2003/50/CE relativa al rafforzamento dei controlli sui movimenti di ovini e caprini"; l’art. 2 del D.Lgs. 9.11.2005 n. 242,  “Attuazione della direttiva 2004/6/CE, che deroga alla direttiva 2001/15/CE, sulla commercializzazione di taluni prodotti”; l’art. 11 del D.Lgs. 19.8.2005 n. 187,  “Attuazione della direttiva 2002/44/CE sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti da vibrazioni meccaniche”.
(28) Un esempio è costituito dal L’art. 6 (“Norma transitoria”) del D.P.R. 20.3.2002, n. 57,  “Regolamento di attuazione della direttiva 1999/21/CE sugli alimenti dietetici destinati a fini medici speciali”.
(29) Cfr. par. 6.
(30) D.P.C.M. 9-01-2006, Regolamento per il funzionamento del Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE), istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi dall'articolo 2 della L. 4 febbraio 2005, n. 11
(31) Cfr. A. Anzon, Il carattere “suppletivo” come licenza di libero ingresso dei regolamenti (e degli atti amministrativi) statali degli ambiti regionali, in Giur. cost., 2001, 702.
(32) Cfr. G.U. Rescigno, Attuazione regionale delle direttive comunitarie e potere sostitutivo dello Stato, cit.
(33) Cfr. l’art. 11 (Adeguamento all’ordinamento comunitario) dello Statuto della Regione Lazio: “1. La Regione adegua il proprio ordinamento a quello comunitario. 2. Assicura l’attuazione della normativa comunitaria nelle materie di propria competenza, di norma attraverso apposita legge regionale comunitaria, nel rispetto della Costituzione e delle procedure stabilite dalla legge dello Stato. 3. La legge regionale comunitaria, d’iniziativa della Giunta regionale, è approvata annualmente dal Consiglio nell’ambito di una sessione dei lavori a ciò espressamente riservata. 4. Con la legge regionale comunitaria si provvede a dare diretta attuazione alla normativa comunitaria ovvero si dispone che vi provveda la Giunta con regolamento. La legge regionale comunitaria dispone comunque in via diretta qualora l’adempimento agli obblighi comunitari comporti nuove spese o minori entrate o l’istituzione di nuovi organi amministrativi”.
(34) Cfr. l’art. 42 dello Statuto del Piemonte, che al comma 1 prevede che “la Regione, con legge comunitaria regionale, adegua la propria normativa all’ordinamento comunitario” e, al comma 2, che “i lavori del Consiglio regionale per l’approvazione della legge comunitaria regionale sono organizzati in un apposita sessione da tenersi entro il 31 maggio di ogni anno”.
(35) Cfr. l’art. 12, c. 1, lettera d) dello Statuto dell’Emilia Romagna, a norma del quale la Regione “determina con legge il periodico recepimento delle direttive e degli altri atti normativi comunitari che richiedono un intervento legislativo”.
(36) Cfr. il già citato l’art. 42, c. 2, dello Statuto del Piemonte.
(37) L’art. 10 dello Statuto ligure pone “limiti oggettivi” all’iniziativa popolare ed ai referendum – abrogativi e, a quanto sembra, anche consultivi – escludendo sia la prima, sia i secondi, in materia di “[accordi ed intese internazionali della Regione e] attuazione delle normative comunitarie”.
(38) Cfr. art. 16, c. 3, lett. c) dello Statuto della Regione Liguria, formulato in termini più pregnanti del tautologico art. 43, c. 2, lettera f) dello Statuto della Regione Umbria, che attribuisce in particolare al Consiglio il compito di approvare “le leggi di attuazione delle direttive comunitarie”.
(39) Cfr. ancora l’art. 16, c. 3, lett. c) dello Statuto della Regione Liguria. Analogamente, l’art. 27 dello Statuto della Regione Piemonte, al c. 4 stabilisce che “i regolamenti di attuazione e di esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea sono approvati dalla Giunta previo parere obbligatorio della Commissione consiliare competente”.
(40) Cfr. l’art. 11, c. 4, dello Statuto della Regione Lazio, che prevede l’attuazione in forma regolamentare qualora lo preveda la legge regionale comunitaria. Secondo l’art. 12, c. 1, lettera b) dello Statuto della Regione Emilia Romagna, all’attuazione e all’esecuzione degli atti dell’unione europea “si provvede con legge o, sulla base della legge, con norme regolamentari approvate dalla Giunta regionale”. Cfr. anche l’art. 28, c. 4, lettera g) del medesimo Statuto, che riserva all’Assemblea la competenza a “deliberare gli atti generali attuativi delle norme dell’Unione europea, salvi i casi previsti dalla legge”.
(41) Con riguardo alle fasi ascendente e discendente dei processi di integrazione comunitaria, garanzie specifiche di partecipazione in favore degli enti territoriali minori, qualora i procedimenti di cui si tratta presentino profili di interesse locale, sono previste dall’art. 4 dello Statuto della Regione Abruzzo – nel testo approvato in seconda deliberazione il 21 settembre 2004 (e pubblicato nel B.U. della Regione n. 101 dell’8 ottobre 2004) non ancora in vigore in quanto dichiarato parzialmente incostituzionale con sent. n. 12 del 2006 – il quale prevede, al c. 3, che “La Regione contribuisce alla formazione, esecuzione e attuazione degli atti della Unione europea, sentito il Consiglio delle Autonomie Locali nelle materie attinenti all’organizzazione territoriale locale, alle competenze e alle attribuzioni degli Enti Locali o che comportino entrate e spese per gli Enti stessi”.
(42) Naturalmente, come ampiamente documentato nella Parte II, ben più frequente è la casistica – spesso interessata da procedure di infrazione – concernente gli atti ed i provvedimenti amministrativi, regionali e, specialmente, locali.
(43) Cfr. l’art. 11, comma 8, primo periodo, con riferimento alla sostituzione regolamentare. Implicitamente, fa riferimento all’inerzia regionale anche l’art. 16, comma 3, laddove stabilisce che le disposizioni legislative statali sostitutive si applicano in materia regionale “alle condizioni e secondo la procedura di cui all’articolo 11, comma 8, secondo periodo”, che si riferisce ai casi di inerzia regionale.
(44) In linea di principio contrario all’attivazione di poteri statali sostitutivi a competenza regionale già esercitata, C. Mainardis, Il potere sostitutivo. Commento all’art. 8, in G. Falcon, Stato, Regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 178 ss.
(45) Cfr. G. Fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie (in questo sito>Studi e interventi); Contra, G. Scaccia, Il potere di sostituzione in via normativa nella legge n. 131 del 2003, in Le Regioni, 2004, 890 ss.
(46) Una soluzione di questo tipo sarebbe apparsa probabilmente compatibile con la formulazione dell’art. 120, secondo comma, che si intendeva introdurre con la legge costituzionale recante “Modifiche alla Parte II della Costituzione”, che non ha superato il vaglio referendario del 25-26 giugno.
(47) Cfr., da ultimo, Corte cost., sent. n. 129 del 2006.
(48) Con riguardo al valore ed agli effetti nell’ordinamento interno delle sentenze della Corte di giustizia, va segnalata una recente ordinanza della III Sezione penale della Corte di cassazione (Cass., III Sez. Pen., ord. N. 1414 del 2006), che ha negato la disapplicazione della norma interna per contrasto con una sentenza intepretativa della Corte di giustizia, in quanto avente ad oggetto una fonte comunitaria non self-executing. Ma, in tale occasione, la Corte di cassazione ha sollevato in via incidentale la questione di legittimità costituzionale della legge anticomunitaria, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione. Il giudizio costituzionale incidentale costituisce un ulteriore strumento di reazione alla violazione o non corretta attuazione del diritto comunitario – da parte sia delle Regioni, sia dello Stato – attivabile su iniziativa di un organo giurisdizionale che si trovi a giudicare di provvedimenti o comportamenti applicativi di leggi, statali o regionali, contrarie al diritto comunitario.
(49) Cfr. F. Sorrentino, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2002, p. 1358.
(50) Su tale implicazione dell’obbligo di standstill, anche per i necessari riferimenti alla giurisprudenza della Corte di giustizia, cfr. G. Tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2001, p. 117. Il principio in base al quale in pendenza del termine per la trasposizione di una direttiva, gli Stati membri devono astenersi dall’adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva stessaè stato ribadito da ultimo dalla Corte di giustizia nella sent. 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold.
(51) Cfr. l’art. 23d, comma 5, della Legge costituzionale federale: “Nelle materie di loro competenza propria, i Länder sono tenuti ad adottare le disposizioni che si rendano necessarie per l’attuazione di atti giuridici nel quadro dell’integrazione europea; se un Land non adempie a tale dovere entro il termine stabilito, e ciò viene accertato nei confronti dell’Austria da un tribunale dell’Unione europea, la competenza all’adozione di dette disposizioni, ed in particolare all’emanazione delle necessarie leggi, passa alla Federazione. Una disposizione emanata dalla Federazione ai sensi del presente comma, in particolare leggi e regolamenti, cessa di avere efficacia non appena il Land abbia adottato le misure necessarie”.
(52) Un meccanismo analogo è previsto in Belgio dall’art. 169 della Costituzione, attuato con la legge speciale di riforma istituzionale del 5 maggio 1993, sulla scorta di una esperienza caratterizzata da numerose condanne del giudice comunitario, che prevede anche la formale messa in mora dell’ente regionale inadempiente, o responsabile di una inadeguata o non corretta attuazione del diritto comunitario, al quale viene concesso un termine non inferiore a tre mesi. Tale meccanismo può avere un séguito giurisdizionale interno, nel caso in cui lo Stato federale, non ritenendo adeguato il sollecitato e nel frattempo sopravvenuto intervento regionale, ritenga di esercitare il previsto potere sostitutivo.
(53) Ulteriori riferimenti in G. Parodi, Interessi unitari e integrazione comunitaria negli ordinamenti decentrati. La “razionalizzazione” degli strumenti di garanzia del principio unitario, in G. Rolla (ed.), La definizione del principio unitario negli ordinamenti decentrati, Torino, Giappichelli, 2003, pp. 41-89, e in “Quaderni regionali”, 2003, pp. 415-484.
(54) Si potrebbero forse ipotizzare nuove “norme di procedura” ex art. 117, quinto comma, Cost. per consentire al Governo di acquisire i provvedimenti legislativi regionali di recepimento, o i relativi disegni di legge, con maggiore anticipo rispetto a quanto previsto dall’art. 16, c. 2, della legge n. 11 del 2005.
(55) Cfr. Corte cost., sentt. n. 129 del 2006; 406 del 2005; 7 e 166 del 2004.
(56) Su questo tema cfr. P. Ivaldi, Esecuzione e attuazione regionale degli atti dell’Unione europea, in Le Regioni e le autonomie territoriali nel diritto internazionale ed europeo, cit. Da ultimo, commentando la recente giurisprudenza della Corte di giustizia sulla responsabilità dello Stato membro per mancata promozione di questioni pregiudiziali da parte di giudici di ultima istanza (sentenza 13 giugno 2006, C-173/03, che precisa e sviluppa princìpi contenuti nella precedente sentenza 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler), R. Calvano, La Corte di giustizia censura la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati, e, con essa, il mancato utilizzo dell’art. 234. Un ultimatum alla Corte costituzionale?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, arriva a ipotizzare l’estensione di tale giurisprudenza anche al giudice costituzionale.
(57) Entrambi gli atti normativi sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale del 3 febbraio 2006, serie generale, n. 28.
(58) Nella prima riunione del CIACE, che si è tenuta il 10 febbraio 2006 a Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio dei ministri, sono stati posti all’ordine del giorno i seguenti argomenti: definizione delle linee generali dell’attività del Comitato; preparazione del Consiglio europeo di primavera, quest’anno in larga parte dedicato ai temi di Lisbona; strategia sullo sviluppo sostenibile. Oltre al Ministro per le Politiche Comunitarie, erano presenti il Ministro per gli Affari Regionali, il Ministro per lo Sviluppo e la Coesione Territoriale, il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e, in rappresentanza del Presidente della Conferenza delle Regioni, un Assessore della Regione Lazio.
(59) Cfr. F. Paterniti, Nuove prospettive nella partecipazione “interna” delle Regioni alla fase ascendente dei processi decisionali comunitari alla luce della legge n. 11/2005, in  www.giustamm.it, n. 5/2005, pag. 4, il quale ritiene preferibile ricostruire la previsione in esame come un diritto esercitabile una volta soddisfatto il passaggio, meramente formale, della previa richiesta. Anche M. Gentile, Nasce il CIACE per concordare le strategie di Governo, in Guida al diritto, n. 9, 2005, 42, pone la questione in termini dubitativi, rilevando le conseguenze sulla effettiva partecipazione ai lavori.
(60) R. Cafari Panico, Il ruolo delle autonomie locali nel progetto di Costituzione europea, in www.sioi.org. (pag. 10).
(61) S. Tripodi, La fase indiretta della partecipazione delle Regioni alla formazione degli atti comunitari: alcune osservazioni sul ddl di riforma della legge “La Pergola”, in www.federalismi.it, 1/2004, pag. 4.
(62) Come nell’ipotesi in cui il progetto di atto comunitario comprenda anche argomenti che non siano di competenza legislativa regionale ovvero che siano di competenza ripartita.
(63) Si vedano, tra i tanti contributi, oltre a quello contenuto nella prima parte di questa relazione a cura di G. Parodi, anche A. Anzon, I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto costituzionale, Torino, 2003; A. D’Atena, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione Europea, in AA.VV. “Il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione. Primi problemi della sua attuazione”, Relazione al Convegno di Bologna del 15 gennaio 2002, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; G. F. Ferrari e G. Parodi, Stato e Regioni di fronte al diritto comunitario e internazionale, in La revisione costituzionale del Titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo. Problemi applicativi e linee evolutive. Padova 2003;F. Sorrentino, Regioni, diritto internazionale e diritto comunitario. Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, Relazione al Convegno di Genova del 23 marzo 2002, in www.associazionedeicostituzionalisti.it
(64) Si veda la Relazione annuale al Parlamento (in part., pag. 13), presentata il 31 gennaio 2005 dal Ministro per le politiche comunitarie e pubblicata in www.politichecomunitarie.it .
(65) Questi dati devono essere integrati con quelli risultanti a seguito della riunione, svoltasi lo scorso 4 aprile a Bruxelles, del Collegio dei commissari, che delibera, mediamente quattro volte l’anno, l’apertura di nuove procedure di infrazione a carico degli Stati membri o l’emanazione di ulteriori atti in procedure già avviate, la proposizione di ricorsi alla Corte di giustizia, la rinuncia agli atti di giudizi in corso o l’archiviazione. Le decisioni adottate sono state complessivamente n. 94, di cui 34 nuove messe in mora; 1 messa in mora complementare; 8 pareri motivati; 1 parere motivato complementare; 4 pareri motivati relativi a procedure ex art. 228; 46 archiviazioni, come riassunte nella tabella in calce alla presente relazione. Questi dati, oltre ad attestare un sensibile miglioramento del rapporto tra il numero di procedure aperte e di procedure archiviate, consentono di rilevare che per la prima volta da diversi anni non vi è stata alcuna delibera di ricorso alla Corte di giustizia.
(66) Si tratta, tuttavia, di un dato approssimativo, non essendo disponibili elenchi specifici al riguardo.
(67) Così si esprime A. Anzon, op. cit., pag. 292 e segg.
(68) Ex multis, Commissione c. Italia, causa C-33/90.
(69) Si vedano i casi prospettati da G. Tesauro, in Diritto comunitario, III edizione, Padova 2003, pag. 277 e seguenti, di particolare attualità nella situazione contingente di cd. “ingorgo istituzionale”, che sta vivendo il nostro Paese proprio in questo momento, e da A. Celotto, L’efficacia delle fonti comunitarie nell’ordinamento italiano. Normativa, giurisprudenza e prassi, Torino, 2003, pag. 295 e seguenti.
(70) I dati sono tratti dalla Relazione annuale, citata alla nota n. 9.
(71) Si pensi alla difficoltà di accertare gli esatti limiti dei rapporti come l’appalto per la esecuzione e la gestione parziale di una infrastruttura e la concessione del servizio di gestione dell’infrastruttura, nel quale siano inseriti affidamenti di servizi finanziari.
(72) Si tratta del documento SEC (2005) 1658, recante “Communication de la Commission sur la mise en œvre de l’article 228 du traité CE”, che sostituisce le comunicazioni JO C 242/6 del 21 agosto 1996 e JO C 63/2 del 28 febbraio 1997.
(73) Decisione emessa il 12 luglio 2005 nella causa C-304/02, Commissione c. Francia, in tema di pesca.
(74) Incredibilmente avallata dal Regno Unito, oltre che dalla Danimarca, dall’Olanda e dalla Finlandia.
(75) Si tratta dei seguenti: 1. coesione territoriale; 2. politica economica; 3. ambiente; 4. mercato interno, appalti e turismo; 5. agricoltura e pesca; 6. cultura, istruzione e gioventù; 7. occupazione, politiche sociali, salute e consumatori; 8. trasporti, telecomunicazioni, energia e innovazione tecnologica; 9. giustizia, immigrazione e asilo; 10. affari istituzionale, relazione internazionale e cooperazione allo sviluppo.

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