AVVERTENZA:Relazione presentata dall’Autore – Consigliere di Stato – al Convegno Nazionale di Studi sul tema “Le prospettive della giustizia amministrativa tra federalismo ed esigenza di efficienza”, svoltosi per iniziativa dell’A.N.M.A a Venezia il 28 e 29 novembre 2008.
 
SOMMARIO:
 
 
 
 
I- Il federalismo e la giurisdizione.
I.1. Federalismo e regionalismo
 
Una riflessione sulle prospettive della giustizia amministrativa in relazione alla tendenziale trasformazione nello Stato in senso federale impone, in primo luogo la necessità di dissipare ogni possibile equivoco sulla contrapposizione tra stato federale e stato regionale, o se si vuole più semplicemente, tra federalismo e regionalismo.
Si è sempre ritenuto e insegnato che mentre lo stato regionale si presenta come unico soggetto sovrano, all’interno del quale sono costituiti enti minori, pur dotati di ampi poteri di governo, ma che non attingono alla sovranità, lo stato federale si caratterizza per la fusione in un unico stato di soggetti originariamente muniti di sovranità, che di tale posizione conservano rilevanti tratti tipici.
Sicché qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che il processo di trasformazione dell’Italia in Stato federale, che ha mosso di recente un passo significativo con il disegno di legge sul federalismo fiscale, finirà con l’ includere il conferimento alle Regioni di poteri legislativi in materia di giustizia, ed in particolare di giustizia amministrativa, quale area della giurisdizione più intensamente investita dal mutamento strutturale in corso, come se la potestà normativa e l’esercizio della giurisdizione costituisca un tratto insopprimibile di una entità federata.
Permane l’idea, infatti, che il passaggio dal regionalismo al federalismo costituisca un salto di qualità, in quanto lo stato federale e lo stato regionale non sarebbero suscettibili di classificazione in una categoria unitaria. Tesi che poi nei fatti, incontra clamorose smentite. Ad esempio il disegno di legge costituzionale nato dalla c.d. “bozza di Lorenzago”, caduta in sede referendaria nel 2005, recava l’istituzione di una camera delle Regioni e la definiva “Senato Federale”, sebbene in quel disegno, l’autonomia regionale risultasse confermata nella sua connotazione attuale e anzi, a giudizio di molti, in qualche parte più circoscritta.
In realtà quella federalista, nell’attuale contesto storico politico è nulla più che una suggestione, frutto della circostanza che i primi stati federali della storia si sono costituiti mediante la aggregazione volontaria di più stati preesistenti, come gli Stati Uniti, o la confederazione Elvetica, e della opinione che gli stessi, pur confluendo in un nuovo soggetto sovrano, avrebbero mantenuto la loro originaria natura di stati e quindi qualche forma della loro originaria sovranità.
La situazione che emerge dal diritto positivo è invece del tutto diversa (1).
Negli attuali ordinamenti federali, quale che sia stata la vicenda storica che ha condotto alla loro formazione, i soggetti in cui gli stessi si articolano non possono oggi definirsi sovrani. Gli stati membri, infatti, non possiedono in se stessi la fonte di legittimazione della loro esistenza e dei loro poteri, che, invece, trovano fondamento esclusivamente nell’atto costitutivo del nuovo ordinamento complessivo, ossia la costituzione federale.
Inoltre gli stati membri non sono indipendenti dallo Stato centrale, dal quale risultano variamente condizionati, né sono impenetrabili da parte del diritto federale, che invece è direttamente valido ed efficace nei loro ambiti e prevale sul diritto interno.
In fine gli stati membri sono privi di soggettività nell’ordinamento internazionale e non hanno la disponibilità della politica estera, che è riservata allo stato centrale.
In conclusione stato regionale e stato federale possono essere ascritti ad un unico genus: quello dello stato politicamente decentrato, nel quale gli stati membri di stati federali e regioni si presentano tutti come entità dotate non di sovranità ma di autonomia, sia pure diversamente graduata nelle differenti esperienze.
Se questo concetto pare fondarsi su dati oggettivi difficilmente contestabili, è egualmente riscontrabile che l’assetto federale dello Stato non ha precise conseguenze sull’organizzazione della giustizia. In altri termini, assetti costituzionali di tipo federale o regionale sono di per sé compatibili tanto con il monopolio centrale della giurisdizione quanto con una sua ripartizione tra Stato centrale ed altre unità politiche territoriali (2). Ciò è provato dalla esperienza storica degli Stati composti a forte decentramento politico.
Da una parte, c’è il “federalismo giurisdizionale” degli Stati Uniti. La Costituzione americana delinea un assetto che vede la presenza di Giudici federali e di Giudici statali, anche se non delinea un sistema di rigida separazione delle competenze (c’è la possibilità, per esempio, che la Corte suprema operi in sedi di appello riformando le decisioni dei giudici statali).
Diversa è la via seguita dagli Stati federali e regionali europei. Tanto l’Austria che il Belgio, pur essendo Stati federali anche se in misura diversa, sono entrambi privi di “federalismo giurisdizionale”, mentre in Svizzera, e in Germania gli stati federati dispongono di potestà legislativa in materia di giustizia.
Da ciò consegue che una eventuale riforma dell’Italia in senso federale, che intenda ispirarsi a quella che è oggi l’esperienza del federalismo nel mondo, non necessariamente comporterebbe una federalizzazione della giustizia amministrativa.
 
 
I. 2. Il federalismo e il centralismo nella giurisdizione.
Né appare lecito formulare previsioni di un orientamento favorevole a tale innovazione.
Bisogna tenere conto, infatti, che nella vicenda storica e costituzionale                italiana, è forte la convinzione che la supremazia del potere centrale si manifesti in primo luogo nella riserva allo Stato del monopolio della legislazione sulla giurisdizione e dell’esercizio accentrato della medesima (3).
Ne fa fede la storia giudiziaria dell’Italia preunitaria e risorgimentale che ha condotto alla unificazione delle diverse Corti di Cassazione, prima penali, nel 1888, e poi civili nel 1923 significativamente con l’affermarsi del regime totalitario, restando così definitivamente superato un pluralismo che era stato mantenuto nel periodo successivo al 1861: soltanto una piramide giudiziaria avente il suo vertice in una ed unica Corte di Cassazione è apparsa, agli occhi del legislatore italiano, in grado di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione del diritto oggettivo” (art. 65 dell’ordinamento giudiziario) respingendo nel passato modelli organizzativi e funzionali pure dotati di indubbia tradizione storica.
Tutto ciò non appare affatto casuale. Nell’esperienza italiana appare particolarmente radicata, in modo consapevole o inconsapevole, la convinzione che il “cuore” della supremazia (statale) sia rappresentato dallo ius dicere: non è la funzione legislativa il proprium della sovranità - atteso anche l’accoglimento del policentrismo legislativo su base territoriale - quanto proprio la funzione di giudicare, che attua la volontà dell’ordinamento nel caso concreto.
Il disegno della nostra Costituzione, risultante dalla Carta e dagli Statuti regionali speciali, pur prevedendo un largo decentramento della potestà legislativa, si attiene rigidamente alla impostazione che la giurisdizione deve essere regolata da leggi statali ed esercitata dallo Stato.
Ed invero il coinvolgimento di alcune Regioni a statuto speciale nell’amministrazione della giustizia si riduce alla attribuzione di modeste ipotesi di intervento sullo status di alcuni organi giudicanti. 
E’ il caso del giudice di pace: nella Valle d’Aosta e nel Trentino -Alto Adige la nomina e i provvedimenti disciplinari sono adottati su proposta dei presidenti della Regione (art. 40 della legge 21 novembre 1991 n. 374), nel rispetto tuttavia delle norme sull’ordinamento giudiziario, che comporta il decreto del Presidente e della Repubblica e il parere del Consiglio Superiore della Magistratura.
Una norma analoga è prevista nel Trentino Alto Adige per la nomina della metà dei giudici della Sezione di Bolzano del Tribunale Regionale di Giustizia amministrativa, ma in questo caso il potere regionale è rafforzato dalla previsione dell’intesa con il consiglio provinciale per l’irrogazione di provvedimenti disciplinari.
In Sicilia quattro componenti della Sezione Giurisdizionale Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Siciliana sono designati dal Presidente della Regione.
In fine due consiglieri di Stato debbono appartenere al gruppo di lingua tedesca della Provincia autonoma di Bolzano, che deve dare il proprio assenso. Nulla più di questo.
Per le Regioni ad autonomia ordinaria l’accennata l’impostazione culturale di fondo ha portato a sciogliere ogni incertezza interpretativa, ogni margine di ambiguità del testo costituzionale in senso favorevole all’unità e centralità del potere giudiziario.
Ne costituisce una riprova l’assenza di sviluppi significativi della previsione dell’art. 106, secondo comma, Cost. in base al quale la legge sull’ordinamento giudiziario avrebbe potuto introdurre “la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”. La disposizione, in astratto, nella sua ampia formulazione, sembrerebbe consentire anche sistemi elettivi di secondo grado di tali figure da parte degli enti territoriali - salva ovviamente la necessaria salvaguardia dell’indipendenza, oltre che della professionalità, dei giudici così nominati – e, quindi, la creazione di un corpo di giudici di derivazione regionale o sub-regionale.
Ma, con la legge n. 374 del 1991, istitutiva del Giudice di pace, la via di reclutamento prescelta per questa figura è stata un’altra, saldamente inserita nella struttura dello Stato-persona e con esclusione di qualsiasi coinvolgimento degli enti territoriali.
L’opzione in favore della statalità della giurisdizione si è manifestata anche in sede di attuazione dell’art. 125, comma 2, Cost. Come ben sappiamo, istituendo i Tribunali amministrativi regionali, la legge del 1971 li ha configurati come tribunali statali a circoscrizione territoriale regionale, sebbene la dottrina avesse messo in evidenza che tale scelta era sicuramente consentita dal testo costituzionale, ma sicuramente non l’unica possibile. Ma su questo tornerò più avanti. 
A qualche modificazione in senso ampliativo del ruolo della Regioni in tema di giustizia avrebbe potuto condurre la spinta di impronta federalista che ha condotto alla modificazione del titolo V mediante la l. cost, n. 3 del 2001, ma anche in questo caso l’orientamento centralista non è mutato.
L’art. 116, comma 3, infatti, come è noto, prevede il conferimento alle regioni ordinarie di condizioni particolari di autonomia in tutte le materie della competenza legislativa concorrente, e in poche ma rilevanti materie di competenza statale esclusiva, dando spazio al c.d. regionalismo asimmetrico. Tra queste figura la “organizzazione della giustizia di pace”. Si tratta di una timida apertura al collegamento della giurisdizione alle comunità locali che peraltro non ha avuto alcun concreto seguito.
Nessun accenno, in ogni caso, alla giustizia amministrativa che figura nell’elenco delle materia di competenza statale esclusiva (art. 117, comma 2, lett. l)).
Vale la pena di notare, a riprova di quanto forte sia l’attaccamento alla tradizione centralista, che il legislatore della nuova revisione costituzionale, approvata dal Parlamento nel 2005, si è pentito anche della modesta concessione sul giudice di pace, poiché ha previsto la abrogazione della relativa norma, abrogazione rimasta sulla carta a causa della bocciatura referendaria.
 Quale vistosa espressione della sempre viva volontà accentratrice del nostro legislatore in tema di giurisdizione, non si può non menzionare quello che è accaduto e sta accadendo in materia di concentrazione presso il TAR del Lazio di un numero sempre più ampio di controversie sottraendole al TAR che sarebbe competente in base alle regole ordinarie: dallo status dei magistrati alle autorità indipendenti, dai rifiuti al campionato di calcio, e ora, pare, l’energia. Ricordo che Sabino Cassese, in un convegno svoltosi a Roma nel 2000, proprio sul tema della competenza del TAR del Lazio, mise in evidenza come un simile processo determinasse una forma di “continuità tra attività amministrativa e attività giurisdizionale, che finisce per omologare la seconda alla prima, facendole perdere importanza.”. E citò quanto è avvenuto per la Corte costituzionale quando avvicinandosi le sue pronunce a quelle del Parlamento si disse che era divenuta la terza Camera. Il giudice delle leggi si era depotenziato a legislatore (4).
 
 
II – La ragionevole durata del processo
La conclusione di questo richiamo a cose a tutti note è che non può escludersi in linea di principio la possibilità che, nel quadro di un futuro nuovo federalismo, le Regioni siano dotate di poteri propri in materia di giustizia amministrativa; ma questo è problema di ingegneria politico-costituzionale, su cui non possiamo avventurarci in questa sede.
Oggi occorre esaminare se l’attuale ordinamento della giustizia amministrativa sia in linea con i principi ed i postulati fondanti del federalismo vigente, quale è scaturito dalla riforma del Titolo V approvata con la l.c. n. 3 del 2001, ma anche con la modifica dell’art. 111 della Costituzione approvata nello stesso contesto socio politico con la legge cost. n. 2 del 1999.
Sotto il primo profilo l’attenzione cade sulla concentrazione presso il Consiglio di Stato della competenza sugli appelli avverso le sentenze e le ordinanze cautelari dei Tribunali Amministrativi Regionali, salvo che per il TAR della Sicilia.
Quanto all’art. 111 Cost. il discorso va portato sul principio della ragionevole durata del processo, dalla cui osservanza dipende per larga parte l’efficienza del sistema.
Mi sembra doveroso partire dal secondo punto, perché questo è il profilo nel quale la giurisdizione amministrativa, accanto a livelli di sicura eccellenza, accusa aree di ritardo inaccettabile.
Alludo evidentemente al c.d. problema dell’arretrato che più propriamente consiste nella violazione del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo.
In un noto studio apparso sulla rivista di diritto processuale amministrativo del 2004 il prof. Giuseppe Abbamonte (5) ha sottolineato con particolare vigore il rilievo che, per l’efficacia della giustizia amministrativa, assai più che in altri rami della giurisdizione, assume la rapidità della decisione e il danno che deriva dal ritardo nella conclusione del giudizio.
E ciò perché la funzione amministrativa è inarrestabile nel suo svolgimento e le illegittimità denunciate in giudizio, se non corrette attraverso l’effetto conformativo della sentenza, tendono a ripetersi e perpetuarsi: l’illegittimità commessa diventa, medio tempore, la regola dell’agire amministrativo, originando nuovo contenzioso.
Nella Relazione sullo stato della giustizia amministrativa nel 2006, il Presidente del Consiglio di Stato Mario E. Schinaia affermava:”Anche grazie al rito accelerato, previsto dall’art. 23-bis della legge T.A.R., la giurisdizione amministrativa è stata spesso in grado di garantire la ragionevole durata del processo, anche in presenza di controversie particolarmente complesse.
Tuttavia, il compito del giudice amministrativo è quello di rendere giustizia in tempi ragionevoli per tutti, non essendo giuridicamente ed eticamente ammissibile il consolidarsi di una generalizzata giustizia a due velocità.
La ragionevole durata del processo deve essere, quindi, assicurata al cittadino per ogni tipologia di controversia.
I richiamati principi devono essere garantiti anche per quelle questioni che, all’occhio del giudice (o del legislatore), possono sembrare minori, ma che tali non sono per il ricorrente, che può anche avere torto, ma se si rivolge al giudice lo fa per chiedere giustizia.”
La situazione attuale è di una gravità estrema. Secondo la Relazione sopra citata la pendenza dinanzi ai TAR è valutata di 600 mila ricorsi e dinanzi al Consiglio di Stato di oltre 20 mila appelli, ma l’arretrato sarebbe ancora più ingente secondo l’indagine condotta dal collega Presidente Carlo Talice in collaborazione con funzionari dell’ISTAT, pubblicata su Giurisdizione amministrativa, Novembre 2007, che reca le cifre di oltre 735 mila per i ricorsi in primo grado e 31 mila per gli appelli.
Il Presidente Paolo Salvatore nella Relazione sull’attività del plesso nel 2007 definisce questi dati “traumatici e drammatici”, che “costituiscono un evidente e innegabile vulnus ai principi costituzionali degli artt. 24 e 111 della costituzione”. E aggiungerei dell’art. 3.
Per una percentuale del nostro contenzioso, che sfiora il 50% del totale, infatti, il sistema non è in condizioni di assicurare la tutela per la quale è istituito e pagato dal cittadino. Occorre infatti riconoscere che, se la conclusione del giudizio giunge dopo oltre 15 anni dal ricorso di primo grado, l’atto amministrativo illegittimo ha prodotto effetti irreversibili, che nessun risarcimento, sempre che sia conseguibile, potrebbe compensare.
Nessun conforto, in proposito, può derivare evidentemente, dalla considerazione, spesso reiterata, che il numero dei ricorsi definiti è superiore al numero di quelli proposti, perché il ritmo di recupero dell’arretrato per questa via è praticamente insignificante.
Né può più assumersi quell’atteggiamento minimizzatore con il quale si pretendeva di qualificare il nostro arretrato come meramente “apparente”, valutandosi, con una buona dose di cinismo, che a causa del decorso del tempo, molti ricorrenti hanno perduto interesse alla definizione della lite nel merito.
 A parte l’inaccettabilità sul piano etico, l’argomento è ormai impraticabile sia a causa della acquisita risarcibilità dell’interesse legittimo, sia dalla previsione del diritto alla equa riparazione per la irragionevole durata del processo da parte della legge 24 marzo 2001 n. 89 (legge Pinto), due innovazioni di sistema che rendono sempre meno frequente la sopravvenienza del difetto di interesse.
Quanto alle legge Pinto l’entità del fenomeno è ben rappresentato nella Relazione del Presidente Schinaia, già citata, nella quale si ricorda che, con riferimento ad un solo TAR, i decreti di condanna sono stati 291 nel 2004, 493 del 2005, per poi raggiungere nel 2006 la cifra di 960.
Sembra incredibile che di fronte a questo stato di cose nessuno solleciti le opportune iniziative.
E’ a tutti noto che nel 1997, allorché la pendenza dei tribunali civili veniva stimata in 500 mila procedimenti, con la legge 22 luglio n. 276, vennero istituite le sezioni stralcio, composte da un magistrato di ruolo e da due giudici aggregati, che hanno svolto un proficuo servizio.
 Un provvedimento analogo fu adottato per la magistratura amministrativa con il d.l. 18 maggio 2001 n. 179 che, assunto da un Governo ormai battuto alle elezioni del 13 maggio, fu lasciato decadere.
E’ mia convinzione che il mondo della magistratura amministrativa, istituzioni, associazioni, foro, debba assumere un impegno assolutamente prioritario affinché un provvedimento straordinario sia assunto per l’eliminazione dell’arretrato.
 E dico provvedimento straordinario perché va denunciata con fermezza la tendenza a forzare oltre il sopportabile, in nome dell’arretrato, i carichi di lavoro stabiliti dal CdP, uno sforzo che, oltre a deprimere la qualità del prodotto, neppure sarebbe necessario, se è vero, come si constata da qualche anno, che i ricorsi definiti supera quelli in ingresso. 
Se, dunque, il plesso, anche con le sole forze attualmente disponibili, liberato dal peso dell’arretrato, è capace di portare all’attivo il proprio bilancio di attività, è il momento di assumere iniziative concrete di riorganizzazione interna del lavoro.
Per quanto riguarda il Consiglio di Stato, ad esempio, è innegabile che le modifiche dei commi 2 e 4 dell’articolo 1 della legge 27 aprile 1982, n. 186 ad opera dell’articolo 54 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, pur con tutte le riserve espresse al riguardo, offrano al Presidente dell’Istituto l’opportunità di un intervento volto a porre mano alla progressiva eliminazione delle annose pendenze.
   Si tratterebbe di creare, mediante soppressione di una delle sezioni consultive, una sezione giurisdizionale a competenza generale, non legata cioè ad alcuna ripartizione di materie, nella quale dovrebbero confluire esclusivamente i più antichi fascicoli provenienti da tutte le altre Sezioni.          
La pendenza, la cui reale entità è in corso di accertamento, ma che è certamente di mole assai rilevante, potrebbe essere eliminata nel corso di pochi anni e l’operazione, sostanzialmente a costo zero, diverrebbe parametro della serietà con la quale gli addetti ai lavori si danno carico dell’efficienza del servizio giustizia.
 
 
III- Il decentramento dell’appello.
III. 1- L’avvio del dibattito
 Concluso il discorso su questo aspetto, voglio ricordare che il problema del decentramento del nostro giudizio amministrativo di appello si pose nel dibattito dottrinale subito dopo che nel 1987 l’ordinamento francese, che aveva istituito nel 1953 i tribunali amministrativi di primo grado, introdusse le corti amministrative di appello, le cui pronunce potevano formare oggetto di ricorso per cassazione (con la “c” minuscola) davanti al Conseil d’État.
L’opinione contraria alla estensione della riforma all’ordinamento italiano, per ragioni sulle quali mi prometto di tornare tra breve, fu subito unanime e incontrastata (6).
Nel corso della XIII legislatura 1996-2001, peraltro, in esito a quel movimento di idee che fu definito “federalismo a costituzione invariata” l’assetto della amministrazione italiana fu interessato da un forte rinnovamento. Attraverso la legge delega n. 59 del 1997 e il decreto delegato n. 112 del 1988, nel quadro della c.d. riforma Bassanini, si gettarono le basi di quel massiccio trasferimento di funzioni amministrative che poi avrebbe ricevuto il crisma definitivo della legittimità con legge costituzionale n. 3 del 2001.
 Tant’è che a Palermo, il 30-31 ottobre 2000 si tenne un convegno sul tema "La Giustizia Amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale", per l’evidente suggestione suscitata dall’avanzamento dell’iter della futura legge cost. n. 3 del 2001.
Nel corso di quell’incontro un autorevole e brillante presidente di sezione del CdS, Salvatore Giacchetti, autore di una delle relazioni (7), rilanciò senza mezzi termini il tema del decentramento del giudizio amministrativo di appello.
Egli osservò in tale occasione che, mentre ci sono sistemi giurisdizionali che, almeno per il momento, non sembravano utilmente federalizzabili: basti pensare alla giustizia costituzionale o alla giustizia penale e a quella civile (entrambe sottratte alla competenza delle regioni) perché essi trattano – salvo tassative eccezioni – l’applicazione di norme che è opportuno che restino identiche in tutto il territorio nazionale, la giustizia amministrativa opera su materie rientranti in prevalenza nella competenza regionale. Di conseguenza, in periferia la larga maggioranza delle controversie amministrative attiene all’applicazione di norme proprie esclusivamente delle rispettive regioni. In una situazione di questo genere la soluzione più logica sarebbe innanzi tutto quella di creare distinti organi statali di secondo grado, a livello regionale per le questioni di interesse regionale, ed a livello centrale per le questioni di interesse superregionale o interregionale.
Egli si disse contrario alla attribuzione all’organo centrale di secondo grado anche funzioni di nomofilachia e di terzo grado sulle decisioni degli organi di secondo grado a livello regionale, sia perché ciò non atterrebbe all’unità dell’ordinamento (trattandosi appunto di questioni di esclusivo interesse regionale) sia perché nelle controversie amministrative una giustizia sollecita è di regola preferibile ad una giustizia “giusta” (tra virgolette).
L’audacia del Presidente Giacchetti non si fermò qui. Egli affermò, infatti che quello sopra riferito: “sarebbe però soltanto il primo passo. …sarebbe poi necessario compiere il secondo passo: e cioè quello di integrare i collegi giudicanti con magistrati “laici” designati dalle regioni, che conoscendo a fondo la specifica realtà locale potrebbero meglio illustrare ai giudici togati le conseguenze concrete di un determinato indirizzo, evitando così decisioni velleitarie o intrinsecamente dannose. Va tenuto presente che rilevante in questo senso è il contributo che i consiglieri di nomina governativa e regionale hanno dato e danno – rispettivamente - all’attività delle sezioni romane del Consiglio di Stato e all’attività del Consiglio di giustizia amministrativa.”.
Le stimolanti provocazioni di Salvatore Giacchetti, a mio avviso coglievano il dato ineludibile che il progressivo affermarsi del principio federalista porta con sé: l’esigenza che la giurisdizione amministrativa sia esercitata in forma compiuta, e quindi comprensiva del giudizio di appello, presso la realtà locale in cui è reso il servizio giustizia amministrativa.
Di ciò si è dato carico il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, che, nel corso del precedente mandato, ha dato vita ad una commissione speciale per studiare e proporre una riforma organica del sistema “a Costituzione invariata”. Infatti, il documento approvato, a larga maggioranza, il 30 aprile del 2004, a conclusione dei lavori, prevedeva, sul punto, l’articolazione del Consiglio di Stato in sezioni staccate, giurisdizionali e consultive, con previsione di due sezioni a Roma, una a Milano e una a Napoli. Una delle sezioni di Roma avrebbe dovuto giudicare degli appelli avverso le sentenze del TAR del Lazio, mentre quelle di Milano e Napoli avverso le sentenze del TT.AA.RR. settentrionali e meridionali, secondo una delimitazione territoriale da stabilire in base ai carichi effettivi del contenzioso. Presso le sezioni giurisdizionali staccate sarebbero state istituite anche sezioni consultive con competenza sugli atti delle Regioni. Da notare la previsione che presso queste sezione avrebbero potuto far parte anche membri laici designati dai consigli regionali.
Il progetto non ha avuto alcun seguito, ma costituisce comunque un segnale inequivocabile che, in collegamento con la riforma del Titolo V, è stata avvertita l’esigenza di un cambiamento della organizzazione in atto, che aveva visto accumularsi presso il Consiglio di Stato una pendenza di circa 20.000 ricorsi in appello a fronte della possibilità di definirne circa 7.000, un numero pari o poco superiore ai nuovi in ingresso.
 
III. 2. Il contesto europeo.
È il caso di notare che sistemi di giustizia amministrativa con giudizio di appello distribuito su base territoriale sono adottati dalla maggioranza dei Paesi europei. Ad eccezione dell’Austria e del Belgio, in cui non sono previsti giudici locali di primo grado, la Francia, la Germania, la Spagna il Portogallo, la Grecia, l’Ungheria, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, l’Olanda, la Romania, la Slovacchia, la Slovenia, la Svezia, dispongono di sistemi strutturati, pur nella diversità degli ordinamenti, su tre gradi di giudizio. Non mancano, peraltro, Paesi nei quali, come in Italia, il giudice di appello è unico per tutto il territorio nazionale. Tali la Bulgaria, la Repubblica Ceca, la Finlandia.
L’ordinamento francese presenta particolare interesse in ragione delle evidenti affinità storiche, politiche e sociologiche con il nostro Paese. I tribunali amministrativi ora sono in numero di 39 dei quali 31 sul territorio metropolitano. Il giudizio di appello è affidato a 8 Corti di appello. Il dato più rilevante concerne proprio il Conseil d’État, il quale con la riforma del 1987, istitutiva, come detto, delle corti di appello, diventa giudice del ricorso per cassazione avverso le sentenze di queste ultime. L’organo conserva competenze di giudice di appello nella materia elettorale locale, e competenze in unico grado in materia di decreti e regolamenti ministeriali e di elezioni regionali e al parlamento europeo, e sulle nomine degli alti funzionari dello Stato.
Anche in Spagna esiste un Consiglio di Stato ma non ha funzioni giurisdizionali. Il sistema comunque non presenta, per l’aspetto in esame nelle grandi linee, caratteristiche molto diverse da quello francese. Il doppio grado, peraltro, non è rimesso alla discrezionalità del legislatore ordinario, ma è garantito a livello costituzionale con una disposizione inequivocabile. L’art. 152 della loro Carta stabilisce che, salva la competenza della Corte suprema, (leggi ricorso per cassazione), “le successive istanza processuali si esauriranno davanti a organi giudiziari presenti nello stesso territorio della Comunità autonoma in cui si trovi l’organo competente in prima istanza.” .
 E’ articolato su giudici amministrativi (preture) a livello provinciale, le cui sentenze sono appellabili dinanzi alla camera amministrativa dei tribunali superiori istituiti nei capoluoghi delle Comunità autonome, che sono 17. Anche il questo caso è previsto un ricorso per cassazione contro le pronunce di secondo grado alla Corte Suprema e un regime differenziato per gli atti dei ministri e sottosegretari, e degli enti a rilevanza nazionale, ma anche per questi atti esiste un giudizio di primo grado ed uno di appello.
E’ a tutti noto che la giurisdizione amministrativa della Repubblica federale tedesca è organizzata su tre gradi di giudizio. I primi due gradi si svolgono a livello di Länder, concernono atti cui si addebitano violazioni delle leggi degli stati federati; la Cassazione amministrativa, una della cinque corti di cassazione previste dal sistema, oltre il Tribunale costituzionale, conosce delle violazioni delle leggi federali. Sia i giudici dell’appello sia le Cassazione amministrativa sono giudici di unica istanza per particolari e tassative materie.
Due profili sono importanti: i collegi del giudice di primo grado sono composti di cinque magistrati di cui due onorari, non togati (cfr. art. 5, terzo comma, prima frase della legge sul contenzioso amministrativo). Questi ultimi sono scelti da una Commissione speciale, fra un certo numero di candidati, designati dai consigli degli enti comunali aventi sede nella circoscrizione del Tribunale (cfr. artt. 19 e ss. della legge sul contenzioso amministrativo).
Negli ultimi anni, la legge sul contenzioso amministrativo è stata novellata con l'istituzione del giudice monocratico, ormai operante anche nei sistemi francese e spagnolo.
 Il richiamo alle caratteristiche essenziali dell’organizzazione negli ordinamenti di giustizia amministrativa in Francia, Spagna e Germania, pur nella sua estrema sommarietà, ne mette in evidenzia un comune intento di fondo, individuabile nello sforzo di determinare il giudice secondo all’ambito sociale di rilevanza della lite, ossia a seconda della sfera più o meno ampia di efficacia dell’atto da giudicare. Questo significa che il giudizio sugli atti ad efficacia individuale o territorialmente limitata debbono svolgersi in forma decentrata, sia in primo grado che in appello, considerando il giudizio di appello come ultima istanza ordinaria di definizione della lite, mentre gli atti di rilevanza nazionale per lo più sono assoggettati ad un sindacato accentrato, anche soltanto in unico grado. Il ricorso per cassazione, nel suo tradizionale carattere di scrutinio che non investe il fatto controverso, ma solo l’interpretazione della legge seguita dal giudice di merito, è previsto come mezzo eccezionale, assoggettato a specifiche limitazioni.


IV – Il decentramento dell’appello e la Costituzione.
IV. 1. – L’art. 125
Si è sostenuto che un sistema con queste caratteristiche, che, per essere accolto in tanti e rilevanti ordinamenti europei, non può non fondarsi su esigenze obiettive di razionalità della organizzazione della giurisdizione, non sarebbe esportabile in Italia a Costituzione invariata.
L’ostacolo principale è individuato, come è ben noto, nell’art. 125, comma 2, che prevede nelle Regioni l’istituzione di organi di giustizia amministrativa di primo grado, cui fa riscontro l’art. 103 Cost. che individua nel Consiglio di Stato l’altro giudice cui è demandata la tutela nei confronti della pubblica amministrazione. Se ne è dedotto che, per disciplina di livello costituzionale non modificabile con legge ordinaria, il giudice regionale non potrebbe essere che di primo grado, mentre la competenza del grado di appello, postulata proprio dalla previsione del primo grado, sarebbe riservata al Consiglio di Stato, cui pertanto non potrebbe essere sottratta dal legislatore. A ciò si aggiunge il peso dell’art. 100 che, nell’assegnare al Consiglio di Stato la missione di assicurare la giustizia nell’Amministrazione, ne garantisce la potestà di interlocuzione in ogni vertenza contenziosa attribuita alla giurisdizione amministrativa.
In fine si è osservato che, in considerazione della possibilità di impugnare dinanzi alla Corte di Cassazione le sentenze del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione (art. 111, ultimo comma, Cost.), la assegnazione a quest’ultimo di soli compiti di nomofilachia finirebbe per aggiungere al sistema una quarta istanza, con evidente pregiudizio per la celerità del processo.
Sono dell’opinione che tali argomenti non siano insuperabili e che la riforma potrebbe essere attuata con legge ordinaria.
Sembra difficile negare, in primo luogo, che la realizzazione di un regionalismo più forte, ovvero del federalismo, con conseguenze anche sulla dislocazione sul territorio dei giudici amministrativi di appello, costituisca uno sviluppo evolutivo del principio già accolto dalla Costituzione del 1948, con la previsione del giudice amministrativo di primo grado in sede regionale, in collegamento con la scelta autonomistica di cui all’art. 5 Cost.. Questa disposizione non si limita al riconoscimento della autonomie locali ma impegna la Repubblica alla promozione delle medesime.
L’obbligo costituzionale di istituire un giudice amministrativo di primo grado in ogni Regione non ha comportato soltanto l’introduzione pressoché generalizzata del doppio grado nella giurisdizione amministrativa, ma il contestuale precetto per cui la giustizia amministrativa deve essere esercitata nella Regione, cioè nel contesto socio politico nel quale esplicano effetti gli atti da sottoporre a giudizio. Questo secondo principio risulta accentuato dall’ultimo periodo della disposizione, con il quale il costituente ha autorizzato il legislatore ad istituire sezioni in sedi diverse dal capoluogo: un vero e proprio suggerimento che sottolinea il favore per un maggior collegamento del giudice con la comunità interessata dalla funzione giudiziaria.
La pregnanza di questo valore costituzionale non si attenua per la circostanza che la sentenza del giudice regionale può essere sottoposta a revisione e riformata in un giudizio che si svolge in forma accentrata lontano dalla sede degli interessi in giuoco. Considerando che l’appello è una mera eventualità, il dato preminente nel disposto di cui all’art. 125 va individuato nel fatto che la Costituzione prevede ed accetta che la decisione della lite sia assunta in sede locale e diventi inoppugnabile, dettando la regola definitiva del rapporto controverso.
Va anche ricordato come la Corte costituzionale (ord. n. 395 del 1988), a proposito del giudizio di ottemperanza che può svolgersi in unico grado dinanzi al Consiglio di Stato, abbia puntualmente definito la portata dell’art. 125, comma 2, affermando: “che tale norma comporta soltanto l'impossibilità di attribuire al T.A.R. competenze giurisdizionali in unico grado e la conseguente necessaria appellabilità di tutte le sue pronuncie, e, quindi, una garanzia del doppio grado riferita alle controversie che il legislatore ordinario attribuisca agli organi locali della giustizia amministrativa;”.
“Solo in tal senso- ha proseguito la Corte - assume rilevanza costituzionale, come affermato dalla sentenza di questa Corte n. 8 del 1982, il … principio del doppio grado di giudizio, non potendo, l'art. 125 della Costituzione comportare l'inverso, perché nessun'altra norma della Costituzione indica il Consiglio di Stato come giudice solo di secondo grado;”.
Non sembra dunque potersi dedurre dall’art. 125 il divieto di istituire corti di appello amministrative dislocate sul territorio, perché la norma, in sé, ha un contenuto precettivo ben delimitato e non può assumere il rango di fonte che sopprime la facoltà del legislatore di adeguare l’organizzazione di una magistratura alle mutate esigenze dei tempi. Ne risulterebbe violata la riserva di legge di cui all’art. 108, comma 1, cost., che pone sullo stesso piano della legge sull’ordinamento giudiziario le leggi che regolano l’ordinamento di “ogni magistratura”.
In proposito merita di essere segnalato, sebbene si tratti di un semplice obiter dictum, un passaggio della sentenza (n. 29 del 1995) con la quale la Corte costituzionale ha esaminato la questione di legittimità del d.l. n. 453 del 1993, istitutivo delle sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti. Si sosteneva l’illegittimità della riforma per contrasto con l’art. 125 (allora, comma 2) sull’assunto che la previsione in ciascuna regione di organi di giustizia amministrativa di primo grado non avrebbe consentito al legislatore ordinario di intervenire sull’assetto della giurisdizione in ambito locale. La sentenza ha rigettato la tesi affermando che la detta norma costituzionale “…non può essere invocata al fine di ritenere preclusa allo stesso legislatore statale la possibilità di istituire sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, o di ogni altra magistratura, aventi circoscrizioni ritagliate sui singoli territori regionali, …”.
 
IV.2. – L’art. 103
Di maggior peso, in apparenza, è l’obiezione che, allegando l’art. 103 Cost., intende escludere che possa esserci un giudice dell’appello amministrativo diverso dal Consiglio di Stato. Ed è intuitivo che il documento del Consiglio di Presidenza, ricordato sopra, prevedendo un decentramento dell’appello affidato a sezioni staccate del Consiglio di Stato, abbia ritenuto insuperabile l’ostacolo offerto dall’art. 103.
Nella norma possono individuarsi due precetti: secondo il primo, non sarebbe consentita la trasformazione del Consiglio di Stato in giudice della cassazione, ossia della corretta interpretazione della legge da parte della sentenza impugnata, perché la sottrazione al Consiglio di Stato del giudizio sul merito della controversia si risolverebbe in una riduzione della tutela garantita dalla norma costituzionale.
La tesi non è compatibile con il disposto dell’art. 113, comma 1, Cost., il quale stabilisce che gli interessi legittimi sono tutelati dinanzi agli organi della giurisdizione amministrativa così come i diritti soggettivi sono tutelati dinanzi agli organi della giurisdizione ordinaria. E se non lede il diritto alla tutela giurisdizionale il processo dinanzi al giudice ordinario, strutturato su tre gradi di giudizio, non è sostenibile il contrasto con i principi costituzionali di un giudizio amministrativo in cui il Consiglio di Stato intervenga come giudice della cassazione delle sentenze dei giudici dei gradi inferiori. L’art. 103, del resto, vuole che la giurisdizione amministrativa sia esercitata dal Consiglio di Stato ma anche “dagli altri organi di giustizia amministrativa, e non impone che il contenuto delle rispettive funzioni debba essere identico. Anzi, il ruolo di vertice che compete al Consiglio di Stato autorizza la presunzione che lo stesso intervenga nel processo con un ruolo diverso da quello dei giudici del merito. Ne costituisce la prova il vastissimo dibattito dottrinale che ha riguardato il modo di intendere e di costruire il nostro giudizio di appello. La legge n. 1034 del 1971 ne ha fatto un rimedio rinnovatorio del giudizio di primo grado, ma nulla avrebbe impedito che si desse vita ad un gravame di tipo cassatorio.
Il secondo precetto che si può estrarre dall’art. 103 consisterebbe nell’affidamento del grado di appello ad un giudice unico centralizzato per garantire l’unitarietà della giurisdizione amministrativa. A questo riguardo è fin troppo agevole replicare che “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione del diritto oggettivo”, a norma dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, è la funzione specifica e tipica della Corte di Cassazione, sicché la stessa esigenza di nomofilachia potrebbe essere egregiamente soddisfatta, per l’area della giurisdizione amministrativa, dal Consiglio di Stato nella diversa veste di giudice di cassazione.
Ma, a parte la nomofilachia e la non confondibilità della medesima con la competenza a decidere di gravami di tipo rinnovatorio, l’esigenza di unitarietà dell’ordinamento ha subito una sensibile modificazione a causa della riforma federalista.
Basti considerare che la legge costituzionale n. 3 del 2001 ha determinato: a) il capovolgimento del sistema di ripartizione delle potestà legislative tra Stato e Regioni a beneficio di queste ultime, che ora godono di una clausola di competenza residuale generale, mentre allo Stato spettano solo materie tassativamente enumerate; b) la attribuzione del potere regolamentare alle Regioni in tutte le materie salvo quelle di competenza legislativa esclusiva dello Stato, e il conferimento diretto della attività amministrativa agli enti sub-regionali, con relativa potestà regolamentare organizzativa; c) la soppressione dei controlli amministrativi già previsti dagli artt. 130 e 125, comma 1, Cost. nei confronti della Regione e degli enti locali, che ha accresciuto il ruolo della giustizia a garanzia della legittimità dell’azione amministrativa.
Si tratta di un complesso di misure che ha spostato verso la periferia il baricentro dell’attività normativa in materie attinenti alla cura di pubblici interessi, con conseguente accentuazione del carattere pluralistico dell’ordinamento, della riduzione progressiva degli ambiti dell’unitarietà e della differenziazione delle discipline delle singole materie.
Un rilievo particolare in tale processo assume l’art. 118, comma 1, a norma del quale le funzioni amministrative sono ripartite tra lo Stato e le autonomie locali costituzionalmente riconosciute secondo il principio di sussidiarietà, cui si aggiungono in funzione applicativa i principi di adeguatezza e differenziazione.
Il principio di sussidiarietà, come è noto, viene generalmente inteso come preferenza per il livello di decisione più vicino ai cittadini, per cui, di regola le funzioni sono collocate al livello più basso, ossia ai Comuni, salvo che per assicurarne l’esercizio unitario siano conferite ai livelli superiori delle Province, Città metropolitane, Regioni e Stato. I principi di adeguatezza e differenziazione conferiscono flessibilità alla regola generale della sussidiarietà, imponendo di tenere conto delle differenze esistenti tra le realtà locali e del livello che risulti più idoneo ad assicurare un efficace svolgimento delle funzioni.
A questa tipo di sussidiarietà, che viene definita verticale, perché si realizza in processi discendenti o ascedenti nella distribuzione delle funzioni, lo stesso art. 118, al comma 4, ha aggiunto una sussidiarietà orizzontale, che concerne l’affidamento di attività di interesse generale alla autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati.
Ne emerge un quadro di distribuzione delle funzioni amministrative estremamente articolato e differenziato, regione per regione, che darà vita a ordinamenti regionali a loro volta diversi l’uno dall’altro, ognuno con le proprie problematiche applicative.
Questo assetto determina due conseguenze.
Il giudice amministrativo di merito va incontro ad una esigenza di specializzazione sempre maggiore dovendo misurarsi con ordinamenti propri di quel determinato territorio, e tale specializzazione, che dovrebbe essere garantita anche in sede di appello, non può essere acquisita da un organo unico ed accentrato.
La seconda, che discende dalla precedente, consiste nel fatto che la funzione di vigilanza sulla uniforme applicazione del diritto oggettivo, che giustificherebbe l’appello accentrato, si pone per il diritto amministrativo in dimensioni progressivamente più ridotte che per le altre branche del diritto, perché la normativa di produzione locale ha efficacia territorialmente circoscritta alla singola Regione.
E non potrebbe, sostenersi, in senso contrario, che la domanda di giudizio di appello sia assai limitata, allegando il dato statistico secondo cui le sentenze di primo grado gravate di appello assommano ad una percentuale stabilizzata negli anni intorno al 10%. Avanzerei l’ipotesi che tale ridotto tasso di impugnazioni sia in qualche modo condizionato dalla distanza del giudice dal territorio interessato alla controversia, se è vero, come ho potuto faticosamente accertare con ricerche dirette, che in Sicilia, la percentuale di appelli al C.G.A. è salita nel 2007 al 20%.
Ciò non di meno, come ci ha informato il presidente Virgilio nella Relazione del 2008, grazie anche alla sua ben nota abnegazione, l’arretrato è praticamente insignificante, mentre sul Consiglio di Stato, a causa della concentrazione, pesano le cifre che ho ricordato prima.
In conclusione una riforma del sistema nel senso del decentramento dell’appello renderebbe la giurisdizione amministrativa meglio idonea a fornire un servizio adeguato alle esigenze della collettività.
 
V – Il decentramento della funzione consultiva.
Da più parti si propone anche un decentramento della funzione consultiva del Consiglio di Stato con l’istituzione di apposite sezioni presso i TAR.
La mia opinione, senza entrare nel merito, è che una riforma del genere non sia attuabile a Costituzione invariata.
A quanto mi risulta, l’unico ordinamento statale che contempli attività consultiva esercitata da giudici amministrativi è quello francese. L’esempio, tuttavia, non pare molto probante per la semplice ragione che la Francia non è uno stato politicamente decentrato. Le regioni francesi non sono Regioni come le italiane o quelle spagnole. Sono semplici organi di decentramento amministrativo, sono prive (salvo i territori di oltremare) di potestà legislativa e i loro poteri non godono di alcuna garanzia costituzionale.
Infatti i testi normativi francesi che menzionano la consulenza parlano di pareri resi su richiesta dei prefetti, ossia di organi dello Stato centrale secondo lo schema classico da noi offerto dal Consiglio di Stato.
Non va dimenticato che la funzione consultiva ha pur sempre natura amministrativa. Se conferita ai TAR, dovrebbe essere svolta da organi dello Stato in favore di enti cui, dopo la riforma del Titolo V, la Costituzione, con l’art. 118, garantisce la signoria assoluta della attività amministrativa. Ciò comporta che la materia amministrativa non è nella libera disponibilità né dello Stato né delle Regioni, perché entrambi questi soggetti sono tenuti, a Costituzione invariata, ad osservare la ripartizione di competenze stabilite dalla normativa costituzionale.
Ciò significa che, anche ammesso che le Regioni possano concordare e consentire, nelle sedi della concertazione, di avvalersi della consulenza dei TAR, la riforma che fosse attuata con legge ordinaria, sarebbe costantemente esposta all’impugnazione in sede costituzionale nel corso di qualunque giudizio.
Ma anche prescindendo da tali problemi, e con riferimento alle aree tipiche dell’attività consultiva del Consiglio di Stato, può osservarsi quanto segue.
 Quanto al parere sugli atti normativi delle regioni e delle altre autonomie, va ricordato che, in forza dell’art. 123 cost,. l’approvazione delle leggi e dei regolamenti regionali è materia disciplinata nello statuto regionale, sulla quale è escluso che possa incidersi, prevedendo un parere obbligatorio di un consulente statale, con fonte diversa dalla modifica statutaria.
Tanto più che quasi tutti i nuovi statuti regionali, approvati in questi anni dopo la riforma del Titolo V, prevedono la istituzione di un organo consultivo, in posizione di terzietà e indipendenza destinato appunto ad esaminare dal punto di vista tecnico giuridico le delibere consiliari e di giunta relative ad atti normativi.
Cito per tutti lo Statuto della Regione Piemonte, approvato con legge regionale statutaria 4 marzo 2005 n. 1. che, all’art. 91, reca la previsione della Commissione di garanzia, definita organismo indipendente dalla Regione composto di sette membri eletti dal consiglio regionale, di cui un magistrato a riposo, due professori universitari di ruolo di materie giuridiche, due avvocati con 15 anni di attività e due ex consiglieri regionali.
L’organo è già istituito con la legge piemontese n.25 del 2006, che lo definisce organo consultivo indipendente e imparziale. E’ costituito a garanzia del rispetto dello statuto da parte dello Stato, e da parte delle iniziative normative della stessa Regione, ma ad esso possono essere attribuite altre funzioni con legge regionale (art. 92, comma 3 Statuto).
Mi pare evidente che le Regioni si siano date carico della necessità di un apporto tecnico giuridico alla loro attività ed abbiano colmato la relativa lacuna prevedendo un apposito organo consultivo.
Sembra arduo, quindi, immaginare che alla attività di quest’organo possa essere affiancata una funzione statale di consulenza. Primo, perché si avrebbe una duplicazione di funzioni del tutto illogica; secondo, ed ancor più, perché ciò rappresenterebbe una inammissibile ingerenza dello Stato nell’esercizio delle attribuzioni riservate alla Regione.
Passando a considerare il ricorso straordinario, può rilevarsi che, se si decidesse di addivenire alla introduzione in altre regioni del ricorso previsto in Sicilia, peraltro con norma costituzionale, parrebbe più che naturale che il parere venga attribuito alla commissione di garanzia di cui sopra, sembrando veramente una superfetazione mettere in piedi a tal fine una apposita sezione presso il TAR o la Corte di appello amministrativa.
Venendo, infine, ai pareri su quesiti, per i quali da sempre potevano avvalersi delle Sezioni consultive del Consiglio di Stato, non pare che le Regioni intendano utilizzare tale supporto. I numeri sono significativi. Presso il Consiglio di Stato si tratta di ipotesi rarissime. Presso il C.G.A., nonostante la presenza in loco (da oltre 60 anni) della Sezione consultiva, ancora secondo la relazione del pres. Virgilio, nel 2007 vi sono state solo 4 richieste di parere.
In conclusione, l’istituzione di sezioni consultive presso i TT.AA.RR. non parrebbe rispondere ad una pressante domanda da parte degli enti autonomi, e si imbatterebbe in ostacoli ordinamentali difficilmente superabili.


NOTE
(1) Anzon Demmig A., I poteri delle Regioni. Torino, 2008, 5. Nel senso, invece, che negli stati federali i membri conservano la natura di entità statali, D’Atena A., Lezioni di diritto costituzionale, Torino, 2006, 68 e ss.
(2) Pitruzzella, G., Stato Regionale e Giustizia Amministrativa, relazione al convegno: "La Giustizia Amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale", Palermo, 30-31 ottobre 2000;
(4) I mutamenti dello Stato e la competenza del T.A.R. Lazio, in Atti del Convegno su La Competenza del T.A.R. del Lazio estesa all’intero territorio nazionale, Roma, 2000, 172.
(5) Attualità e prospettive della riforma del processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2004, n. 2, 315.
(6) Vacirca G, Note su alcune innovazioni del sistema francese di giustizia amministrativa, in Foro Amm., 1988, 3092; Protto M., La riforma del contentiux administratif, ivi, 1996, 2117.
(7) Giacchetti, S., Federalismo e futuro interiore della giustizia amministrativa, relazione al convegno: "La Giustizia Amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale", Palermo, 30-31 ottobre 2000.

Menu

Contenuti