Intervento alla tavola rotonda su “La riforma della riforma”, svoltasi nel quadro del Convegno-ISSiRFA dal titolo “Regionalismo in bilico, tra attuazione e riforma della riforma” (Camera dei Deputati, Sala del Cenacolo, 30.6.2004)

Vorrei pormi una domanda preliminare ma che tuttavia mi limito ad enunciare senza approfondirla. Ma siamo proprio sicuri che in questo paese c’è una sincera domanda di federalismo? Due notizie sui giornali di questi giorni mi spingono a questa riflessione (in realtà per me non nuova). La prima è una dichiarazione di D’Onofrio secondo cui essendosi indebolita la Lega nelle recenti elezioni bisogna ripensare il progetto della “devolution”. La seconda è data dalle vicende dei termoconvertitori nella Regione Campania. Ad affrontare questo drammatico problema c’è un Prefetto al quale il Presidente della Regione ha rimesso nel marzo scorso la patata bollente. E a che servono le Regioni se non ad affrontare simili problemi? Mi viene il dubbio che le forze politiche italiane non hanno mai sinceramente perseguito la strada della riforma regionale ed hanno invece spesso utilizzato la stessa quale strumento per il perseguimento di più specifici interessi di schieramento, come uno degli strumenti di una strategia di migliore posizionamento politico ed elettorale. Già fin dal primo passaggio, è assai significativo il rapido mutamento di fronte dopo il 18 aprile del 1948: i democristiani e le sinistre si scambiano velocemente i ruoli che avevano assunto nel dibattito alla Costituente. La Dc favorevole ad ampie autonomie assume posizioni centraliste dopo la conquista del governo e le sinistre, prima assai tiepide, diventano strenuamente regionaliste. Negli anni settanta – siamo al secondo passaggio – la attuazione della riforma regionale assume la funzione più di uno strumento di compensazione per i comunisti esclusi dal governo centrale (ma che appoggiavano in vario modo: siamo nel periodo del Governo Colombo) che uno strumento di riforma dello Stato. Negli anni novanta – siamo al terzo passaggio – si scopre addirittura il federalismo e tutti abbracciano con una operazione di trasformismo verbale una così impegnativa parola d’ordine. Nella Commissione Jotti-De Mita il termine “federale” era bandito da tutti tranne dalla Lega (un ordine del giorno da me presentato che pur respingendo l’assetto federale dello Stato richichiedeva un “regionalismo di ispirazione federalista” ottenne pochi voti). Poi è riemerso con il Governo Dini: allorché i voti leghisti diventano appetibili per l’uno e per l’altro schieramento tutti si scoprono federalisti (anche chi,come An, era su posizioni decisamente centraliste). Da questa rincorsa alla Lega nasce – temo – la riforma varata in tutta fretta, alla fine della scorsa legislatura, da un centrosinistra sorprendentemente unanime e animato da chiari intenti propagandistici. Una riforma talmente generosa da risultare imbarazzante fino a trasferire alle Regioni la “produzione e trasformazione nazionale dell’energia o le grandi vie di comunicazioni o l’ordinamento delle professioni.
Invece il tema è serio: la valorizzazione dei governi regionali é richiesta anche e sopratutto dai processi di globalizzazione. Come causa ed effetto insieme della globalizzazione dell’economia si accentuano, da un lato, la multinazionalizzazione delle imprese e la finanziarizzazione e transnazionalizzazione dell’economia, ma dall’ altro si sviluppano ulteriormente i fenomeni di decentramento produttivo e la crescente flessibilizzazione delle strutture produttive. Si é accelerato, in breve, il passaggio dal modello dell’impresa “fordista” all’impresa “a rete”, diffusa, interconnessa e ad alta tecnologia. Mentre l'organizzazione fordista è modellata in modo piramidale e ha bisogno di interloquire con strutture centralizzate dello Stato, l'impresa a rete ha bisogno di un contesto territoriale favorevole, né centralizzato, né frammentato in logiche microlocalistiche e municipalistiche. Le c.d. variabili ambientali costituiscono ormai fattori esterni all’impresa, strettamente dipendenti dal territorio in cui essa opera, sia sotto il profilo della sua infrastrutturazione che con riferimento ai valori culturali in esso radicati. Sono queste le ragioni per cui la competizione in una economia globale tende sempre più a porsi come competizione fra sistemi regionali. Quest’ultima ormai riguarda non solo e non tanto le imprese quanto i sistemi territoriali entro cui si collocano le imprese stesse. Basti pensare, per esempio, al ruolo del Galles, di importanti zone dell’Irlanda, della Regione del Reno settentrionale, della Regione catalana, dell’area di Tolosa, della Regione del Rodano, oppure in altri Continenti, della Regione-Stato di Singapore, della Regione di Osaka, di Tokyo, della Silicon Valley, di San Diego ecc. L’esperienza italiana dei distretti industriali - spesso con dimensioni territoriali più ridotte - rappresenta una variante significativa di tale regionalismo, talvolta utilizzata come modello in varie parti del mondo. Solo robusti livelli regionali e locali di governo sono, infatti, potenzialmente in grado di creare le sopra ricordate condizioni ambientali; di favorire cooperazione fra imprese, flessibilità dei fattori della produzione, equilibrio fra gli stessi, intercambiabilità di conoscenze, compatibilità produttive. Solo tali livelli di governo - si ritiene - possono fornire in particolare adeguati “servizi reali” alle imprese, dalla formazione professionale, manageriale e imprenditoriale, alla infrastrutturazione del territorio, alle reti di approvvigionamento (idrico, energetico, ecc.), ai sistemi integrati di trasporto e di comunicazione, al cablaggio e all’informatizzazione, ai servizi di disinquinamento.
E veniamo al testo legislativo approvato dal Senato. Trovo importante che il Senato abbia sottratto alla seconda Camera la “fiducia” al Governo e si sia posto l’obbiettivo di dare spazio alla presenza delle Regioni. L’Italia è l’unico sistema parlamentare al mondo che affida il rapporto fiduciario a entrambe le Camere e sono a tutti evidenti le conseguenze di una possibile divaricazione nella composizione politica delle due camere, peraltro verificatasi nel 1994 e in parte nel 1996. E trovo altresì importante che si sia preso coscienza che la riforma “federalista” del 2001, privando il Parlamento di poteri per la tutela di “interessi nazionali”, poteva portare o al grave indebolimento delle istituzioni centrali di governo o allo spostamento in capo alla Corte costituzionale, in funzione di supplenza, di poteri che spettano al Parlamento. Le recenti Sentenze della Corte – la 303 e non solo – stanno riscrivendo il Titolo V alla ricerca con altri nomi (la sussidiarietà, la tutela della concorrenza, le prestazioni essenziali ecc.) degli interessi nazionali da proteggere. La giurisprudenza della Corte facendo leva sulla necessità di contemperare fra loro competenze interconnesse e sulla necessità di attivare forme di cooperazione e di collaborazione sollecita oggettivamente la presenza di un organo parlamentare in cui siano presenti le Regioni.
L’obbiettivo di una ridefinizione degli interessi nazionali è stato individuato dal progetto ma la strada percorsa per perseguirlo è tortuosa e deviante. Non convince infatti che la individuazione degli interessi nazionali, che possano portare alla invalidità di una legge regionale, sia affidata non alla Camera politica, che rappresenta la Nazione, ma al Senato federale e che la decisione definitiva spetti al Capo dello Stato, impropriamente coinvolto in una decisione eminentemente politica. Trovo sbagliato inoltre che non sia regolamentata espressamente - pur con le necessarie cautele e garanzie onde evitare gli abusi realizzatisi sotto il regime del vecchio Titolo V - la possibilità per la Camera dei deputati, in concorso con il Senato, di individuare preventivamente i limiti derivanti dalla tutela degli interessi nazionali, come invece previsto dall’art. 72 della Costituzione tedesca. Trovo infine che sia mal costruita la potestà legislativa “esclusiva” in materie importanti come la scuola, la sanità, la polizia locale e le materie così dette residuali proprio perché l’esclusività di per sé non consente la possibilità di interventi preventivi a difesa dell’interesse nazionale.
Del tutto bizzarro il Senato federale. In modo silenzioso i senatori hanno costruito non un Senato federale ma una “Camera di garanzia”, sul modello – viene detto con una certa approssimazione da senatori sia della maggioranza che dell’opposizione – del Senato americano, in grado di temperare gli “ardori monistici del principio maggioritario”. Ma negli Stati Uniti il Senato può svolgere quella funzione all’interno di un sistema presidenziale contrapponendosi a un Presidente forte (ma abbiamo sempre detto – lo dice ora nelle sue memorie anche Hilary Clinton – che si tratta di un governo debole perché “divided”). In Italia un Senato siffatto, non legato da un rapporto fiduciario con il Governo, non vincolato a una disciplina di maggioranza, finirebbe per rappresentare una ulteriore causa di debolezza della funzione di governo alimentando forme di trasformismo oligarchico. Darebbe spazio al riemergere di quel irresponsabile notabilato che non ha mai smesso del tutto di accompagnare la storia politica del nostro paese.
Ma c’ è di peggio! Al pesante e anomalo bicameralismo italiano la riforma sostituirà un’inedita anomalia: un pesante ed inevitabile conflitto di competenza fra le due Camere, che si verrebbe ad aggiungere ai conflitti fra Stato e Regioni. La distinzione fra leggi la cui competenza alla approvazione definitiva è della Camera e leggi la cui competenza all’approvazione definitiva è della Camera federale non trova riscontro (o trova riscontri assai limitati) in altri Paesi, neanche in quelli a federalismo spinto: non esiste costituzione federale al mondo, per esempio, che dia una parola decisiva alla Camera federale sulla manovra di bilancio. Dopo avere dato alle Regioni, con la riforma del 2001, "la produzione, trasporto e distribuzione nazionale (sic!) dell'energia" e ai Comuni le grandi opere si compirebbe il disegno di un federalismo unico al mondo!! Come è noto, semplificando al massimo, questo è lo schema seguito in altri Paesi: entrambe le Camere hanno competenza su tutte le leggi, salva la parola definitiva alla Camera che assicura la rappresentanza politica nazionale. Alla Camera di estrazione regionale vengono riconosciuti poteri di proposta (se investita per prima nel procedimento) o di invito al riesame e di emendamento se investita in seconda battuta. Talvolta riconosciuto alla Camera regionale la possibilità di ritardare per qualche mese l’approvazione definitiva del progetto ovvero, in qualche limitato caso, di alzare il quorum necessario per l’approvazione definitiva.
Una ricerca operata dal servizio studi della Camera dei deputati, prendendo a campione le leggi approvate nel corso del 2003, dimostra chiaramente che lo schema di ripartizione della competenze fra Camera e Senato disegnato nel testo al nostro esame non avrebbe consentito di individuare di chi è la competenza in un gran numero di provvedimenti legislativi. Delle 93 leggi approvate (al netto delle leggi di ratifica e le tre leggi di manovra) solo 54 sono di attribuzione certa (42 di esse da assegnare al procedimento monocamerale a prevalenza Camera, 9 a favore del procedimento monocamerale a prevalenza del Senato e 3 al procedimento bicamerale perfetto); le altre 39 leggi restano di incerta attribuzione, fra cui leggi rilevanti quali la legge Biagi sul mercato del lavoro, la legge La Loggia sull’attuazione del Titolo V, la legge sullo smaltimento dei rifiuti radioattivi, la delega fiscale, la legge sul sistema scolastico. Riuscirebbero i due Presidenti delle camere e il comitato paritetico previsto nel testo a dirimere i possibili conflitti? Non finirebbero inevitabilmente sui tavoli della Corte costituzionale (anche su iniziativa dei cittadini colpiti da leggi ritenute approvate in modo non corretto?). Ai conflitti fra stato e regioni si aggiungerebbero – ripeto - quelli, ancora più devastanti, fra Camera e Senato.
L’opposizione – e qualche collega in questa sede – presenta questo testo come un tentativo di rafforzare in modo gravemente patologico la funzione di governo; la maggioranza che ha approvato il progetto ribatte che è un modo per rafforzare in modo fisiologico la funzione di governo. In realtà hanno decisamente torto entrambi perché appare evidente che il governo sarà invece decisamente indebolito da una Camera non in sintonia con il governo. Non in sintonia perché eletta in un periodo non coincidente con la elezione della Camera politica (e con un sistema elettorale inevitabilmente diverso) e perché non legata da un rapporto fiduciario con il governo e per di più non soggetta a possibile scioglimento anticipato. Potrebbe addirittura prevalere lo schieramento rimasto soccombente alla Camera e comunque non si formerebbe una vera e propria maggioranza riconducibile a un legame fiduciario con il Governo.
Nonostante questo il Senato federale sarebbe chiamato ad occuparsi in via definitiva di politica industriale, di energia, di politiche sociali, di commercio estero e via discorrendo, vale a dire di tutte le materie per le quali è prevista una competenza concorrente fra Stato e Regione. E’ di tutta evidenza quanto simili materie siano rilevanti per l’indirizzo politico di governo, ma esse saranno definitivamente disciplinate da un organo in cui il governo non ha una maggioranza precostituita: l’unica arma ad esso affidata è la richiesta che la Camera sia associata in un procedimento di tipo rigidamente bicamerale, in cui permarrebbe comunque il potere di veto del Senato. Altro che fuoriuscita dal bicameralismo paritario!
Inoltre sempre secondo questo testo il Senato dovrà occuparsi in via definitiva di “armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” e inoltre – sia pure stavolta in via paritaria con la Camera – sarebbe chiamato a dire una parola decisiva sulla “perequazione delle risorse finaziarie” e sull’attuazione dell’art. 119 Cost. e persino sulla approvazione del bilancio dello Stato (almeno fino a quando non si sarà realizzato appieno il “federalismo fiscale”). Basti pensare alle tormentate vicende delle leggi finanziarie per rendere evidente l’impossibilità di distinguere fra loro tali materie e l’importanza che esse assumono per la politica dei governi (ad esempio: le norme sul divieto di indebitamento degli enti locali per spese correnti, previste dalle ultime leggi finanziarie, sarebbero norme di competenza del Senato in quanto di armonizzazione dei bilanci ovvero di competenza bicamerale, perché di attuazione dell’art. 119 Cost.?).
La Camera dei deputati – dove si esprime la dialettica fra maggioranza ed opposizione – potrebbe limitarsi, in materie così rilevanti, a proporre emendamenti ma deciderebbe definitivamente da solo il Senato. In nessun Paese a regime federale - torno a ripeterlo con forza - si verifica una simile aberrazione. Per limitarmi a un esempio: nella Germania federale il Bundesrat ha solo il potere di emendare progetti, ferma restando – dopo un tentativo di conciliazione attraverso una apposita commissione mista – l’ultima parola alla Camera politica, vale a dire al Bundestag (tranne limitati poteri del Bundesrat per la ripartizione di alcuni tributi fra centro e periferia). Senza dire che una apposita commissione di studio tedesca - la Commissione Steuber - ha proposto di ridurre gli attuali poteri del Bundesrat proprio per l’azione di intralcio da esso svolto alla realizzazione del programma di governo, senza la contestuale assunzione di una responsabilità di fronte alla pubblica opinione.
L’ho detto nei giorni scorsi in una audizione e torno a ripeterlo: siamo di fronte a un progetto pericoloso per le istituzioni della Repubblica non perché punti a una “dittatura del governo” ma perché, al contrario, paralizza gravemente la funzione di governo. Lo dico in modo ancora più netto: in questo progetto non viene delineato un premierato “assoluto” – come sostenuto in modo polemico da qualche collega – ma un premierato azzoppato e reso impotente.
Tale paralisi sarebbe determinata, peraltro, non da un’assemblea federale radicata nel territorio (e ciò – ripeto – sarebbe comunque un fatto anomalo nel panorama delle repubbliche effettivamente e da sempre federali) ma da una assemblea (peraltro contestata dai Presidenti delle Regioni) formata da ex parlamentari o ex amministratori locali eletti nella Regione, non un’assemblea “federale” ma piuttosto una assemblea di notabili (ultraquarantenni) che, come il senato dell’ottocento, “non farà crisi” ma che sarà in grado di paralizzare la funzione di governo. Avrei preferito il modello Bundesrat ma trovo buona l’idea di fare eleggere il Senato contestualmente alla elezione dei Consigli regionali. Però va evitata coerentemente la tentazione di subordinare la elezione di questa assemblea alla logica di funzionamento dell’assemblea politica.
Nel 1991, nella seduta di mercoledì 20 febbraio della Commissione per le questioni regionali, che allora presiedevo, proposi la inversione delle competenze, allora fissate dall’art. 117 della Costituzione, allo scopo di individuare i compiti in cui il legislatore statale avrebbe dovuto concentrarsi in modo esclusivo e lasciare il resto alle Regioni. Pensavo così sia di evitare la tanto inseguita “divisione ottimale delle competenze” e sia di lasciare allo Stato la possibilità, in ogni caso, di approvare norme di indirizzo per la legislazione regionale. La formula da me proposta ricalcava l’art. 72 del Grundgesetz: il legislatore statale, con il consenso del Senato delle Regioni, può intervenire – proponevo – “allorchè si ravvisi che una questione non può essere efficacemente regolata dalla legislazione delle singole regioni o lo richiedano la tutela di fondamentali interessi nazionali”. Dietro la mia proposta in realtà c’era una sfiducia – che vedo riemergere nei costituenti europei – verso ogni forma di distinzione rigida delle competenze e una maggiore fiducia verso un sistema di cooperazione che coinvolgesse i vari livelli di governo, fino a dare la parola decisiva, a determinate condizioni, al Parlamento nazionale, ma a un Parlamento in cui siano presenti le Regioni, evitando la duplice tentazione di una prevaricazione centralista o di un disfacimento localistico.

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