AVVERTENZA: Rielaborazione dell’intervento al Seminario di Astrid – Il disegno di legge di riforma costituzionale approvato dalla Commissione Affari costituzionali della Camera – svoltosi a Roma il 18 ottobre 2007
 
Confesso che, alla luce dei precedenti, non avrei immaginato che una sede parlamentare riuscisse a progettare un Senato “federale” (secondo la convenzione terminologica corrente in Italia) degno dell’aggettivo usato per qualificarlo.
L’istituzione risultante dal d.d.l. cost. A.C. 553 e abb., nella versione messa a punto il 17 ottobre scorso dalla Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati, ha, infatti, tutte le carte in regola per essere ricondotta al genus delle seconde Camere normalmente presenti negli ordinamenti di tipo autenticamente federale.
Il modello di riferimento è costituito dal Bundesrat austriaco, composto – com’è noto – di membri eletti dalle assemblee legislative dei Länder.
Il progetto prevede, infatti, che i senatori siano eletti dai Consigli regionali e che il numero dei seggi assegnati alle singole Regioni oscilli tra cinque e dodici unità (a fronte dell’escursione tra tre e dodici, sussistente in Austria). A questa proporzione fanno eccezione i quattro territori meno popolosi, ai quali sono riconosciute rappresentanze ridotte rispetto al minimo standard: un membro, rispettivamente, alle Regioni Valle d’Aosta e Molise; due membri, alle Province autonome di Trento e Bolzano.
Vero è che – a differenza che in Austria – il progetto prevede la presenza nell’organo anche di rappresentanti degli enti locali, eletti dai Consigli delle autonomie locali (che – sempre secondo il progetto – andrebbero parzialmente riformati). Ma tale componente, compresa tra una e due unità (in funzione della consistenza demografica delle Regioni di rispettiva appartenenza), non sembra tale da alterare – salvo che nei quattro territori meno popolati di cui si appena è detto – l’imprinting fondamentalmente regionale del consesso, in linea con l’esempio assunto a modello. 
Può anzi aggiungersi che, rispetto a quest’ultimo, il progetto esibisce un elemento migliorativo, prevedendo la necessità che i membri del Senato siano componenti dei Consigli regionali. In Austria ciò è consentito, ma non dovuto. Il che attenua il legame istituzionale tra la seconda Camera e le entità in essa rappresentate. Non è, d’altra parte, un caso che nel dibattito costituzionale austriaco venga talora avanzata l’ipotesi di trasformare l’organo nel medesimo senso.
Tale differenza potrebbe, almeno in parte, attenuare uno dei maggiori difetti del modello di riferimento, al quale comunemente si rimprovera di operare secondo una logica partitica (e non territoriale). È, infatti, evidente che il collegamento strutturale con le assemblee rappresentative regionali dovrebbe propiziare l’immedesimazione dei senatori con le specifiche esigenze degli enti di appartenenza, con conseguente, almeno parziale, emancipazione degli stessi dalle rispettive estrazioni partitiche. Un risultato, che potrebbe essere, forse, favorito, se si prevedesse un’articolazione a base regionale e non politica dei gruppi parlamentari.
Si tratta, comunque, di un risultato perseguibile solo in termini tendenziali: essendo inevitabile che il legame dei senatori con il circuito della rappresentanza politica (sanzionato dall’elezione nel Consiglio regionale) non si dissolva per effetto del loro ingresso nella seconda Camera. Del resto, che ciò sia esatto è confermato dall’esperienza maturata in Germania con riferimento al Bundesrat di quell’ordinamento. È, infatti, noto che tale consesso, pur essendo strutturato in modo da rappresentare i Länder in quanto istituzioni (si pensi alla regola secondo cui i voti assegnati al Land debbono essere dati unitariamente) – e pur costituendo, se così posso esprimermi, la seconda camera “federale” più federale del mondo –, abbia finito per assumere un ruolo incontestabilmente partitico: condizionando, attraverso i poteri d’interazione sul procedimento legislativo di cui è costituzionalmente dotato, l’azione della Camera politica: il Bundestag. Ed è altrettanto noto che, proprio per tale ragione, in sede di riforma del federalismo, nel 2006, il suo ruolo sia stato drasticamene ridimensionato, portando la percentuale delle leggi che ne richiedono il necessario assenso dal 60% al 35-40% del totale delle leggi federali.
Deve, peraltro, rilevarsi che il complesso dei poteri riconosciuti al Consesso dal progetto della prima Commissione della Camera dei Deputati riduce considerevolmente il rischio che l’imprinting partitico di cui s’è detto comprometta irreparabilmente le esigenze della governabilità (soprattutto nei casi in cui, nei due rami del Parlamento, si affermino maggioranze diverse).
Il progetto, in particolare, sceglie una via mediana tra la soluzione austriaca e quella tedesca. I poteri di cui dota l’organo, infatti, da un lato, non sono provvisti di un’incidenza meramente dilatoria sul procedimento legislativo centrale (secondo quanto si è polemicamente rimproverato alle attribuzioni assegnate al Bundesrat austriaco), d’altro lato, non sembrano aprire la strada ad una gestione diarchica della legislazione (come, in parte, accade in Germania, anche dopo la riforma costituzionale appena citata).
Nella generalità dei casi, la funzione riservata, dal progetto, al Senato federale si risolve nella sottoposizione alla Camera di proposte emendative, sulle quali questa è chiamata a pronunziarsi in via definitiva. In base all’art. 70, comma 3, infatti, “dopo l’approvazione da parte della Camera dei deputati, i disegni di legge sono trasmessi al Senato federale della Repubblica che, entro trenta giorni, su richiesta di un quinto dei suoi componenti, può approvare modifiche sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva”.
A tale regola – enunciata in via residuale – si sottraggono due tipi di leggi: le leggi bicamerali (comprendenti anche le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali) e le leggi-cornice, nelle materie di cui all’art. 117, comma 3. Mentre le prime necessitano della deliberazione conforme di entrambe le Camere, per le seconde questa condizione non viene richiesta. Esse, infatti, pur dovendo essere approvate in prima lettura dal Senato federale ed, in seconda lettura, dalla Camera dei Deputati, possono essere da questa (ancorché a maggioranza assoluta) emendate.
È inutile dire che, sulla sottoposizione di questa o quella materia all’uno od all’altro dei tre regimi procedimentali appena ricordati possono avanzarsi delle riserve. Personalmente, ad esempio, non trovo condivisibile che alla seconda Camera si riconoscano poteri più intensi in un ambito – come quello delle leggi-cornice – nel quale dovrebbero trovare espressione gl’interessi dell’intera comunità nazionale. Ed in cui, quindi, il ruolo della Camera politica non andrebbe depresso.
Per converso, riterrei opportuno che i suoi poteri venissero accresciuti in tutti casi nei quali il legislatore nazionale è legittimato a derogare al riparto costituzionale delle competenze. Mi riferisco all’attrazione in sussidiarietà delle funzioni amministrative (e – per effetto del parallelismo indotto, riconosciuto dalla sent. 303/2003 della Corte costituzionale – legislative), agli interventi legislativi di tipo sostitutivo (che andrebbero espressamente previsti, con corrispondente modifica dell’art. 120, comma 2, Cost.), alle competenze finalistiche (o, per usare la terminologia della Corte costituzionale, “trasversali”) dello Stato, in virtù delle quali la legge nazionale può operare anche in ambiti ad essa altrimenti sottratti (si pensi alle incidenze in materie di competenza residuale regionale – come l’industria ed il commercio – delle leggi statali finalizzate alla tutela della concorrenza). In tutti questi casi, la soluzione più congrua sembrerebbe quella della legge bicamerale. In tal modo – tra l’altro – si doterebbe di un adeguato supporto organizzativo l’esigenza – frequentemente evocata dalla Corte costituzionale – che le deroghe all’ordinario riparto costituzionale delle competenze avvengano mediante il coinvolgimento delle Regioni nel processo di decisione.
Mi domando, infine, se non sia il caso di prevedere ipotesi di leggi del tutto sottratte all’interazione del Senato (in quanto affidate, in via esclusiva, alla Camera politica): di leggi, cioè, rispetto alle quali al Senato non sia riconosciuto il potere di presentare proposte emendative, ad esso altrimenti spettante, in base alla regola residuale sopra ricordata. 
Tutto ciò premesso, debbo aggiungere che, nella situazione data, non riterrei imprescindibile subordinare a tali correzioni (od alle altre che potrebbero essere prese in considerazione) l’ulteriore corso del procedimento. Sono, infatti, dell’avviso che, per questa parte, il testo licenziato dalla prima Commissione segni, comunque, un miglioramento rispetto alla situazione attuale, consentendo di superare, in maniera, tutto sommato, equilibrata, il nostro, tanto discusso, bicameralismo perfetto. La sua approvazione (ottenuto ovviamente il, non scontato, consenso del “paziente”: il Senato attuale) presenterebbe tre vantaggi: in primo luogo, sgancerebbe la seconda Camera dal circuito della fiducia (con evidente beneficio per la governabiltà); in secondo luogo, emanciperebbe la legislazione nazionale dalla necessità che su ogni legge si realizzi la convergenza di due distinti corpi legislativi; in terzo luogo, doterebbe le esigenze di cooperazione tra lo Stato e le Regioni del supporto parlamentare di cui oggi mancano.

In conseguenza di ciò, se si avesse ragione di temere che ulteriori interventi sul testo possano mettere a rischio gli equilibri già raggiunti in Commissione, non vedrei controindicazioni al mantenimento della versione attuale. Si tratterebbe di un primo, significativo, passo. Il quale, ovviamente, non escluderebbe la possibilità d’interventi successivi.

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