Stelio MANGIAMELI, L'autonomia finanziaria delle Regioni tra attuazione e inattuazione (luglio 2015)
1. Principi del regionalismo e autonomia finanziaria
2. I caratteri dell’autonomia finanziaria e il disegno costituzionale italiano
3. L’attuazione dell’autonomia finanziaria nella realizzazione del regionalismo
4. Il decreto legislativo n. 56 del 2000 sul federalismo fiscale e la revisione del Titolo V
5. La legge n. 42 del 2009 e la sua attuazione
6. La crisi economica e la riduzione dell’autonomia finanziaria
7. La nuova revisione del Titolo V e la “ragione” del regionalismo
8. Il contenuto delle modifiche: una rappresentanza regionale nel Senato; un riparto più flessibile delle competenze; e un’autonomia finanziaria più efficiente
1. Il punto di partenza di ogni analisi sull’autonomia finanziaria regionale è che essa costituisce un elemento indefettibile dell’autonomia. Senza la disponibilità di risorse finanziarie l’autonomia stessa non viene in essere. Infatti, se muoviamo da un’opinione abbastanza condivisa da parte di tutti gli studiosi che si occupano di regionalismo, federalismo e Stati decentrati, osserviamo che le coordinate minime di ogni ordinamento che si configura come tale sono tre, vale a dire: 1) la sussistenza di un riparto di competenze; 2) l’esistenza di strumenti di partecipazione delle entità sub-statali alla gestione dello Stato; 3) il riparto del potere impositivo, ovvero del potere fiscale. Si tratta di una sintesi del concetto di autonomia (federale o regionale) che nasce dall’osservazione dell’esperienza degli ordinamenti, ma i tre elementi indicati non sono meramente descrittivi, quanto piuttosto e allo stesso tempo prescrittivi, nel senso che solo la loro compresenza conforma l’ordinamento in senso regionale o federale. In origine, tra l’altro, essi non servivano tanto a garantire l’autonomia degli stati membri o delle regioni, quanto a strutturare l’esistenza e il funzionamento del livello federale e/o dello stato centrale.
Ora, sui primi due elementi – oggetto di trattazione di altre relazioni – la riflessione è sempre stata molto sviluppata nel dibattito della dottrina e ha anche prodotto una certa influenza nella realtà politico-istituzionale. In particolare, sul carattere costituzionale del riparto delle competenze e sulla sua resa in termini di efficienza, i costituzionalisti, pur dividendosi tra modello duale e modello cooperativo, hanno chiarito (o oscurato, secondo altre opinioni) quale debba essere il contenuto delle competenze. Allo stesso modo, per il tema del raccordo delle stesse competenze e della partecipazione, ampia è stata la discussione e, alla fine, sembra essere approdata, anche in Italia, alla formulazione costituzionale di una Camera delle Regioni, il Senato della Repubblica, per la partecipazione di queste alla vita dello Stato. In considerazione di ciò, nel caso italiano il nuovo Senato avrebbe una duplice natura: per un verso, di organo dello Stato (rectius: della Repubblica) e, per l’altro, di organo di rappresentanza del territorio.
Quanto al terzo elemento, quello che riguarda il riparto del potere fiscale, che, ovviamente, è strettamente connesso agli altri due, si conviene che è il potere fiscale a conferire concretezza alle materie regionali e alle politiche pubbliche nel territorio, a realizzare forme di redistribuzione e perequazione territoriale e a costruire un modello di gestione delle risorse pubbliche fondato sulla responsabilità (la c.d. accountability) di ogni livello di governo e, perciò stesso, anche equilibrato e trasparente. Una responsabilità e una trasparenza che non sono aspetti “astratti”, in quanto non si fonderebbero su una pretesa astratta del potere (come potrebbe essere nel conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni), ma si baserebbero sulla determinazione concreta di chi impone, o meglio, del soggetto politico che rappresenta una determinata comunità e spende il prelievo fiscale, nella misura stessa dell’imposizione, sopportato dalla comunità di riferimento. Si tratta di un momento politico particolarmente significativo, che trova espressione nel principio no taxation without represantion le cui implicazioni operano in diverse direzioni.
Dei tre elementi considerati per la strutturazione di uno Stato regionale quest’ultimo, quello del potere fiscale, è sicuramente il più problematico e controverso. Difatti, sebbene anche i primi due aspetti presentino non pochi problemi e incertezze, non si può non riconoscere che dal punto di vista del profilo finanziario la storia del regionalismo italiano è un esempio negativo da non seguire.
Si pensi alla vicenda dell’ordinamento regionale ordinario, dal quale conviene muovere questa riflessione. Questo si formava nel 1970, nel momento in cui si costituivano le Regioni ordinarie, con l’elezione dei primi consigli regionali, e, per contro, nello stesso anno si approvava una riforma del sistema tributario e finanziario, che non teneva conto dell’organizzazione regionale e centralizzava l’imposizione e la riscossione di tutte le imposte. Con riferimento, poi, al finanziamento dei diversi livelli di governo, si varava un impianto di finanza pubblica fondato sul sistema della finanza derivata, in cui lo Stato era il percettore anche delle imposte locali e, successivamente, attribuiva e trasferiva le risorse finanziarie a ogni livello di governo che diventava competente per la spesa. Si realizzava, così, alla nascita dell’ordinamento regionale, una dissociazione tra il momento impositivo e quello della spesa.
Lo Stato dunque distribuiva le risorse finanziarie dal centro alla periferia. Questo, ovviamente, ha fatto sì che il vecchio art. 119 Cost., venisse sin dall’inizio disatteso. Infatti, benché l’autonomia finanziaria delle Regioni fosse riconosciuta “nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica”, anche al fine del coordinamento “con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni”, essa era determinata nei contenuti, dal momento che alle Regioni avrebbero dovuto essere “attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali”, e per quanto la nozione di “attribuzione” possa considerarsi elastica e indeterminata, non pare possibile dubitare che essa dovesse implicare l’assegnazione di una (o più) base(i) imponibile(i) che le Regioni, entro determinati limiti posti con legge dello Stato, avrebbero potuto gestire: con la determinazione dell’aliquota, che determina la fase dell’imposizione, con l’accertamento, con cui si determina l’imposizione verso il singolo, e la riscossione del tributo, che realizza il prelievo.
È bene precisare che quello previsto nell’art. 119 Cost., nell’originaria formulazione, ma lo stesso vale come si dirà anche per la nuova versione, non realizzava un modello di federalismo fiscale, del quale se ne può parlare solo all’interno della Costituzione sono distribuite (e garantite) direttamente le basi imponibili. Anzi, se si vogliono precisare i termini della nascita e della disciplina del potere fiscale delle federazioni, questi concernevano la garanzia di spesa e, perciò, di imposizione, per il livello centrale e non certamente per quello degli stati membri.
Emblematica, a tal riguardo, è stata la vicenda statunitense. Nella fase confederale, infatti, atteso che la Confederazione non era dotata di potere fiscale, il sistema di finanziamento era rimesso al versamento di risorse da parte delle ex Colonie. Durante la guerra contro l’Inghilterra, per i disguidi di queste nei pagamenti, la gestione delle spese militari, ne risentiva, tanto più che la Confederazione medesima aveva una scarsa reputazione finanziaria e non trovava facilmente credito. Al momento della scrittura della Costituzione federale, onde porre rimedio a simili inconvenienti, la prima competenza enumerata nell’articolo 1, sezione 8a, è quella che riguarda il potere fiscale della Federazione, c.d. Taxing and Spending Clause (The Congress shall have Power To lay and collect Taxes, Duties, Imposts and Excises, to pay the Debts and provide for the common Defence and general Welfare of the United States; but all Duties, Imposts and Excises shall be uniform throughout the United States), che viene così riconosciuto in modo da assicurare l’indipendenza al Government degli Stati Uniti.
Anche nel caso della Grundgesetz del 1949, nonostante molti elementi di centralizzazione fossero da tempo comparsi nell’esperienza del federalismo tedesco, l’articolo (il 105) di apertura della Sezione X originariamente prevedeva, secondo la tradizione del Federalismo, la competenza esclusiva in materia di imposte attribuita alla Federazione (La Federazione ha competenza legislativa esclusiva per i dazi doganali e i monopoli fiscali) e quella concorrente su quota parte di determinate imposte (sui consumi, sugli affari, sulle entrate, sul patrimonio, sulle successioni, sulle donazioni, sulla proprietà e l’impresa [imposte reali] ), “wenn er die Steuern ganz oder zum Teil zur Dekkung der Bundesausgaben in Anspruch nimmt oder die Voraussetzungen des Artikels 72 Absatz 2 vorliegen”; successivamente, con la revisione del 2006, una competenza concorrente più estesa (La Federazione ha competenza legislativa concorrente sulle altre imposte se il provento di esse le spetta in tutto o in parte, ovvero se esistano i presupposti di cui all'articolo 72, secondo comma).
Con la stessa revisione costituzionale del 1969 viene introdotto l’art. 104 a che prevede un principio di distribuzione del potere di spesa tra la Federazione e i Länder (La Federazione e i Länder sopportano separatamente le spese relative ai compiti loro propri, salvo diverse disposizioni della presente Legge fondamentale) e altre regole sulla sopportazione delle spese dovute alle specifiche condizioni del federalismo d’esecuzione che caratterizza il modello tedesco. Nel 2006, poi, oltre alle modifiche degli articoli precedenti, è stato introdotto un nuovo articolo, l’art. 104 b, sulla perequazione territoriale e la crescita, dovuto all’esperienza della riunificazione tedesca, che consente alla Federazione, nell’ambito delle proprie competenze legislative, di concedere aiuti finanziari ai Länder (per i Comuni e i Länder), per investimenti particolarmente significativi che sono necessari per garantire una direzione per l’equilibrio economico generale, per la perequazione delle capacità economiche delle diverse regioni della federazione e per il sostegno della crescita economica.
2. Quando, invece, la Costituzione rimette alla legge del livello di governo centrale, e quindi dello Stato, la determinazione dell’autonomia finanziaria degli altri livelli di governo non si può più propriamente parlare di federalismo fiscale, né di vera e propria autonomia finanziaria. È emblematico, in tal senso, ancora una volta, quanto prescrive la Grundgesetz per un rapporto che non è di tipo federale, ma di autonomia. Com’è noto nella tradizione federale gli enti locali fanno parte e sono disciplinati dall’ordinamento degli Stati membri (dei Länder, delle Regioni, delle Province, ecc.). La ragione di ciò risiede nella costituzione di questi enti all’interno dello Stato membro e nella mancata devoluzione alla Federazione delle relative competenze, successivamente alla sua formazione. Il rafforzamento del principio di autonomia all’interno dello Stato federale tedesco ha comportato l’inserimento nella clausola di omogeneità dell’ordinamento federale (art. 28 GG), con una legge di revisione del 1997, di una disposizione volta ad assicurare che “la garanzia dell’autonomia amministrativa si estende anche ai fondamenti dell’autonomia finanziaria; questi fondamenti comprendono una risorsa fiscale basata sul potenziale economico, di cui i comuni beneficiari fissano l’aliquota impositiva” (Die Gewährleistung der Selbstverwaltung umfaßt auch die Grundlagen der finanziellen Eigenverantwortung; zu diesen Grundlagen gehört eine den Gemeinden mit Hebesatzrecht zustehende wirtschaftskraftbezogene Steuerquelle). Anche nel caso di autonomia finanziaria, perciò, la garanzia costituzionale è indefettibile.
L’opzione dell’Assemblea costituente seguì alcuni dettami del modello federale frammisti a quelli dei sistemi regionali, ad esempio, nel garantire l’autonomia statutaria e quella legislativa e amministrativa, ma – per quanto riguarda l’attribuzione delle risorse finanziarie – fu lontana dal modello di federalismo fiscale e anche dalla previsione di una autonomia finanziaria costituzionalmente garantita.
La scelta di rimettere l’autonomia finanziaria delle Regioni alle “leggi della Repubblica”, che ne avrebbero stabilito le “forme e i limiti” e che l’avrebbero coordinata “con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni”, rappresentava una garanzia dimidiata. Vero è che il testo costituzionale aveva previsto che “alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali”, ma questa disposizione non si è mai tradotta in un vero e proprio potere fiscale, ma semplicemente in una pretesa a vedersi attribuito un certo gettito e nel corso dell’esperienza concreta peraltro anche questo aspetto dell’autonomia finanziaria era stato ridotto ad un dato formale atteso il potere riconosciuto alla legge dello Stato, sia pure in via di fatto, di vincolare le Regioni sul versante della spesa.
Nella sostanza, l’opzione che prevalse in seno all’Assemblea costituente era più prossima alla tradizione amministrativa di origine francese, per la quale lo Stato aveva il potere di amministrare le risorse finanziarie delle entità sub-statali, che in origine erano i Comuni e le Province, cui si aggiungevano queste entità nuove che erano le Regioni, la cui fisionomia non appariva del tutto nitida; non si sapeva, infatti, se bisognava considerare il nuovo ente responsabile di compiti statali (o di interesse nazionale), in concorrenza con lo Stato, oppure se lo si doveva ritenere semplicemente titolare di competenze di ambito territoriale limitato, alla stregua di un grande ente locale, come tendeva a ricostruirlo una parte della dottrina del tempo – come pure quella successiva – e una consistente giurisprudenza costituzionale che si è sviluppata a partire dal 1970.
Ciò nonostante, nell’ordinamento concreto storicamente il potere dello Stato conviveva con il riconoscimento di un potere impositivo locale sino alla riforma tributaria del 1970.
Ovviamente, ci si può a lungo interrogare sulle ragioni che determinarono questa centralizzazione finanziaria, proprio in considerazione del fatto che, tanto la tradizione Statutaria, quanto quella Fascista, come pure quella che contraddistinse il primo periodo Repubblicano, avevano visto il permanere di fonti tributarie locali e un sistema finanziario articolato territorialmente.
In realtà, l’esigenza della centralizzazione nasceva proprio dal bisogno di semplificare le imposte locali e l’introduzione delle Regioni ordinarie fu l’occasione per estendere il nuovo sistema tributario anche a queste. Le diverse imposte locali furono accorpate in un’unica imposta locale sui redditi (ILOR) gestita dallo Stato e il cui gettito era attribuito pro-quota ai diversi enti locali e alle Regioni. Inoltre, la centralizzazione fiscale coincise con un altro importante fenomeno che ne rafforzò la tendenza, e cioè l’affermazione completa dell’idea di Stato sociale. Lo Stato sociale, difatti, si è rivelato un potente strumento di concentrazione del potere centrale, sia all’interno degli ordinamenti caratterizzati da una tradizione autonomistica debole, come l’Italia, sia all’interno degli ordinamenti contraddistinti da una forte tradizione federale; basti pensare a quanto accadde in Germania, con la revisione costituzionale del 1968. Qui, infatti, con la riforma dei cosiddetti compiti comuni si ebbe un trasferimento di competenze dei Länder alla Federazione, con un forte ampliamento dei poteri di intervento della Federazione sulle competenze locali. Anche la riforma della Costituzione finanziaria del 1969, con l’introduzione dell’articolo 104a nella Grundgesetz, testimonia questa tendenza alla centralizzazione non solo delle competenze, ma anche della gestione delle risorse pubbliche.
3. A prescindere dalla successiva degenerazione dello Stato sociale in Stato assistenziale, è del tutto evidente che questa tendenza verso il centralismo ha avuto degli effetti sul nascente regionalismo italiano, sia dal punto di vista delle competenze, e sia sul versante della finanza. Sul piano delle competenze i poteri delle Regioni sono stati sempre considerati come cedevoli, rispetto all’intervento legislativo statale nelle materie regionali enumerate; con riferimento ai poteri finanziari, poi, le Regioni non sono state mai un soggetto impositore – nonostante la dizione dell’art. 119 originaria lo prevedesse – e via via progressivamente non sono state neanche un soggetto autonomo dal punto di vista della spesa, perché i trasferimenti dello Stato venivano sottoposti a forti vincoli di spesa, ragion per cui, anche su questo versante, esse non godevano più di alcuna forma di autonomia. Le uniche risorse che residuavano nella disponibilità della classe politica regionale erano quelle che servivano al loro mantenimento e a quello della loro cerchia politica. Anche da questa circostanza origina un malcostume che durerà sino ai nostri giorni, quando si è posto il problema del taglio dei c.d. “costi della politica” e che ha accomunato i diversi livelli della politica italiana.
Questa situazione che rese poco efficiente la spesa pubblica territoriale e costoso il mantenimento dello “Stato assistenziale”, è stata alla base della crescita della spesa pubblica complessiva e del debito pubblico italiano, anche per via della progressiva associazione sul versante della spesa, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, dell’opposizione di governo. Si giunse, così, a una condizione assolutamente insostenibile della finanza pubblica nel momento in cui ci si pose l’obiettivo – non secondario per la posizione strategica del nostro Paese – della moneta unica, a seguito della sottoscrizione del Trattato di Maastricht nel febbraio del 1992.
Con la crisi dell’estate del 1992, che portò l’Italia fuori dal sistema monetario europeo (SME), si determinarono due effetti: una forte svalutazione e un depauperamento del tesoro, nel tentativo iniziale, compiuto dalla Banca d’Italia, di difendere la moneta. La prima maxi-manovra fu compiuta dal governo del tempo nel settembre di quell’anno. In quella situazione, l’Italia provò le difficoltà, nel dialogo europeo, dovute al suo debito, con l’allontanamento in modo sensibile della prospettiva della moneta unica dal nostro orizzonte, cosa che avrebbe significato un esborso maggiore sugli interessi per il debito, attesa la difficoltà a trovare credito.
Di qui, la particolare politica di quegli anni, seguita dai diversi governi che si sono succeduti. L’importanza di questi eventi è fondamentale, perché costituiscono i motivi della riforma del 2001, a cui si giunge quando tutto il percorso europeo della moneta unica si conclude e l’euro diventa moneta circolante, il 1° gennaio 2002.
Non si può certo pensare che non ci sia un collegamento tra i problemi della finanza e il sistema di articolazione dei poteri interni. Quale fu, perciò, la scelta che si fece per realizzare entro il 1999, come prevedeva il Trattato di Maastricht, l’ingresso dell’Italia nella terza fase della moneta unica, che avrebbe portato all’euro?
Si pensò che fosse necessario “alleggerire” lo Stato. Quest’ultimo, infatti, versava in una condizione finanziariamente difficile, dal punto di vista del deficit di bilancio e da quello del debito pubblico: entrambi i parametri previsti dai criteri di convergenza per questi indicatori non erano rispettati dall’Italia. L’operazione più semplice era l’intervento sul bilancio statale per ricondurre il deficit sotto la soglia del 3% del PIL. Quest’operazione è stata realizzata spostando le competenze dal livello Statale a quello regionale o locale, riducendo così la spesa statale, ma violando il parametro costituzionale dell’art. 119, comma 2, nella misura in cui le risorse finanziarie delle Regioni avrebbero dovuto avere un ammontare commisurato ai “bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali”. Trasferire le funzioni, senza conferire le risorse finanziarie necessarie al loro svolgimento fu proprio un’idea “geniale” – espressione genuina dell’“indole” (per usare le parole di Santi Romano) del popolo italiano – compiuta per il tramite del c.d. “federalismo a Costituzione invariata”, attraverso le Leggi Bassanini (n. 59 e 127 del 1997) e i decreti legislativi attuativi (in particolare il D. Lgs. n. 112 del 1998).
In realtà, in quegli anni che vanno dal 1992 al 1999, sarebbe stata necessaria una concreta riorganizzazione della Repubblica, da compiersi in modo coerente con i principi di una forma di Stato regionale che avrebbe dovuto affrontare le sfide dell’internazionalizzazione dell’economia e di un più impegnativo processo di integrazione europea. E questo non fu fatto. Ciò che fu fatto, invece, fu lo spostamento delle funzioni con la legge ordinaria, senza una revisione della Costituzione, utilizzando la competenza di attuazione prevista dall’art. 117, comma 2, e la delega delle funzioni amministrative, contenuta nell’art. 118, comma 2, per realizzare una vera e propria trasformazione del principio dell’enumerazione delle competenze regionali, un risultato palesemente in contrasto con la Costituzione, prodotto da un uso abnorme degli strumenti costituzionali. E tuttavia, quel comportamento, alquanto improvvisato, si rivelò efficace per il rispetto del parametro del 3% del deficit, mentre il peso eccessivo del debito pubblico alla fine non fu opposto dalle Istituzioni europee e ciò permise all’Italia l’ingresso nella moneta unica.
L’Italia deve, pertanto, alle modifiche ordinamentali un po’ improvvisate della seconda metà degli anni ’90, il recupero di credibilità a livello europeo e il suo ingresso nell’euro. In quella condizione divenne un obbligo cercare di dare una copertura costituzionale ai cambiamenti apportati all’ordinamento. Di qui la revisione costituzionale del Titolo V compiuta con la legge costituzionale n. 1 del 1999 e con la legge costituzionale n. 3 del 2001.
Gli ordinamenti multilivello, di tradizione federale o regionale, richiedono di continuo modifiche per un adeguamento alle condizioni che vive lo Stato nel suo complesso e, se mantenuti in modo adeguato, si rivelano quelli più flessibili ed efficienti, raggiungendo prima degli ordinamenti centralistici le condizioni ottimali. Quanto detto è mostrato molto bene dall’esperienza tedesca nella quale si sono susseguite ben sessanta revisioni costituzionali dal 1951 al 2014; e, per ben diciotto volte è stato modificato il riparto delle competenze tra Bund e Länder. Ciò conferma che i sistemi politico-statuali di tipo composto (federali o regionali) sono quasi come un sistema di “vasi comunicanti”, in cui l’equilibrio può essere modificato a seconda delle pressioni applicate, da un lato o dall’altro, determinando delle modifiche che consentono al sistema nel suo complesso di reagire sempre in modo efficiente. Con riferimento al sistema americano, questo fenomeno diventa ancor più evidente. Infatti, al di là della Costituzione e degli emendamenti costituzionali che hanno inciso sul federalismo statunitense, questo ha attraversato storicamente diverse fasi; basti pensare, per non risalire ulteriormente nel tempo, al New Deal, che portò a una certa centralizzazione dei poteri, e alla successiva riscoperta dei diritti degli Stati, con la quale si avviò una fase di decentralizzazione degli stessi. In breve, anche negli Stati Uniti il federalismo si comporta come un sistema di “vasi comunicanti” che tende a un equilibrio da centro e periferia. Un particolare esempio di ciò è stato ancora di recente offerto dalla sentenza della Corte Suprema (NFIB v. Sebelius - June 28, 2012) sulla Legge del 2010 (Patient Protection and Affordable Care Act), voluta dalla Presidenza Obama, con la quale veniva previsto, per un verso, che la mancanza di una assicurazione sanitaria avrebbe comportato il pagamento di una penalty e, per l’altro, che gli Stati avrebbero dovuto estendere il sistema sanitario (Medicalaid), oppure sopportare una riduzione del finanziamento federale. Con un voto di 5-4, la Corte ha confermato la parte della legge relativa al pagamento di una penalty (c.d. mandato individuale) per la mancata assicurazione sanitaria, come valido esercizio del potere del Congresso di “imporre e riscuotere le tasse” (Art. I, § 8, cl. 1). La Corte, invece, ha dichiarato l’incostituzionalità della disposizione sanzionatoria del Medicalaid, statuendo che il governo federale non ha il potere di trattenere finanziamenti esistenti per gli Stati che scelgono di non partecipare all’estensione del programma Medicalaid. Infatti, secondo la Corte Suprema, il Congresso non ha il potere di ordinare agli Stati membri di regolamentare le proprie attività secondo le sue istruzioni. Il Congresso può offrire le sovvenzioni agli Stati membri e richiedere a questi di rispettare le condizioni di accompagnamento, ma gli Stati devono conservare un’autentica possibilità di scelta in merito alla facoltà di accettare, o meno, l’offerta.
4. Tornando al tema, il raggiungimento della moneta unica e la revisione del Titolo V sono, perciò, strettamente connesse, soprattutto per i cambiamenti apportati al riparto costituzionale delle competenze. Dal punto di vista finanziario, si registra un cambiamento, rispetto a quanto si era realizzato a partire dal 1970, già con la determinazione delle regole di competenza delle “Leggi Bassanini”; il punto di riferimento è il D. Lgs. 56 del 2000, Disposizioni in materia di federalismo fiscale.
Il decreto traeva fondamento da una delega legislativa (art. 10, L. n. 133 del 1999), la quale avrebbe dovuto comportare un allineamento delle risorse finanziarie alla distribuzione delle funzioni tra Stato e Regioni e che, perciò, non avrebbe dovuto “comportare oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato e per i bilanci del complesso delle regioni a statuto ordinario”; inoltre, il decreto avrebbe dovuto coordinare la nuova disciplina finanziaria “con gli obiettivi di finanza pubblica relativi al patto di stabilità interno”.
Essenzialmente la disciplina del decreto legislativo avrebbe dovuto abolire i trasferimenti fiscalizzandoli e dando così alle funzioni regionali una base imponibile propria, o derivante da compartecipazioni a tributi erariali. La qualcosa comportò nel 2001 una spesa statale al 27% del PIL, una spesa regionale dell’8,7% e, per gli enti locali, del 4,7%. Tuttavia, subito dopo l’ingresso dell’euro, la spesa pubblica, in particolare quella statale, ricominciò a crescere, giungendo nel 2009, prima che misure particolari dovute alla crisi economica venissero assunte, al 30,1% del PIL, per lo Stato ( 3,1), al 10,5%, per le regioni ( 1,8), e al 5,3%, per gli enti locali ( 0,6).
Il sistema creato dal decreto n. 56, però, non rappresenta un’attuazione dei principi del federalismo fiscale e neppure delle regole del nuovo articolo 119 Cost., il quale richiedeva – diversamente dalla precedente statuizione – che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni (...) stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, che “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” e che il sistema di finanza territoriale sia completato da “un fondo perequativo”, istituito dallo Stato, “senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”.
Bisogna, tuttavia, considerare che con quest’atto normativo si consentiva una maggiore autonomia finanziaria alle regioni, quanto meno sul versante della spesa, eliminando i vincoli di destinazione delle risorse finanziarie attribuite, un principio, questo, che la giurisprudenza costituzionale applicherà più o meno costantemente fino agli anni della crisi economica, quando attraverso il coordinamento della finanza pubblica, consentirà allo Stato operazioni di riduzione dell’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali.
Lo svolgimento delle vicende spiega come mai la riforma costituzionale non vide, né prima, né dopo la sua approvazione, un dibattito sul federalismo fiscale. La situazione della finanza pubblica del 2001, peraltro, era ancora molto complessa; infatti, il controllo del deficit di bilancio (ma per alcuni anni l’Italia non rispetterà neppure questo parametro) non impediva affatto la crescita del debito pubblico, inconsapevolmente si gettavano così le basi del disastro finanziario cui si sarebbe giunti con la crisi economica nel 2011. Tra l’altro, sempre nel 2001, vi era appena stato un cambio di maggioranza al Governo. Il nuovo Governo, guidato da Berlusconi, che si trovava a dover implementare la riforma del Titolo V, impiegò due anni per scrivere la prima e unica legge di attuazione della riforma (n. 131 del 2003), rivolta soprattutto a prevenire l’esercizio delle competenze legislative nelle materie precedentemente attribuite alla legge statale, ma nella quale erano del tutto assenti i problemi dell’amministrazione pubblica e delle misure di carattere finanziario. Queste ultime, perciò, continuavano a essere rette dall’equazione scritta nell’ultima pagina del decreto legislativo n. 56 del 2000: un algoritmo che doveva individuare anche le modalità di distribuzione delle risorse. Ragion per cui, nella sostanza, quella legislatura si può dire che, dal punto di vista del dibattito sull’amministrazione regionalizzata e sul federalismo fiscale, sia stata “muta”.
In tale contesto, mentre del tempo prezioso andava perduto per il riordino dell’amministrazione e della finanza pubblica, la Corte costituzionale si ritrovava a gestire la concretizzazione della riforma del Titolo V. La giurisprudenza costituzionale assumerà sin da subito una logica di continuità rispetto al passato, dando un’interpretazione delle nuove disposizioni orientata con un certo favore verso lo Stato, o meglio verso il momento dell’uniformità rispetto a quello della differenziazione. Resta singolare la sentenza n. 303 del 2003 con la quale si assiste alla formulazione della c.d. “chiamata in sussidiarietà”, che consente interventi legislativi in ambiti materiali costituzionalmente rimessi alla competenza esclusiva o concorrente delle regioni. La giustificazione principale di questa giurisprudenza creativa risiede nella mancanza di flessibilità che il nuovo disegno regionale presenta e nell’assenza di strumenti di collaborazione tra Stato e regioni a livello legislativo, anche a seguito della non attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
Gli interventi della Corte determinano un incremento della flessibilità delle competenze, ma proprio il giudice costituzionale avverte che una stabilizzazione delle competenze può realizzarsi, più che con le decisioni che concludono il contenzioso costituzionale, con “la attuazione dell’art. 119 Cost.”, che la Corte considera “urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni”; inoltre, sempre il giudice costituzionale sottolinea che “la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli enti locali contraddittorie con l’art. 119 della Costituzione espone a rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (sentenza 370 del 2003).
Questo monito della Corte coglieva pienamente nel segno, nel senso che l’attuazione dell’art. 119 avrebbe potuto determinare un riordino più efficiente delle funzioni amministrative e della loro distribuzione tra i diversi livelli di governo territoriale. Invece, si è continuato in modo astratto con forme di rivendicazione della competenza legislativa attraverso un contenzioso costituzionale cospicuo, senza tenere conto che il riparto delle competenze – anche quello di origine duale – è sempre dinamico, perché è chiamato a confrontarsi con i cambiamenti della realtà, può assumere significati diversi e persino discostarsi parecchio linguisticamente dai significati originari, com’è accaduto, ad esempio, con la “caccia” che ha finito con significare “protezione della fauna”. Nel disegno originario del 1947, del resto, la Regione doveva occuparsi essenzialmente dell’agricoltura e dell’urbanistica; si trattava di materie importanti per il tempo: l’urbanizzazione era un fenomeno nuovo e crescente, la legge urbanistica che aveva per la prima volta messo ordine nella materia era la n. 1150 del 1942, l’Italia era un paese essenzialmente agricolo e ancora arretrato nello sviluppo industriale. L’Assemblea costituente si trovava difronte a questi bisogni della società che codifica nel riparto delle competenze, ma lo sviluppo economico successivo del paese ha fatto si che il disegno originario del regionalismo potesse apparire “fuori moda” al momento della sua attuazione. Ciò è sembrato accadere, ad esempio, per alcune materie, come il caso della “beneficienza pubblica”, – un termine che storicamente aveva un preciso significato, rinviando alla legge del 1890 sulle IPAB – la cui nozione, nel 1970, quando le regioni ordinarie vennero in essere, sembrava ormai desueta e restrittiva, rispetto alle competenze in materia di “assistenza sociale”.
Ora, è chiaro che il significato delle competenze, senza che intervenga una revisione, si presti a cambiamenti con il passare del tempo, spesso in via tacita, a volte sulla base di accordi tra i soggetti che possono rivendicare le competenze medesime; ma, quando una funzione amministrativa è coperta da una base imponibile che è destinata allo svolgimento di quella funzione, la quale si stabilizza nella competenza di chi ha la disponibilità della base imponibile e può evolvere nel suo contenuto anche attraverso forme di interpretazione infrasistematica. Diversamente, qualora il finanziamento delle funzioni sia alquanto incerto o nella disponibilità di un soggetto diverso da quello che esercita la funzione, come accade con il sistema dei trasferimenti dei fondi, la funzione stessa si può spostare con una semplice disposizione legislativa e le modifiche di significato delle materie o i cambiamenti della realtà saranno tutti argomenti validi per destabilizzare i poteri pubblici di un sistema multilivello.
Dal punto di vista dell’interpretazione costituzionale, poi, la Corte ha avuto il merito di considerare l’art. 119 immediatamente precettivo, senza che fosse necessario un intervento di attuazione da parte del legislatore ordinario; e questo ha consentito alle Regioni di ottenere in sede contenziosa la dichiarazione di illegittimità delle disposizioni statali sui trasferimenti vincolati. Inoltre, il giudice costituzionale (sentenza n. 17 del 2004) ha ricavato dalla disposizione costituzionale un principio per il quale il nuovo sistema di finanziamento regionale si deve basare su un mix delle diverse fonti. Le Regioni (e gli enti locali), infatti, devono avere risorse proprie, compartecipazioni di tributi erariali e una quota del fondo perequativo. Questa combinazione di risorse finanziarie, infine, secondo la Corte deve essere, non solo equilibrata, secondo la condizione generale della finanza pubblica, ma anche in considerazione del rispetto dell’autonomia regionale; per cui, persino la disciplina del patto di stabilità deve essere funzionale, non solo alle condizioni poste dall’Unione europea, ma anche a quanto previsto dalla Costituzione in tema di autonomia finanziaria.
5. Se il Parlamento e il Governo dell’epoca, anziché occuparsi di una (nuova) revisione totale della parte seconda della Costituzione, si fossero occupati di concretizzare questi principi, il Paese ne avrebbe ricavato un notevole giovamento. Invece, la legislatura, dal 2003 al 2006, restava impegnata sul tema della revisione totale e la legge costituzionale che veniva approvata dal Parlamento non superava il vaglio del referendum costituzionale. Così, l’attuazione del Titolo V e, in particolare, del nuovo sistema di finanza regionale e locale continuava a essere ritardato e si riproponeva esattamente come se fosse il momento iniziale della riforma dopo le elezioni politiche generali del 2006, grazie alle quali si apriva una nuova legislatura con una diversa maggioranza e con un governo di centrosinistra.
Quando il nuovo governo si insediava, si incominciava a lavorare sul tema del federalismo fiscale. Si consideri che il momento, dal punto di vista finanziario era alquanto positivo, anche se la crescita del PIL in quegli anni era inferiore alla media europea e a quella di tanti paesi europei appena entrati a far parte dell’Unione. Il debito venne considerato sostenibile proprio per la (debole) crescita e dei tassi d’interesse alquanto bassi, in considerazione della circostanza che la nuova moneta, l’euro, appariva essere particolarmente apprezzata dai mercati. Si tratta di un quadro che di lì a poco sarebbe cambiato radicalmente; però, a quel momento non sembrava sussistere alcuna controindicazione a che la nuova maggioranza si occupasse di federalismo fiscale. Addirittura, in seno al Governo, tre gruppi diversi lavorarono al tema del federalismo fiscale, presso il Ministero dell’economia e delle finanze, presso il Dipartimento per gli Affari regionali e presso quello per le riforme istituzionali.
Quando questi tre gruppi di lavoro si incontrarono, ognuno era portatore di una proposta diversa; di qui il problema di unificare le diverse proposte formulate a livello governativo. Non ci fu quindi nessuna collaborazione in seno al Governo tra i diversi gruppi di lavoro. E questo si è rivelato un modus operandi alquanto estemporaneo di una compagine governativa. Alla fine la questione fu risolta in modo gerarchico, quindi prevalse il coordinamento del Ministero dell’economia e delle finanze, che presentò, a nome del governo, un disegno di legge – peraltro mal formulato e incompleto – sul tema del federalismo fiscale proprio quando, inopinatamente, la maggioranza parlamentare entrò in crisi e il Presidente della Repubblica dovette sciogliere anticipatamente le Camere, indicendo le nuove elezioni politiche generali, a seguito delle quali si assiste nuovamente ad un cambio di maggioranza e di governo.
È durante la campagna elettorale del 2008, che il tema del federalismo fiscale fu oggetto di un serrato confronto tra le coalizioni in competizione. Di conseguenza, quale che fosse la coalizione vincente, una legge sul federalismo fiscale doveva essere presa in considerazione Ciò comportò anche che all’elaborazione del disegno di legge prendessero parte, oltre al governo, anche tutti i gruppi parlamentari, senza un’opposizione preconcetta e che la legge n. 42 del 2009 venisse deliberata con un’ampia maggioranza, di molto superiore rispetto a quella che sorreggeva il governo.
Tuttavia, l’errore compiuto nella scrittura della legge fu dato dal convincimento, un po’ assurdo, che si pretendeva di portare a termine la riforma del federalismo fiscale in un tempo molto lungo e con una complicata stratificazione di atti di normazione e di esecuzione. La legge n. 42, infatti, era una legge di delega, sulla cui base, tra il 2010 e il 2011, sono stati adottati ben undici decreti legislativi, i quali a loro volta prevedevano dei decreti attuativi di carattere ministeriale; inoltre, la legge di delega considerava l’ipotesi che i decreti legislativi, potessero essere modificati da decreti legislativi correttivi. Oltre a ciò, le forze politiche, che tenacemente si erano confrontate sul tema del federalismo fiscale, non compresero per tempo l’arrivo della crisi economica che già sul finire del 2008 dava i primi segnali e che, nel momento in cui l’ultimo decreto legislativo (n. 149 del 6 settembre del 2011) venne emanato, ormai aveva manifestato in pieno tutta la sua virulenza in Europa e, in particolare, in Italia, dove mise in crisi il governo del tempo e porto alla formazione di un governo tecnico (o del Presidente della Repubblica) sorretto da una maggioranza composita e legata solo dai timori delle misure europee. Ciò decretò la fine di ogni tentativo di implementare la farraginosa riforma del federalismo fiscale e l’instaurazione di una legislazione della crisi che corromperà l’intero disegno della riforma costituzionale del Titolo V e non solo del capitolo inerente all’autonomia finanziaria delle Regioni.
6. Nei sistemi federali, nei momenti di crisi, si determina una tendenza alla centralizzazione del potere fiscale, perché – ovviamente – in quei frangenti c’è un problema di riduzione delle risorse finanziarie disponibili.
Ciò comporta, come anche l’esperienza federale americana della crisi del 1929 e del New Deal hanno insegnato, che si può sì determinare un certo centralismo nelle decisioni di investimento delle (limitate) risorse pubbliche, ma non vi può essere un’alterazione complessiva del sistema federale medesimo. Anzi, proprio la presenza di un ordinamento di tal genere consente, quasi naturalmente, per la flessibilità di cui è dotato, di procedere modifiche istituzionali più rapide ed efficaci, purché sia mantenuto un rilevante grado di indipendenza delle unit constituencies. Di qui anche il rispetto delle regole istituzionali che lo conformano, in modo che, durante la crisi, il sistema entri in una condizione di funzionalità provvisoria, per ritornare all’equilibrio più classico tra centro e periferia nel momento in cui la crisi scompare o rallenta. Sintomatica, al riguardo, risulta la vicenda del federalismo statunitense, a partire dalla crisi del 1929. Com’è noto il governo federale operò per superare la condizione di recessione, intervenendo in campi tradizionalmente di competenza degli Stati membri, come il Labour Law, per combattere la disoccupazione, garantire i salari e rimettere in moto l’economia, superando così le barriere del federalismo duale, per quello che a posteriori è stato definito il federalismo cooperativo. È merito della Corte Suprema, per un verso, avere salvaguardato la legislazione federale che puntava al superamento della crisi e, per l’altro, non avere mai conferito un tratto autoritario all’esercizio della competenza federale, che è stata ammessa solo se non vi sono “previsioni costituzionali che possono comportare un’autonoma limitazione” ed è sempre contenuta entro i limiti della pressure, senza mai giungere a una forma di compulsion (coercizione) nei confronti dello Stato membro (Steward Mach. Co. v. Davis, 301 U.S. 548 [1937]), conservando, pur nelle variazioni dovute alle diverse fasi del federalismo americano, il principio cooperativo così formulato (v. South Dakota v. Dole, 483 U.S. 203 [1987]; NFIB v. Sebelius, 567 U.S. ___ [2012]). Si può perciò affermare che, anche in periodo di crisi, nel federalismo cooperativo americano, che consiste in una forma di ingerenza nelle competenze statali da parte della Federazione, lo Stato membro conserva comunque la possibilità di rifiutare la collaborazione, sia pure subendo un qualche effetto negativo, ma senza una reale menomazione dei suoi poteri.
Inoltre, le crisi hanno prodotto sì nei sistemi federali meccanismi di concentrazione delle risorse e del potere fiscale, ma anche originali modelli di ridistribuzione delle risorse finanziarie, che valorizzano i principi del federalismo. Si pensi al fenomeno delle grants-in-aid, cioè della spesa di fondi per il benessere generale; un potere riconosciuto alla federazione nel rispetto della welfare clause (art. 1, § 8, 1st cl., Const. US), che agevolò il superamento della crisi da parte degli Stati Uniti e che rimase, dopo quell’evento, come una forma consentita attraverso cui il governo federale può imporre requisiti e restrizioni ai comportamenti politici degli stati. Ancora, con la recente crisi del 2008 il governo federale degli Stati Uniti è intervenuto, non riducendo le risorse degli Stati membri o modificando l’assetto delle competenze, ma aumentando potentemente la massa monetaria, direttamente attraverso l’American Recovery and Reinvestment Act (ARRA), che ha assicurato un intervento di circa 800 mld di dollari, e attraverso la FED, che ha fatto ricorso massicciamente a diversi strumenti di politica monetaria anche non convenzionali (v. le misure di Quantitative Easing (QE)), per garantire una sufficiente base monetaria e mantenere bassi gli interessi sugli assets su cui interveniva.
Nella vicenda italiana, al momento della crisi, anche per via dei vincoli europei, il governo ha, immediatamente, prelevato per intero le somme giacenti nei fondi perequativi istituiti, in ottemperanza dell’art. 119, comma 3, Cost., dagli articoli 9 e 13 della legge n. 42 del 2009; inoltre, dal punto di vista fiscale, ha imposto una costrizione delle basi tributarie delle Regioni e degli enti locali e, persino, il versamento allo Stato del gettito di tributi attribuiti alle autonomie locali e alle Regioni.
Nel primo caso sono riapparsi nuovamente i trasferimenti, cioè l’istituzione di fondi nel bilancio statale con il successivo trasferimento agli enti competenti per la spesa di una quota sulla base di un piano di riparto. È, ad esempio, il caso del trasporto pubblico locale, una materia di competenza regionale particolarmente importante, soprattutto dal punto di vista della spesa, considerando che è la seconda voce di spesa dei bilanci regionali, dopo la sanità. Il trasporto pubblico locale era finanziato in modo fiscalizzato con una quota dell’accisa sui carburanti che riscuotevano le Regioni. Infatti, le Regioni avevano una base finanziaria nell’accisa e, sulla base del gettito, organizzavano il funzionamento del trasporto pubblico locale, eventualmente aumentando la spesa, rispetto all’accisa riscossa, con risorse aggiuntive proprie. Le Regioni, perciò, hanno avuto una piena responsabilità del trasporto pubblico locale sino a quando la legislazione della crisi non ha dato nuovamente vita a un fondo ad hoc nel bilancio dello Stato, consentendo così allo Stato di incamerare per intero l’accisa sui carburanti. Successivamente lo Stato ha trasferito le quote del fondo per il trasporto alle Regioni, imponendo loro il taglio delle percorrenze. Le Regioni, perciò, si sono viste costrette a praticare una politica di taglio dei chilometri disponibili nell’ambito del trasporto pubblico locale per contribuire al bilancio dello Stato.
Peraltro, per alcuni fondi di spesa – ancora attivi – per particolari categorie di cittadini, addirittura si arriva allo svuotamento totale da parte dello Stato. Si può ricordare, qui, il fondo per l’assistenza ai malati di SLA. Ebbene, lo Stato nel 2012 lo ha azzerato totalmente, ripristinandolo successivamente, per via delle del grave allarme sociale che il taglio dei fondi aveva provocato. Il che ha significato che per un periodo dell’anno una parte consistente delle persone malate di SLA, a meno che non possedessero risorse proprie, si vedevano costrette a ricercare risorse che non erano più risorse pubbliche, ma potevano essere solo risorse private, messe a disposizione dalle proprie famiglie, o da determinate associazioni di volontariato.
Per ciò che attiene al versamento allo Stato del gettito di tributi attribuiti ad altri enti, rimane esemplare la vicenda dell’IMU sulla prima casa. Questa imposta è stata ripristinata con il decreto Salva Italia (n. 201 del 2011), che ha previsto la devoluzione del gettito dai Comuni allo Stato. Si è trattato, in una qualche misura, anche di una frode dal punto di vista della comunicazione tra il cittadino e le Istituzioni, perché quella era un’imposta – per definizione – locale di cui si è appropriato lo Stato, per di più senza dar conto della destinazione.
Il problema delle basi imponibili gestite dai diversi livelli di governo implica anche quello della responsabilità (la accountability di cui si parla nei sistemi anglosassoni), cioè della possibilità da parte del cittadino di controllare e di ottenere risposte e riscontri sull’utilizzo delle risorse finanziarie da parte dei propri governanti. Ora, nel caso dell’IMU, ad esempio, il cittadino avrebbe diritto di chiedere al proprio Sindaco, al quale ha versato l’imposta, il modo in cui ha impiegato le relative risorse; mentre la circostanza che il gettito sia stato di fatto incamerato da un altro ente, sia pure lo Stato, non rende più responsabile l’autorità locale e, paradossalmente, neppure l’autorità che ha concretamente avuto la disponibilità delle risorse. Il circuito della accountability è stato interrotto su entrambi i versanti.
7. L’attuale fase è caratterizzata dalla proposta di revisione costituzionale del governo in carica e riguarda sia il Parlamento, il procedimento legislativo e il circuito della fiducia, sia il Titolo V e il riparto delle competenze.
Dopo un periodo di lunga attesa del regionalismo italiano, adesso, nel giro di un quindicennio, è molto probabile che gli articoli della Costituzione che lo disciplinano possano essere nuovamente modificati. Questo di per sé non è un problema; anzi, da questo punto di vista, se si fa il paragone con il federalismo tedesco, potremmo persino dire che il Titolo V è stato cambiato poche volte. Il problema riguarda le modalità con le quali lo si modifica. Da questo punto di vista, sembra che, anziché procedere con cambiamenti parziali di adeguamento e miglioramento, vi sia sempre, quando si mette mano a questa parte della Costituzione, un mutamento “epocale”. Nel 2001, c’era quello “del federalismo a tutti i costi” e, nel 2015, c’è quello “del ritorno al centro a tutti i costi”. Non è questo il modo migliore di scrivere le riforme costituzionali.
A ciò si aggiunga che, nel caso italiano, le Regioni non sono state mai viste con favore da parte dell’opinione pubblica. Questo lo si deve alla circostanza che è mancato un discorso sulla fondazione del regionalismo. Per chiarire questo aspetto appare utile considerare comparativamente il caso tedesco. Ora, per quel che riguarda la Germania e le numerose revisioni della Gundgesetz, non è detto che le riforme apportate al federalismo tedesco, dal ’49 a oggi, abbiano determinato sempre un incremento di autonomia a favore dei Länder. Anzi. Sotto certi punti di vista le Regioni italiane si sono viste riconosciute anche condizioni migliori rispetto ai Länder tedeschi. Il problema di fondo, però, è che, al di là della considerazione sulla “quantità” di autonomia goduta dai Länder tedeschi, in Germania non sarebbe possibile mettere in discussione il carattere federale dello Stato e l’articolazione della Repubblica in Bund e Länder (e ciò a prescindere dalla circostanza che sussiste un limite alla revisione costituzionale in tal senso, nel terzo comma dell’art. 79 della Grundgesetz). L’idea stessa di un’organizzazione federale dello Stato rappresenta una parte del patrimonio culturale e della tradizione politica tedesca. Si tratta cioè di un sentimento profondo del popolo tedesco.
Invece, nel caso italiano, l’introduzione delle Regioni nel sistema istituzionale per opera della Costituzione del 1947, non si basava su un corrispondente sentimento politico e ciò spiega il ritardo, rispetto ai termini previsti dalle disposizioni transitorie e finali, con cui è stato realizzato l’ordinamento regionale e, inoltre, dà conto della tendenza che sin dal primo momento l’istituzione Regione prese, il quale non sfuggì agli osservatori stranieri e ai più attenti studiosi italiani. La realizzazione regionale fu piegata ai “bisogni” della classe politica senza rispetto per il disegno autonomistico della Costituzione e della funzione democratica che il nuovo ente avrebbe dovuto realizzare nei confronti della Repubblica, adeguando “i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Da qui derivano anche le numerose distorsioni delle funzioni delle regioni, ridotte progressivamente nella legislazione e nell’amministrazione, e l’idea che la spesa regionale avesse un carattere eminentemente clientelare. Il radicamento regionale, perciò, non ha prodotto nell’opinione generale una diversa concezione dello Stato, i cui risvolti centralistici sono sempre sembrati preferibili, rispetto a quelli autonomistici.
Allora, il primo problema con il quale ci si deve confrontare è costituito dalla necessità di comprendere se la polarità tra Stato e Regioni sia necessaria. Perché, se la si dovesse considerare non necessaria, le contestazioni verso le Regioni sarebbero tali da poterne determinare, come per le Province, la richiesta di una loro soppressione; o – come pure è stato ipotizzato – potrebbe far sì che si preferiscano le Province rispetto alle Regioni.
Il regionalismo, voluto dall’Assemblea costituente, come forma dello Stato, risponde a principi che caratterizzano l’organizzazione pubblica secondo la Costituzione, come: la democrazia politica, l’autonomia istituzionale, il decentramento amministrativo, la responsabilità economica, politica e istituzionale. Esso, inoltre, trova il suo fondamento nell’attuale processo di internazionalizzazione dell’economia e nella particolare condizione in cui si trova lo Stato per effetto della sua partecipazione all’ordinamento dell’Unione europea. È chiaro che quando i sistemi statali adottavano politiche economiche eminentemente protezionistiche avevano poco bisogno di forme interne di autonomia e persino i sistemi federali, in tali fasi, sono stati afflitti dal centralismo del governo federale. Diversamente, nel momento in cui la collaborazione economica tra gli stati diventa così ampia da caratterizzare un’era della storia, coincidente con una fase particolare dell’unificazione europea, dovuta all’integrazione promossa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, si avverte il bisogno di distribuire i compiti statali fra più entità; di qui la preferenza per un’organizzazione interna, basata sul federalismo o sul regionalismo. L’idea che ci sia un governo centrale che possa svolgere da solo tutti i compiti statali (di interesse generale, o nazionale), perciò, rappresenta un errore.
Per questa ragione l’idea neo-centralista, che sta sospingendo la riforma del Titolo V, è il portato di un sentimento sbagliato. Quali che possono essere gli inconvenienti prodotti dal sistema, che sono da ascrivere alla classe politica e non alle Istituzioni, si tratta di un sentimento vissuto dall’opinione pubblica – anche per colpa dei media – poco responsabile rispetto al dialogo europeo e a quello globale. Gli stessi interessi nazionali hanno assunto una duplice direzione: per un verso, essi sono espressi dai bisogni politici della comunità interna e richiedono un’autorità di riferimento a cui il cittadino può rivolgersi per ricevere una risposta concreta alla sua domanda di servizi, prestazioni e beni pubblici; per l’altro, la tutela degli interessi nazionali, in un sistema ormai aperto verso istituzioni sopranazionali, richiede che vi sia una loro rappresentazione autorevole in quelle sedi in cui si svolge la mediazione con gli interessi degli altri stati. La polarità tra Stato e Regioni, perciò, appare essere quella che meglio risponde a questa condizione.
8. Il disegno di legge costituzionale presentato dal governo nell’aprile del 2014 e approvato in prima lettura dal Senato della Repubblica nell’agosto dello stesso anno e dalla Camera dei deputati nel marzo di quest’anno tocca i tre elementi su cui si è richiamata l’attenzione all’inizio e che dovrebbero caratterizzare un ordinamento regionale.
Tuttavia, occorre avvertire che il progetto della revisione non è chiaro, né coerente, e, soprattutto, non costituisce una risposta alle questioni che la vicenda del regionalismo italiano ha accumulato nel corso della sua realizzazione (dal 1970 in poi) e, in modo particolare, dopo le vicende istituzionali del periodo della crisi economica. Manca la definizione del ruolo dei livelli di governo rispetto alla politica interna e alla rappresentanza degli interessi nazionali nelle sedi sopranazionali e internazionali. Il tema dell’attuazione delle disposizioni costituzionali dal punto di vista dell’amministrazione e della responsabilità della finanza pubblica è del tutto negletto. Anche la scelta di abolire le competenze concorrenti – a parte il fatto che queste non scompaiono, ma si ripropongono in forme molteplici all’interno del nuovo riparto delle competenze – costituisce un emblema dell’incoerenza e dell’insipienza dell’intero disegno.
La considerazione del riparto delle competenze secondo le materie enumerate e il principio di esclusività del federalismo duale è da tempo superata e, forse, ormai risulta persino concretamente impraticabile. Ai poteri pubblici viene richiesto di essere dei soggetti in grado di promuovere politiche, policies, e in questa direzione sembra muoversi anche l’Unione Europea. È di tutta evidenza che in ogni politica, coesistono e sono distinguibili competenze del centro, in grado di assicurare un carattere unitario alla politica medesima, e competenze della periferia, capaci di adeguare le politiche medesime alle esigenze del territorio. Di conseguenza, il riparto delle competenze dovrebbe essere articolato sulla base delle politiche pubbliche, distinguendo la parte statale (strategica, con elementi di unificazione e omogeneità), con la parte regionale (di differenziazione, programmazione e realizzazione degli interventi), e la concorrenza sulla stessa politica dovrebbe costituire la regola, non l’eccezione, che dovrebbe darsi solo per quelle esclusive delle Regioni.
L’esempio di ciò è dato dalle politiche dell’ambiente che nell’attuale riparto delle competenze, art. 117, comma 2, lett. s, sono di competenza esclusiva dello Stato. Ebbene, nonostante questa previsione, poiché le politiche ambientali devono essere articolate nel territorio, la legislazione di attuazione ha dovuto riconoscere che l’ambiente non può essere governato tutto dal centro: una parte consistente delle funzioni inerenti all’ambiente è di competenza centrale dello Stato; ma un’altra parte – altrettanto consistente – non può non essere distribuita tra i poteri locali e le Regioni, affidandone la disciplina legislativa proprio a queste ultime.
Tutto ciò ha delle conseguenze sul piano delle relazioni tra Stato e Regioni, che non si prestano più a essere qualificate in termini di gerarchia, bensì secondo moduli collaborativi e paritari e, in tal senso, il problema di fondo è che il regionalismo può essere alimentato solo da un dialogo politico.
Non si tratta perciò di riportare quante più competenze in capo allo Stato e neppure di inserire una clausola di supremazia per affermare la superiorità dello Stato rispetto alle Regioni; né è pensabile che il problema della flessibilità delle competenze possa essere lasciato nelle mani della Corte costituzionale con la definizione del riparto delle competenze in via contenziosa, come è accaduto dopo il 1970, quando vennero costituite le Regioni per la prima volta, e ancora dopo la revisione del 2001.
Il riparto delle competenze resta comunque indecifrabile e le decisioni del giudice costituzionale servono a poco, se non c’è un dialogo politico e se il riparto delle competenze sulle policies non viene determinato dai due attori (lo Stato e le Regioni), definendo i rispettivi ambiti di intervento in modo collaborativo.
Da questo punto di vista, la strutturazione stessa del principio di leale collaborazione non può rimanere legata alla logica in cui è stata inserita dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e cioè alla c.d. chiamata in sussidiarietà e al circuito delle conferenze, espressione degli esecutivi e chiamate a svolgere ben altri compiti nel sistema delle relazioni istituzionali. In tal senso, è da considerare positivamente l’ipotesi di affidare al Senato della Repubblica il compito di rappresentanza delle Regioni e delle autonomie, configurandolo, per alcune materie come una vera e propria seconda camera parlamentare e, per altre materie, come una camera di controllo e di garanzia.
Nella composizione prevista al momento (e sempre che non vi siano rimaneggiamenti dell’ultimo momento) il Senato – ad eccezione della parte spuria di nomina del Presidente della Repubblica – sembra ubbidire a questa logica, mentre nelle procedure previste per lo svolgimento delle funzioni la disciplina proposta appare priva di equilibrio.
A tal proposito si consideri che il Senato dovrebbe realizzare la flessibilità delle competenze (dalle Regioni, allo Stato) per il tramite della partecipazione; sicché la competenza è esercitata dallo Stato, anziché dalle Regioni, ma le leggi sarebbero deliberate insieme alle Regioni, per il tramite del Senato.
Con riferimento a questo profilo, la debolezza del disegno proposto sta nella circostanza che la riforma costituzionale incentra la maggior parte della flessibilità del riparto delle competenze sul cosiddetto procedimento aggravato, anziché sul procedimento bicamerale. È la distinzione fra l’articolo 70, primo comma, nella versione della proposta, che prevede il procedimento bicamerale, e l’articolo 70, quarto comma, in base al quale le modifiche proposte dal Senato sono superabili con il voto a maggioranza assoluta.
È da dire che la versione approvata dalla Camera ha potenziato in modo considerevole il procedimento bicamerale, rispetto alla previsione del testo del Senato; ma ciò che sorprende maggiormente è che proprio per l’azionamento da parte dello Stato della clausola di flessibilità (detta anche di supremazia) dell’art. 117, comma 4, e per alcune significative materie, come il “governo del territorio” (art. 117, comma 2, lett. u) e la determinazione degli indicatori di fabbisogno finanziario delle funzioni amministrative (art. 119, comma 4), il procedimento legislativo non sarebbe bicamerale, ma semplicemente aggravato.
Quanto poi all’autonomia finanziaria non deve sorprendere che questa sia rimasta nelle condizioni in cui era in precedenza. Le modifiche all’art. 119, infatti, rendono ancora più evidente la dipendenza dell’autonomia finanziaria dalla legge dello Stato, sia sul versante del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” e sia da quello della determinazione degli “indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle funzioni pubbliche”.
Non sembra che si possa trarre da queste vicende una conclusione, perché, com’è chiaro, il futuro del regionalismo italiano continua a essere incerto.
2. I caratteri dell’autonomia finanziaria e il disegno costituzionale italiano
3. L’attuazione dell’autonomia finanziaria nella realizzazione del regionalismo
4. Il decreto legislativo n. 56 del 2000 sul federalismo fiscale e la revisione del Titolo V
5. La legge n. 42 del 2009 e la sua attuazione
6. La crisi economica e la riduzione dell’autonomia finanziaria
7. La nuova revisione del Titolo V e la “ragione” del regionalismo
8. Il contenuto delle modifiche: una rappresentanza regionale nel Senato; un riparto più flessibile delle competenze; e un’autonomia finanziaria più efficiente
1. Il punto di partenza di ogni analisi sull’autonomia finanziaria regionale è che essa costituisce un elemento indefettibile dell’autonomia. Senza la disponibilità di risorse finanziarie l’autonomia stessa non viene in essere. Infatti, se muoviamo da un’opinione abbastanza condivisa da parte di tutti gli studiosi che si occupano di regionalismo, federalismo e Stati decentrati, osserviamo che le coordinate minime di ogni ordinamento che si configura come tale sono tre, vale a dire: 1) la sussistenza di un riparto di competenze; 2) l’esistenza di strumenti di partecipazione delle entità sub-statali alla gestione dello Stato; 3) il riparto del potere impositivo, ovvero del potere fiscale. Si tratta di una sintesi del concetto di autonomia (federale o regionale) che nasce dall’osservazione dell’esperienza degli ordinamenti, ma i tre elementi indicati non sono meramente descrittivi, quanto piuttosto e allo stesso tempo prescrittivi, nel senso che solo la loro compresenza conforma l’ordinamento in senso regionale o federale. In origine, tra l’altro, essi non servivano tanto a garantire l’autonomia degli stati membri o delle regioni, quanto a strutturare l’esistenza e il funzionamento del livello federale e/o dello stato centrale.
Ora, sui primi due elementi – oggetto di trattazione di altre relazioni – la riflessione è sempre stata molto sviluppata nel dibattito della dottrina e ha anche prodotto una certa influenza nella realtà politico-istituzionale. In particolare, sul carattere costituzionale del riparto delle competenze e sulla sua resa in termini di efficienza, i costituzionalisti, pur dividendosi tra modello duale e modello cooperativo, hanno chiarito (o oscurato, secondo altre opinioni) quale debba essere il contenuto delle competenze. Allo stesso modo, per il tema del raccordo delle stesse competenze e della partecipazione, ampia è stata la discussione e, alla fine, sembra essere approdata, anche in Italia, alla formulazione costituzionale di una Camera delle Regioni, il Senato della Repubblica, per la partecipazione di queste alla vita dello Stato. In considerazione di ciò, nel caso italiano il nuovo Senato avrebbe una duplice natura: per un verso, di organo dello Stato (rectius: della Repubblica) e, per l’altro, di organo di rappresentanza del territorio.
Quanto al terzo elemento, quello che riguarda il riparto del potere fiscale, che, ovviamente, è strettamente connesso agli altri due, si conviene che è il potere fiscale a conferire concretezza alle materie regionali e alle politiche pubbliche nel territorio, a realizzare forme di redistribuzione e perequazione territoriale e a costruire un modello di gestione delle risorse pubbliche fondato sulla responsabilità (la c.d. accountability) di ogni livello di governo e, perciò stesso, anche equilibrato e trasparente. Una responsabilità e una trasparenza che non sono aspetti “astratti”, in quanto non si fonderebbero su una pretesa astratta del potere (come potrebbe essere nel conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni), ma si baserebbero sulla determinazione concreta di chi impone, o meglio, del soggetto politico che rappresenta una determinata comunità e spende il prelievo fiscale, nella misura stessa dell’imposizione, sopportato dalla comunità di riferimento. Si tratta di un momento politico particolarmente significativo, che trova espressione nel principio no taxation without represantion le cui implicazioni operano in diverse direzioni.
Dei tre elementi considerati per la strutturazione di uno Stato regionale quest’ultimo, quello del potere fiscale, è sicuramente il più problematico e controverso. Difatti, sebbene anche i primi due aspetti presentino non pochi problemi e incertezze, non si può non riconoscere che dal punto di vista del profilo finanziario la storia del regionalismo italiano è un esempio negativo da non seguire.
Si pensi alla vicenda dell’ordinamento regionale ordinario, dal quale conviene muovere questa riflessione. Questo si formava nel 1970, nel momento in cui si costituivano le Regioni ordinarie, con l’elezione dei primi consigli regionali, e, per contro, nello stesso anno si approvava una riforma del sistema tributario e finanziario, che non teneva conto dell’organizzazione regionale e centralizzava l’imposizione e la riscossione di tutte le imposte. Con riferimento, poi, al finanziamento dei diversi livelli di governo, si varava un impianto di finanza pubblica fondato sul sistema della finanza derivata, in cui lo Stato era il percettore anche delle imposte locali e, successivamente, attribuiva e trasferiva le risorse finanziarie a ogni livello di governo che diventava competente per la spesa. Si realizzava, così, alla nascita dell’ordinamento regionale, una dissociazione tra il momento impositivo e quello della spesa.
Lo Stato dunque distribuiva le risorse finanziarie dal centro alla periferia. Questo, ovviamente, ha fatto sì che il vecchio art. 119 Cost., venisse sin dall’inizio disatteso. Infatti, benché l’autonomia finanziaria delle Regioni fosse riconosciuta “nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica”, anche al fine del coordinamento “con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni”, essa era determinata nei contenuti, dal momento che alle Regioni avrebbero dovuto essere “attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali”, e per quanto la nozione di “attribuzione” possa considerarsi elastica e indeterminata, non pare possibile dubitare che essa dovesse implicare l’assegnazione di una (o più) base(i) imponibile(i) che le Regioni, entro determinati limiti posti con legge dello Stato, avrebbero potuto gestire: con la determinazione dell’aliquota, che determina la fase dell’imposizione, con l’accertamento, con cui si determina l’imposizione verso il singolo, e la riscossione del tributo, che realizza il prelievo.
È bene precisare che quello previsto nell’art. 119 Cost., nell’originaria formulazione, ma lo stesso vale come si dirà anche per la nuova versione, non realizzava un modello di federalismo fiscale, del quale se ne può parlare solo all’interno della Costituzione sono distribuite (e garantite) direttamente le basi imponibili. Anzi, se si vogliono precisare i termini della nascita e della disciplina del potere fiscale delle federazioni, questi concernevano la garanzia di spesa e, perciò, di imposizione, per il livello centrale e non certamente per quello degli stati membri.
Emblematica, a tal riguardo, è stata la vicenda statunitense. Nella fase confederale, infatti, atteso che la Confederazione non era dotata di potere fiscale, il sistema di finanziamento era rimesso al versamento di risorse da parte delle ex Colonie. Durante la guerra contro l’Inghilterra, per i disguidi di queste nei pagamenti, la gestione delle spese militari, ne risentiva, tanto più che la Confederazione medesima aveva una scarsa reputazione finanziaria e non trovava facilmente credito. Al momento della scrittura della Costituzione federale, onde porre rimedio a simili inconvenienti, la prima competenza enumerata nell’articolo 1, sezione 8a, è quella che riguarda il potere fiscale della Federazione, c.d. Taxing and Spending Clause (The Congress shall have Power To lay and collect Taxes, Duties, Imposts and Excises, to pay the Debts and provide for the common Defence and general Welfare of the United States; but all Duties, Imposts and Excises shall be uniform throughout the United States), che viene così riconosciuto in modo da assicurare l’indipendenza al Government degli Stati Uniti.
Anche nel caso della Grundgesetz del 1949, nonostante molti elementi di centralizzazione fossero da tempo comparsi nell’esperienza del federalismo tedesco, l’articolo (il 105) di apertura della Sezione X originariamente prevedeva, secondo la tradizione del Federalismo, la competenza esclusiva in materia di imposte attribuita alla Federazione (La Federazione ha competenza legislativa esclusiva per i dazi doganali e i monopoli fiscali) e quella concorrente su quota parte di determinate imposte (sui consumi, sugli affari, sulle entrate, sul patrimonio, sulle successioni, sulle donazioni, sulla proprietà e l’impresa [imposte reali] ), “wenn er die Steuern ganz oder zum Teil zur Dekkung der Bundesausgaben in Anspruch nimmt oder die Voraussetzungen des Artikels 72 Absatz 2 vorliegen”; successivamente, con la revisione del 2006, una competenza concorrente più estesa (La Federazione ha competenza legislativa concorrente sulle altre imposte se il provento di esse le spetta in tutto o in parte, ovvero se esistano i presupposti di cui all'articolo 72, secondo comma).
Con la stessa revisione costituzionale del 1969 viene introdotto l’art. 104 a che prevede un principio di distribuzione del potere di spesa tra la Federazione e i Länder (La Federazione e i Länder sopportano separatamente le spese relative ai compiti loro propri, salvo diverse disposizioni della presente Legge fondamentale) e altre regole sulla sopportazione delle spese dovute alle specifiche condizioni del federalismo d’esecuzione che caratterizza il modello tedesco. Nel 2006, poi, oltre alle modifiche degli articoli precedenti, è stato introdotto un nuovo articolo, l’art. 104 b, sulla perequazione territoriale e la crescita, dovuto all’esperienza della riunificazione tedesca, che consente alla Federazione, nell’ambito delle proprie competenze legislative, di concedere aiuti finanziari ai Länder (per i Comuni e i Länder), per investimenti particolarmente significativi che sono necessari per garantire una direzione per l’equilibrio economico generale, per la perequazione delle capacità economiche delle diverse regioni della federazione e per il sostegno della crescita economica.
2. Quando, invece, la Costituzione rimette alla legge del livello di governo centrale, e quindi dello Stato, la determinazione dell’autonomia finanziaria degli altri livelli di governo non si può più propriamente parlare di federalismo fiscale, né di vera e propria autonomia finanziaria. È emblematico, in tal senso, ancora una volta, quanto prescrive la Grundgesetz per un rapporto che non è di tipo federale, ma di autonomia. Com’è noto nella tradizione federale gli enti locali fanno parte e sono disciplinati dall’ordinamento degli Stati membri (dei Länder, delle Regioni, delle Province, ecc.). La ragione di ciò risiede nella costituzione di questi enti all’interno dello Stato membro e nella mancata devoluzione alla Federazione delle relative competenze, successivamente alla sua formazione. Il rafforzamento del principio di autonomia all’interno dello Stato federale tedesco ha comportato l’inserimento nella clausola di omogeneità dell’ordinamento federale (art. 28 GG), con una legge di revisione del 1997, di una disposizione volta ad assicurare che “la garanzia dell’autonomia amministrativa si estende anche ai fondamenti dell’autonomia finanziaria; questi fondamenti comprendono una risorsa fiscale basata sul potenziale economico, di cui i comuni beneficiari fissano l’aliquota impositiva” (Die Gewährleistung der Selbstverwaltung umfaßt auch die Grundlagen der finanziellen Eigenverantwortung; zu diesen Grundlagen gehört eine den Gemeinden mit Hebesatzrecht zustehende wirtschaftskraftbezogene Steuerquelle). Anche nel caso di autonomia finanziaria, perciò, la garanzia costituzionale è indefettibile.
L’opzione dell’Assemblea costituente seguì alcuni dettami del modello federale frammisti a quelli dei sistemi regionali, ad esempio, nel garantire l’autonomia statutaria e quella legislativa e amministrativa, ma – per quanto riguarda l’attribuzione delle risorse finanziarie – fu lontana dal modello di federalismo fiscale e anche dalla previsione di una autonomia finanziaria costituzionalmente garantita.
La scelta di rimettere l’autonomia finanziaria delle Regioni alle “leggi della Repubblica”, che ne avrebbero stabilito le “forme e i limiti” e che l’avrebbero coordinata “con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni”, rappresentava una garanzia dimidiata. Vero è che il testo costituzionale aveva previsto che “alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali”, ma questa disposizione non si è mai tradotta in un vero e proprio potere fiscale, ma semplicemente in una pretesa a vedersi attribuito un certo gettito e nel corso dell’esperienza concreta peraltro anche questo aspetto dell’autonomia finanziaria era stato ridotto ad un dato formale atteso il potere riconosciuto alla legge dello Stato, sia pure in via di fatto, di vincolare le Regioni sul versante della spesa.
Nella sostanza, l’opzione che prevalse in seno all’Assemblea costituente era più prossima alla tradizione amministrativa di origine francese, per la quale lo Stato aveva il potere di amministrare le risorse finanziarie delle entità sub-statali, che in origine erano i Comuni e le Province, cui si aggiungevano queste entità nuove che erano le Regioni, la cui fisionomia non appariva del tutto nitida; non si sapeva, infatti, se bisognava considerare il nuovo ente responsabile di compiti statali (o di interesse nazionale), in concorrenza con lo Stato, oppure se lo si doveva ritenere semplicemente titolare di competenze di ambito territoriale limitato, alla stregua di un grande ente locale, come tendeva a ricostruirlo una parte della dottrina del tempo – come pure quella successiva – e una consistente giurisprudenza costituzionale che si è sviluppata a partire dal 1970.
Ciò nonostante, nell’ordinamento concreto storicamente il potere dello Stato conviveva con il riconoscimento di un potere impositivo locale sino alla riforma tributaria del 1970.
Ovviamente, ci si può a lungo interrogare sulle ragioni che determinarono questa centralizzazione finanziaria, proprio in considerazione del fatto che, tanto la tradizione Statutaria, quanto quella Fascista, come pure quella che contraddistinse il primo periodo Repubblicano, avevano visto il permanere di fonti tributarie locali e un sistema finanziario articolato territorialmente.
In realtà, l’esigenza della centralizzazione nasceva proprio dal bisogno di semplificare le imposte locali e l’introduzione delle Regioni ordinarie fu l’occasione per estendere il nuovo sistema tributario anche a queste. Le diverse imposte locali furono accorpate in un’unica imposta locale sui redditi (ILOR) gestita dallo Stato e il cui gettito era attribuito pro-quota ai diversi enti locali e alle Regioni. Inoltre, la centralizzazione fiscale coincise con un altro importante fenomeno che ne rafforzò la tendenza, e cioè l’affermazione completa dell’idea di Stato sociale. Lo Stato sociale, difatti, si è rivelato un potente strumento di concentrazione del potere centrale, sia all’interno degli ordinamenti caratterizzati da una tradizione autonomistica debole, come l’Italia, sia all’interno degli ordinamenti contraddistinti da una forte tradizione federale; basti pensare a quanto accadde in Germania, con la revisione costituzionale del 1968. Qui, infatti, con la riforma dei cosiddetti compiti comuni si ebbe un trasferimento di competenze dei Länder alla Federazione, con un forte ampliamento dei poteri di intervento della Federazione sulle competenze locali. Anche la riforma della Costituzione finanziaria del 1969, con l’introduzione dell’articolo 104a nella Grundgesetz, testimonia questa tendenza alla centralizzazione non solo delle competenze, ma anche della gestione delle risorse pubbliche.
3. A prescindere dalla successiva degenerazione dello Stato sociale in Stato assistenziale, è del tutto evidente che questa tendenza verso il centralismo ha avuto degli effetti sul nascente regionalismo italiano, sia dal punto di vista delle competenze, e sia sul versante della finanza. Sul piano delle competenze i poteri delle Regioni sono stati sempre considerati come cedevoli, rispetto all’intervento legislativo statale nelle materie regionali enumerate; con riferimento ai poteri finanziari, poi, le Regioni non sono state mai un soggetto impositore – nonostante la dizione dell’art. 119 originaria lo prevedesse – e via via progressivamente non sono state neanche un soggetto autonomo dal punto di vista della spesa, perché i trasferimenti dello Stato venivano sottoposti a forti vincoli di spesa, ragion per cui, anche su questo versante, esse non godevano più di alcuna forma di autonomia. Le uniche risorse che residuavano nella disponibilità della classe politica regionale erano quelle che servivano al loro mantenimento e a quello della loro cerchia politica. Anche da questa circostanza origina un malcostume che durerà sino ai nostri giorni, quando si è posto il problema del taglio dei c.d. “costi della politica” e che ha accomunato i diversi livelli della politica italiana.
Questa situazione che rese poco efficiente la spesa pubblica territoriale e costoso il mantenimento dello “Stato assistenziale”, è stata alla base della crescita della spesa pubblica complessiva e del debito pubblico italiano, anche per via della progressiva associazione sul versante della spesa, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, dell’opposizione di governo. Si giunse, così, a una condizione assolutamente insostenibile della finanza pubblica nel momento in cui ci si pose l’obiettivo – non secondario per la posizione strategica del nostro Paese – della moneta unica, a seguito della sottoscrizione del Trattato di Maastricht nel febbraio del 1992.
Con la crisi dell’estate del 1992, che portò l’Italia fuori dal sistema monetario europeo (SME), si determinarono due effetti: una forte svalutazione e un depauperamento del tesoro, nel tentativo iniziale, compiuto dalla Banca d’Italia, di difendere la moneta. La prima maxi-manovra fu compiuta dal governo del tempo nel settembre di quell’anno. In quella situazione, l’Italia provò le difficoltà, nel dialogo europeo, dovute al suo debito, con l’allontanamento in modo sensibile della prospettiva della moneta unica dal nostro orizzonte, cosa che avrebbe significato un esborso maggiore sugli interessi per il debito, attesa la difficoltà a trovare credito.
Di qui, la particolare politica di quegli anni, seguita dai diversi governi che si sono succeduti. L’importanza di questi eventi è fondamentale, perché costituiscono i motivi della riforma del 2001, a cui si giunge quando tutto il percorso europeo della moneta unica si conclude e l’euro diventa moneta circolante, il 1° gennaio 2002.
Non si può certo pensare che non ci sia un collegamento tra i problemi della finanza e il sistema di articolazione dei poteri interni. Quale fu, perciò, la scelta che si fece per realizzare entro il 1999, come prevedeva il Trattato di Maastricht, l’ingresso dell’Italia nella terza fase della moneta unica, che avrebbe portato all’euro?
Si pensò che fosse necessario “alleggerire” lo Stato. Quest’ultimo, infatti, versava in una condizione finanziariamente difficile, dal punto di vista del deficit di bilancio e da quello del debito pubblico: entrambi i parametri previsti dai criteri di convergenza per questi indicatori non erano rispettati dall’Italia. L’operazione più semplice era l’intervento sul bilancio statale per ricondurre il deficit sotto la soglia del 3% del PIL. Quest’operazione è stata realizzata spostando le competenze dal livello Statale a quello regionale o locale, riducendo così la spesa statale, ma violando il parametro costituzionale dell’art. 119, comma 2, nella misura in cui le risorse finanziarie delle Regioni avrebbero dovuto avere un ammontare commisurato ai “bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali”. Trasferire le funzioni, senza conferire le risorse finanziarie necessarie al loro svolgimento fu proprio un’idea “geniale” – espressione genuina dell’“indole” (per usare le parole di Santi Romano) del popolo italiano – compiuta per il tramite del c.d. “federalismo a Costituzione invariata”, attraverso le Leggi Bassanini (n. 59 e 127 del 1997) e i decreti legislativi attuativi (in particolare il D. Lgs. n. 112 del 1998).
In realtà, in quegli anni che vanno dal 1992 al 1999, sarebbe stata necessaria una concreta riorganizzazione della Repubblica, da compiersi in modo coerente con i principi di una forma di Stato regionale che avrebbe dovuto affrontare le sfide dell’internazionalizzazione dell’economia e di un più impegnativo processo di integrazione europea. E questo non fu fatto. Ciò che fu fatto, invece, fu lo spostamento delle funzioni con la legge ordinaria, senza una revisione della Costituzione, utilizzando la competenza di attuazione prevista dall’art. 117, comma 2, e la delega delle funzioni amministrative, contenuta nell’art. 118, comma 2, per realizzare una vera e propria trasformazione del principio dell’enumerazione delle competenze regionali, un risultato palesemente in contrasto con la Costituzione, prodotto da un uso abnorme degli strumenti costituzionali. E tuttavia, quel comportamento, alquanto improvvisato, si rivelò efficace per il rispetto del parametro del 3% del deficit, mentre il peso eccessivo del debito pubblico alla fine non fu opposto dalle Istituzioni europee e ciò permise all’Italia l’ingresso nella moneta unica.
L’Italia deve, pertanto, alle modifiche ordinamentali un po’ improvvisate della seconda metà degli anni ’90, il recupero di credibilità a livello europeo e il suo ingresso nell’euro. In quella condizione divenne un obbligo cercare di dare una copertura costituzionale ai cambiamenti apportati all’ordinamento. Di qui la revisione costituzionale del Titolo V compiuta con la legge costituzionale n. 1 del 1999 e con la legge costituzionale n. 3 del 2001.
Gli ordinamenti multilivello, di tradizione federale o regionale, richiedono di continuo modifiche per un adeguamento alle condizioni che vive lo Stato nel suo complesso e, se mantenuti in modo adeguato, si rivelano quelli più flessibili ed efficienti, raggiungendo prima degli ordinamenti centralistici le condizioni ottimali. Quanto detto è mostrato molto bene dall’esperienza tedesca nella quale si sono susseguite ben sessanta revisioni costituzionali dal 1951 al 2014; e, per ben diciotto volte è stato modificato il riparto delle competenze tra Bund e Länder. Ciò conferma che i sistemi politico-statuali di tipo composto (federali o regionali) sono quasi come un sistema di “vasi comunicanti”, in cui l’equilibrio può essere modificato a seconda delle pressioni applicate, da un lato o dall’altro, determinando delle modifiche che consentono al sistema nel suo complesso di reagire sempre in modo efficiente. Con riferimento al sistema americano, questo fenomeno diventa ancor più evidente. Infatti, al di là della Costituzione e degli emendamenti costituzionali che hanno inciso sul federalismo statunitense, questo ha attraversato storicamente diverse fasi; basti pensare, per non risalire ulteriormente nel tempo, al New Deal, che portò a una certa centralizzazione dei poteri, e alla successiva riscoperta dei diritti degli Stati, con la quale si avviò una fase di decentralizzazione degli stessi. In breve, anche negli Stati Uniti il federalismo si comporta come un sistema di “vasi comunicanti” che tende a un equilibrio da centro e periferia. Un particolare esempio di ciò è stato ancora di recente offerto dalla sentenza della Corte Suprema (NFIB v. Sebelius - June 28, 2012) sulla Legge del 2010 (Patient Protection and Affordable Care Act), voluta dalla Presidenza Obama, con la quale veniva previsto, per un verso, che la mancanza di una assicurazione sanitaria avrebbe comportato il pagamento di una penalty e, per l’altro, che gli Stati avrebbero dovuto estendere il sistema sanitario (Medicalaid), oppure sopportare una riduzione del finanziamento federale. Con un voto di 5-4, la Corte ha confermato la parte della legge relativa al pagamento di una penalty (c.d. mandato individuale) per la mancata assicurazione sanitaria, come valido esercizio del potere del Congresso di “imporre e riscuotere le tasse” (Art. I, § 8, cl. 1). La Corte, invece, ha dichiarato l’incostituzionalità della disposizione sanzionatoria del Medicalaid, statuendo che il governo federale non ha il potere di trattenere finanziamenti esistenti per gli Stati che scelgono di non partecipare all’estensione del programma Medicalaid. Infatti, secondo la Corte Suprema, il Congresso non ha il potere di ordinare agli Stati membri di regolamentare le proprie attività secondo le sue istruzioni. Il Congresso può offrire le sovvenzioni agli Stati membri e richiedere a questi di rispettare le condizioni di accompagnamento, ma gli Stati devono conservare un’autentica possibilità di scelta in merito alla facoltà di accettare, o meno, l’offerta.
4. Tornando al tema, il raggiungimento della moneta unica e la revisione del Titolo V sono, perciò, strettamente connesse, soprattutto per i cambiamenti apportati al riparto costituzionale delle competenze. Dal punto di vista finanziario, si registra un cambiamento, rispetto a quanto si era realizzato a partire dal 1970, già con la determinazione delle regole di competenza delle “Leggi Bassanini”; il punto di riferimento è il D. Lgs. 56 del 2000, Disposizioni in materia di federalismo fiscale.
Il decreto traeva fondamento da una delega legislativa (art. 10, L. n. 133 del 1999), la quale avrebbe dovuto comportare un allineamento delle risorse finanziarie alla distribuzione delle funzioni tra Stato e Regioni e che, perciò, non avrebbe dovuto “comportare oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato e per i bilanci del complesso delle regioni a statuto ordinario”; inoltre, il decreto avrebbe dovuto coordinare la nuova disciplina finanziaria “con gli obiettivi di finanza pubblica relativi al patto di stabilità interno”.
Essenzialmente la disciplina del decreto legislativo avrebbe dovuto abolire i trasferimenti fiscalizzandoli e dando così alle funzioni regionali una base imponibile propria, o derivante da compartecipazioni a tributi erariali. La qualcosa comportò nel 2001 una spesa statale al 27% del PIL, una spesa regionale dell’8,7% e, per gli enti locali, del 4,7%. Tuttavia, subito dopo l’ingresso dell’euro, la spesa pubblica, in particolare quella statale, ricominciò a crescere, giungendo nel 2009, prima che misure particolari dovute alla crisi economica venissero assunte, al 30,1% del PIL, per lo Stato ( 3,1), al 10,5%, per le regioni ( 1,8), e al 5,3%, per gli enti locali ( 0,6).
Il sistema creato dal decreto n. 56, però, non rappresenta un’attuazione dei principi del federalismo fiscale e neppure delle regole del nuovo articolo 119 Cost., il quale richiedeva – diversamente dalla precedente statuizione – che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni (...) stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, che “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” e che il sistema di finanza territoriale sia completato da “un fondo perequativo”, istituito dallo Stato, “senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”.
Bisogna, tuttavia, considerare che con quest’atto normativo si consentiva una maggiore autonomia finanziaria alle regioni, quanto meno sul versante della spesa, eliminando i vincoli di destinazione delle risorse finanziarie attribuite, un principio, questo, che la giurisprudenza costituzionale applicherà più o meno costantemente fino agli anni della crisi economica, quando attraverso il coordinamento della finanza pubblica, consentirà allo Stato operazioni di riduzione dell’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali.
Lo svolgimento delle vicende spiega come mai la riforma costituzionale non vide, né prima, né dopo la sua approvazione, un dibattito sul federalismo fiscale. La situazione della finanza pubblica del 2001, peraltro, era ancora molto complessa; infatti, il controllo del deficit di bilancio (ma per alcuni anni l’Italia non rispetterà neppure questo parametro) non impediva affatto la crescita del debito pubblico, inconsapevolmente si gettavano così le basi del disastro finanziario cui si sarebbe giunti con la crisi economica nel 2011. Tra l’altro, sempre nel 2001, vi era appena stato un cambio di maggioranza al Governo. Il nuovo Governo, guidato da Berlusconi, che si trovava a dover implementare la riforma del Titolo V, impiegò due anni per scrivere la prima e unica legge di attuazione della riforma (n. 131 del 2003), rivolta soprattutto a prevenire l’esercizio delle competenze legislative nelle materie precedentemente attribuite alla legge statale, ma nella quale erano del tutto assenti i problemi dell’amministrazione pubblica e delle misure di carattere finanziario. Queste ultime, perciò, continuavano a essere rette dall’equazione scritta nell’ultima pagina del decreto legislativo n. 56 del 2000: un algoritmo che doveva individuare anche le modalità di distribuzione delle risorse. Ragion per cui, nella sostanza, quella legislatura si può dire che, dal punto di vista del dibattito sull’amministrazione regionalizzata e sul federalismo fiscale, sia stata “muta”.
In tale contesto, mentre del tempo prezioso andava perduto per il riordino dell’amministrazione e della finanza pubblica, la Corte costituzionale si ritrovava a gestire la concretizzazione della riforma del Titolo V. La giurisprudenza costituzionale assumerà sin da subito una logica di continuità rispetto al passato, dando un’interpretazione delle nuove disposizioni orientata con un certo favore verso lo Stato, o meglio verso il momento dell’uniformità rispetto a quello della differenziazione. Resta singolare la sentenza n. 303 del 2003 con la quale si assiste alla formulazione della c.d. “chiamata in sussidiarietà”, che consente interventi legislativi in ambiti materiali costituzionalmente rimessi alla competenza esclusiva o concorrente delle regioni. La giustificazione principale di questa giurisprudenza creativa risiede nella mancanza di flessibilità che il nuovo disegno regionale presenta e nell’assenza di strumenti di collaborazione tra Stato e regioni a livello legislativo, anche a seguito della non attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
Gli interventi della Corte determinano un incremento della flessibilità delle competenze, ma proprio il giudice costituzionale avverte che una stabilizzazione delle competenze può realizzarsi, più che con le decisioni che concludono il contenzioso costituzionale, con “la attuazione dell’art. 119 Cost.”, che la Corte considera “urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni”; inoltre, sempre il giudice costituzionale sottolinea che “la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli enti locali contraddittorie con l’art. 119 della Costituzione espone a rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (sentenza 370 del 2003).
Questo monito della Corte coglieva pienamente nel segno, nel senso che l’attuazione dell’art. 119 avrebbe potuto determinare un riordino più efficiente delle funzioni amministrative e della loro distribuzione tra i diversi livelli di governo territoriale. Invece, si è continuato in modo astratto con forme di rivendicazione della competenza legislativa attraverso un contenzioso costituzionale cospicuo, senza tenere conto che il riparto delle competenze – anche quello di origine duale – è sempre dinamico, perché è chiamato a confrontarsi con i cambiamenti della realtà, può assumere significati diversi e persino discostarsi parecchio linguisticamente dai significati originari, com’è accaduto, ad esempio, con la “caccia” che ha finito con significare “protezione della fauna”. Nel disegno originario del 1947, del resto, la Regione doveva occuparsi essenzialmente dell’agricoltura e dell’urbanistica; si trattava di materie importanti per il tempo: l’urbanizzazione era un fenomeno nuovo e crescente, la legge urbanistica che aveva per la prima volta messo ordine nella materia era la n. 1150 del 1942, l’Italia era un paese essenzialmente agricolo e ancora arretrato nello sviluppo industriale. L’Assemblea costituente si trovava difronte a questi bisogni della società che codifica nel riparto delle competenze, ma lo sviluppo economico successivo del paese ha fatto si che il disegno originario del regionalismo potesse apparire “fuori moda” al momento della sua attuazione. Ciò è sembrato accadere, ad esempio, per alcune materie, come il caso della “beneficienza pubblica”, – un termine che storicamente aveva un preciso significato, rinviando alla legge del 1890 sulle IPAB – la cui nozione, nel 1970, quando le regioni ordinarie vennero in essere, sembrava ormai desueta e restrittiva, rispetto alle competenze in materia di “assistenza sociale”.
Ora, è chiaro che il significato delle competenze, senza che intervenga una revisione, si presti a cambiamenti con il passare del tempo, spesso in via tacita, a volte sulla base di accordi tra i soggetti che possono rivendicare le competenze medesime; ma, quando una funzione amministrativa è coperta da una base imponibile che è destinata allo svolgimento di quella funzione, la quale si stabilizza nella competenza di chi ha la disponibilità della base imponibile e può evolvere nel suo contenuto anche attraverso forme di interpretazione infrasistematica. Diversamente, qualora il finanziamento delle funzioni sia alquanto incerto o nella disponibilità di un soggetto diverso da quello che esercita la funzione, come accade con il sistema dei trasferimenti dei fondi, la funzione stessa si può spostare con una semplice disposizione legislativa e le modifiche di significato delle materie o i cambiamenti della realtà saranno tutti argomenti validi per destabilizzare i poteri pubblici di un sistema multilivello.
Dal punto di vista dell’interpretazione costituzionale, poi, la Corte ha avuto il merito di considerare l’art. 119 immediatamente precettivo, senza che fosse necessario un intervento di attuazione da parte del legislatore ordinario; e questo ha consentito alle Regioni di ottenere in sede contenziosa la dichiarazione di illegittimità delle disposizioni statali sui trasferimenti vincolati. Inoltre, il giudice costituzionale (sentenza n. 17 del 2004) ha ricavato dalla disposizione costituzionale un principio per il quale il nuovo sistema di finanziamento regionale si deve basare su un mix delle diverse fonti. Le Regioni (e gli enti locali), infatti, devono avere risorse proprie, compartecipazioni di tributi erariali e una quota del fondo perequativo. Questa combinazione di risorse finanziarie, infine, secondo la Corte deve essere, non solo equilibrata, secondo la condizione generale della finanza pubblica, ma anche in considerazione del rispetto dell’autonomia regionale; per cui, persino la disciplina del patto di stabilità deve essere funzionale, non solo alle condizioni poste dall’Unione europea, ma anche a quanto previsto dalla Costituzione in tema di autonomia finanziaria.
5. Se il Parlamento e il Governo dell’epoca, anziché occuparsi di una (nuova) revisione totale della parte seconda della Costituzione, si fossero occupati di concretizzare questi principi, il Paese ne avrebbe ricavato un notevole giovamento. Invece, la legislatura, dal 2003 al 2006, restava impegnata sul tema della revisione totale e la legge costituzionale che veniva approvata dal Parlamento non superava il vaglio del referendum costituzionale. Così, l’attuazione del Titolo V e, in particolare, del nuovo sistema di finanza regionale e locale continuava a essere ritardato e si riproponeva esattamente come se fosse il momento iniziale della riforma dopo le elezioni politiche generali del 2006, grazie alle quali si apriva una nuova legislatura con una diversa maggioranza e con un governo di centrosinistra.
Quando il nuovo governo si insediava, si incominciava a lavorare sul tema del federalismo fiscale. Si consideri che il momento, dal punto di vista finanziario era alquanto positivo, anche se la crescita del PIL in quegli anni era inferiore alla media europea e a quella di tanti paesi europei appena entrati a far parte dell’Unione. Il debito venne considerato sostenibile proprio per la (debole) crescita e dei tassi d’interesse alquanto bassi, in considerazione della circostanza che la nuova moneta, l’euro, appariva essere particolarmente apprezzata dai mercati. Si tratta di un quadro che di lì a poco sarebbe cambiato radicalmente; però, a quel momento non sembrava sussistere alcuna controindicazione a che la nuova maggioranza si occupasse di federalismo fiscale. Addirittura, in seno al Governo, tre gruppi diversi lavorarono al tema del federalismo fiscale, presso il Ministero dell’economia e delle finanze, presso il Dipartimento per gli Affari regionali e presso quello per le riforme istituzionali.
Quando questi tre gruppi di lavoro si incontrarono, ognuno era portatore di una proposta diversa; di qui il problema di unificare le diverse proposte formulate a livello governativo. Non ci fu quindi nessuna collaborazione in seno al Governo tra i diversi gruppi di lavoro. E questo si è rivelato un modus operandi alquanto estemporaneo di una compagine governativa. Alla fine la questione fu risolta in modo gerarchico, quindi prevalse il coordinamento del Ministero dell’economia e delle finanze, che presentò, a nome del governo, un disegno di legge – peraltro mal formulato e incompleto – sul tema del federalismo fiscale proprio quando, inopinatamente, la maggioranza parlamentare entrò in crisi e il Presidente della Repubblica dovette sciogliere anticipatamente le Camere, indicendo le nuove elezioni politiche generali, a seguito delle quali si assiste nuovamente ad un cambio di maggioranza e di governo.
È durante la campagna elettorale del 2008, che il tema del federalismo fiscale fu oggetto di un serrato confronto tra le coalizioni in competizione. Di conseguenza, quale che fosse la coalizione vincente, una legge sul federalismo fiscale doveva essere presa in considerazione Ciò comportò anche che all’elaborazione del disegno di legge prendessero parte, oltre al governo, anche tutti i gruppi parlamentari, senza un’opposizione preconcetta e che la legge n. 42 del 2009 venisse deliberata con un’ampia maggioranza, di molto superiore rispetto a quella che sorreggeva il governo.
Tuttavia, l’errore compiuto nella scrittura della legge fu dato dal convincimento, un po’ assurdo, che si pretendeva di portare a termine la riforma del federalismo fiscale in un tempo molto lungo e con una complicata stratificazione di atti di normazione e di esecuzione. La legge n. 42, infatti, era una legge di delega, sulla cui base, tra il 2010 e il 2011, sono stati adottati ben undici decreti legislativi, i quali a loro volta prevedevano dei decreti attuativi di carattere ministeriale; inoltre, la legge di delega considerava l’ipotesi che i decreti legislativi, potessero essere modificati da decreti legislativi correttivi. Oltre a ciò, le forze politiche, che tenacemente si erano confrontate sul tema del federalismo fiscale, non compresero per tempo l’arrivo della crisi economica che già sul finire del 2008 dava i primi segnali e che, nel momento in cui l’ultimo decreto legislativo (n. 149 del 6 settembre del 2011) venne emanato, ormai aveva manifestato in pieno tutta la sua virulenza in Europa e, in particolare, in Italia, dove mise in crisi il governo del tempo e porto alla formazione di un governo tecnico (o del Presidente della Repubblica) sorretto da una maggioranza composita e legata solo dai timori delle misure europee. Ciò decretò la fine di ogni tentativo di implementare la farraginosa riforma del federalismo fiscale e l’instaurazione di una legislazione della crisi che corromperà l’intero disegno della riforma costituzionale del Titolo V e non solo del capitolo inerente all’autonomia finanziaria delle Regioni.
6. Nei sistemi federali, nei momenti di crisi, si determina una tendenza alla centralizzazione del potere fiscale, perché – ovviamente – in quei frangenti c’è un problema di riduzione delle risorse finanziarie disponibili.
Ciò comporta, come anche l’esperienza federale americana della crisi del 1929 e del New Deal hanno insegnato, che si può sì determinare un certo centralismo nelle decisioni di investimento delle (limitate) risorse pubbliche, ma non vi può essere un’alterazione complessiva del sistema federale medesimo. Anzi, proprio la presenza di un ordinamento di tal genere consente, quasi naturalmente, per la flessibilità di cui è dotato, di procedere modifiche istituzionali più rapide ed efficaci, purché sia mantenuto un rilevante grado di indipendenza delle unit constituencies. Di qui anche il rispetto delle regole istituzionali che lo conformano, in modo che, durante la crisi, il sistema entri in una condizione di funzionalità provvisoria, per ritornare all’equilibrio più classico tra centro e periferia nel momento in cui la crisi scompare o rallenta. Sintomatica, al riguardo, risulta la vicenda del federalismo statunitense, a partire dalla crisi del 1929. Com’è noto il governo federale operò per superare la condizione di recessione, intervenendo in campi tradizionalmente di competenza degli Stati membri, come il Labour Law, per combattere la disoccupazione, garantire i salari e rimettere in moto l’economia, superando così le barriere del federalismo duale, per quello che a posteriori è stato definito il federalismo cooperativo. È merito della Corte Suprema, per un verso, avere salvaguardato la legislazione federale che puntava al superamento della crisi e, per l’altro, non avere mai conferito un tratto autoritario all’esercizio della competenza federale, che è stata ammessa solo se non vi sono “previsioni costituzionali che possono comportare un’autonoma limitazione” ed è sempre contenuta entro i limiti della pressure, senza mai giungere a una forma di compulsion (coercizione) nei confronti dello Stato membro (Steward Mach. Co. v. Davis, 301 U.S. 548 [1937]), conservando, pur nelle variazioni dovute alle diverse fasi del federalismo americano, il principio cooperativo così formulato (v. South Dakota v. Dole, 483 U.S. 203 [1987]; NFIB v. Sebelius, 567 U.S. ___ [2012]). Si può perciò affermare che, anche in periodo di crisi, nel federalismo cooperativo americano, che consiste in una forma di ingerenza nelle competenze statali da parte della Federazione, lo Stato membro conserva comunque la possibilità di rifiutare la collaborazione, sia pure subendo un qualche effetto negativo, ma senza una reale menomazione dei suoi poteri.
Inoltre, le crisi hanno prodotto sì nei sistemi federali meccanismi di concentrazione delle risorse e del potere fiscale, ma anche originali modelli di ridistribuzione delle risorse finanziarie, che valorizzano i principi del federalismo. Si pensi al fenomeno delle grants-in-aid, cioè della spesa di fondi per il benessere generale; un potere riconosciuto alla federazione nel rispetto della welfare clause (art. 1, § 8, 1st cl., Const. US), che agevolò il superamento della crisi da parte degli Stati Uniti e che rimase, dopo quell’evento, come una forma consentita attraverso cui il governo federale può imporre requisiti e restrizioni ai comportamenti politici degli stati. Ancora, con la recente crisi del 2008 il governo federale degli Stati Uniti è intervenuto, non riducendo le risorse degli Stati membri o modificando l’assetto delle competenze, ma aumentando potentemente la massa monetaria, direttamente attraverso l’American Recovery and Reinvestment Act (ARRA), che ha assicurato un intervento di circa 800 mld di dollari, e attraverso la FED, che ha fatto ricorso massicciamente a diversi strumenti di politica monetaria anche non convenzionali (v. le misure di Quantitative Easing (QE)), per garantire una sufficiente base monetaria e mantenere bassi gli interessi sugli assets su cui interveniva.
Nella vicenda italiana, al momento della crisi, anche per via dei vincoli europei, il governo ha, immediatamente, prelevato per intero le somme giacenti nei fondi perequativi istituiti, in ottemperanza dell’art. 119, comma 3, Cost., dagli articoli 9 e 13 della legge n. 42 del 2009; inoltre, dal punto di vista fiscale, ha imposto una costrizione delle basi tributarie delle Regioni e degli enti locali e, persino, il versamento allo Stato del gettito di tributi attribuiti alle autonomie locali e alle Regioni.
Nel primo caso sono riapparsi nuovamente i trasferimenti, cioè l’istituzione di fondi nel bilancio statale con il successivo trasferimento agli enti competenti per la spesa di una quota sulla base di un piano di riparto. È, ad esempio, il caso del trasporto pubblico locale, una materia di competenza regionale particolarmente importante, soprattutto dal punto di vista della spesa, considerando che è la seconda voce di spesa dei bilanci regionali, dopo la sanità. Il trasporto pubblico locale era finanziato in modo fiscalizzato con una quota dell’accisa sui carburanti che riscuotevano le Regioni. Infatti, le Regioni avevano una base finanziaria nell’accisa e, sulla base del gettito, organizzavano il funzionamento del trasporto pubblico locale, eventualmente aumentando la spesa, rispetto all’accisa riscossa, con risorse aggiuntive proprie. Le Regioni, perciò, hanno avuto una piena responsabilità del trasporto pubblico locale sino a quando la legislazione della crisi non ha dato nuovamente vita a un fondo ad hoc nel bilancio dello Stato, consentendo così allo Stato di incamerare per intero l’accisa sui carburanti. Successivamente lo Stato ha trasferito le quote del fondo per il trasporto alle Regioni, imponendo loro il taglio delle percorrenze. Le Regioni, perciò, si sono viste costrette a praticare una politica di taglio dei chilometri disponibili nell’ambito del trasporto pubblico locale per contribuire al bilancio dello Stato.
Peraltro, per alcuni fondi di spesa – ancora attivi – per particolari categorie di cittadini, addirittura si arriva allo svuotamento totale da parte dello Stato. Si può ricordare, qui, il fondo per l’assistenza ai malati di SLA. Ebbene, lo Stato nel 2012 lo ha azzerato totalmente, ripristinandolo successivamente, per via delle del grave allarme sociale che il taglio dei fondi aveva provocato. Il che ha significato che per un periodo dell’anno una parte consistente delle persone malate di SLA, a meno che non possedessero risorse proprie, si vedevano costrette a ricercare risorse che non erano più risorse pubbliche, ma potevano essere solo risorse private, messe a disposizione dalle proprie famiglie, o da determinate associazioni di volontariato.
Per ciò che attiene al versamento allo Stato del gettito di tributi attribuiti ad altri enti, rimane esemplare la vicenda dell’IMU sulla prima casa. Questa imposta è stata ripristinata con il decreto Salva Italia (n. 201 del 2011), che ha previsto la devoluzione del gettito dai Comuni allo Stato. Si è trattato, in una qualche misura, anche di una frode dal punto di vista della comunicazione tra il cittadino e le Istituzioni, perché quella era un’imposta – per definizione – locale di cui si è appropriato lo Stato, per di più senza dar conto della destinazione.
Il problema delle basi imponibili gestite dai diversi livelli di governo implica anche quello della responsabilità (la accountability di cui si parla nei sistemi anglosassoni), cioè della possibilità da parte del cittadino di controllare e di ottenere risposte e riscontri sull’utilizzo delle risorse finanziarie da parte dei propri governanti. Ora, nel caso dell’IMU, ad esempio, il cittadino avrebbe diritto di chiedere al proprio Sindaco, al quale ha versato l’imposta, il modo in cui ha impiegato le relative risorse; mentre la circostanza che il gettito sia stato di fatto incamerato da un altro ente, sia pure lo Stato, non rende più responsabile l’autorità locale e, paradossalmente, neppure l’autorità che ha concretamente avuto la disponibilità delle risorse. Il circuito della accountability è stato interrotto su entrambi i versanti.
7. L’attuale fase è caratterizzata dalla proposta di revisione costituzionale del governo in carica e riguarda sia il Parlamento, il procedimento legislativo e il circuito della fiducia, sia il Titolo V e il riparto delle competenze.
Dopo un periodo di lunga attesa del regionalismo italiano, adesso, nel giro di un quindicennio, è molto probabile che gli articoli della Costituzione che lo disciplinano possano essere nuovamente modificati. Questo di per sé non è un problema; anzi, da questo punto di vista, se si fa il paragone con il federalismo tedesco, potremmo persino dire che il Titolo V è stato cambiato poche volte. Il problema riguarda le modalità con le quali lo si modifica. Da questo punto di vista, sembra che, anziché procedere con cambiamenti parziali di adeguamento e miglioramento, vi sia sempre, quando si mette mano a questa parte della Costituzione, un mutamento “epocale”. Nel 2001, c’era quello “del federalismo a tutti i costi” e, nel 2015, c’è quello “del ritorno al centro a tutti i costi”. Non è questo il modo migliore di scrivere le riforme costituzionali.
A ciò si aggiunga che, nel caso italiano, le Regioni non sono state mai viste con favore da parte dell’opinione pubblica. Questo lo si deve alla circostanza che è mancato un discorso sulla fondazione del regionalismo. Per chiarire questo aspetto appare utile considerare comparativamente il caso tedesco. Ora, per quel che riguarda la Germania e le numerose revisioni della Gundgesetz, non è detto che le riforme apportate al federalismo tedesco, dal ’49 a oggi, abbiano determinato sempre un incremento di autonomia a favore dei Länder. Anzi. Sotto certi punti di vista le Regioni italiane si sono viste riconosciute anche condizioni migliori rispetto ai Länder tedeschi. Il problema di fondo, però, è che, al di là della considerazione sulla “quantità” di autonomia goduta dai Länder tedeschi, in Germania non sarebbe possibile mettere in discussione il carattere federale dello Stato e l’articolazione della Repubblica in Bund e Länder (e ciò a prescindere dalla circostanza che sussiste un limite alla revisione costituzionale in tal senso, nel terzo comma dell’art. 79 della Grundgesetz). L’idea stessa di un’organizzazione federale dello Stato rappresenta una parte del patrimonio culturale e della tradizione politica tedesca. Si tratta cioè di un sentimento profondo del popolo tedesco.
Invece, nel caso italiano, l’introduzione delle Regioni nel sistema istituzionale per opera della Costituzione del 1947, non si basava su un corrispondente sentimento politico e ciò spiega il ritardo, rispetto ai termini previsti dalle disposizioni transitorie e finali, con cui è stato realizzato l’ordinamento regionale e, inoltre, dà conto della tendenza che sin dal primo momento l’istituzione Regione prese, il quale non sfuggì agli osservatori stranieri e ai più attenti studiosi italiani. La realizzazione regionale fu piegata ai “bisogni” della classe politica senza rispetto per il disegno autonomistico della Costituzione e della funzione democratica che il nuovo ente avrebbe dovuto realizzare nei confronti della Repubblica, adeguando “i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Da qui derivano anche le numerose distorsioni delle funzioni delle regioni, ridotte progressivamente nella legislazione e nell’amministrazione, e l’idea che la spesa regionale avesse un carattere eminentemente clientelare. Il radicamento regionale, perciò, non ha prodotto nell’opinione generale una diversa concezione dello Stato, i cui risvolti centralistici sono sempre sembrati preferibili, rispetto a quelli autonomistici.
Allora, il primo problema con il quale ci si deve confrontare è costituito dalla necessità di comprendere se la polarità tra Stato e Regioni sia necessaria. Perché, se la si dovesse considerare non necessaria, le contestazioni verso le Regioni sarebbero tali da poterne determinare, come per le Province, la richiesta di una loro soppressione; o – come pure è stato ipotizzato – potrebbe far sì che si preferiscano le Province rispetto alle Regioni.
Il regionalismo, voluto dall’Assemblea costituente, come forma dello Stato, risponde a principi che caratterizzano l’organizzazione pubblica secondo la Costituzione, come: la democrazia politica, l’autonomia istituzionale, il decentramento amministrativo, la responsabilità economica, politica e istituzionale. Esso, inoltre, trova il suo fondamento nell’attuale processo di internazionalizzazione dell’economia e nella particolare condizione in cui si trova lo Stato per effetto della sua partecipazione all’ordinamento dell’Unione europea. È chiaro che quando i sistemi statali adottavano politiche economiche eminentemente protezionistiche avevano poco bisogno di forme interne di autonomia e persino i sistemi federali, in tali fasi, sono stati afflitti dal centralismo del governo federale. Diversamente, nel momento in cui la collaborazione economica tra gli stati diventa così ampia da caratterizzare un’era della storia, coincidente con una fase particolare dell’unificazione europea, dovuta all’integrazione promossa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, si avverte il bisogno di distribuire i compiti statali fra più entità; di qui la preferenza per un’organizzazione interna, basata sul federalismo o sul regionalismo. L’idea che ci sia un governo centrale che possa svolgere da solo tutti i compiti statali (di interesse generale, o nazionale), perciò, rappresenta un errore.
Per questa ragione l’idea neo-centralista, che sta sospingendo la riforma del Titolo V, è il portato di un sentimento sbagliato. Quali che possono essere gli inconvenienti prodotti dal sistema, che sono da ascrivere alla classe politica e non alle Istituzioni, si tratta di un sentimento vissuto dall’opinione pubblica – anche per colpa dei media – poco responsabile rispetto al dialogo europeo e a quello globale. Gli stessi interessi nazionali hanno assunto una duplice direzione: per un verso, essi sono espressi dai bisogni politici della comunità interna e richiedono un’autorità di riferimento a cui il cittadino può rivolgersi per ricevere una risposta concreta alla sua domanda di servizi, prestazioni e beni pubblici; per l’altro, la tutela degli interessi nazionali, in un sistema ormai aperto verso istituzioni sopranazionali, richiede che vi sia una loro rappresentazione autorevole in quelle sedi in cui si svolge la mediazione con gli interessi degli altri stati. La polarità tra Stato e Regioni, perciò, appare essere quella che meglio risponde a questa condizione.
8. Il disegno di legge costituzionale presentato dal governo nell’aprile del 2014 e approvato in prima lettura dal Senato della Repubblica nell’agosto dello stesso anno e dalla Camera dei deputati nel marzo di quest’anno tocca i tre elementi su cui si è richiamata l’attenzione all’inizio e che dovrebbero caratterizzare un ordinamento regionale.
Tuttavia, occorre avvertire che il progetto della revisione non è chiaro, né coerente, e, soprattutto, non costituisce una risposta alle questioni che la vicenda del regionalismo italiano ha accumulato nel corso della sua realizzazione (dal 1970 in poi) e, in modo particolare, dopo le vicende istituzionali del periodo della crisi economica. Manca la definizione del ruolo dei livelli di governo rispetto alla politica interna e alla rappresentanza degli interessi nazionali nelle sedi sopranazionali e internazionali. Il tema dell’attuazione delle disposizioni costituzionali dal punto di vista dell’amministrazione e della responsabilità della finanza pubblica è del tutto negletto. Anche la scelta di abolire le competenze concorrenti – a parte il fatto che queste non scompaiono, ma si ripropongono in forme molteplici all’interno del nuovo riparto delle competenze – costituisce un emblema dell’incoerenza e dell’insipienza dell’intero disegno.
La considerazione del riparto delle competenze secondo le materie enumerate e il principio di esclusività del federalismo duale è da tempo superata e, forse, ormai risulta persino concretamente impraticabile. Ai poteri pubblici viene richiesto di essere dei soggetti in grado di promuovere politiche, policies, e in questa direzione sembra muoversi anche l’Unione Europea. È di tutta evidenza che in ogni politica, coesistono e sono distinguibili competenze del centro, in grado di assicurare un carattere unitario alla politica medesima, e competenze della periferia, capaci di adeguare le politiche medesime alle esigenze del territorio. Di conseguenza, il riparto delle competenze dovrebbe essere articolato sulla base delle politiche pubbliche, distinguendo la parte statale (strategica, con elementi di unificazione e omogeneità), con la parte regionale (di differenziazione, programmazione e realizzazione degli interventi), e la concorrenza sulla stessa politica dovrebbe costituire la regola, non l’eccezione, che dovrebbe darsi solo per quelle esclusive delle Regioni.
L’esempio di ciò è dato dalle politiche dell’ambiente che nell’attuale riparto delle competenze, art. 117, comma 2, lett. s, sono di competenza esclusiva dello Stato. Ebbene, nonostante questa previsione, poiché le politiche ambientali devono essere articolate nel territorio, la legislazione di attuazione ha dovuto riconoscere che l’ambiente non può essere governato tutto dal centro: una parte consistente delle funzioni inerenti all’ambiente è di competenza centrale dello Stato; ma un’altra parte – altrettanto consistente – non può non essere distribuita tra i poteri locali e le Regioni, affidandone la disciplina legislativa proprio a queste ultime.
Tutto ciò ha delle conseguenze sul piano delle relazioni tra Stato e Regioni, che non si prestano più a essere qualificate in termini di gerarchia, bensì secondo moduli collaborativi e paritari e, in tal senso, il problema di fondo è che il regionalismo può essere alimentato solo da un dialogo politico.
Non si tratta perciò di riportare quante più competenze in capo allo Stato e neppure di inserire una clausola di supremazia per affermare la superiorità dello Stato rispetto alle Regioni; né è pensabile che il problema della flessibilità delle competenze possa essere lasciato nelle mani della Corte costituzionale con la definizione del riparto delle competenze in via contenziosa, come è accaduto dopo il 1970, quando vennero costituite le Regioni per la prima volta, e ancora dopo la revisione del 2001.
Il riparto delle competenze resta comunque indecifrabile e le decisioni del giudice costituzionale servono a poco, se non c’è un dialogo politico e se il riparto delle competenze sulle policies non viene determinato dai due attori (lo Stato e le Regioni), definendo i rispettivi ambiti di intervento in modo collaborativo.
Da questo punto di vista, la strutturazione stessa del principio di leale collaborazione non può rimanere legata alla logica in cui è stata inserita dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e cioè alla c.d. chiamata in sussidiarietà e al circuito delle conferenze, espressione degli esecutivi e chiamate a svolgere ben altri compiti nel sistema delle relazioni istituzionali. In tal senso, è da considerare positivamente l’ipotesi di affidare al Senato della Repubblica il compito di rappresentanza delle Regioni e delle autonomie, configurandolo, per alcune materie come una vera e propria seconda camera parlamentare e, per altre materie, come una camera di controllo e di garanzia.
Nella composizione prevista al momento (e sempre che non vi siano rimaneggiamenti dell’ultimo momento) il Senato – ad eccezione della parte spuria di nomina del Presidente della Repubblica – sembra ubbidire a questa logica, mentre nelle procedure previste per lo svolgimento delle funzioni la disciplina proposta appare priva di equilibrio.
A tal proposito si consideri che il Senato dovrebbe realizzare la flessibilità delle competenze (dalle Regioni, allo Stato) per il tramite della partecipazione; sicché la competenza è esercitata dallo Stato, anziché dalle Regioni, ma le leggi sarebbero deliberate insieme alle Regioni, per il tramite del Senato.
Con riferimento a questo profilo, la debolezza del disegno proposto sta nella circostanza che la riforma costituzionale incentra la maggior parte della flessibilità del riparto delle competenze sul cosiddetto procedimento aggravato, anziché sul procedimento bicamerale. È la distinzione fra l’articolo 70, primo comma, nella versione della proposta, che prevede il procedimento bicamerale, e l’articolo 70, quarto comma, in base al quale le modifiche proposte dal Senato sono superabili con il voto a maggioranza assoluta.
È da dire che la versione approvata dalla Camera ha potenziato in modo considerevole il procedimento bicamerale, rispetto alla previsione del testo del Senato; ma ciò che sorprende maggiormente è che proprio per l’azionamento da parte dello Stato della clausola di flessibilità (detta anche di supremazia) dell’art. 117, comma 4, e per alcune significative materie, come il “governo del territorio” (art. 117, comma 2, lett. u) e la determinazione degli indicatori di fabbisogno finanziario delle funzioni amministrative (art. 119, comma 4), il procedimento legislativo non sarebbe bicamerale, ma semplicemente aggravato.
Quanto poi all’autonomia finanziaria non deve sorprendere che questa sia rimasta nelle condizioni in cui era in precedenza. Le modifiche all’art. 119, infatti, rendono ancora più evidente la dipendenza dell’autonomia finanziaria dalla legge dello Stato, sia sul versante del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” e sia da quello della determinazione degli “indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle funzioni pubbliche”.
Non sembra che si possa trarre da queste vicende una conclusione, perché, com’è chiaro, il futuro del regionalismo italiano continua a essere incerto.