Il presente contributo è destinato al volume Musei e i sistemi museali in Sicilia e Sardegna. Le politiche di due Regioni a statuto speciale a confronto, a cura di C. Borgioli-D. La Monica-E. Stinco, in corso di pubblicazione per i tipi Felici.



Sommario:

1. Il percorso delle Regioni speciali verso l’omologazione.

2. La specialità “ponderata” dopo la novella costituzionale del 2001.

3. La questione del “federalismo demaniale”


1.         Il percorso delle Regioni speciali verso l’omologazione

L’immagine con la quale più frequentemente, almeno da un ventennio, si descrive lo stato delle Regioni ad autonomia speciale è quello della «rincorsa»[1]. L’espressione è, in effetti, adeguatamente rappresentativa della situazione delle Regioni speciali, colte nello sforzo di vedersi riconosciute condizioni già conseguite dalle altre Regioni, quelle ordinarie: una tensione, cioè, verso l’omologazione, frutto di una singolare eterogenesi dei fini.
L’omologazione ha, a sua volta, una doppia faccia: le Regioni ad autonomia speciale si vedono reciprocamente assimilate le une alle altre[2], ed anche, parallelamente, alle Regioni ordinarie.
L’uno e l’altro processo, come noto, hanno, di fatto, contrassegnato l’evoluzione del regionalismo italiano fin dal primo atto della sua comparsa in scena.
Emblematica, in proposito, la vicenda della Regione siciliana: quella, tra le Regioni speciali, ad aver subito, in misura maggiore, la “cura” della “normalizzazione”, proprio in conseguenza del suo status di Regione doppiamente “eccentrica”, non solo rispetto all’autonomia ordinaria, ma anche nei confronti delle altre autonomie speciali[3].
Come opportunamente messo in luce dalla più attenta dottrina, «la doppia specialità di cui s’è detto si è risolta in uno svantaggio, piuttosto che in un vantaggio, per la Sicilia»[4], in quanto lo Statuto ha finito «per giocare contro la Regione»[5], essendo state sottoposte a misure di “contenimento” (se non a vera e propria disapplicazione) le norme che, alla Regione, riconoscevano ampie dosi di autonomia, ed al contrario, applicate con rigore quelle che intendevano limitarla[6].
Ne è conseguito, tra l’altro, l’appiattimento realizzato per via giurisprudenziale attraverso la comune sottoposizione ai medesimi limiti della «prima e più rilevante peculiarità dello Statuto siciliano»[7], la potestà legislativa esclusiva (art. 14), sulla competenza legislativa primaria spettante alle altre Regioni speciali[8].
Il processo ovviamente non ha risparmiato quelle, tra le norme contenute nell’art. 14 dello Statuto peraltro lungamente inattuate[9] che, attribuendo, alla Regione siciliana, la potestà legislativa sulla «tutela del paesaggio» e sulla «conservazione delle antichità e delle opere artistiche», le assegnavano titoli di intervento in materia culturale di estensione tale da non rinvenire equivalenti in alcuna delle altre Regioni ad autonomia differenziata.
Al fenomeno appena descritto, va ad aggiungersi, come anticipato, un graduale percorso di omologazione dell’autonomia speciale anche in relazione al modello ordinario, a cui hanno contribuito due fattori.
In primo luogo, ancora una volta, l’opera della giurisprudenza costituzionale, che ha condotto ad una sostanziale limatura delle competenza legislativa primaria delle Regioni speciali, la quale, offuscata nelle sue specificità, ha finito con l’essere concretamente rimodellata su quella concorrente[10].
Inoltre, la strada verso l’omologazione è stata, in varie occasioni, battuta dallo stesso legislatore nazionale, allo scopo di porre rimedio alla sostanziale marginalizzazione in cui le Regioni ad autonomia differenziata si sono trovate ciclicamente, ogniqualvolta, cioè sperimentando il «perverso fenomeno della “specialità a rovescio”»[11] risultavano escluse dai processi di attuazione della disciplina costituzionale o di riforma di quest’ultima, modellati sulle sole Regioni comuni.
Già al momento dell’attuazione dell’autonomia ordinaria, la condizione delle Regioni speciali è sembrata paradossalmente deteriore.
Sebbene, infatti, le Regioni differenziate non siano state interessate dalla più che «ventennale ibernazione»[12] che, come noto, ha colpito quelle ordinarie, non si può dimenticare che, a fronte della previsione, pure contenuta negli Statuti speciali, dell’adozione di apposite norme di attuazione[13] per operare il passaggio degli uffici e del personale statale alle Regioni ritenute, ad avviso della giurisprudenza costituzionale, necessarie per l’esercizio delle attribuzioni statutarie[14], non ha corrisposto l’intervento sempre solerte del Governo, con conseguente parziale paralisi dell’ente regionale speciale[15].
Solo in corrispondenza dell’attivazione delle Regioni ordinarie ovvero a partire dagli anni ’70, si è registrato, per un verso, un più forte slancio nell’attuazione della discipline statutarie speciali, per l’altro, il superamento, da parte del legislatore di attuazione, della lettura originariamente piuttosto restrittiva delle materie statutarie[16].
Le Regioni speciali, in altre parole, hanno beneficiato del mutamento di rotta inaugurato dalla seconda normativa di trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni ordinarie, il decreto n. 616 del 1977, che segna il superamento dell’approccio fortemente centralistico espresso dai primi decreti del 1972, improntati ad un’attribuzione, non per settori organici, ma per materia, anzi, più esattamente, per “ritagli” di materia.
Tanto chiara è la discendenza da questa disciplina indirizzata alle Regioni ordinarie, da emergere talvolta finanche testualmente, come è testimoniato dal d.p.r. n. 348 del 1979, il quale introducendo norme di attuazione dello Statuto sardo, dà conto già nel titolo della sua diretta derivazione dal decreto n. 616[17], riechieggiandone, del resto, anche letteralmente, il contenuto, proprio in materia di “musei e biblioteche di enti locali” (art. 36).
Pur in tale contesto di tendeziale livellamento, è dato riscontrare qualche interessante elemento di diversificazione. È, ad esempio, il caso di osservare che, quello del 1979, non rappresenta il primo trasferimento di funzioni in materia culturale alla Regione Sardegna, essendo stata preceduto, già nel 1965, da una disciplina attuativa[18]. La Regione si segnala, in effetti, per una costante attenzione al settore culturale, sviluppatasi “precocemente”, a partire dal 1958, con l’approvazione della l. reg. n. 1 del 1958, recante “Disposizioni per i musei degli enti locali, lo sviluppo delle ricerche archeologiche ed il finanziamento di opere urgenti per la conservazione dei monumenti e l’ecologia”[19], la quale, di fatto, rappresenta il primo intervento organico di una Regione italiana nel settore[20].
Analogo dinamismo non si registra, invece, nella Regione Sicilia, nella quale si dovrà attendere la fine degli anni ’70 per l’adozione di una prima disciplina organica in materia culturale. La normativa, che segue di due anni l’approvazione delle norme di attuazione del 1975[21], con cui era stato realizzato il tardivo trasferimento all’ente regionale di tutte le funzioni anche legislative[22] in materia culturale (l. reg. n. 80 del 1977, “Norme per la tutela, la valorizzazione e l' uso sociale dei beni culturali ed ambientali nel territorio della Regione siciliana”), pur presentando profili di interesse, particolarmente in relazione all’organizzazione delle soprintendetenze[23], non può considerarsi neppure “integrata” con la successiva l. reg. n. 116 del 1980, “Norme sulla struttura, il funzionamento e l’organico del personale dell’Amministrazione dei beni culturali in Sicilia” compiutamente espressiva dell’ “originale” competenza in materia di «conservazione delle antichità e delle opere artistiche», limitandosi ad una complessiva riorganizzazione della gestione amministrativa nel settore.

 

2.         La specialità “ponderata” dopo la novella costituzionale del 2001

La condizione delle Regioni speciali, costrette a mettersi in scia di quelle ordinarie, ed anzi, più ancora, a dover accorciare le distanze da queste ultime, si ripresenta ancora una volta alla fine degli anni ’90, a seguito dell’entrata in vigore delle leggi Bassanini, e nuovamente con l’approvazione della novella costituzionale del 2001[24].
Il nuovo art. 117 Cost., introdotto con la riforma, accoglie, come noto, un «presupposto di fondazione del sistema»[25] profondamente diverso rispetto a quello che informava il previgente titolo V. Sintomo di un «totale ripensamento»[26] in merito all’allocazione dello stesso potere legislativo è la previsione della potestà legislativa regionale residuale, che si aggiunge alla competenza concorrente contemplata già nel precedente modello. Il legislatore costituzionale non ha, dunque, rinunciato ad individuare l’oggetto delle competenze legislative ricorrendo al metodo dell’elencazione di materie; ne ha tuttavia mutato la «direzione»[27], invertendo il criterio di enumerazione delle materie. La legge statale perde, pertanto, la potestà generale di determinazione dei limiti della potestà legislativa regionale, che incideva necessariamente sulla stessa qualità della produzione legislativa regionale, in quanto innestava in essa i contenuti della decisione politica assunta dal legislatore nazionale.
La tensione tra l’esigenza di conservazione delle autonomie speciali e la connessa necessità di salvaguardarle dal rischio di cadere in una posizione di sostanziale svantaggio rispetto alle Regioni di diritto comune[28] è stata affidata, dal legislatore costituzionale, alla clausola di salvaguardia ex art. 10 della l. cost. n. 3 del 2001, la quale, in attesa dell’adozione dei nuovi Statuti, estende a queste ultime la nuova disciplina costituzionale laddove contempli «forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite».
La clausola prevede un adeguamento automatico, atto a far prevalere direttamente la fonte generale il riformato titolo V su quella speciale lo Statuto, a condizione di presentare un contenuto più favorevole per la Regione[29], istituendo, di fatto, una sorta specialità “ponderata”, da decretarsi volta per volta in via interpretativa. È di tutta evidenza il ruolo che, in un tale assetto, riveste la giurisprudenza costituzionale, chiamata a soppesare forme di autonomia, per definizione, non sempre comparabili[30] e, con riguardo alle potestà legislative, ambiti di competenza indicati con criteri non omogenei[31].
Non sorprende, dunque, la difficoltà di trarre, dalla giurisprudenza, indicazioni utili a ricostruire la effettiva situazione delle Regioni speciali[32], stigmatizzandosi, talvolta, l’ «estrema volatilità» dei processi argomentativi usati dalla Corte[33].
Ciononostante, non mancano elementi utili a definire lo stato di salute della specialità.
In primo luogo, occorre prendere atto che solo “a piccole dosi” le Regioni ad autonomia speciale hanno fruito degli ampliamenti delle potestà legislative derivanti dalla riforma costituzionale del 2001, e che, nell’esercizio delle “nuove” competenze legislative, hanno invocato con cautela, quale titolo di legittimazione, la clausola di salvaguardia ex art. 10 l. cost. 3 del 2001[34].
Sul punto, è interessante osservare come, ancora una volta, sia la Regione Sardegna a mostrare maggiore intraprendenza in materia culturale, con l’adozione, nel 2006, della l. reg. n. 14, “Norme in materia di beni culturali, istituti e luoghi della cultura”[35], nel cui art. 4, comma 1, si precisa espressamente che «la Regione esercita le funzioni di tutela e valorizzazione dei beni culturali ad essa attribuite dalla Costituzione, dalle intese ai sensi del comma 3 dell’articolo 118 della Costituzione, dall’articolo 10 della Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, dallo Statuto speciale per la Sardegna e successive norme di attuazione, dal decreto legislativo n. 42 del 2004»[36].
Per contro, nell’ultimo decennio, quelli adottati dal legislatore siciliano in materia culturale, appaiono interventi di piccolo cabotaggio.
Inoltre, è un dato comunemente condiviso che il maggiore effetto che la clausola ha fatto registrare è proprio la difesa delle competenze legislative assegnate dai rispettivi Statuti speciali[37]. Poiché, infatti, come accennato, per le Regioni speciali, il nuovo riparto materiale è applicabile solo a condizione di riconoscere maggiore autonomia rispetto a quella prevista nello Statuto, la previsione della competenza generale delle Regioni non determina il venir meno del «valore prescrittivo dei cataloghi di materie contenuti negli Statuti speciali»[38], ai quali la novella costituzionale si aggiunge senza sostituirsi[39]. Il risultato è che le materie enumerate nello Statuto speciale oppongono una maggiore resistenza rispetto alla tendenza, ormai in atto nella legislazione statale, a “fagocitare” le competenze regionali innominate.
Come non si è mancato di rilevare, infatti, fin dai primi commenti della riforma, il rovesciamento dell’enumerazione non basta a garantire i legislatori periferici dal rischio di invasione delle proprie competenze. Emblematica appare, al riguardo, l’esperienza maturata in ordinamenti federali quello nordamericano, in testa, ma anche quelli svizzero, austriaco e tedesco nei quali l’enumerazione centrale non ha svolto un ruolo di delimitazione delle competenze federali davvero efficace[40]. Tanto da potersi concludere che «la vera competenza generale diventa quella della Federazione e come residuale viene invece intesa la competenza degli Stati membri»[41].
Nel giro di qualche anno dall’entrata in vigore della novella costituzionale del 2001 questo fenomeno ha significativamente interessato anche l’ordinamento italiano. Si è assistito, infatti, ad un graduale processo di «smaterializzazione» delle materie regionali[42], attraverso il quale, al sistema di competenze disegnato dal legislatore costituzionale rigidamente predefinito in base alla separazione delle sfere materiali di attribuzione, si è sostituito un intreccio di competenze, preferibilmente districato nell’elaborazione progressivamente consolidatasi nella giurisprudenza costituzionale attraverso il ricorso al criterio della prevalenza in subordine, a quello della leale collaborazione[43]. Così, non di rado, il legislatore statale, normalmente titolare dell’attribuzione prevalente, ha finito con l’attrarre alla sua competenza anche la disciplina delle eventuali sfere materiali di contorno, quand’anche astrattamente di spettanza regionale[44].
Come è stato osservato, in ciò si manifesterebbe il «fallimento»[45] della riforma del 2001. Difatti, «l’enumerazione delle materie di competenza statale, lasciando la residualità operare a favore delle Regioni, avrebbe dovuto arginare la legislazione statale e ampliare enormemente gli spazi a disposizione del legislatore locale. Invece capita l’esatto contrario: le materie enumerate fungono da magnete per il “nucleo essenziale” delle discipline legislative contese; mentre la residualità opera proprio secondo il significato del termine, è affermata nei soli casi in cui la competenza non possa essere attratta dalle materie “enumerate”, ed è comunque sempre circondata da forme di intensa interferenza»[46].
In questo senso, l’enumerazione delle competenze delle Regioni speciali sembra opporre un più efficace argine alla espansione della competenza statale, similmente a quanto accade in ordinamenti in cui è presente una doppia enumerazione di attribuzioni[47].
Come opportunamente rilevato, infatti, «in virtù del principio di specialità, gli Statuti costituzionali verrebbero novati nel loro fondamento, per cui alla competenza enumerata dello Stato si contrapporrebbero le enumerazioni regionali con la conseguenza che non solo l’assetto delle competenze, ma anche l’interpretazione delle materie non potrebbe definirsi in via di principio ad esclusivo favore dei poteri centrali, come negli ordinamenti federali con enumerazione della sola federazione e come nel caso delle Regioni ordinarie italiane»[48].

Si potrebbe dire che la perdurante efficacia dell’enumerazione statutaria traduca positivamente quel principio di non regressione che la giuriprudenza costituzionale ha elaborato a salvaguardia delle attribuzioni già riconosciute, nel previgente assetto, alle Regioni ordinarie[49], le quali ormai innominate ed esposte, in tal modo, alla debolezza della clausola di residualità, rischiano di essere “calamitate” dallo Stato.
In particolare, in materia culturale, gli Statuti speciali delle due Regioni in esame non mancano di “presidi”.
Mentre, infatti, per l’attribuzione in materia di “pubblici spettacoli”, assegnata alla competenza ripartita dallo Statuto speciale della Regione Sardegna (art. 4, comma 1, lett. m), sembra potersi decretare un sostanziale assorbimento nella analoga potestà legislativa concorrente, assegnata, alle Regioni di diritto comune, dalla novella del 2001, in materia di “organizzazione e promozione delle attività culturali”[50] che presenta, peraltro, una maggiore estensione orizzontale, diverso esito sembra ipotizzabile per alcune sub-materie contemplate, come anticipato, sia dallo Statuto sardo sia da quello siciliano che possono avere una incidenza significativa sulla materia statale “ tutela dei beni culturali”.
Entrambi gli Statuti speciali prevedono la potestà legislativa regionale in materia di “musei e biblioteche di enti locali”, attribuendola alla potestà esclusiva per la Sicilia ed a quella primaria per la Sardegna[51]. Si tratta di un ambito materiale che, prima della riforma costituzionale del 2001, le Regioni ordinarie e quelle ad autonomia differenziata condividevano e che rappresentava la dotazione, per così dire, “minima” di attribuzioni ad esse spettante[52]. Come noto, ciò che diversificava le prime dalle seconde era piuttosto il tipo di competenza assegnata, spettando, alle Regioni ordinarie, una potestà legislativa concorrente in senso stretto.

La materia che permane, peraltro, nella titolarità anche delle altre Regioni speciali è ormai assente, invece, dai cataloghi contenuti nel riformato titolo V. Anche ammesso che venga risparmiata dal “fenomeno di dissolvenza” sopra descritto e ricondotta alla competenza residuale delle Regioni ordinarie, è tutt’altro che scontato che quest’ultima sia più favorevole della potestà legislativa prevista per le Regioni ad autonomia speciale, vista la difficoltà di determinare la reale incidenza prodotta dall’esercizio delle competenze finalistiche dello Stato.
In aggiunta, come anticipato, la Regione Sicilia, ha potestà legislativa esclusiva in materia di “conservazione delle antichità e delle opere artistiche”, ai sensi dell’art. 14, lett. n) dello Statuto. Non è irragionevole che, in esercizio di questa attribuzione, il legislatore regionale possa concretamente “infiltrarsi” in ambiti potenzialmente coperti dalla potestà esclusiva statale in materia di “tutela dei beni culturali”, dovendosi pertanto “preferire”, se effettivamente adottata, la disciplina regionale rispetto a quella statale[53]. Sarebbe, sia detto per inciso, l’art. 9, comma 2, Cost. nonostante, in una risalente pronuncia della Corte costituzionale, si rinvenga un orientamento diverso[54] a rappresentare un limite implicito all’interpretazione della “voce” statutaria[55], escludendone l’integrale regionalizzazione. Per i beni appartenenti al patrimonio storico-artistico, la recessione della potestà statale si dovrebbe, dunque, arrestare di fronte al livello nazionale dell’interesse culturale da tutelare.
Occorre, però, rilevare, alla stregua della giurisprudenza costituzionale finora registratasi, che, pure quando gli ambiti materiali siano formalmente conservati alla potestà regionale speciale, la disciplina locale finisca, attraverso l’espansione dei limiti statutari e la loro sovrapposizione con competenze finalistiche dello Stato, con l’essere in definitiva sottoposta ad una compressione verticale non apprezzabilmente differente rispetto a quella operante, nel medesimo campo, per le Regioni ordinarie, confermandosi, di fatto, il già noto appiattimento dei limiti delle rispettive potestà legislative[56].
Resta, poi, un ultimo strumento legislativo nelle mani delle Regioni speciali.
Non va, infatti, dimenticato che gli Statuti ad autonomia differenziata articolano ulteriormente le competenze culturali delle Regioni, assegnando una potestà di integrazione ed attuazione, che appare, a sua volta, in grado di incidere su materie di competenza esclusiva statale[57]: si tratta della potestà in materia di “antichità e belle arti” prevista dallo Statuto della Regione Sardegna[58], e non solo[59].
Vero è che si tratta di una mera competenza di attuazione, che si potrebbe ritenere ormai complessivamente superata dalla riforma[60] e convertita nelle potestà (concorrente e residuale) assegnate alle Regioni ordinarie, nelle corrispondenti materie, ai sensi dell’art. 117 Cost.
Tuttavia, a ben guardare, questi frammenti di materia non innominata sembrano potenzialmente idonei ad incidere in aree di competenza esclusiva assegnate al legislatore statale[61] basti considerare il delicato tema del “restauro”[62], che interferisce con la “tutela dei beni culturali”[63] il quale, astrattamente competente a disciplinare l’intera materia, in questo caso, si vedrebbe preferita la disciplina regionale di adattamento alle specificità locali eventualmente adottata dalla Regione, in esercizio della potestà di attuazione.
Che la potestà statutaria di tipo integrativo-attuativo non manchi di interessanti potenzialità, sembra potersi desumere dalla pronuncia n. 21 del 2007, con la quale la Corte costituzionale, proprio sul fondamento dell’art. 5 dello Statuto sardo[64], si è trovata a dichiarare l’infondatezza della questione sollevata dal Governo in materia di “formazione professionale esterna”[65].

 

3. La questione del “federalismo demaniale”

Come osservato in dottrina, potrebbe essere la normativa di attuazione degli Statuti speciali a favorire un “recupero” delle Regioni ad autonomia differenziata[66]. Questo strumento non è ignorato, peraltro, dalla legge c.d. “La Loggia” 5 giugno 2003, n. 131, “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”, la quale, all’art. 11, prevede la possibilità di ricorso alle norme di attuazione, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla potestà legislativa delle Regioni speciali, ex art. 10 della l. cost. n. 3 del 2001, «per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, finanziarie, umane e organizzative, occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative»[67].
Sebbene, in materia di beni culturali, possa finora citarsi un’unica applicazione, che, però, ha riguardo alla Regione Friuli-Venezia Giulia (d.lgs. 2 marzo 2007, n. 34, Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in materia di beni culturali e paesaggistici), non ci si può esimere dal citare, in questa sede, il d.lgs. 23 dicembre 2010, n. 265, “Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione siciliana concernenti il trasferimento alla Regione di beni immobili dello Stato” [68], con cui si dispone il trasferimento alla Regione di alcuni beni immobili specificamente elencati[69].
Fin troppo agevolmente si può cogliere, nell’intervento che rende operativa una parte dello Statuto siciliano non compiutamente attuata, ovverosia l’assegnazione alla Regione dei beni del demanio dello Stato esistenti nella Regione[70], il “riverbero” del cosiddetto “federalismo demaniale”. Il quale, introdotto con il d.lgs. 28 maggio 2010, n. 85, dovrebbe rappresentare, per le Regioni ordinarie, la prima tappa di un percorso diretto ad instaurare, nella nuova cornice costituzionale offerta dall’art. 119 Cost.[71], il c.d. “federalismo fiscale”[72].
Sebbene la disciplina di attuazione dello Statuto siciliano non possa passare inosservata, disponendo, tra l’altro, il trasferimento di beni immobili, appartenenti allo Stato, di eccezionale interesse culturale (tra i quali, l’area archeologica della Valle dei templi di Agrigento[73]), gli effetti del passaggio non dovrebbero essere sopravvalutati[74].
Non può, infatti, dimenticarsi, in primo luogo, che, in molte occasioni, il passaggio di titolarità segue la già avvenuta cessione della disponibilità del bene (emblematico il caso di Palazzo dei Normanni, storica sede dell’Assemblea regionale siciliana). Ed è alla disponibilità, non alla proprietà, che, come noto, il Codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42 del 2004), ricollega compiti di fruizione (art. 102), nonché di valorizzazione (art. 112), nonostante la Corte costituzionale abbia lasciato intendere un diverso orientamento in merito[75].
Inoltre, quello contemplato dalla disciplina di attuazione, costituisce un “ordinario” trasferimento tra enti territoriali di beni immobili, idoneo a conservarne il regime giuridico, con le connesse garanzie in caso si intenda procedere all’alienazione a soggetti privati (artt. 55 ss. Codice dei beni culturali).
Tale recente normativa di attuazione dello Statuto siciliano che, peraltro, trova una corrispondenza per la Regione Sardegna[76] non dovrebbe, pertanto, giustificare le perplessità, che suscita, al contrario, l’ordinario decreto sul “federalismo demaniale”[77].
Sebbene, infatti, lo scopo dichiarato di quest’ultimo sia l’ “attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell'articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42”, la previsione in deroga, si badi, alla regola, prima ricordata, che presiede i trasferimenti tra enti territoriali, i quali normalmente non travolgono il regime giuridico, secondo cui i beni trasferiti entrino a far parte del «patrimonio disponibile dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni» (art. 4, comma 3), lascia pochi dubbi sull’esito che si intende perseguire o quantomeno favorire, ovverosia la dismissione da parte dell’ente decentrato[78], esito precluso solo quando quest’ultimo versi «in stato di dissesto finanziario» (art. 2, comma 2)[79].
Nonostante le riserve che tale disciplina desta[80], non si può sfuggire all’impressione che, anche in questo caso, le Regioni ad autonomia speciale si trovino in svantaggio rispetto a quelle ordinarie.
È di tutta evidenza, infatti, che il trasferimento di beni statali al “patrimonio disponibile” di queste ultime pone le premese per un coinvolgimento diretto delle Regioni, quelle ordinarie, alle operazioni di alienazione e valorizzazione[81].
Al contrario, alla stregua della più recente giurisprudenza costituzionale, il trasferimento dei diritti demaniali quale, appunto, quello operato con la disciplina di attuazione dello Statuto siciliano non risparmia le Regioni, neanche quelle speciali, dall’applicazione della disciplina demaniale di fonte statale[82] che comprenderebbe la potestà di imposizione e riscossione del canone[83], nonché il potere di cessione a soggetti di diritto privato dei beni, di cui, pure, siano titolari le Regioni[84], trattandosi di aspetti ricadenti nel «regime giuridico della proprietà pubblica», ascrivibili, a prescindere dalla titolarità, alla materia di competenza statale “ordinamento civile”[85].
In ragione di queste considerazioni, è condivisibile l’osservazione secondo la quale la delega sul federalismo fiscale nella cui cornice trova collocazione il “federalismo demaniale” [86], «concepita, strutturata ed attuata con riferimento pressoché esclusivo alle Regioni ordinarie», non fa che aggravare «la tendenza a rendere più speciali le Regioni ordinarie e più ordinarie le Regioni speciali»[87].
Tale conclusione si badi non può, tuttavia, estendersi al settore culturale.
In ordine al quale, il decreto sul “federalismo demaniale” (art. 5, comma 5) opera opportunamente[88] un rinvio agli accordi di valorizzazione disciplinati nel Codice dei beni culturali (art. 112), riportando in parità la partita tra le Regioni speciali e quelle ordinarie.

 

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[1]… per usare l’espressione di L. Paladin, Spunti per la ricerca di una nuova specialità, in Le Regioni, 1993, 645. Riprendono lo stesso termine A. Ruggeri, Le regioni speciali, in Foro it., V, 2001, 203; S. Bartole, Esiste oggi una dottrina delle autonomie regionali e provinciali speciali?, in Le Regioni, 2010, 863 ss. Sul punto, v., già, A. D’Atena, La parabola delle autonomie speciali, in Id., Costituzione e Regioni. Studi, Milano, 1991, 381 ss.

[2]Cfr., F. Salvia, Autonomie speciali e altre forme di autonomia differenziata, in Dir. soc., 2002, 454 ss.; P. Giangaspero, Le Regioni speciali dieci anni dopo la riforma del Titolo V, in Le Regioni, 2011, 767, che parla di «sostanziale “omogeneizzazione” della portata delle potestà legislative esclusive, che pure nei diversi statuti sono previste (quanto alla loro estensione ed ai loro limiti) in termini non del tutto omogenei».

[3]Cfr., A. D’Atena, Dalla “costituzionalizzazione” alla “dissoluzione” dello Statuto siciliano. (Riflessioni sull’elaborazione giurisprudenziale del primo ventennio), in Id., Costituzione e Regioni. Studi, Milano, 1991, 367 ss. Più recentemente, v., A. Piraino-O. Spataro, La specialità della Regione siciliana a dieci anni dalla riforma del Titolo V, in Le Regioni, 2011, 907 ss.

[4]Così, A. D’Atena, Dalla “costituzionalizzazione” alla “dissoluzione” dello Statuto siciliano. (Riflessioni sull’elaborazione giurisprudenziale del primo ventennio), in Id., Costituzione e Regioni. Studi, Milano, 1991, 368.

[5]A. D’Atena, ibidem.

[6]In questi termini, ancora, A. D’Atena, ibidem.

[7]Così, A. Pensovecchio Li Bassi, Peculiarità dello statuto siciliano del 1946, in F. Teresi (a cura di), Cinquant’anni dello tatuto siciliano. Un bilancio nella prospettiva del federalismo, Atti del convegno, Palermo, 23 e 24 maggio 1997, Palermo, 1998, 50.

[8]Cfr., A. D’Atena, Dalla “costituzionalizzazione” alla “dissoluzione” dello Statuto siciliano. (Riflessioni sull’elaborazione giurisprudenziale del primo ventennio), in Id., Costituzione e Regioni. Studi, Milano, 1991, 369 ss.

[9]Nella pronuncia n. 74 del 1969, richiamando anche la precedente n. 14 del 1962, la Corte sottolinea che la disposizione contenuta nell’art. 14 «richiede (…), per diventare operativa, che siano emanate le dette norme di attuazione, la cui necessità non è eliminata dal carattere esclusivo della competenza» ed anzi che «tale necessità è rafforzata dal fatto che la competenza esclusiva della Regione siciliana, nelle materie in esame, costituisce un unicum, rispetto alle norme della Costituzione (art. 117) e degli altri Statuti speciali, e va considerata nel quadro della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9)». Sulla lunga fase di inattuazione dello Statuto siciliano in materia culturale, v., E. Stinco, Analisi delle politiche della Regione Sicilia in materia di reti e sistemi museali. Elaborazione di una panoramica generale della legislazione storica della Regione Sicilia in materia di musei e sistemi museali, in C. Borgioli-D. La Monica-E. Stinco (a cura di), Musei e i sistemi museali in Sicilia e Sardegna. Le politiche di due Regioni a statuto speciale a confronto, in corso di pubblicazione.

[10]Cfr., V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, 1, L’ordinamento costituzionale italiano (Le fonti normative), Padova, 1993, 132; L. Paladin, Spunti per la ricerca di una nuova specialità, in Le Regioni, 1993, 645 s.; L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 322 ss.; Id., Diritto regionale, Padova, 2000, 88 ss.; T. Martines-A. Ruggeri, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 1997, 212 ss.; G. Mor, Le Regioni a Statuto speciale nel processo di riforma costituzionale, in Le Regioni, 1999, 200 s.; G. Pastori, La nuova specialità, in Le Regioni, 2001, 489 s., che parla, al riguardo, di «specialità in negativo»; analogamente A. Ruggeri, Le Regioni speciali, in Foro it., V, 2001, 203 s.; G. Pitruzzella, C’è un futuro per la specialità della Regione siciliana?, in Le Regioni, 2001, 502 s.; D. Galliani, Brevi osservazioni su due concetti opposti ma probabilmente speculari: specialità e regionalismo differenziato, in Ist. fed., 2003, 221 ss.

[11]Così, M. Cecchetti, Attualità e prospettive della “specialità” regionale alla luce del “regionalismo differenziato” come principio di sistema, in federalismi.it, n. 23/2008, 2; Id., Le fonti della “differenziazione regionale” ed i loro limiti a presidio dell’unità ed indivisibilità della Repubblica, in S. Pajno-G. Verde (a cura di), Studi sulle fonti del diritto. Le fonti delle autonomie territoriali, II, Milano, 2010, 70. Analogamente, parla di «specialità in pejus» G. Pitruzzella, Le Regioni speciali nel nuovo assetto costituzionale, in F. Teresi (a cura di), Cinquant’anni dello tatuto siciliano. Un bilancio nella prospettiva del federalismo, Atti del convegno, Palermo, 23 e 24 maggio 1997, Palermo, 1998, 225.

[12]Così, A. D’Atena, Gli antefatti, in Id., L’Italia verso il “federalismo”. Taccuini di viaggio, Milano, 2001, 72.

[13]Ad eccezione, fino alle modifiche introdotte con l’art. 3 della legge cost. n. 2 del 1993, dello Statuto della Valle d’Aosta. Si veda, esemplificativamente, a questo riguardo, l’art. 56 dello Statuto speciale sardo: «Una Commissione paritetica di quattro membri, nominati dal Governo della Repubblica e dall’Alto Commissario per la Sardegna sentita la Consulta regionale, proporrà le norme relative al passaggio degli uffici e del personale dallo Stato alla Regione, nonché le norme di attuazione del presente Statuto. Tali norme saranno sottoposte al parere della Consulta o del Consiglio regionale e saranno emanate con decreto legislativo». In argomento, cfr., A. Anzon, Il regime dei beni culturali nell’ordinamento vigente, Roma, 1975, 163 ss.

[14]Si veda, la già citata sent. n. 74 del 1969, in cui si afferma che: «è fuori contestazione che la Regione siciliana ha, per l’art. 14, lett. n, dello Statuto speciale, competenza legislativa esclusiva in materia di “tutela del paesaggio” e di “conservazione delle antichità e delle opere artistiche”. Per la soluzione delle prospettate questioni occorre però stabilire se tale norma statutaria abbia attribuito direttamente alla Regione l’esercizio dei poteri relativi alle indicate materie, senza bisogno di ulteriore integrazione, e se conseguentemente ne derivi un obbligo per lo Stato di astenersi, in esse, dall'esercizio della propria potestà legislativa e amministrativa. Osserva la Corte che la norma in esame non contiene una puntuale precisazione della sfera di competenza attribuita alla Regione e che non si sono ancora realizzate le condizioni per l’esercizio di tale competenza. (…) Discende dalle esposte considerazioni che, nell'attuale situazione normativa, non esiste, nei confronti della Regione siciliana, un obbligo negativo dello Stato, di astensione dall'esercizio della propria potestà legislativa e amministrativa nelle materie in questione». Nello stesso senso si vedano le sentt. nn. 23 del 1957; 58 del 1958; 22 del 1961; 14, 67 e 83 del 1962, 70 del 1963; 30 del 1968; 94 e 178 del 1971. In particolare, si segnala la sent. n. 76 del 1963 in riferimento alla Regione Valle d’Aosta, che pure mancava di espressa indicazione, da parte dello Statuto, della adozione di apposite norme di attuazione. In essa «la Corte osserva che il silenzio dello Statuto valdostano circa le norme di attuazione può significare effettivamente che non si ritenne necessario, nei riguardi della Valle, conferire al Governo il potere di emanare norme di attuazione; ma ciò non significa che si fosse voluto adottare per la Valle un sistema diverso da quello generale. Il legislatore costituente, con esplicite norme contenute in tutti gli Statuti speciali del 1948, escluso quello valdostano, e nel recente Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia (art. 65), nonché nella disposizione transitoria VIII della Costituzione, ha disposto che l’assunzione di funzioni amministrative da parte delle Regioni, a Statuto speciale o a statuto ordinario, non può aver luogo se le relative modalità non siano dettate con norme legislative statali. (…) La giurisprudenza della Corte è altresì costante nel ritenere che la disposizione transitoria VIII della Costituzione sancisce un principio generale ed inderogabile, che afferma la necessità di una attuazione coordinata dei principi costituzionali dell’autonomia e del decentramento nel campo dell'organizzazione amministrativa delle Regioni e dello Stato. A nulla rileva, dunque, il fatto che nello Statuto della Valle siano state conferite alla Regione diverse attribuzioni amministrative senza la espressa indicazione della necessità di norme statali di attuazione, se questa necessità era stata già espressa nella Costituzione con una disposizione generale valevole per tutte le Regioni. (…) Non è decisivo l’altro argomento addotto dalla Regione – anch’esso di portata generale - secondo cui l’affermata esigenza di norme statali di attuazione potrebbe rendere possibile un differimento anche sine die dell’inizio dell’attività delle Regioni, in settori che la legge costituzionale ha ad esse affidato, ove lo Stato non provveda ad emanare le norme occorrenti. Che questo inconveniente possa verificarsi e che, anzi, si sia già verificato è cosa innegabile; ma dal fatto che il sistema abbia prodotto e possa produrre degli inconvenienti non può essere tratto un argomento contro il sistema. Tanto più che non è detto che l’ordinamento costituzionale sia assolutamente privo di rimedi contro l’ingiustificata inerzia degli organi ai quali é demandato il compito di dettare le norme di attuazione». Su quest’ultimo profilo, cfr., P. Grossi, Attuazione ed inattuazione della Costituzione, Milano, 2002.

[15]Cfr., V. Piergigli, I beni culturali nell’ordinamento delle Regioni e delle autonomie locali, in L. Mezzetti (a cura di), I beni culturali. Esigenze unitarie di tutela e pluralità di ordinamenti, Padova, 1995, 85 ss.

[16]Parla, in proposito, di «tragicomica rincorsa delle norme di attuazione rispetto alle leggi statali di trasferimento delle funzioni amministrative» G. Silvestri, Le Regioni speciali tra limiti di modello e limiti di sistema, Relazione presentata al Convegno “Quali modifiche per gli Statuti speciali”, organizzato dal Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia e tenutosi a Trieste il 26-27 marzo 2004, in Le Regioni, 2004, 1125. V., già, A. D’Atena, La parabola delle autonomie speciali, in Id., Costituzione e Regioni. Studi, Milano, 1991, 381 ss.

[17]“Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna in riferimento alla L. 22 luglio 1975, n. 382 e al D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616”.

[18]D.P.R. del 24 novembre 1965, n. 1532, “Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna in materia di biblioteche e di musei di Enti locali”.

[19]… modificata, dopo l’entrata in vigore della prima disciplina di attuazione, con la l. reg. n. 2 del 1969, “Modifica alla Legge Regionale 7 febbraio 1958, n. 1, concernente disposizioni per i musei degli Enti Locali, lo sviluppo delle ricerche archeologiche ed il finanziamento di opere urgenti per la conservazione dei monumenti”.

[20]V., ampiamente, C. Borgioli, Le politiche regionali della Sardegna in materia di sistemi museali, in C. Borgioli-D. La Monica-E. Stinco (a cura di), Musei e i sistemi museali in Sicilia e Sardegna. Le politiche di due Regioni a statuto speciale a confronto, cit.

[21]DD.PP.RR. nn. 635 e 637 del 30 agosto 1975, recanti rispettivamente “Norme di attuazione dello Statuto in materia di accademie e biblioteche” e “Norme di attuazione dello statuto della Regione Siciliana in materia di tutela del paesaggio e di antichità e belle arti”.

[22]Ancora nel 1971, con sent. n. 178, la Corte aveva ribadito che «mancando le norme di attuazione dell'art. 14, lett. n, dello Statuto siciliano, la competenza sia legislativa, sia amministrativa in materia di conservazione delle antichità e delle opere artistiche [dovesse rimanere] (…) allo Stato» (punto 3 del Cons. in dir.).

[23]V., E. Stinco, Analisi delle politiche della Regione Sicilia in materia di reti e sistemi museali. Elaborazione di una panoramica generale della legislazione storica della Regione Sicilia in materia di musei e sistemi museali, cit.

[24]V., in argomento, G. Silvestri, Le Regioni speciali tra limiti di modello e limiti di sistema, in Le Regioni, 2004, 1119 ss.; S. Bartole, Esiste oggi una dottrina delle autonomie regionali e provinciali speciali?, in Le Regioni, 2010, 863 ss.

[25]S. Panunzio, Indagine conoscitiva I Commissione affari costituzionali Senato, audizione del 20 novembre 2001, in www.parlamento.it. Tra i primi commenti sulla riforma, v., R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in A. Ruggeri-G. Silvestri (a cura di), Le fonti di diritto regionale alla ricerca di una nuova identità, seminario di Messina, 6 aprile 2001, Milano, 2001, 129 ss.; P. Caretti, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo titolo V della Costituzione: aspetti problematici, in Le Regioni, 2001, 1223 ss.; P. Cavaleri, La nuova autonomia legislativa delle Regioni, in Foro it., V, 2001, 199 ss.; G. Falcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Le Regioni, 2001, 1247 ss.; M. Olivetti, Le funzioni legislative regionali, in T. Groppi-M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie, Torino 2001, 85 ss.; R. Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, in Le Regioni, 2001, 1233 ss.; A. D’Atena, La difficile transizione. In tema di attuazione della riforma del titolo V, in Le Regioni, 2002, 305 ss.

[26]Cfr., F. Pizzetti, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico “esploso”, in Le Regioni, 2001, 1153 ss.; Id., I soggetti del pluralismo istituzionale tra regionalismo e federalismo: l’equilibrio instabile tra il progetto originario della Costituzione del 1948 e il progetto ispiratore della riforma costituzionale del 2001, in G.F. Ferrari-G. Parodi (a cura di), La revisione costituzionale del nuovo titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo, Padova, 2003, 18 ss.

[27]Così, A. D’Atena, Materie legislative e tipologie delle competenze, in Quad. cost., 2003, 15, ora in Id., Le Regioni dopo il big bang. Il viaggio continua, Milano, 2005, 117 ss.

[28]In argomento, cfr., L. Paladin, Spunti per la ricerca di una nuova specialità, in Le Regioni, 1993, 646 ss.; M. Luciani, Le Regioni a statuto speciale nella trasformazione del regionalismo italiano (con alcune considerazioni sulle proposte di revisione dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige), in Riv. dir. cost., 1999, 220 ss.; G. Mor, Le Regioni a Statuto speciale nel processo di riforma costituzionale, in Le Regioni, 1999, 195 ss.; L. Antonini, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000, 32 ss.; G. Pitruzzella, C’è un futuro per la specialità della Regione siciliana?, in Le Regioni, 2001, 499 ss.; A. Ruggeri, Le Regioni speciali, in Foro it., V, 2001, 204 s.; A. Ruggeri-P. Nicosia, Verso quale regionalismo? (Note sparse al progetto di revisione costituzionale approvato, in prima lettura, dalle Camere nei mesi di settembre-ottobre 2000), in Rass. parl., 2001, 112 ss.; A. Ruggeri-C. Salazar, La specialità regionale dopo la riforma del titolo V. ovvero: dal “lungo addio” al regionalismo del passato verso il “grande sonno” del regionalismo “asimmetrico”?, in Rass. parl., 2003, 57 ss.

[29]Sull’applicazione della clausola, si veda, tra le altre, la recente sent. n. 226 del 2009, ove si rileva che occorre «rammentarsi che le disposizioni della legge costituzionale n. 3 del 2001 non sono destinate a prevalere sugli statuti speciali di autonomia e sono attualmente invocabili (art. 10 della stessa legge costituzionale n. 3 del 2001) solo per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie di quelle già attribuite, da considerarsi (per la singola Provincia autonoma o Regione speciale) in modo unitario nella materia o funzione amministrativa presa in considerazione». Sul rapporto tra norme statutarie e norme del riformato titolo V, si veda F. Benelli, Art. 10 legge cost. n. 3 del 2001, in S. Bartole-R. Bin (a cura di), Commentario alla Costituzione, II ed., Padova, 2008, 1230.

[30]Cfr., sul punto, la sent. 314 del 2003. V., A. D’Atena, Diritto regionale, 2010, 246 ss.

[31]Cfr., S. Bartole, Esiste oggi una dottrina delle autonomie regionali e provinciali speciali?, in Le Regioni, 2010, 863 ss. Ed anzi, a giudizio della Corte, l’applicazione del criterio della prevalenza della competenza statale trasversale renderebbe “incommensurabili” le rispettive potestà legislative regionali, residuale e primaria, inibendo l’operatività della stessa clausola di adeguamento ex art. 10 Si veda, in questo senso, la sent. n. 234 del 2005, in cui si afferma che: «neppure sussiste la competenza legislativa residuale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost., invocata dalle Province autonome ricorrenti in forza della “clausola di maggior favore” prevista in via transitoria dall’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, anche con riferimento alla asserita esistenza di una“materia dell’impresa”, per la parte di disciplina non inclusa nella competenza relativa alla “tutela e sicurezza del lavoro”. Il criterio di prevalenza che ha portato ad accertare l’esclusiva competenza legislativa dello Stato in materia di “ordinamento civile” non consente né di far rientrare le norme denunciate nella competenza residuale né, comunque, di effettuare la comparazione tra le forme di autonomia garantite dalla Costituzione e quelle statutarie richiesta dal citato art. 10» (corsivo nostro).

[32]V., ancora, S. Bartole, Esiste oggi una dottrina delle autonomie regionali e provinciali speciali?, in Le Regioni, 2010, 863 ss.; cfr., inoltre, S. Parisi, La potestà primaria alla deriva? Spunti ricostruttivi per ripensare un luogo comune, in Le Regioni, 2011, 821 ss.

[33]In questi termini, P. Giangaspero, Le Regioni speciali dieci anni dopo la riforma del Titolo V, in Le Regioni, 2011, 770.

[34]Cfr., I. Ruggiu, Le «nuove» materie spettanti alle Regioni speciali in virtù dell’art. 10, legge costituzionale 3/2001, in Le Regioni, 2011, 775 ss.

[35]Su cui v., C. Borgioli, Le politiche regionali della Sardegna in materia di sistemi museali, cit.

[36]A questo riguardo, il riferimento alla “tutela” sembra doversi leggere in rapporto all’art. 118, comma 3, Cost. Interpretazione, questa, che intenderebbe suffragare lo stesso art. 3, comma 2, lett. a), della legge regionale, in cui si rinvia agli artt. 4 e 5 del Codice dei beni culturali. Sui contenuti della legge, cfr., ampiamente, C. Borgioli, Le politiche regionali della Sardegna in materia di sistemi museali, cit.

[37]Cfr., in argomento, I. Ruggiu, Le «nuove» materie spettanti alle Regioni speciali in virtù dell’art. 10, legge costituzionale 3/2001, in Le Regioni, 2011, 785 ss.

[38]In questi termini S. Mangiameli, L’autonomia regionale speciale nella riforma del Titolo V della Costituzione, in Id., La riforma del regionalismo italiano, Torino, 2002, 159.

[39]A. D’Atena, Dove va l’autonomia regionale speciale? Prime riflessioni sulle tendenze evolutive in atto (con particolare riguardo alla Sardegna ed alla Valle d’Aosta), in Id., L’Italia verso il “federalismo”. Taccuini di viaggio, Milano, 2001, 209 ss.

[40]Così, S. Mangiameli, Riforma federale, luoghi comuni e realtà costituzionale, in Id., La riforma del regionalismo italiano, Torino, 2002, 29.

[41]In questi termini, S. Mangiameli, ibidem.

[42]Così, F. Benelli, La “smaterializzazione” delle materie. Problemi teorici ed applicativi del nuovo Titolo V della Costituzione, Milano, 2006, il quale, tra l’altro, osserva che (pag. 99) «occorre verificare quanto resiste alla prova dei fatti l’affermazione secondo cui la riforma dell’art. 117 Cost. avrebbe invertito il rapporto tra legge dello Stato e legge della Regione».

[43]V., la sent. n. 50 del 2005 in cui si afferma che «questioni di legittimità costituzionale possono quindi anzitutto insorgere per le interferenze tra norme rientranti in materie di competenza esclusiva, spettanti alcune allo Stato ed altre, come l’istruzione e formazione professionale, alle Regioni. In tali ipotesi può parlarsi di concorrenza di competenze e non di competenza ripartita o concorrente. Per la composizione di siffatte interferenze la Costituzione non prevede espressamente un criterio ed è quindi necessaria l’adozione di principi diversi: quello di leale collaborazione, che per la sua elasticità consente di aver riguardo alle peculiarità delle singole situazioni, ma anche quello della prevalenza, cui pure questa Corte ha fatto ricorso (…), qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre». Si veda, nel senso di una progressiva preferenza della Corte per il criterio della prevalenza (già annunciata, peraltro, nella n. 219 del 2005), la recente sent. n. 52 del 2010 (ma così anche la successiva sent. n. 142 del 2010): «Deve, pertanto, ritenersi che la disciplina dei derivati finanziari si collochi alla confluenza di un insieme di materie (…). In questi casi la giurisprudenza costituzionale, mancando un meccanismo di composizione delle interferenze previsto dalla Costituzione, utilizza normalmente il criterio della prevalenza, il quale presuppone l’inquadramento nell’ambito materiale cui è riconducibile il nucleo essenziale delle norme censurate». All’affermazione del criterio della prevalenza segue l’abbandono progressivo del modulo collaborativo: v., la sentenza n. 148 del 2009 in cui, in relazione alla disciplina statale sulle società a partecipazione pubblica introdotta dalla legge finanziaria 2008, la Corte, ricondotte le norme in esame all’ambito della tutela della concorrenza, conclude che «in virtù del criterio della prevalenza, è anche palese l’appartenenza a detta materia del nucleo essenziale della disciplina dalle stesse stabilita (…), con conseguente infondatezza della denuncia di violazione del principio di leale collaborazione». Già nella sent. n. 401 del 2007, si affermava che: «il rispetto delle regole collaborative può essere imposto a livello costituzionale nei soli casi in cui si verifichi un forte intreccio con competenze regionali che richieda l’adozione di modalità concordate o comunque di meccanismi che garantiscano il coinvolgimento dei livelli di governo interessati. Nel caso in esame, le altre competenze regionali diventano l’oggetto sui cui incide la funzione espletata dallo Stato attraverso l’esercizio della potestà legislativa in materia di tutela della concorrenza. Si realizza, dunque, una separazione tra competenza statale e competenza regionale che non richiede, salvo le peculiarità di determinate fattispecie, particolari forme di leale collaborazione nella fase di esercizio della potestà regolamentare». Ancor più nettamente si veda la sent. n. 168 del 2009 in cui si rileva che «la giurisprudenza costituzionale ha precisato che, nel caso in cui una normativa si trovi all'incrocio di più materie, attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa statale e a quella regionale, occorre individuare l'ambito materiale che possa considerarsi prevalente. E, qualora non sia individuabile un ambito materiale che presenti tali caratteristiche, la suddetta concorrenza di competenze, in assenza di criteri contemplati in Costituzione, giustifica l’applicazione del principio di leale collaborazione (…), il quale deve, in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie». Cfr., in argomento, A. D’Atena, Giustizia costituzionale e autonomie regionali. In tema di applicazione del nuovo titolo V, in Id., Costituzionalismo multilivello e dinamiche istituzionali, Torino, 2007, 146 ss.; A. Anzon, I poteri delle Regioni. Lo sviluppo attuale del secondo regionalismo, Torino, 2008, 97 ss.; R. Bin, Alla ricerca della materia perduta (nota a Corte cost. 401/2007), in Le Regioni, 2008, 398 ss.; E. Buoso, Concorso di competenze, clausole di prevalenza e competenze prevalenti, in Le Regioni, 2008, 61 ss.; S. Parisi, Potestà residuale e “neutralizzazione” della riforma del titolo V, in AA.VV., Scritti in onore di Michele Scudiero, III, Napoli, 2008, 1597 ss., in cui si mette condivisibilmente l’accento sul fatto che «il centralismo di ritorno avanza prepotente, al punto tale che la leale collaborazione diventa quasi una parvenza rispetto all’originaria carica paritaria di cui si colorava»; R. Bin, La legge regionale, tra “ri-materializzazione” delle materie, sussidiarietà e resurrezione dell’interesse nazionale, in Ist. fed., 2009, 439 ss.; F. Manganiello, Perché la prevalenza è sempre la risposta? Nota a Corte cost. n. 88/2009, in Forum di Quaderni costituzionali; F. Benelli-R. Bin, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle Regioni, in Le Regioni, 2009, 1185 ss.

[44]Così, in materia di organizzazione sanitaria, ad esempio, la Corte con la sentenza n. 181 del 2006, sebbene riconosca che le impugnate norme regionali «si prestino ad incidere contestualmente su una pluralità di materie (e segnatamente, tra le altre, su quella della organizzazione di enti “non statali e non nazionali”)», e che, dunque, sarebbero in astratto riconducibili alla competenza residuale, conclude che«vadano comunque ascritte, con prevalenza, a quella della “tutela della salute”(…)». Cfr., M. Belletti, Il difficile rapporto tra “tutela della salute” ed “assistenza ed organizzazione sanitaria”. Percorsi di una prevalenza che diviene cedevole, in Le Regioni, 2006, 1176 ss., il quale evidenzia che «la prevalenza, per definizione, opera sempre a favore della competenza più ampia, in quanto ricopre appunto un ambito “prevalente” della materia, dunque sempre a favore dello Stato. Il che determina l'insorgenza di altro interrogativo. Che fine fa il criterio della specialità, che solitamente nel rapporto tra fonti assume portata generale, mentre qui, con una radicale inversione dei termini, viene soppiantato dalla prevalenza? In teoria non sarebbe assurdo sostenere che la competenza più ristretta prevale, in quanto speciale rispetto a quella più ampia, di portata generale»; R. Bin, La legge regionale, tra “ri-materializzazione” delle materie, sussidiarietà e resurrezione dell’interesse nazionale, in Ist. fed., 2009, 439 ss.; F. Benelli-R. Bin, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle Regioni, in Le Regioni, 2009, 1185 ss.

[45]Così, R. Bin, Prevalenza senza criterio. Nota alla sent. 411/2008, in Le Regioni, 2009, 620.

[46]R. Bin, ibidem.

[47]A conferma di questa conclusione potrebbe citarsi l’emblematica vicenda che ha interessato i “lavori pubblici”. La Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 303 del 2003 afferma che, in mancanza di espressa menzione nel nuovo art. 117 Cost., i “lavori pubblici” – materia in senso proprio fino alla riforma del 2001, assegnata, in base all’art. 117, comma 1, Cost. v.f., alla competenza concorrente per gli aspetti di interesse regionale – lungi dall’integrare una materia innominata (da considerarsi, dunque, di spettanza regionale), non costituiscono «una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono» e pertanto possono essere ascritti, di volta in volta, a potestà legislative statali o regionali. Ne consegue, ad avviso del Giudice costituzionale, che non è «configurabile né una materia relativa ai lavori pubblici nazionali, né tantomeno un ambito materiale afferente al settore dei lavori pubblici di interesse regionale» (Così, la sent. n. 401 del 2007, punto 3 del Cons. in dir.). Dal processo di dissolvimento di questa materia sembrerebbero, però, risparmiate, alla luce della recente sentenza n. 45 del 2010, le Province autonome di Trento e Bolzano, proprio in considerazione dell’espressa menzione contenuta nello Statuto tra le attribuzioni di potestà legislativa primaria. Si veda il punto 4 del Con. in dir., ove si osserva che, a differenza delle Regioni ordinarie: «l’art. 8, primo comma, n. 17), del d.P.R. n. 670 del 1972, recante lo statuto speciale, attribuisce, invece, alle Province autonome di Trento e di Bolzano competenza legislativa primaria in materie specificamente enumerate, tra le quali rientra anche quella dei “lavori pubblici di interesse provinciale”. Tale espressa previsione di una competenza propria nella materia in questione e l’ampiezza della stessa sono tali da comportare una maggiore autonomia delle Province autonome così come delle Regioni a statuto speciale rispetto a quella assicurata alle Regioni a statuto ordinario dal novellato Titolo V, che, come già sottolineato, non contempla un ambito materiale, nel settore dei lavori pubblici, che possa considerarsi di competenza regionale». Su questi aspetti, v., R. Bin, La legge regionale, tra “ri-materializzazione” delle materie, sussidiarietà e resurrezione dell’interesse nazionale, in Ist. fed., 2009, 439 ss. Osservazioni analoghe possono farsi con riferimento alla disciplina degli “asili nido”, che nel regime previgente veniva ricondotta alla materia “beneficenza pubblica e assistenza” (in questo senso si veda la n. 139 del 1985, in cui, richiamando anche le precedenti nn. 174 del 1981 e 319 del 1983, si rileva che sembra «innegabile che, nella concorde visione del legislatore, sia statale, sia provinciale, gli asili-nido [debbano] ritenersi appartenere alla materia “assistenza e beneficienza pubblica”») e invece attualmente ricondotta ad una «molteplicità di ambiti materiali». In questo senso, si veda la sent. n. 370 del 2003, in cui si afferma che «neppure può essere accolta la tesi sostenuta dalle ricorrenti secondo la quale la disciplina concernente gli asili nido sarebbe riconducibile alle materie che il quarto comma dell’art. 117 della Costituzione attribuisce alla competenza legislativa “residuale” delle Regioni e, in particolare, alle materie dell’assistenza e dei servizi sociali. Tale ricostruzione (…) non tiene conto dell’evoluzione della legislazione in tema di asili nido, che ha progressivamente assegnato al servizio in esame anche una funzione educativa e formativa, oltre che una funzione di tutela del lavoro, in quanto servizio volto ad agevolare i genitori lavoratori (...). Per quel che attiene in particolare agli asili nido, per quanto già evidenziato in relazione alle funzioni educative e formative riconosciute loro, nonché in considerazione della finalità di rispondere alle esigenze dei genitori lavoratori, è indubbio che, utilizzando un criterio di prevalenza, la relativa disciplina non possa che ricadere nell’ambito della materia dell’istruzione (sia pure in relazione alla fase pre-scolare del bambino), nonché per alcuni profili nella materia della tutela del lavoro, che l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, affida alla potestà legislativa concorrente; fatti salvi, naturalmente, gli interventi del legislatore statale che trovino legittimazione nei titoli “trasversali” di cui all’art. 117, secondo comma, della Costituzione». Ancora, analogamente, in materia di pesca, si veda la n. 213 del 2006 ove si conclude che «la pesca (…) costituisce materia oggetto della potestà legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., sulla quale, tuttavia, per la complessità e la polivalenza delle attività in cui si estrinseca, possono interferire più interessi eterogenei, taluni statali, altri regionali» e che pertanto, «per quegli aspetti, pur riconducibili in qualche modo all’attività di pesca, che sono connessi a materia di competenza ripartita tra Stato e Regioni (tutela della salute, alimentazione, tutela e sicurezza del lavoro, commercio con l’estero, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione delle imprese per il settore produttivo della pesca, porti, previdenza complementare e integrativa, governo del territorio) sussiste la potestà legislativa statale nella determinazione dei principi fondamentali, ai quali il legislatore regionale, nel dettare la disciplina di dettaglio, deve attenersi». Cfr., sul punto, E. Buoso, Concorso di competenze, clausole di prevalenza e competenze prevalenti, in Le Regioni, 2008, 76 ss.; F. Benelli-R. Bin, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle Regioni, in Le Regioni, 2009, 1185 ss., i quali concludono che: «il criterio della prevalenza costituisce insomma la riedizione post-riforma dell’interesse nazionale, che consente alla Corte di affermare la piena competenza dello Stato senza troppo indugiare in argomentazioni o in valutazioni attorno all’opportunità di predisporre controtutele che garantiscano, se non le attribuzioni, almeno il ruolo delle Regioni. Il caso più emblematico è forse quello della disciplina degli appalti pubblici: il criterio della prevalenza riassorbe l’intera “materia” nella “tutela della concorrenza” o nell’“ordinamento civile”, per cui è riportata nella piena disponibilità del legislatore statale, con l’esclusione altrettanto piena di qualsiasi interferenza da parte della legge regionale. Una volta affermata la competenza statale nella “materia”, ogni infiltrazione di competenza regionale appare contestabile e ogni preteso obbligo collaborativo appare superfluo».

[48]Così, S. Mangiameli, L’autonomia regionale speciale nella riforma del Titolo V della Costituzione, in Id., La riforma del regionalismo italiano, Torino, 2002, 159. In senso analogo, A. Ambrosi, La competenza legislativa delle Regioni speciali e l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, in Le Regioni, 2003, 825 ss.

[49]Sul principio di non regressione, formulato dalla Corte, sin dalle prime pronunce – secondo il quale sarebbe «implausibile che il legislatore costituzionale abbia voluto spogliare le Regioni di una funzione che era già ad esse conferita» (n. 13 del 2004) prima della riforma, v. S. Mangiameli, Sull’arte di definire le materie dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2003, 340 ss; E. Gianfrancesco, Materie (riparto tra Stato e Regioni), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, IV, Milano 2006, 3600 ss. G. Scaccia, Legislazione esclusiva statale e potestà legislativa residuale delle Regioni, in F. Modugno e P. Carnevale (a cura di), Trasformazioni della funzione legislativa, vol. IV - Ancora in tema di rapporti Stato-Regioni dopo la riforma del titolo V della Parte II della Costituzione”, Napoli 2008, 113 ss.; R. Bin-G. Pitruzzella, Le fonti del diritto, Torino 2009, 170 ss.

[50]Sulla riconducibilità dello “spettacolo” alla competenza concorrente in materia di “promozione e organizzazione delle attività culturali”, v. già, la sent. n. 255 del 2004, in cui si rileva che «la materia concernente la “valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali”, affidata alla legislazione concorrente di Stato e Regioni, infatti, ricomprende senza dubbio nella sua seconda parte, nell’ambito delle più ampie attività culturali, anche le azioni di sostegno degli spettacoli. (…) nell’attuale sistema costituzionale l’art. 117, comma terzo, Cost., contempla la materia della “promozione e organizzazione di attività culturali” senza esclusione alcuna, salvi i soli limiti che possono indirettamente derivare dalle materie di competenza esclusiva dello Stato ai sensi del secondo comma dell’art. 117 Cost. (come, ad esempio, dalla competenza in tema di “norme generali sull’istruzione” o di “tutela dei beni culturali”). Ciò comporta che ora le attività culturali di cui al terzo comma dell’art. 117 della Costituzione riguardano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura, senza che vi possa essere spazio per ritagliarne singole partizioni come lo spettacolo. Questo riparto di materie evidentemente accresce molto le responsabilità delle Regioni, dato che incide non solo sugli importanti e differenziati settori produttivi riconducibili alla cosiddetta industria culturale, ma anche su antiche e consolidate istituzioni culturali pubbliche o private operanti nel settore (come, ad esempio e limitandosi al solo settore dello spettacolo, gli enti lirici o i teatri stabili); con la conseguenza, inoltre, di un forte impatto sugli stessi strumenti di elaborazione e diffusione della cultura (cui la Costituzione, non a caso all’interno dei “principi fondamentali”, dedica un significativo riferimento all’art. 9)».

[51]Artt.14, lett. r), St. Si.; 3 lett. q), St. Sa.

[52]La ripartizione di competenze legislative (e amministrative) in campo culturale si incentrava su elementi oggettivi: la collocazione dei beni in musei o biblioteche nonché l’appartenenza del bene ad enti locali. È con la successiva normativa di attuazione che, al criterio dell’appartenenza, si sostituisce quello del livello di interesse, regionale o nazionale, estendendone il ricorso al di là dei casi già pure espressamente contemplati nell’art. 117. Si veda il decreto del 1977 n. 616 (art. 47, comma 1: «Le funzioni amministrative relative alla materia “musei e biblioteche di enti locali” concernono tutti i servizi e le attività riguardanti l'esistenza, la conservazione, il funzionamento, il pubblico godimento e lo sviluppo dei musei, delle raccolte di interesse artistico, storico e bibliografico, delle biblioteche anche popolari dei centri di lettura appartenenti alla regione o ad altri enti anche non territoriali sottoposti alla sua vigilanza, o comunque di interesse locale, nonché il loro coordinamento reciproco con le altre istituzioni culturali operanti nella regione ed ogni manifestazione culturale e divulgativa organizzata nel loro ambito»), anticipato, sotto questo aspetto, dallo Statuto del Friuli Venezia Giulia, il cui art. 4, riconosceva alla Regione competenza legislativa primaria (al punto 14) in materia di “musei e biblioteche di interesse locale e regionale”. Cfr., in generale, G. Santaniello, Gallerie, pinacoteche e musei, in Enc. dir., V, Milano, 1968; M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 3 ss.; M. Cantucci, Beni culturali e ambientali, in Nss. dig. it., App., Torino, 1980, 727 ss.

[53]Cfr., al riguardo, in relazione al previgente ordinamento, A. D’Atena, L’autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, 161 ss.; Id., L’impatto del policentrismo legislativo sul sistema delle fonti, in Dir. soc., 1997, 1 ss., ora in Id. (a cura di), L’Italia verso il “federalismo”. Taccuini di viaggio, Milano, 2001, 41 ss., per il quale, nelle materie comprese nell’elenco di cui all’art. 117, 1° comma, Cost., si sarebbe dovuto riconoscere a favore delle fonti locali una riserva assoluta di competenza, mentre, solo per le materie assegnate alla competenza legislativa di una o più Regioni ad autonomia speciale, avrebbe dovuto ritenersi applicabile il principio di preferenza, costituendo, quest’ultimo, un caso di «gerarchia rovesciata».

[54]Nella sent. n. 178 del 1971 – stante, si badi, la parziale inattuazione dello Statuto siciliano – la Corte, infatti, afferma che «l’assunto dell’Avvocatura generale dello Stato tendente ad affermare, argomentando dall’art. 9 della Costituzione, che i beni d'interesse storico, archeologico ed artistico interessano servizi di carattere nazionale e, quindi, proprio in base alla espressa eccezione, contenuta nell'art. 32 dello Statuto, sarebbero esclusi dall'assegnazione alla Regione, si appalesa privo di giuridico fondamento: basta, al riguardo, tener presente che, in forza dell'art. 14, lett. n), dello Statuto, come sopra si è rilevato, alla Regione, in materia di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, è attribuita addirittura la legislazione esclusiva, cosicché se fossero state emanate le norme di attuazione, sarebbe rientrata nella competenza della Regione la stessa emanazione della declaratoria di “particolare interesse archeologico” che, invece, in mancanza di tali norme, é stata legittimamente decretata dal Ministero della pubblica istruzione».

[55]In questo senso, v., F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, 286 e 288.

[56]Si veda ancora la sent. n. 45 del 2010, punto 5 Cons. in dir., laddove si rileva che «in conclusione, dunque, nel settore degli appalti pubblici il riparto di competenze si atteggia in modo diverso a seconda che trovino applicazione il Titolo V della parte II della Costituzione ovvero norme statutarie speciali che prevedano, in via autonoma, la materia dei lavori pubblici, di interesse regionale o, come nel caso qui in esame, di interesse provinciale. Nel primo caso, in mancanza della previsione di un ambito materiale nel quale ricondurre gli appalti pubblici, le Regioni a statuto autonomo possono, nell’esercizio di una loro specifica competenza, emanare norme che producano “effetti proconcorrenziali”, nei limiti innanzi indicati.In presenza, invece, di una previsione statutaria, quale quella in esame, che contempli, quale materia a sé, i lavori pubblici di interesse provinciale, l’ente ad autonomia speciale è legittimato a disciplinare il settore, ma, nell’esercizio di tale specifica competenza legislativa, deve rispettare i limiti fissati dallo statuto speciale (art. 4). Ciò comporta, per quanto attiene in particolare alla tutela della concorrenza, che la disciplina provinciale non possa avere un contenuto difforme da quella assicurata in ambito europeo e nazionale e, quindi, non possa alterare negativamente il livello di tutela assicurato da quest’ultimo». Cfr., S. Parisi, La potestà primaria alla deriva? Spunti ricostruttivi per ripensare un luogo comune, in Le Regioni, 2011, 832, per la quale «la Corte, nel riconfigurare il sistema dei limiti ha omogeneizzato il trattamento per le Regioni a statuto ordinario e a statuto speciale, sterilizzando, in definitiva, le differenze tra di esse, almeno sul piano del concreto atteggiarsi dei limiti».

[57]Cfr., S. Mangiameli, L’autonomia regionale speciale nella riforma del Titolo V della Costituzione, in Id., La riforma del regionalismo italiano, Torino, 2002, 163.

[58]Art. 5, lett. c).

[59]Art. 6, punto 3 dello St. Friuli-Venezia Giulia e Art. 3, lett. m. St. Valle d’Aosta.

[60]In questo senso, P. Pinna, Il diritto costituzionale della Sardegna, Torino, 2003, 91 s.

[61]Cfr., in senso conforme, T. Martines-A. Ruggeri-C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2005, 198 s.

[62]Per una ricostruzione della disciplina regionale in materia di restauro, si veda, C. Borgioli, Le politiche regionali della Sardegna in materia di sistemi museali, cit.

[63]Sulla riconduzione del “restauro” alla “tutela dei beni culturali, si consideri la sent. n. 9 del 2004 in cui la Corte costituzionale afferma che il restauro sia «una delle attività fondamentali in cui la tutela si esplica. Infatti, l’art. 34 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), definisce il restauro come «intervento diretto sulla cosa volto a mantenere l’integrità materiale e ad assicurare la conservazione e protezione dei suoi valori culturali»; l’art. 212 del d.P.R. n. 554 del 1999 descrive il restauro come «una serie organica di operazioni tecniche specifiche indirizzate alla tutela e valorizzazione dei caratteri storico artistici dei beni culturali ed alla conservazione della loro consistenza materiale». A sua volta questa Corte, con la sentenza n. 277 del 1993, ha affermato che il restauro «implica sempre un intervento diretto sulla cosa, volto (nel rispetto dell’identità culturale della stessa) a mantenerla o modificarla, per assicurare o recuperare il valore ideale che essa esprime, preservandolo e garantendone la trasmissione nel tempo».

[64]L’art. 5, comma 1, lett. a) e b) prevede che la Regione ha facoltà di adattare, alle sue particolari esigenze, le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione e di attuazione, tra l’altro, in materia di «istruzione» e «lavoro».

[65]Cfr., I. Ruggiu, Le «nuove» materie spettanti alle Regioni speciali in virtù dell’art. 10, legge costituzionale 3/2001, in Le Regioni, 2011, 775 ss. Più recentemente, la Corte ha accolto la questione di legittimità in relazione ad una legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, in base alla considerazione che risulterebbe «evidente che la disposizione regionale impugnata non [possa] essere ricondotta alla potestà legislativa «integrativo-attuativa» in materia di tutela del paesaggio di cui all’art. 6 dello statuto speciale di autonomia, in quanto determina una inammissibile modifica, per di più in senso riduttivo, della tutela del paesaggio imposta dalla legislazione statale» (sent. n. 101 del 2010).

[66]Cfr., P. Giangaspero, Le Regioni speciali dieci anni dopo la riforma del Titolo V, in Le Regioni, 2011, 765 ss.; S. Parisi, La potestà primaria alla deriva? Spunti ricostruttivi per ripensare un luogo comune, ivi, 821 ss.; I. Ruggiu, Le «nuove» materie spettanti alle Regioni speciali in virtù dell’art. 10, legge costituzionale 3/2001, ivi, 775 ss.

[67]La disposizione, sia detto per inciso, non va esente da critiche, in quanto, come è stato osservato (A. D’Atena, Diritto regionale, Torino, 2010, 251), «muove dal discutibile presupposto che, in virtù del principio statutario del parallelismo, tali funzioni spettino alle Regioni e non, invece, ai Comuni». In questo senso, sembrerebbe, comunque, orientata anche la giurisprudenza costituzionale, in cui si afferma che «per tutte le competenze legislative aventi un fondamento nello statuto speciale, il principio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative conserva la sua validità. Per le ulteriori, più ampie competenze che le Regioni speciali e le Province autonome traggano dalla Costituzione, in virtù della clausola di maggior favore, troverà invece applicazione l’art. 11 della legge n. 131 del 2003 e quindi il trasferimento delle funzioni avrà luogo secondo le modalità previste dalle norme di attuazione e con l’indefettibile partecipazione della commissione paritetica» (così, la sent. n. 236 del 2004, punto 3.1 del Cons. in dir.).

[68]… adottato contestualmente al d.lgs. 23 dicembre 2010, n. 266 “Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione siciliana concernenti il trasferimento, alla Regione, del Castello della Colombaia di Trapani”.

[69]In proposito, è il caso di segnalare il conflitto di attribuzione per violazione degli artt. 32 e 33 dello Statuto, sollevato dalla Regione Sicilia avverso il decreto direttoriale del Ministero della difesa 8 settembre 2010, n. 13/2/5/2010, con cui venivano individuati, al fine del trasferimento al patrimonio disponibile dello Stato, tra gli immobili in uso all’Amministrazione della difesa, da assoggettare a procedure di alienazione, permuta, valorizzazione e gestione (art. 14-bis, comma 3, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della l. 6 agosto 2008, n. 133, ora sostituito dall’art. 307 del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 “Codice dell’ordinamento militare”), numerosi beni d’interesse storico-artistico ubicati in Sicilia, già inseriti nell’elenco dei beni da trasferire alla Regione siciliana, approvato dalla Commissione paritetica nella seduta del 30 settembre 2010 sulla cui base sarebbero stati emanati i due decreti legislativi concernenti il trasferimento alla Regione di beni immobili dello Stato: il decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265 (Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione siciliana concernenti il trasferimento alla Regione di beni immobili dello Stato) e il decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione siciliana concernenti il trasferimento, alla Regione, del Castello della Colombaia di Trapani). La Corte costituzionale, tuttavia, richiamando la consolidata giursprudenza, per la quale sarebbero «estranee alla materia dei conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni le controversie circa la titolarità di un bene, “che non coinvolgano, neppure mediatamente, l’accertamento della violazione di norme attributive di competenza di rango costituzionale” (in questi termini, sentenze n. 443 del 2008 e n. 213 del 2001), dichiara inammissibile il conflitto (sent. n. 319 del 2011).

[70]Art. 32, comma 1, St. sic.: «I beni di demanio dello Stato, comprese le acque pubbliche esistenti nella Regione, sono assegnati alla Regione, eccetto quelli che interessano la difesa dello Stato o servizi di carattere nazionale», a cui si aggiungono altri beni dello Stato, quali «le cose d'interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico, da chiunque ed in qualunque luogo ritrovate nel sottosuolo regionale», destinate a far parte del patrimonio indisponibile della Regione (art. 33, comma 2).

[71]L’art. 119 Cost., nella nuova formulazione – operando, in linea con l’ispirazione di fondo della riforma, una estensione soggettiva delle garanzie costituzionali in favore delle autonomie infraregionali –, riconosce, per un verso, un «proprio patrimonio» non solo alle Regioni, ma anche – a differenza di quanto previsto dal testo originario – ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane. All’estensione del profilo soggettivo corrisponde, però, nel contempo, una riduzione dell’oggetto della garanzia, riferendosi, il testo costituzionale, al solo «patrimonio», e omettendosi ogni riferimento al «demanio», espressamente evocato, invece, nella vecchia disposizione.

[72]Cfr., A. D’Atena, Diritto regionale, 2010, 206 ss.

[73]Sulla situazione del compesso archeologico di Agrigento, si veda, E. Stinco, Analisi delle politiche della Regione Sicilia in materia di reti e sistemi museali. Elaborazione di una panoramica generale della legislazione storica della Regione Sicilia in materia di musei e sistemi museali, cit.

[74]Va, del resto, considerato che la clausola di salvaguardia ex art. 10 l. cost. n. 3 del 2001 ha un ambito di applicazione limitato alle «attribuzioni», ed inidoneo, pertanto, a comprendere l’appartenenza dei beni. Un principio analogo si trova espresso, già nel previgente assetto, nella sent. n. 326 del 1989.

[75]Cfr., la pronuncia n. 26 del 2004, in cui la Corte, richiamando il d.lgs. n. 112 del 1998, afferma la spettanza delle attività di gestione e valorizzazione in capo allo Stato, in quanto titolare del bene di interesse storico-artistico. Rileva, infatti, la Corte che «l’art. 152 del d.lgs. n. 112 del 1998 (…) stabilisce, sia pure ai fini della definizione delle funzioni e dei compiti di valorizzazione dei beni culturali, che Stato, regioni ed enti locali esercitano le relative attività, “ciascuno nel proprio ambito”, presuppone un criterio di ripartizione di competenze, che viene comunemente interpretato nel senso che ciascuno dei predetti enti è competente ad espletare quelle funzioni e quei compiti riguardo ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità. Tale criterio, pur essendo inserito nel decreto legislativo n. 112 del 1998, anteriore alla modifica del Titolo V della Costituzione, conserva tuttora la sua efficacia interpretativa». Cfr., in argomento, D. Nardella, Un nuovo indirizzo giurisprudenziale per superare le difficoltà nell'attuazione del Titolo V in materia di beni culturali? (Nota a sentenza 26/2004), in Aedon, 2/2004, il quale rileva che «la portata innovativa di siffatta sentenza interpretativa di rigetto pone le basi per il consolidamento di un nuovo indirizzo giurisprudenziale (…) che mira ad una sorta di “correzione” del riparto costituzionale di competenze del titolo V, ben distante da una rigorosa interpretazione teoretica dell'art. 117 Cost. e più rispondente al canone della ragionevolezza e della funzionalità, al prezzo di una forte riduzione delle attribuzioni delle regioni nel campo della valorizzazione del patrimonio culturale»; G. Clemente di San Luca-R. Savoia, Manuale di Diritto dei beni culturali, Napoli, 2008, 297 ss.

[76]Il riferimento è al d.lgs. 18 settembre 2006, n. 267 “Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Sardegna recanti modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 19 maggio 1949, n. 250, in materia di demanio e patrimonio”, il cui art. 1 prevede la redazione, da parte di una commissione paritetica, composta da un rappresentante del Ministero per i beni e le attività culturali, un rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze e due rappresentanti della Regione, di appositi elenchi di beni immobili di interesse storico, artistico ed archeologico, da trasferire alla Regione, precisando che, ferme le competenze dello Stato relative alla tutela dei beni di interesse storico, artistico ed archeologico, tali beni entrino a far parte del demanio della Regione (commi 2 e 3).

[77]Cfr., L. Antonini: Il federalismo demaniale: aspetti patrimoniali del federalismo fiscale, in G.F. Ferrari (a cura di), Il federalismo demaniale, Torino, 2010, 56 ss.

[78]È significativo, d’altra parte, che nel quadro dei processi di alienazione e di dismissione, si faccia espresso rinvio proprio alle procedure di cui al già citato art. 58 del d.l. n. 112 del 2008.

[79]V., sul punto, V.M. Sessa, Il federalismo demaniale e i suoi effetti sul patrimonio culturale, in Aedon, 1/2011, per la quale «a ben guardare, la possibilità di dismettere la proprietà di molti beni demaniali non si presenta quale conseguenza eventuale, bensì quale espressa finalità del decreto».

[80]V., C. Garbarino, Aspetti fiscali del processo di attribuzione a comuni, province, città metropolitane e Regioni di un proprio patrimonio, in attuazione del’art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42, in G.F. Ferrari (a cura di), Il federalismo demaniale, Torino, 2010, 69 ss.

[81]… salva la possibilità di “recupero” di un titolo di intervento statale attraverso gli obiettivi di “coordinamento della finanza pubblica”, titolo di competenza statale, non a caso, evocato nella sent. n. 340 del 2009: «Ancorché nella ratio dell’art. 58 siano ravvisabili anche profili attinenti al coordinamento della finanza pubblica, in quanto finalizzato alle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare degli enti, non c’è dubbio che, con riferimento al comma 2 qui censurato, assuma carattere prevalente la materia del governo del territorio, anch’essa rientrante nella competenza ripartita tra lo Stato e le Regioni, avuto riguardo all’effetto di variante allo strumento urbanistico generale, attribuito alla delibera che approva il piano di alienazione e valorizzazione» (punto 8 del Cons. in dir.)

[82]… con la conseguenza, in sostanziale continuità con il vecchio assetto, di riconoscere al legislatore regionale, tutt’al più, il mero compito di «attuazione di una specifica normativa statale». Così, la sent. n. 320 del 2011, punto 2.1.1. del Cons. in dir. Cfr., F. Costantino, La proprietà delle reti dei servizi pubblici locali - in particolare del servizio idrico (a proposito di Corte cost. 320/2011), in www.rivistaaic.it, 2012.

[83]… la quale, in particolare, seguendo un’argomentazione non proprio lineare, quando il bene è in proprietà statale, seguirebbe, ad avviso della Corte, la titolarità del bene e non, invece, la titolarità di funzioni legislative ed amministrative (sentt. nn. 326 del 1989, 343 del 1995, 150 del 2003, 286 del 2004). Mentre, nell’ipotesi inversa in cui la titolarità del bene non sia statale, resterebbe, comunque, assegnata allo Stato – come nel caso delle infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali –, in quanto considerata esercizio dell’autonomia negoziale in tema di concessioni-contratto, e quindi riconducibile, ancora una volta, alla materia “ordinamento civile” (sent. n. 246 del 2009).

[84]Ancora, la sent. n. 320 del 2011, punto 2.1.1. del Cons. in dir.: «La disposizione regionale censurata prevede, sia pure con riferimento alle sole infrastrutture idriche, un caso di cessione ad un soggetto di diritto privato – la società patrimoniale d’àmbito a capitale pubblico incedibile – di beni demaniali e, perciò, incide sul regime giuridico della proprietà pubblica. Essa va, pertanto, ascritta alla materia ordinamento civile, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

[85]Si veda la sent. n. 114 del 2012, in cui si afferma che: «la prevista possibilità di cessione delle infrastrutture idriche, chiaramente incide sul regime della proprietà di tali beni, che, a prescindere dalla titolarità, rientrano nella disciplina demaniale. È pur vero, infatti, come sostiene la Provincia, che il decreto del Presidente della Republica 20 gennaio 1973, n. 115 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di trasferimento alle province autonome di Trento e di Bolzano dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato e della Regione) ha disposto il trasferimento ad essa del demanio idrico statale, così che tutte le acque, superficiali e sotterranee, rientrano nel demanio provinciale e sono, conseguentemente, assoggettate all’esercizio da parte della Provincia di tutte le attribuzioni proprie inerenti a tale demanio. Tuttavia, come precisato dalla giurisprudenza di questa Corte, si deve ritenere che il settore resti disciplinato dall’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale prevede il regime demaniale delle infrastrutture idriche e, quindi, la loro «inalienabilità se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge» e dalle norme del codice civile richiamate dal ricorrente. Siffatta disciplina statale impedisce, quindi, di modificare «il regime della proprietà di beni del demanio accidentale degli enti pubblici territoriali, trattandosi di materia ascrivibile all’ordinamento civile, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera l)» (in particolare, sentenza n. 320 del 2011), alla quale non può sottrarsi neppure la Provincia autonoma di Bolzano, non essendo rinvenibile alcun titolo competenziale specifico al riguardo».

[86]Prevede, infatti, la l. n. 42 del 2009, all’art. 19: «1. I decreti legislativi di cui all'articolo 2, con riguardo all'attuazione dell'articolo 119, sesto comma, della Costituzione, stabiliscono i princìpi generali per l'attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) attribuzione a titolo non oneroso ad ogni livello di governo di distinte tipologie di beni, commisurate alle dimensioni territoriali, alle capacità finanziarie ed alle competenze e funzioni effettivamente svolte o esercitate dalle diverse regioni ed enti locali, fatta salva la determinazione da parte dello Stato di apposite liste che individuino nell'ambito delle citate tipologie i singoli beni da attribuire; b) attribuzione dei beni immobili sulla base del criterio di territorialità; c) ricorso alla concertazione in sede di Conferenza unificata, ai fini dell'attribuzione dei beni a comuni, province, città metropolitane e regioni;d) individuazione delle tipologie di beni di rilevanza nazionale che non possono essere trasferiti, ivi compresi i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale».

[87]In questi termini, F. Palermo, Federalismo fiscale e Regioni a statuto speciale. Vecchi nodi vengono al pettine, in Ist. fed., 2012, 10.

[88]In prima battuta, la questione della possibile applicazione, ai beni culturali, della disciplina sul “federalismo demaniale” – da subito apparsa non pacifica – ha dischiuso uno scenario alquanto problematico. A dissipare le ambiguità è intervenuta una più recente modifica della normativa (art. 27, comma 8, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” convertito con modificazioni dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214), con la quale, per procedere al trasferimento dei beni culturali dallo Stato agli altri enti territoriali, il necessario ricorso agli accordi di valorizzazione regolati dal Codice dei beni culturali è esteso al di là dell’ipotesi di prima applicazione del decreto sul “federalismo demaniale” (art. 5, comma 5). Cfr., sul punto, L. Antonini: Il federalismo demaniale: aspetti patrimoniali del federalismo fiscale, in G.F. Ferrari (a cura di), Il federalismo demaniale, Torino, 2010, 58, per il quale: «in assenza di un input a un trasferimento di maggiore momento che, anche in considerazione del patrimonio storico-artistico presente in tutta la penisola, avrebbe assunto ben diversa rilevanza per le Regioni italiane, residua, in ultima istanza, la sola chance della scelta discrezionale già prevista dal Codice dei beni culturali, che, evidentemente, non rappresenta una novità».

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