Stelio MANGIAMELI, Il regionalismo italiano dopo la crisi e il referendum costituzionale. Appunti per concludere una lunga transizione (marzo 2017)
Relazione introduttiva per la Presentazione del Rapporto sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea a cura della Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio, 14 marzo 2017
4. Il coordinamento della finanza pubblica e il federalismo fiscale
5. Asimmetria e specialità: necessità di una messa a punto
6. Le province e le città metropolitane: superare le criticità della legge n. 56 del 2014
1. Premessa. – Dopo l’esito del referendum sulla proposta di revisione costituzionale, tenuto il 4 dicembre, la condizione del regionalismo torna al centro della questione istituzionale, anche se non è prevedibile quando e in che modo sarà affrontata. Questa incertezza durerà, atteso che a breve dovrebbero tenersi nuove elezioni politiche e che non è dato prevedere come sarà composto il prossimo Parlamento, né quali saranno gli orientamenti che si affermeranno sull’indirizzo politico costituzionale. Il tempo potrebbe essere utilmente adoperato, in sede scientifica e politica, per riflettere attentamente sulle scelte da compiere.
Dai dati sulla legislazione regionale è emerso che, nonostante i processi di riforma in itinere, negli ultimi due anni, le Regioni hanno conservato pressoché immutato il loro ruolo legislativo. Si tratta di un risultato registrato a valle delle modificazioni introdotte nell’ordinamento dalla legislazione della crisi e con un sistema di finanziamento delle funzioni che ha determinato dei passi indietro rispetto alle acquisizioni della legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale.
Che un certo ruolo istituzionale delle Regioni si sia ormai assestato, anche negli anni della crisi che hanno eroso una parte dell’autonomia regionale, non può più porsi in dubbio. Lo testimoniano le materie in cui le Regioni legiferano e, sul piano amministrativo, i servizi che erogano[1].
Sicché potrebbe persino sostenersi che vi sia uno statuto delle Regioni che opererebbe a prescindere dai cambiamenti costituzionali e dalle vicende istituzionali, con la conseguenza che, nonostante le variazioni della legislazione dello Stato, poche e marginali possano essere le incidenze sulle Regioni.
Sicuramente ciò fa parte dell’affermazione dell’istituto regionale nell’ordinamento generale della Repubblica; anche se siamo ben lontani dal potere considerare positivamente il nostro regionalismo[2].
Come già osservato prima che si intraprendesse il tentativo di consolidare, con il disegno di legge costituzionale (ddlc) presentato dal governo nel 2014, la spinta neo-centralista che la crisi aveva impresso a partire dal 2010 all’ordinamento, la maggior parte delle riforme per realizzare un regionalismo efficiente e competitivo dovrebbe situarsi sul versante dello Stato e, più specificamente, dell’amministrazione statale, per la quale manca una precisa considerazione in sede scientifica. Lo Stato conserva nelle sue mani pezzi di amministrazione significativi per l’andamento della Repubblica, a partire dalla giustizia, e gestisce politiche pubbliche di rilevanza sistemica da cui dipende la resa delle Regioni e delle autonomie locali, come la sicurezza e l’ordine pubblico e la perequazione territoriale, ma anche le grandi infrastrutture e la ricerca che di fatto per i benefici dell’economia di scala devono essere gestiti centralmente.
Pur tuttavia, nell’attesa di un approfondimento dello Stato regionalizzato, esistono problemi specifici dell’assetto regionale che è bene riconsiderare.
2. La competenza concorrente. – La prima questione su cui riflettere è la vicenda della competenza concorrente alla quale negli anni della crisi sono state rivolte aspre critiche e, in particolare, quella di impedire un’azione adeguata allo Stato in campi di sicuro rilievo nazionale come l’energia e di causare un elevato contenzioso costituzionale. Tanto che in sede di revisione della Costituzione si sosteneva la necessità di una soppressione della stessa competenza concorrente, anche se nei fatti, poi, esigenze concrete di riparto della competenza legislativa già collaudate avevano fatto propendere per forme di concorrenza delle competenze mal celate nell’ambito delle materie di cui all’articolo 117, comma 2, e non ben precisate nel criterio di riparto, per via dell’impiego di una espressione inedita, “disposizioni generali e comuni”, rispetto a quella nota e propria della competenza ripartita dei “principi fondamentali”.
Ora, senza necessità di riproporre per intero l’evoluzione della competenza concorrente, sin dalla sua formulazione e dalle vicende che l’hanno caratterizzata nel corso dell’esperienza delle regioni speciali, prima, e di quella delle regioni ordinarie, dal 1972 in poi, è opportuno qui sottolineare due aspetti di rilievo attuale.
In primo luogo, un’attenta analisi del contenzioso costituzionale mostra che la conflittualità tra lo Stato e le Regioni, cresciuta in ragione del nuovo riparto, ha avuto il suo epicentro in determinate competenze statali (ambiente, ordinamento civile, tutela della concorrenza, ecc.) e al modo in cui queste hanno inciso sui poteri regionali, con la copertura di argomenti di varia natura elaborati dalla giurisprudenza costituzionale: criterio di prevalenza, carattere trasversale della competenza statale, distinzione tra materia e valore, ecc. Per il vero, nel caso della competenza concorrente si registra una totale assenza dello Stato, che, al di là di norme sparse, per nessuna materia dell’art. 117, comma 3, ha sinora prodotto una legge contenente i principi fondamentali. Persino le c.d. leggi di ricognizione dei principi fondamentali, previste dalla legge n. 131 del 2003, in attuazione del nuovo riparto delle competenze, non sono state deliberate, con l’eccezione di tre materie tra le meno significative del complesso delle competenze concorrenti.
In secondo luogo, la richiesta di flessibilità nell’esercizio delle competenze legislative, posta a fondamento della cancellazione delle competenze concorrenti nel ddlc, in realtà era già stata soddisfatta dalla Corte costituzionale con la previsione della c.d. “chiamata in sussidiarietà”, la quale inizialmente fu prevista per le competenze concorrenti, nella sentenza n. 303 del 2003, ma subito dopo fu estesa anche alle competenze residuali dell’art. 117, comma 4, con la sentenza n. 370 del 2003; ciò, peraltro, risolveva a monte, non solo la questione della flessibilità nell’esercizio delle competenze, ma anche quella della supremazia della legge dello Stato e della salvaguardia degli interessi nazionali, per quanto questi ultimi non siano stati mai minacciati da una legge regionale.
Più oltre si affronterà la questione se l’innesto del principio di leale collaborazione nel sistema della chiamata in sussidiarietà e degli altri meccanismi di prevalenza della legge statale, voluto dalla giurisprudenza costituzionale, sia stato sufficiente o adeguato a riequilibrare la flessibilità indotta nel sistema della divisione delle competenze legislative. Al momento serve osservare che, se si vuole mantenere la flessibilità delle competenze raggiunta dal sistema e l’equilibrio del regionalismo, è necessario guardare alla competenza concorrente nella sua giusta logica funzionale.
Diversamente da quanto affermato nel corso di questi anni, proprio la competenza concorrente, di tipo ripartito, per la sua struttura, costituita dalla distinzione tra principi fondamentali di provenienza statali, volti a unificare la disciplina di una determinata materia, e normativa di esecuzione di spettanza regionale, in grado di differenziare la disciplina della materia territorialmente, rappresenta il meccanismo legislativo più adeguato per articolare territorialmente le politiche pubbliche, anche per la flessibilità che in concreto la competenza concorrente ha rivelato nell’esperienza italiana, dove l’estensione della disciplina statale è alquanto variabile, non limitandosi solo alla fissazione dei principi, ma prevedendo anche la determinazioni di limiti e di parti della disciplina stessa della materia (sulle interrelazioni tra materie enumerate e politiche pubbliche aia consentito rinviare a un nostro precedente studio dove la questione è esaminata in modo accurato: Il governo delle politiche pubbliche un banco di prova per il regionalismo, in Il regionalismo italiano tra giurisprudenza costituzionale e involuzioni legislative dopo la revisione del Titolo V, a cura di Stelio Mangiameli, Milano, Giuffrè, 2014, 41 ss.).
Secondo le risultanze scientifiche è certo che gli ordinamenti che conoscono una divisione dei poteri anche di tipo verticale, tra diversi livelli di governo, siano i più adatti ad affrontare i problemi posti dall’internazionalizzazione dell’economia e quelli posti dal processo di integrazione europeo; inoltre, è ormai un convincimento generale dell’esperienza federale – con l’eccezione forse dell’ordinamento tedesco dopo la riforma del 2006, la cui efficacia è però problematica – che la concorrenza delle competenze sia la condizione migliore, in termini di efficienza ed economicità per fare funzionare le relazioni tra i diversi livelli di governo e realizzare la cura degli interessi nazionali (N. Steytler (Ed.) Concurrent Powers in Federal Systems; Meaning, Making, and Managing, Brill NV, Leiden, Netherlands, 2017) .
Da questo punto di vista nel nostro sistema, ad avviso di scrive, si pongono due problemi per riorganizzare la competenza concorrente.
Da un lato, appare rilevante una ricerca sulle materie concorrenti per mettere in evidenza quali siano le lacune della legislazione da colmare, soprattutto sul versante dei principi fondamentali che dovrebbero servire a conferire un certo grado di uniformità alle discipline regionali; inoltre, il risultato della ricerca dovrebbe consentire di recuperare gli ambiti di disciplina statali e regionali sulle politiche pubbliche che espressamente, o di fatto, sono attribuite in via amministrativa alle Regioni, considerando anche le parti sinora non risolte di queste politiche, come i vari piani nazionali (ad esempio, rifiuti, energetico, logistico, trasporti), la programmazione della viabilità, la pianificazione interregionale della politica di coesione, ecc., che possono essere conseguenza del mancato intervento statale e/o della carenza di determinate competenze (statali o regionali) e che, invece, potrebbero dare completezza alla singola politica, come nel caso dei beni culturali, del turismo, dell’agricoltura, ecc. Si tratta di un’elaborazione scientifica che dovrebbe impegnare quanto prima la dottrina, per offrire, tanto al legislatore statale, quanto a quello regionale, un quadro di riferimento per gli interventi legislativi. A tal fine, sarà altresì rilevante anche il riesame della giurisprudenza costituzionale, per comprendere se determinati vincoli, da questa creati, possono essere considerati di sistema, e quindi conservati; oppure se si tratta di vincoli contingenti legati alla situazione di crisi economica, e perciò da superare.
Dall’altro lato, sussiste la problematica del coordinamento delle funzioni legislative, che è di particolare rilievo per la realizzazione di una piena e corretta collaborazione tra Stato e Regioni, e che, dopo tanto parlare di Senato delle Regioni, non sembra potere seguire più la soluzione approntata dalla Corte con la giurisprudenza sulla chiamata in sussidiarietà, incentrata sul sistema delle Conferenze.
3. La flessibilità delle funzioni legislative e l’articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001. – L’affermazione contenuta nella sentenza n. 6 del 2004 e ripetuta in successive decisioni del giudice costituzionale, per la quale, «nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) – la legislazione statale (…) “può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà” (sentenza n. 303 del 2003)», potrebbe non rappresentare più un compromesso soddisfacente. In primo luogo, la collaborazione in ambito amministrativo, per il tramite delle Conferenze, presenta dei limiti sistemici, in quanto colloca il piano della collaborazione e dell’intesa tra gli esecutivi, il governo e le giunte regionali, senza considerare che la modifica sul piano delle competenze toccava direttamente i rapporti tra il legislatore statale e quello regionale. In secondo luogo, la “perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari” non può più essere addotta a sostegno di una flessibilità delle competenze legislative, compensata dalla collaborazione in sede di conferenze, sia perché sono trascorsi oltre quindici anni dall’adozione della legge costituzionale n. 3 del 2001, e sia perché il referendum dello scorso 4 dicembre ha bloccato la modifica del bicameralismo.
Di conseguenza, l’impostazione seguita dalla Corte costituzionale nel 2003 e nel 2004 non appare più accettabile. Questa, infatti, si basava sull’assimilabilità alle “procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione”, che è il principio direttivo tratto in via interpretativa dal sistema costituzionale, della previsione di “adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali”, che è invece la soluzione adottata per concretizzare il principio di collaborazione.
Nel mezzo, tra questi aspetti, si situa ormai la necessità di dare piena attuazione all’articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che prevede “la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali” e che, nella situazione presente, se non si vuole rinunciare a una certa flessibilità nell’esercizio delle competenze legislative, resta l’unica via che può consentire un coordinamento della legislazione statale con quella regionale, proprio perché la collaborazione interviene direttamente sulla formazione dei principi che riguardano la competenza concorrente e la distribuzione delle risorse finanziarie. Infatti, si tratta di una disposizione costituzionale vigente, deliberata per l’introduzione, in via provvisoria, di un modello collaborativo inerente la funzione legislativa e, più specificamente, “riguardante le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e all’articolo 119 della Costituzione”.
Ora, la messa in opera del meccanismo dell’articolo 11 sembra diventare prioritaria. Questa disposizione, infatti, consente alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, integrata con i rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali, di esprimere un parere sui progetti di legge statali riguardanti le materie richiamate, che può essere contrario o favorevole condizionato all’introduzione di modificazioni specificamente formulate, e comporta che, ove il legislatore statale non si adegui al parere negativo o conformativo, “sulle corrispondenti parti del progetto di legge l’Assemblea delibera a maggioranza assoluta dei suoi componenti”.
Atteso il carattere cruciale della competenza concorrente di tipo ripartito e la constatazione che i problemi della concorrenza legislativa non sono dipesi dall’eccessiva differenziazione regionale, bensì dalla totale assenza del legislatore statale cui è demandato il compito di imprimere, attraverso i principi fondamentali, i giusti connotati unitari alle discipline delle materie, l’attuazione dell’articolo 11 potrebbe fungere da volano per colmare le lacune normative e determinare l’adeguamento della legislazione statale, non solo alla competenza legislativa delle Regioni, come disponeva già l’art. 5 e la IX Disposizione transitoria e finale della Costituzione, ma soprattutto alle diverse esigenze che derivano dalla realizzazione multilivello delle politiche pubbliche.
Da questo punto di vista, appare auspicabile da subito un superamento del blocco che si determinò al tempo del comitato “Mancino”, sulla composizione della Commissione integrata, allorquando i parlamentari richiedevano che a partecipare, in qualità di rappresentanti delle Regioni, fossero i membri dei rispettivi Consigli regionali e i “governatori” opposero il loro veto, pretendendo di entrare a far parte della sede parlamentare.
I tempi appaiono maturi per una partecipazione dei Consigli regionali alle funzioni parlamentari e per lasciare alle Conferenze e agli esecutivi un ruolo più proprio, quale è quello del coordinamento amministrativo.
Peraltro, alla luce dell’esperienza dell’ordinamento, appaiono destituiti di fondamento eventuali ostacoli alla partecipazione dei Consigli regionali nella Commissione bicamerale per gli affari regionali. Infatti, com’è noto, ormai ha avuto un consolidamento notevole, nell’ambito delle relazioni tra lo Stato e l’Unione europea, la partecipazione dei Consigli regionali alle procedure volte ad adottare pareri sugli atti europei per il rispetto del principio di sussidiarietà (legge n. 234 del 2012), per cui risulterebbe paradossale se ai Consigli regionali, ai quali si consente di valutare la sussidiarietà europea, si opponessero ancora oggi ostacoli per la considerazione della sussidiarietà interna.
4. Il coordinamento della finanza pubblica e il federalismo fiscale. – Una riflessione a parte, anche se strettamente connessa, merita la materia concorrente del “coordinamento della finanza pubblica” che durante la crisi ha legittimato ogni forma di intervento del governo centrale, persino sull’organizzazione costituzionale delle regioni, come nel caso della composizione numerica dei consigli regionali. La Corte ha giustificato questo esercizio della competenza e, in alcuni casi, ha persino accentuato il peso dei limiti che il coordinamento della finanza pubblica poteva determinare in termini di tagli alle risorse, sino al punto da non coprire più le funzioni amministrative assegnate. Solo di recente il giudice costituzionale, con le sentenze nn. 10 e 129 del 2016, ha iniziato a rivedere la sua giurisprudenza in materia.
La crisi economica aveva generato una grande necessità di risorse pubbliche per la copertura del debito e il contenimento del deficit di bilancio. Di qui la necessità di reperirle in modo immediato. Ciò è andato a discapito della qualità delle manovre economico-finanziarie degli anni 2011, 2012 e 2013. In quegli anni, infatti, è stata compiuta una scelta che, oltre a incidere pesantemente sulla disciplina del federalismo fiscale, fondato sulla legge n. 42 del 2009 e sugli undici decreti legislativi di attuazione adottati tra il 2010 e il 2011, ha danneggiato fortemente il sistema regionale e delle autonomie. Ai tagli “lineari” degli anni precedenti si sostituì la scelta di tagli che gravavano anche progressivamente sulle risorse destinate al sistema territoriale, comprese quelle volte a coprire le spese dei servizi sanitari e sociali. L’onda di questa politica economica e finanziaria è arrivata sino alle leggi di stabilità e bilancio del 2016 e questa debolezza finanziaria delle Regioni ha finito con il costituire anche la base per la scrittura del testo della riforma costituzionale.
Non è un caso che nel testo del ddlc Renzi-Boschi l’unica competenza concorrente che veniva trasformata in una vera competenza esclusiva dello Stato era proprio il “coordinamento della finanza pubblica”, la qualcosa avrebbe finito col dare una luce diversa anche ai disposti dell’articolo 119 della Costituzione, risolvendo l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali in un finanziamento dipendente dalla legge di bilancio dello Stato, piuttosto che in una vera forma di autonomia costituzionalmente garantita.
Lo spostamento della competenza a favore dello stato, di fatto, avrebbe avuto il suo termine finale nelle modifiche dell’articolo 119. Da una parte, la disciplina del coordinamento della finanza pubblica sarebbe spettata interamente alla legge statale; dall’altra, questa legge dello stato sarebbe diventata il metro entro cui le Regioni e gli enti locali avrebbero potuto stabilire e applicare “tributi ed entrate propri”; inoltre, anche le “compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”, da pretesa costituzionale, sarebbero diventate una concessione della legge statale; tanto più che, in via esclusiva, la legge dello stato avrebbe potuto definire gli “indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni”, consentendo così allo Stato di incidere in modo unilaterale sulle condizioni di esercizio delle funzioni pubbliche delle regioni e degli enti locali.
Da questo punto di vista, l’esito del referendum consente una ripresa, alla luce di un quadro costituzionale che, dal punto di vista della finanza pubblica, è meno centralista di quello proposto dalla riforma, ma non del tutto esente da critiche. Infatti, anche l’attuale formulazione dell’articolo 119 non assicura di per sé una autonomia finanziaria diretta in quanto non distribuisce tra i diversi livelli di governo le basi imponibili delle imposte, ma pone semplicemente un obbligo – in modo più preciso rispetto all’originale dizione dello stesso articolo – di conformazione dell’ordinamento della finanza pubblica ai principi costituzionali della materia.
La differenza con i modelli autentici di federalismo fiscale è considerevole. Ciò nonostante, la possibilità di riprendere il filo dell’attuazione dei principi dell’articolo 119 appare, per l’autonomia regionale, meno problematica di quella che sarebbe stata se il referendum avesse avuto un esito positivo.
A tal riguardo, va innanzitutto definito il contenuto costituzionale dell’autonomia finanziaria delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni. Questa riguarda esattamente l’“autonomia finanziaria di entrata e di spesa” degli enti territoriali ed è costituzionalmente collegata alla possibilità di avere adeguate “risorse autonome”, senza vincoli di destinazione, sì da “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.
In secondo luogo, occorre precisare quali poteri la Costituzione assicura nell’esercizio dell’autonomia finanziaria. Con riguardo a questo profilo l’articolo 119 non definisce specificamente i poteri riconosciuti agli enti territoriali, ma si limita ad affermare che le risorse autonome per questi derivano dal potere di stabilire e applicare “tributi ed entrate propri” e di disporre “di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”.
In terzo luogo, l’autonomia finanziaria ha un primo termine di paragone, con riferimento ai quantitativi finanziari ottenuti da ogni ente grazie alle risorse autonome costituzionalmente riconosciute, nella politica di perequazione finanziaria che la Costituzione affida al legislatore statale (articolo 117, comma 2, lettera e). Infatti, la Costituzione attribuisce alla legge dello stato il compito di istituire “un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”.
In quarto luogo, devono essere considerati due punti cruciali dell’attuazione dell’autonomia finanziaria delle Regioni e delle autonomie territoriali. Il primo risiede nel principio che questi sono tenuti al “rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea” (c.d. pareggio di bilancio), introdotti con la legge costituzionale n. 1 del 2012. Il secondo riguarda il momento unitario dell’autonomia finanziaria che risiede nei limiti dell’“armonia con la Costituzione” e nel rispetto dei “principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Di fronte a questo quadro costituzionale, la prima questione che si pone è se l’autonomia finanziaria delle Regioni e delle autonomie locali sia legata al ripristino delle disposizioni dei decreti legislativi sul federalismo fiscale modificate, alterate o abrogate dalla legislazione sulla crisi, considerando che l’applicazione delle norme sul federalismo fiscale è stata posticipata prima al 2017 (articolo 9, comma 9, del D.L. n. 78 del 2015) e ora al 2018 (articolo 13 del D.L. n. 113 del 2016); oppure se non si tratti di rivedere gli stessi principi della legge n. 42. Da questo punto di vista, appare più logico non limitarsi al restyling della normativa sul federalismo fiscale, ma cogliere l’occasione per portare avanti la disciplina. In tal senso, tre appaiono i punti principali: la semplificazione della disciplina sembra essere il primo aspetto, magari eliminando la stratificazione di atti normativi necessari per rendere operativa l’autonomia finanziaria; inoltre, vanno riordinate le basi imponibili, in modo da rendere possibile un collegamento con le funzioni finanziate e rendere effettivo il principio di responsabilità; infine, occorre che venga creato un spazio fiscale “vero” per le regioni e le autonomie locali, senza del quale la nozione di “tributi propri” è destinata a essere ridotta ad una semplice imputazione di gettito, corrispondendo a una quota parte di un tributo erariale, o a restare lettera morta, essendo i c.d. “tributi propri autonomi” praticamente inesistenti, per assenza di basi imponibili disponibili.
Anche chi (E. Buglione, L’autonomia finanziaria come snodo dell’autonomia regionale?, in issirfa.cnr.it/studi-ed-interventi.html (novembre 2016), relazione presentata al Convegno ISSiRFA “Il perché delle regioni oggi. La Repubblica tra Stato unitario e Stato regionale”, Roma, 27 ottobre 2016) ritiene in modo realistico che siano ridotti i margini entro cui si possa muovere la disciplina fiscale per concretizzare l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli altri enti territoriali, considera però necessaria una ripresa attenta delle questioni del federalismo fiscale, non tanto perché solo attraverso questo percorso può aumentare il potere decisionale nella gestione delle proprie funzioni da parte delle Regioni, ma anche perché questa prospettiva dell’autonomia potrebbe apportare un beneficio al sistema finanziario pubblico nel suo complesso: in termini di lotta all’evasione fiscale, di trasparenza della spesa per le opere pubbliche e le infrastrutture, da finanziare con l’autofinanziamento o con entrate extra tributarie, di miglioramento del fondo perequativo, sia dal punto di vista delle entrate, che delle spese, e di portare a compimento la trasparenza dei bilanci regionali. Su un punto, peraltro, nonostante la crisi, è stato fatto un passo avanti, con l’emanazione del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (“Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi), a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42”.
Un’ultima considerazione riguarda a chi spetti mettere in moto questa messa a punto dell’ordinamento fiscale nelle relazioni tra Stato, Regioni e autonomie locali. Si potrebbe pensare che spetti allo Stato far ripartire il processo di revisione del sistema di autonomia finanziaria, tenuto conto che questi ha la competenza a dettare i principi del coordinamento della finanza e a istituire il fondo perequativo. In realtà, non il governo centrale e neppure i presidenti delle giunte regionali, che siedono entrambi nelle Conferenze possono avere la disponibilità della materia, bensì il Parlamento e i Consigli regionali. Il quadro normativo deve essere messo a punto sulla base di scelte istituzionali di lungo periodo che solo le sedi di rappresentanza politica possono assumere, in modo coordinato e collaborato. Tra l’altro, non è un caso che i principi del coordinamento e la legge sul fondo perequativo appartengano al novero delle norme di cui si dovrebbe occupare la Commissione bicamerale per gli Affari regionali di cui all’articolo 11.
5. Asimmetria e specialità: necessità di una messa a punto. – Durante il dibattito per la riforma costituzionale sono emerse due questioni inerenti all’asimmetria del nostro regionalismo: la prima data dalla differenza tra regionalismo ordinario e speciale, istituita dal disposto dell’articolo 116, comma 1; la seconda espressa da quella che è definita la “clausola di asimmetria”, prevista dall’articolo 116, comma 3. La tendenza è stata – almeno così è parso dalle posizioni espresse in sede politico-istituzionale – contrapposta: per un verso, le Regioni speciali, anche se munite alla fine di una clausola di salvaguardia – ma per ragioni contingenti, legate alla tenuta della maggioranza di governo, che al Senato necessitava del supporto dei senatori alto-atesini – sono state viste con estremo disfavore, sino al punto da temere una loro cancellazione o, comunque, un forte appiattimento della loro autonomia su quella delle Regioni ordinarie; per l’altro verso, invece, con più favore si sosteneva l’ipotesi, quasi che fosse una chiave di volta della riforma stessa, per la quale le competenze sarebbero potute transitare dallo Stato alle Regioni (anche speciali), sotto forma di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.
Si tratta adesso di sapere come collocare “asimmetria” e “specialità” nel regionalismo italiano. Entrambe queste due espressioni sono ritornare al punto in cui erano prima della crisi, vale a dire: la prima sotto il regime dell’articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 e la seconda nell’indifferenza politica in cui si è situato l’articolo 116, comma 3, non avendo manifestato le Regioni ordinarie un vero interesse verso una crescita delle loro competenze e delle loro peculiarità.
Se osserviamo innanzitutto la vicenda dell’asimmetria, la prima considerazione è che le ipotesi in cui le regioni (Lombardia e Veneto) si sarebbero attivate, erano da ricondurre ad una impostazione politica nazionale e non di potenziamento dell’identità regionale. Infatti, la decisione di annunciare l’avvio del procedimento di attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, per le materie richiamate nell’articolo 116 comma 3, è stata ricondotta alla diversità politica tra chi guidava il governo centrale e chi si trovava a dirigere quello regionale, quasi che la richiesta di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” fosse un atto di opposizione.
Bisogna, però, osservare che di recente la Regione Veneto avrebbe articolato adeguatamente la sua richiesta di volere procedere ex articolo 116 comma 3 e, questa volta, non per un atteggiamento meramente oppositivo, anche se – a causa delle vicende referendarie – al momento il procedimento sembra essere rallentato. In ogni caso, proprio questa richiesta consente di valutare adeguatamente questa clausola ispirata impropriamente al regionalismo spagnolo.
Nella Costituzione spagnola la previsione dell’asimmetria discende dalla particolare condizione delle Comunità autonome, fortemente identitarie, e dalla tradizione costituzionale che vuole aperto il sistema di attribuzione delle competenze, consentendo alla fonte statutaria la possibilità di scelta delle materie legislative regionali. Non è un caso che gli statuti spagnoli necessitano del vaglio legislativo delle Cortes. Ciò nonostante, anche nel sistema spagnolo è stato necessario raggiungere una certa simmetria nelle materie assunte dagli statuti di autonomia, dal momento che, in caso diverso, le attribuzioni dello Stato centrale sarebbero potute risultare troppo articolate territorialmente; anzi, uno dei problemi durante il periodo della crisi è stato che alcune Comunità autonome, quelle più deboli economicamente, avrebbero voluto rimettere alcune materie (sanità e scuola) nuovamente allo Stato centrale e questo non è stato possibile perché avrebbero generato un risultato troppo asimmetrico.
Ritornando al caso italiano, la nostra tradizione costituzionale e amministrativa è caratterizzata dal principio di uniformità in misura considerevole, basti pensare alla non applicazione del principio di differenziazione dell’articolo 118, comma 2; peraltro, la maggior parte delle posizioni espresse durante il dibattito sul ddlc Renzi-Boschi è stata rivolta a reclamare una maggiore uniformità del sistema, anche con l’inserimento della c.d. “clausola di supremazia” e la ripresa degli interessi nazionali quale fattispecie per avocare allo Stato competenze strettamente regionali.
Si tratta di un’impostazione non realistica, ma radicata culturalmente nel processo di unificazione nazionale e nella derivazione francese del nostro diritto pubblico, che ha condizionato sin dall’inizio l’esperienza, prima, delle regioni speciali e, poi, di quelle ordinarie, incidendo negativamente sulla stessa possibilità dell’adeguamento contemplata dall’articolo 5 e dalla IX Disposizione transitoria e finale. Ciò ha concesso alla burocrazia statale un peso nel processo di regionalizzazione che ha portato a frapporre ostacoli al passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni.
L’idea stessa di una certa asimmetria potrebbe risultare utile per realizzare soprattutto una amministrazione di prossimità, che è destinata a scontrarsi con questa tradizione: i criteri di riferimento per procedere sono correttamente individuati, non solo nell’iniziativa regionale, ma soprattutto nel collegamento con gli enti locali della regione e “nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119”.
Tuttavia, perché il governo possa concedere l’intesa per un’attribuzione asimmetrica di competenze occorre che le singole regioni richiedano poteri limitati nelle materie richiamate dall’articolo 116, comma 3, e solo per poche materie, in modo che l’asimmetria non risulti dirompente per l’amministrazione statale. Oppure, sarebbe necessario che la richiesta di poteri asimmetrici sia avanzata da un numero significativo di regioni, e ciò potrebbe risultare interessante per l’effetto sistemico che sortirebbe una simile richiesta in quanto in grado di realizzare di fatto una nuova simmetria nell’attribuzione delle competenze.
Con riferimento poi alle questioni delle regioni speciali, bisogna prendere atto che ormai dobbiamo parlare di due differenti tipi di specialità: l’autonomia alpina con le quattro entità Valle d’Aosta, Trento, Bolzano e Friuli Venezia Giulia e l’autonomia insulare con la Sicilia e la Sardegna.
Questi due tipi di autonomie presentano ormai una certa distanza tra loro, sono due sistemi speciali che rispondono a condizioni diverse: quella alpina caratterizzata da una più ampia acquisizione di competenze e di compiti amministrativi ha realizzato sistemi sociali competitivi sul piano europeo con una protezione ambientale di un certo rilievo. Quella insulare, all’opposto, è ricompresa nell’ambito del divario territoriale italiano, per cui le due Regioni “isole” sono in una condizione di forte ritardo nello sviluppo e assommano tre condizioni di disagio peculiare: l’insularità, che significa essenzialmente separatezza, un forte flusso migratorio, per via dell’arretratezza economica, e una grave questione ambientale.
La posizione più logica è quella di considerarli separatamente, anche perché la prima oggi può giocare molto concretamente la partita del regionalismo di esecuzione; mentre per la seconda sembrano necessari, sulla base del principio di collaborazione, importanti interventi di tipo sostitutivo e/o sussidiario.
Nel complesso, per comprendere di quanta specialità queste Regioni abbiano concretamente bisogno, andrebbero modificati due degli strumenti tipici del loro regime: il primo risale alla stessa strutturazione delle Regioni speciali ed è il sistema dell’attuazione attraverso le commissioni paritetiche; il secondo è il regime dell’articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
Le disposizioni degli statuti speciali sull’attuazione furono pensate al momento della creazione delle prime Regioni in Italia. Era perciò ovvio che occorresse predisporre anche mezzi e beni per il loro funzionamento, i quali non potevano che provenire dallo Stato; di qui la necessità di una cessione da parte dello Stato, insieme alle funzioni, di quanto servisse per avviare il funzionamento dei nuovi enti.
Ciò si evince con estrema chiarezza se si legge la prima norma che fu pensata per l’attuazione regionale, l’articolo 43 dello Statuto siciliano, che recita: «una Commissione paritetica di quattro membri nominati dall’Alto commissario della Sicilia e dal Governo dello Stato determinerà le norme transitorie relative al passaggio degli uffici e del personale dello Stato alla regione, nonché le norme per l’attuazione del presente statuto». Con le norme di attuazione degli statuti speciali non si pensava alla definizione dei poteri legislativi e amministrativi, perché quelli erano e sono in modo prescrittivo indicati dallo statuto.
Infatti, le enumerazioni dei poteri e delle materie non abbisognano di nulla per poter essere effettivi, ovvero il conferimento della potestà legislativa a un soggetto, le Regioni, in questo caso, o lo Stato, in caso di enumerazione di tipo federale, avviene per opera di una norma costituzionale; è completo ed avviene, per così dire, «con un tratto di penna». L’organo legislativo che ne è destinatario è in condizione, nel momento in cui è costituito, di poter iniziare la legislazione nel campo materiale di sua competenza e dispone del potere organizzatorio per formare uffici pubblici in grado di esercitare le funzioni per realizzare i fini della legislazione, nonché normalmente delle risorse finanziarie per fare funzionare gli uffici pubblici.
Di conseguenza, nel caso delle Regioni speciali l’attribuzione delle funzioni amministrative è avvenuta allo stesso modo, e cioè sempre “con un tratto di penna”, attraverso il “principio del parallelismo”, solo che per la loro organizzazione gli statuti speciali (e poi, sulla base di queste previsioni, anche la Costituzione) hanno previsto una formazione degli apparati di gestione delle funzioni per scissione da quella dello Stato, attraverso il c.d. “passaggio” di uffici e del personale; mentre per ciò che attiene alle risorse finanziarie, senza le quali la stessa funzione amministrativa, nonostante la previsione della legge non si realizza, sono state previste negli statuti, sotto forma di finanza speciale, delle disposizioni concernenti il gettito degli stessi tributi erariali, il cui peso concreto è molto maggiore rispetto a quello dei “tributi propri”.
Le norme statutarie sull’attuazione riguardavano, quindi, la costituzione dell’ente in concreto e l’avvio di quel minimo di apparato amministrativo necessario per consentire alla regione la realizzazione di quanto scritto nello statuto, ma non una precisazione degli ambiti materiali in cui la regione poteva legiferare e avrebbe potuto svolgere le sue funzioni amministrative. Quest’ultima è stata una lettura impropria delle norme degli statuti speciali e possiamo dire tranquillamente che il ruolo delle norme di attuazione non è servito a definire l’oggetto concreto delle materie previste negli statuti speciali. Le enumerazioni previste nello statuto siciliano, sardo, valdostano, trentino e friulano non sono, infatti, composte da enunciazioni indefinibili e le espressioni linguistiche adoperate, quali igiene e salute, agricoltura e foreste, urbanistica, beni culturali, anche se spesso estremamente sintetiche, non hanno alcun elemento di vaghezza; gli aspetti problematici delle materie enumerate risiedono altrove e non nel loro significato.
Ne discende che, semmai lo sia stato, certamente non è più attuale il sistema delle Commissioni paritetiche e dei decreti di attuazione: si tratta di uno strumento primitivo, proprio della fase iniziale del nostro regionalismo, servito storicamente solo a limitare il contenuto dell’autonomia speciale; impropriamente, si è ritenuto così di definire le materie regionali contenute negli statuti, permettendo che attraverso queste fonti subordinate fossero definiti i contenuti delle enumerazioni degli statuti. Ormai le regioni sono una realtà consolidata; hanno apparati amministrativi consistenti, con il loro potere di organizzazione sono in grado di avere flessibilità per decidere meglio l’allocazione delle loro risorse e, grazie alle disposizione sulla finanza speciale, possono avere una quantità di risorse sufficienti allo svolgimento delle funzioni amministrative.
Anche il regime dell’articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 non sembra più accettabile, per le problematiche che ha generato tra regionalismo ordinario e regionalismo speciale, e, sebbene la norma costituzionale presupponesse un “adeguamento dei rispettivi statuti”, all’ombra del principio di specialità dell’articolo 116, comma 1, è ben noto che le regioni speciali non hanno manifestato alcun intento in quella direzione.
Com’è noto, il rapporto tra regionalismo ordinario e regionalismo speciale, non è mai stato costruito in modo che la specialità ricomprendesse poteri ulteriori, rispetto a quelli ordinari indicati dall’articolo 117; ma secondo il criterio della netta separazione delle fonti, Costituzione e statuti speciali, e della diversità dell’enumerazione di riferimento. Questo criterio è valso già al momento della realizzazione delle regioni ordinarie nel 1970 e, in realtà, si è rivelato penalizzante per le Regioni speciali, provocando l’aggravamento politico della loro posizione istituzionale, già messa a dura prova dai vincoli creati dallo Stato centrale negli anni in cui le Regioni speciali erano le sole Regioni esistenti.
Questa considerazione ha portato, nel 2001, al momento dell’approvazione della revisione del Titolo V con la legge costituzionale n. 3, alla scrittura dell’articolo 10 della suddetta legge, che recita: «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampia rispetto a quelle già attribuite ».
Il sistema veniva quindi da tale disposizione ricondotto a un’effettiva razionalità: il Titolo V era lo standard di autonomia ordinaria e doveva valere per tutti; la parte eccedente prevista dagli statuti continuava a essere valida almeno «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti». Si era creata, di fatto, una situazione molto interessante perché, per quanto riguarda le Regioni ordinarie, si è avuto il principio dell’inversione dell’enumerazione, cioè numerati sono diventati i poteri dello Stato e la competenza generale residuale è passata alle Regioni, tra questi due si situa, poi, il corpo delle competenze concorrenti. Nel caso delle Regioni speciali, invece, si inverava un sistema a doppia enumerazione: da una parte l’enumerazione dello Stato, dall’altra l’enumerazione degli Statuti, con la clausola di residualità a favore sempre delle Regioni speciali, sulla base dell’articolo 10.
Questo sistema, che sembra essere il più garantista per le entità regionali, tuttavia, non ha avuto vera fortuna. Infatti, il giudice costituzionale nella sua giurisprudenza, continuando ad applicare il principio di separazione delle fonti, nonostante la diversa disposizione dell’articolo 10, ha spesso continuato ad applicare le enumerazioni degli statuti, facendole prevalere sul disegno delle competenze dell’articolo 117, come formulato nella legge costituzionale di riforma, con la conseguenza che quelle estensioni di competenze che avrebbero dovuto realizzarsi, «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti», sono cadute sotto i limiti scritti negli statuti, e in particolare delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali.
Si è trattato di una forma nuova, anche se attenuata, di compressione dell’autonomia speciale, rispetto alla quale si è corso il rischio di ingarbugliare ancora peggio il sistema delle competenze speciali, ove mai fosse entrato il vigore l’articolo 39, comma 13, del ddlc Renzi-Boschi.
In ragione di ciò, una nuova riflessione sulle Regioni speciali, adesso dovrebbe prendere in considerazione soluzioni volte a favorire una revisione degli statuti speciali che non possono più rimanere quelli originari, anche superando il principio della netta separazione delle fonti. Questo principio, infatti, era supportato dalla competenza generale dello stato e dalla competenza enumerata delle regioni.
A tal riguardo, con il rovesciamento del principio enumerativo, sarebbe ormai opportuno, nell’ambito della regola costituzionale della specialità disegnata dall’art. 116, comma 1, capovolgere i termini dell’articolo 10, o quanto meno approdare ad una diversa interpretazione, prevedendo che le disposizioni degli articoli 117, 118, 119 e 120 della Costituzione si applicano anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano, per intero e in concorrenza con le attuali enumerazioni degli stessi statuti, facendo cessare l’attesa per l’adeguamento dei rispettivi statuti a norma dell’articolo 116 e delle altre disposizioni costituzionali che regolano la revisione degli statuti, al fine di attribuire alle stesse Regioni speciali forme di autonomia più ampia rispetto a quelle attribuite a tutte le Regioni.
In questo modo si risolverebbero anche tutte le ambiguità che ancora permangono sulla specialità come fonte di privilegi, soprattutto di carattere finanziario, e fare valere quei “vincoli di sistema” (G. Rivosecchi, La finanza delle autonomie speciali e i vincoli di sistema, in Italian Papers on Federalism, 2016 nn. 1-2), che possono razionalizzare i rapporti tra regionalismo ordinario, regionalismo asimmetrico e regionalismo speciale, in un quadro però dove per le fonti legislative che operano nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica e della perequazione finanziaria dovrebbero valere le regole dell’articolo 11 sopra richiamate.
6. Le province e le città metropolitane: superare le criticità della legge n. 56 del 2014. – La decisione politica di procedere allo svuotamento delle funzioni provinciali e alla trasformazione delle Province in enti di secondo grado, nella prospettiva di una loro abolizione dalla Costituzione, si è rivelata problematica, non solo per l’esito finale del referendum costituzionale, che ha fatto dire a qualche commentatore che sulle province si è giocato al “gioco dell’oca”, quanto soprattutto perché si è agito senza una adeguata riflessione, senza una compiuta strategia del governo territoriale e, per di più, in vista di una riforma costituzionale del bicameralismo e del Titolo V, promossa sull’onda emozionale e mediatica di una riduzione dei costi della politica. Così è stata approvata la legge n. 56 del 2014 che contiene “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, comunemente nota come “legge Delrio” e così è stata motivata la sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2015.
Peraltro, non va dimenticato che la legge n. 56 imponeva alle Regioni di provvedere alla modifica del loro ordinamento, rivedendo le funzioni allocate alle Province e considerando quelle funzioni provinciali che avrebbero riguardato le loro materie, al fine di una diretta assunzione delle medesime. Ne è derivata una criticità istituzionale, anche perché le Regioni hanno seguito metodi e modalità differenti, causando così un momento in cui determinate funzioni provinciali, soprattutto strade provinciali e viabilità, non sono state più esercitate da alcun soggetto istituzionale. Inoltre, all’incertezza istituzionale ha dovuto sopperire la stessa amministrazione statale, che solo dieci giorni dopo l’entrata in vigore della legge n. 56, si è posta il problema dell’entità delle funzioni provinciali in ambito statale. Infatti, subito dopo l’entrata in vigore della legge n. 56, il Dipartimento Affari Regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri chiedeva a tutti i Ministeri di trasmettere “la ricognizione puntuale dei compiti e delle funzioni attualmente svolti dalle Province nelle materie di competenza”.
Con la riforma costituzionale, sia detto per onestà intellettuale, le Province non sarebbero state soppresse, bensì rinominate costituzionalmente come “enti di area vasta”; ciò sarebbe derivato dall’art. 40, comma 4, del ddlc Renzi-Boschi (“Per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale”) e dall’art. 1, comma 3 della stessa legge n. 56 (“Le province sono enti territoriali di area vasta”).
Peraltro, nonostante la cancellazione della parola “Provincia” dal testo della Costituzione, in termini di autonomia, la riforma non avrebbe fatto venire meno, o quanto meno non del tutto, per gli “enti di area vasta” le garanzie costituzionali, a cominciare da quelle dell’articolo 5, dove si afferma che “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, e dagli articoli 117, comma 2, lettera p), quanto meno per i “profili ordinamentali generali”, 118, per lo svolgimento effettivo di funzioni amministrative, fondamentali e non fondamentali, proprie e conferite, e 119, per il loro finanziamento.
Questo convincimento è stato già ampiamente motivato (S. Mangiameli, La vicenda delle province, in La riforma della Costituzione. Una guida con le analisi di 15 costituzionalisti, a cura del Corriere della Sera, Milano 2016, 215 ss.) e non serve riprendere le ragioni costituzionali che lo avrebbero potuto sostenere; né serve chiedersi se nel tempo gli enti di area vasta – come molti auspicavano – sarebbero potuti diventare dei meri consorzi di comuni di carattere funzionale e amministrati da dirigenti pubblici, al pari di grandi aziende.
Tutto ciò è tramontato, mentre ciò che resta, per volontà popolare, sono le Province come ente costitutivo della Repubblica, secondo la dizione dell’articolo 114 della Costituzionale.
Di conseguenza, la legge n. 56 andrebbe valutata alla luce dello scenario post referendum anche sul piano della legittimità costituzionale, con particolare riguardo agli articoli 1, 5 e 48 della Costituzione e con diverse disposizioni del Titolo V.
Inoltre, non va dimenticato che l’Italia, ha dovuto subire una raccomandazione (n. 337) del Congresso dei poteri locali e regionali [https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?id=2049001&Site=COE] del Consiglio d’Europa, del 19/21 marzo 2013, con la quale il Consiglio ha stigmatizzato le tendenze legislative italiane in tema di Province, ed invero il Parlamento e il Governo italiano hanno sottovalutato i vincoli che la Repubblica ha assunto, senza riserva, a livello internazionale e che possono ridondare in violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.. Da questo punto di vista, infine, si può rilevare anche che le affermazioni del giudice costituzionale contenute nella sentenza n. 50 sono da considerare ormai ampiamente ridimensionate, risultando prive di adeguato supporto costituzionale.
Ciò posto, per un verso si tratta di comprendere quali siano gli aspetti più preoccupanti dal punto di vista costituzionale e, per l’altro, di valutare in che modo il sistema di governo territoriale dell’area vasta possa essere ricondotto nuovamente nell’alveo di una piena funzionalità.
La legge n. 56, approvata con l’apposizione della questione di fiducia sull’emendamento unico, ha un drafting di difficile lettura: un unico articolo con 151 commi, senza titoli, capi e sezioni; e offre il medesimo modello organizzativo dell’ente rappresentativo di secondo grado, sia per le Province, che per le Città metropolitane, anche se per queste ultime esiste la possibilità che “lo statuto della città metropolitana (possa) prevedere l’elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano” (comma 22).
L’elezione di secondo grado degli organi di governo delle Province (e delle Città metropolitane) non sembra essere facilmente conciliabile con il principio di autonomia, con il Titolo V e con la tradizione democratica di questi enti. Infatti, la piana lettura dell’art. 5 Cost., nel fare riferimento alle autonomie locali, con il verbo “riconosce”, intende in primo luogo salvaguardare l’esistenza dei livelli di governo territoriale locale (Comuni e Province) cui si aggiungono le Città metropolitane.
La ragione di fondo insita nelle espressioni adoperate nella Costituzione è che il principio di autonomia si fonda su quello che Carlo Esposito (Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, Padova 1954) aveva ben espresso, e cioè che “l’autonomia locale, sotto il profilo organizzativo non esiste per il fatto che gli enti locali siano elevati a persone giuridiche, ma solo quando in queste persone giuridiche sia organizzata in maniera autonoma e libera la vita locale, e vi sia autogoverno dei governati e la volontà e l’azione di questi enti sia rispondente ai principi e alle direttive prevalenti tra gli uomini che vivono sul territorio”; e così annota questo passaggio: “questo è il lato delle autonomie ‘locali’ esattamente posto in luce da coloro che, come si suole dire, hanno avuto di queste autonomie un concetto piuttosto politico, che formale-giuridico. Sotto il profilo meramente esegetico, la nostra Costituzione, proclamando ‘le autonomie locali’ e non la sola ‘autonomia degli enti locali’, mostra di accogliere e di considerare fondamentale anche questo lato o questo momento politico, organizzativo o interiore delle autonomie”.
Da questo punto di vista, perciò, sembra evidente che il Costituente (anche quello di revisione del 2001) ha voluto che le competenze riconosciute al legislatore ordinario in materia di autonomie locali fossero limitate e collegate alla concretizzazione del principio di autonomia, piuttosto che rivolte ad esprimere un potere dello Stato su questi enti.
In particolare, poi, l’art. 117, comma 2, lettera p), della Costituzione, che riconosce una potestà alla legge statale di disciplina della legislazione elettorale e degli organi di governo, oltre che delle funzioni fondamentali, di Comuni, Province e Città metropolitane, consente una discrezionalità di scelte al legislatore statale, sia per gli organi di governo e sia per il modo in cui questi possono essere ricoperti attraverso le elezioni, ma entro il quadro del principio democratico e di quello popolare, e non per sconvolgere l’assetto democratico, diretto e popolare degli enti locali, come accade se si ammette la possibilità di una elezione di secondo grado degli organi della Provincia.
Nei confronti di questo tipo di elezione, in nota alla sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 1968, che riguardava l’elezione di secondo grado delle province siciliane, Leopoldo Elia (in Giur. Cost. 1968, 1531) giungeva alla medesima conclusione, sulla base dell’art. 48 Cost.. Infatti, ritenendo che “l’art. 48 commi 1 e 2 debba obbligatoriamente applicarsi (…) anche alle elezioni degli organi rappresentativi delle province e dei comuni, di cui parla l’art. 128 Cost. è da dubitare fortemente che le elezioni di secondo grado (…) possano considerarsi costituzionalmente legittime”.
La stessa sentenza del 1968 segnalava peraltro che “il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo degli enti territoriali è strumento essenziale dell’autonomia” e che “la elettività di tali organi è principio generale dell’ordinamento”. Non a caso Vezio Crisafulli, in un celebre scritto sulle Vicende della “questione regionale” (in Le Regioni, n. 4 del 1982, 497), affermava che “il ruolo garantista delle autonomie regionali, e locali in genere, piuttosto che nella potestà normativa più o meno ampia ad esse riconnessa, risiede nella circostanza che le rispettive organizzazioni si fondano – al pari di quella centrale dello Stato-persona – sul suffragio dei cittadini, chiamati ad eleggerne le assemblee di base. Sta, in altre parole, nella funzione cui adempiono (o possono adempiere) di strumenti di partecipazione popolare all’esercizio del potere politico”.
A ciò si deve aggiungere, infine, che dalla Costituzione si evincerebbe che Comuni e Province non sono nella disponibilità del legislatore statale (o regionale), dal momento che sono una espressione esclusiva delle comunità di riferimento, le quali sono sottratte – quanto alla decisione fondamentale della loro identità – alla discrezionalità del legislatore statale (o regionale). Le comunità di riferimento sono le uniche che possono disporre realmente della loro esistenza, dimensione e, persino, della loro collocazione regionale, in base ai procedimenti degli articoli 132 e 133 della Costituzione.
Da tutto ciò consegue che farebbe bene il Parlamento a ripristinare quanto prima la diretta elettività degli organi di governo delle Province e delle Città metropolitane, di cui si dirà tra poco.
Quanto al profilo funzionale, al di là delle gravi alterazioni apportate alle province sul piano organizzativo e finanziario, la questione potrebbe sembrare risolta dall’esito referendario, atteso che la legge n. 56 prevede comunque le c.d. “funzioni fondamentali” delle Province (commi 44 e 85-88), attribuite anche alle Città metropolitane, sulla base dell’art. 117, comma 2, lett. p, Cost., e che queste, salvi pochi casi, nella sostanza mantengono le funzioni amministrative che spettavano a questi enti in base all’ordinamento degli enti locali (D. Lgs. n. 267 del 2000) e alla legge sul federalismo fiscale (n. 42 del 2009).
Ma il punto non è semplicemente di ripristinare la precedente funzionalità, perché in realtà dietro la vicenda delle Province si celava già una questione irrisolta dell’assetto territoriale italiano: quella del governo dell’area vasta, rispetto alla quale anche l’ordinamento pregresso era alla ricerca di un assetto più efficiente. La questione della definizione dell’area vasta, infatti, era rapportata al dimensionamento delle politiche pubbliche e all’esercizio delle relative funzioni nel territorio.
Per una definizione dell’area vasta, accanto al quadro storico-giuridico, invero, sarà opportuno adesso puntare su un modello economico che definisca, anche alla luce dei connotati statistico-geografici degli enti, l’allocazione delle funzioni di area vasta. Questo criterio sarà utile soprattutto in relazione alla definizione delle funzione di quegli enti, non meramente amministrativi, ma rivolti alla promozione dello sviluppo del territorio e, perciò, alla gestione delle politiche pubbliche (come quelle relative all’ambiente [acqua, rifiuti, tutela dagli inquinamenti, ecc.], alla pianificazione territoriale, alla crescita industriale ed economica, all’energia [gas, elettricità e nuove fonti], al trasporto pubblico, al turismo, alla rete commerciale e distributiva, alle infrastrutture dell’ICT e alle politiche attive del lavoro e alle altre politiche pubbliche ancora che si possono ascrivere alla categoria, in ragione della rete territoriale che richiedono, per l’erogazione di beni e servizi pubblici, come la rete stradale, quella scolastica, quella logistica e di trasporto).
In quest’ambito prende corpo la nozione di funzione di area vasta. Questo concetto, individuato anche in relazione a competenze che sono declinate su più livelli di governo, per settori o campi della stessa materia, serve a definire le articolazioni territoriali delle politiche nazionali e regionali, secondo condizioni e criteri dotati di una certa precisione, che vengono realizzati dagli enti di governo del territorio (area vasta, appunto) come le Province e le Città metropolitane.
È in questo contesto che avrebbe dovuto essere posta la domanda circa l’utilità, o meno, dell’ente Provincia, che ha svolto un ruolo identitario e amministrativo (anche per il decentramento dello Stato) dall’inizio dell’esperienza unitaria, ma che rispetto alla definizione di area vasta si sarebbe rivelata la chiave di volta per migliorare l’efficacia amministrativa, con riferimento alle politiche pubbliche che stentano a essere implementate, per i limiti che contrassegnano l’azione dello Stato (ma anche delle Regioni) di riordinare le reti, come nel caso dell’acqua, dei rifiuti, dell’energia, dell’ambiente, del lavoro, della formazione, delle scuole, della viabilità, dei trasporti, ecc. (S. Mangiameli, La provincia, l’area vasta e il governo delle funzioni nel territorio. Dal processo storico di formazione alla ristrutturazione istituzionale [http://www.issirfa-spoglio.cnr.it/6782,908.html]).
Quanto alle Città metropolitane, nonostante la loro posizione costituzionale non sia stata messa in discussione, la loro condizione è – se possibile – ancora più grave di quella delle Province, non solo perché le Città metropolitane condividono con le Province la problematica dell’elettività degli organi di governo, quanto soprattutto perché questi enti hanno conservato un assetto “provinciale” e non si sono trasformati in un ente di governo autenticamente metropolitano; del resto questa era l’unica possibilità per crearli subito, per atto normativo, con la legge n. 56 senza incidere sull’assetto pregresso, in molti casi lasciando fuori dalla città metropolitana una parte consistente dell’area metropolitana.
In realtà, in questo modo si è sottovalutato che esistono ragioni strutturali per le quali la costituzione delle Città metropolitane è stata avversata sia dai comuni, che avrebbero dovuto rientrarvi, sia dalle Regioni: i primi hanno sviluppato il convincimento che nell’aggregazione metropolitana non avrebbero ottenuto certamente maggiori vantaggi e semmai avrebbero ricevuto degli svantaggi. Infatti, verosimilmente, avrebbero avuto delle limitazioni alla propria autonomia e politicamente sarebbero state fagocitate dal Comune capoluogo; le seconde avrebbero visto il loro territorio spezzato in due parti, in quanto le Città metropolitane avrebbero raccolto una parte considerevole della popolazione all’interno della Regione considerata.
Per la prima questione, in uno scritto del 2009 (Questioni inerenti alle città metropolitane, in La questione locale, Roma, Donzelli), con l’applicazione della teoria dei giochi alla formazione della Città metropolitana, si riteneva necessario, oltre a un sistema elettorale in grado di equilibrare la rappresentanza dei territori (sostanzialmente analogo a quello delle province), la necessaria scomparsa del Comune capoluogo, dando vita a entità autonome (Municipi) comparabili con i comuni delle cinture, in modo da assicurare una pari condizione con i comuni rientranti nella Città metropolitana, soprattutto per funzioni, risorse e sviluppo strategico. Modello, questo, che è stato previsto come eventuale dal comma 22 della legge n. 56 e che, concretamente, sembra essere stato scelto, anche se è ben lungi dall’essere stato realizzato, dagli statuti della città metropolitana di Milano e di Roma.
Più complesso è il discorso del riequilibrio tra Regioni e Città metropolitane in quanto l’avversione regionale dipende non solo dal dimensionamento delle due entità, ma anche e soprattutto dallo specifico ruolo riconosciuto alle Regioni nell’ordinamento. In particolare, per costituire le Città metropolitane in modo corrispondente alle aree metropolitane e non alle ex-province sarebbe opportuno: o dare vita a macro-regioni che possano compensare, nell’esercizio dei poteri, la presenza sul territorio della/e Città metropolitana/e; oppure, in alternativa, mantenendo l’attuale dimensionamento regionale, l’istituzione delle Città metropolitane richiederebbe il rafforzamento delle Province, come ente politico di equilibrio territoriale, e l’accentuazione del ruolo statale delle Regioni (sul quale vedi comunque oltre nel testo).
Il processo di realizzazione delle città metropolitane è sicuramente ancora molto lungo e richiede un ripensamento politico-istituzionale più profondo del ruolo del nostro regionalismo. Com’è noto, infatti, le Regioni sono state strutturate dal Costituente non come semplici entità amministrative dell’ordinamento, come una sorta di grandi Dipartimenti, ma per caratterizzare la Repubblica come “Stato regionale”, e con il conferimento di compiti statali. Il riconoscimento della funzione legislativa, sia pure entro limiti territoriali, di materia e di genere (esclusiva, concorrente, attuativa), ha rappresentato il segno più evidente di questo ruolo statale delle Regioni, cui lo Stato si sarebbe dovuto adeguare (art. 5 e IX Disposizione transitoria e finale della Costituzione). Questo carattere statale delle Regioni, che la revisione del Titolo V del 2001 avrebbe voluto rafforzare, e quella del 2016 ridurre, ha avuto molteplici difficoltà ad affermarsi. Anzi, si può dire che per un vizio culturale originario, dovuto alla tradizione giuridica imposta dallo statualismo unitario, prima, e fascista, dopo, non è stato mai riconosciuto. Ciò ha spinto le Regioni verso una dimensione di tipo amministrativo, in concorrenza con gli enti locali e in particolare con le Province; anche per la circostanza che nel nostro regionalismo ordinario gli enti locali hanno continuato a mantenere inalterato il loro rapporto con lo Stato, cui hanno aggiunto quello con le Regioni.
7. Gli “interessi nazionali”, le regioni e il regionalismo: uno sguardo all’Assemblea costituente e uno all’Unione europea. – Le questioni sin qui esaminate mostrano che l’esito referendario non porta, come nella metafora del “gioco dell’oca”, a un semplice ritorno alla “partenza”, ma richiedono che una serie di problematiche già preesistenti al tentativo di riforma vengano considerate di nuovo e in modo diverso, in una prospettiva che affronti i temi del regionalismo e delle autonomie locali, coerentemente con il disegno costituzionale e guardando alla funzionalità delle Istituzioni.
La domanda da porre alla base della discussione dovrebbe essere: qual è il migliore assetto della Repubblica per la salvaguardia degli interessi nazionali in questo momento storico caratterizzato dal processo di integrazione europea e dall’internazionalizzazione dell’economia ?
Le risposte alla domanda possono essere diverse, ma comunque si ponga il problema, la prima risposta da dare attiene al modo di intendere – come già accennato – il rapporto tra lo Stato e le Regioni. Da come questi due soggetti si dividono i “compiti statali” e si organizzano nelle loro reciproche relazioni.
Si situa qui una delle ambiguità – forse la maggiore – nel nostro sistema costituzionale, dovuta come si è detto alla nostra tradizione culturale. Infatti, nel dibattito postrisorgimentale, quando per la prima volta dopo l’unità si pensò alla creazione di questo ente, la Regione della quale si discuteva somigliava a un grande ente locale, anche per il dibattito che si era svolto in seno al Parlamento del Regno di Sardegna, in occasione dell’approvazione del TULCP del 1859, che sarebbe stato trasformato nell’allegato A delle leggi di unificazione del 1865.
L’Assemblea costituente fece uno sforzo enorme nel concepire e scrivere l’articolo 5 della Costituzione e non tutto nel disegno del Titolo V era perfetto: dalle materie enumerate nell’articolo 117, al tipo di riparto delle competenze, all’autonomia organizzativa e statutaria dell’articolo 123, alla soluzione con cui è stata disegnata la potestà amministrativa nell’articolo 118 e alla debole autonomia finanziaria prevista nell’articolo 119.
Pur tuttavia, l’articolo 5 definiva una questione storica, quella del regionalismo, in un modo originale anche rispetto al pensiero risorgimentale, portava a sintesi l’esperienza autonomistica italiana, cui molto la fase dell’unificazione doveva, e innovava ad essa, al contempo, introducendo un pluralismo legislativo inedito alla tradizione istituzionale italiana, tanto che Zanobini si rifiutò di accettare questo dato costituzionale positivo (La Gerarchia delle Fonti nel nuovo Ordinamento, in P. Calamandrei, A. Levi (a cura di), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950, I), ostinandosi a considerare gli atti normativi regionali dei semplici regolamenti di autonomia, nonostante il nomen iuris adoperato dalla Carta forse diverso, e perciò a vedere la Regione come una specie del genere degli enti locali.
La Regione in Assemblea costituente entra quasi come un elemento predeterminato, alla stessa stregua della Repubblica. Quest’ultima era stata decisa dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946, mentre la Regione era un’entità già esistente in alcune parti del territorio.
Infatti, già prima del referendum la Regione Siciliana era un fatto compiuto con lo statuto del 15 maggio 1946 (R.D.L. n. 455); inoltre, tra il 1944 e il 1945, si era affermata l’idea di dotare alcune parti del territorio di poteri politici propri, con la formazione di Consulte regionali e Alti Commissariati (Sardegna e Valle d’Aosta). A ciò si aggiunga che pochi mesi dopo il referendum e l’insediamento dell’Assemblea costituente veniva stipulato l’Accordo De Gasperi–Gruber (5 settembre 1946) sull’Alto Adige, riprendendo un impegno già manifestato con il regio decreto 8 settembre 1921, n. 1319, in relazione ai territori annessi al Regno dopo la prima guerra mondiale (Trentino, Alto Adige e Friuli Venezia Giulia).
La scelta regionale era, perciò, già compiuta quando l’Assemblea cominciò i suoi lavori e le “madri” di questa scelta erano state le Regioni speciali (A. D’Atena, La specialità regionale tra deroga ed omologazione, in Id., Tra autonomia e neocentralismo, Torino, Giappichelli, 2016, 213). Questo non vuol dire che il dibattito sull’istituzione delle Regioni ordinarie non sia stato aspro e variegato .
Non tanto per la pregiudiziale unitaria, che venne superata tutto sommato agevolmente, nel corso della formulazione dell’art. 5 (originariamente art. 106), quanto per la ratio dell’istituto Regione che alcuni volevano come mera forma di decentramento amministrativo, mentre dalla Commissione dei settantacinque emergeva il disegno di un ente politico dotato, perciò, di potere legislativo; per la funzione da assegnare a questo ente, una parte dell’Assemblea (sostanzialmente il Partito Comunista e il Partito socialista di Unità proletaria) considerava inadatta la Regione a risolvere i problemi italiani del tempo (“ricostruzione, riforma agraria e nazionalizzazione di taluni complessi industriali”), mentre per la maggior parte delle forze politiche (dalla Democrazia cristiana, al Partito d’Azione, a quello Repubblicano e persino alcune frange del Partito Liberale) la Regione trovava il suo fondamento proprio nella questione meridionale, per la realizzazione della richiesta riforma agraria, oltre che nella garanzia contro il totalitarismo e la realizzazione della democrazia e della libertà.
Dall’Assemblea, in questo modo, uscirono sconfitte le posizioni di chi storicamente aveva concepito le Regioni come mere entità amministrative di decentramento statale. Il decentramento scritto nell’articolo 5 riguardava sicuramente le Regioni; basti considerare le posizioni espresse sulla formulazione di quel testo da parte di Tommaso Perassi, Egidio Tosato e Costantino Mortati, oltre che di Meuccio Ruini quale presidente della Commissione, i quali auspicavano che lo Stato, attraverso l’adeguamento della legislazione, si spogliasse delle funzioni amministrative a favore delle Regioni e trasferisse gli uffici periferici dell’Amministrazione statale. L’idea era quella di una ampia delegazione delle funzioni statali, per la quale venina approntata la disposizione dell’articolo 118, comma 2 (“Lo Stato può con legge delegare alla Regione l’esercizio di altre funzioni amministrative”), le cui caratteristiche sono state delineate molto bene in un successivo importante studio di F. Roversi-Monaco (Profili giuridici del decentramento nell’organizzazione amministrativa, Padova, 1970; Id., Decentramento amministrativo, in Encicl. Giur. Treccani, Roma, 2001, X, 3)., che evidenziava tutte le differenze con la classica delegazione amministrativa.
Tuttavia, il decentramento non era l’unica cifra di lettura della Regione. Anche se impoverita, rispetto al disegno originario, la Regione era stata dotata di competenze legislative, con l’art. 117, e l’autonomia legislativa era segno evidente, non solo di autonomia politica (“Se la regione si deve creare, essa deve essere munita di una autonomia politica o legislativa, perché altrimenti si creerebbe una superstruttura non giovevole”, così Aldo Bozzi), ma anche un segno distintivo della statualità, nonostante la potestà legislativa regionale, alla fine, veniva circondata da numerosi vincoli (“Questa competenza, che verrebbe a spettare alla regione, sarebbe di natura diversa da quella che oggi compete a tutti gli enti i quali, in virtù del loro diritto di autonomia, possono darsi delle determinate norme per regolare per lo meno l'esercizio dei loro poteri. Qui si tratterebbe di una competenza legislativa normativa, assegnata alla regione direttamente dalla carta costituzionale e che perciò, […] darebbe luogo all’emanazione di vere e proprie leggi, le quali avrebbero lo stesso valore delle leggi emanate dallo Stato”, così Gaspare Ambrosini).
Che la legislazione regionale fosse espressione di una competenza politica statuale e non una mera regolamentazione di autonomia, lo si desumeva proprio dal limite di merito degli “interessi nazionali”, che avrebbero dovuto essere sindacati in via negativa e in sede politica dal Parlamento. Positivamente inteso, perciò, l’interesse nazionale nelle materie di propria competenza era assicurato dalla legge regionale.
Questa impostazione, che discendeva dal pensiero di autorevoli costituenti, perciò, era formulata nelle disposizioni della Carta costituzionale, coniugandola con la tradizione culturale italiana, nella formula dell’interesse nazionale, nella quale era percepibile l’insegnamento di Santi Romano (Gli interessi dei soggetti autarchici e gli interessi dello Stato, in Scritti minori, II, Milano 1950, 352), e nella clausola c.d. di “adeguamento”, contenuta nell’art. 5 Cost. e nella IX Disposizione transitoria e finale, per la quale la Repubblica avrebbe dovuto adeguare “i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” e particolarmente, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, avrebbe dovuto adeguare “le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”.
In conclusione, l’Assemblea costituente ci ha consegnato una visione della Repubblica, certamente “una e indivisibile”, che bene si può riassumere nella forma costituzionale dello “Stato regionale autonomistico”, nella quale, da un lato, si situano le autonomie locali, che sono riconosciute e promosse e, dall’altro, si colloca la Regione. Le autonomie locali, che fanno riferimento alle figure storiche del Comune e della Provincia (e oggidì anche della Città metropolitana), sono state ampliate dalla presenza del nuovo ente: la Regione. Le autonomie locali si costituiscono in soggetti dotati di autonomia politica che hanno nel territorio il loro elemento costitutivo e nell’autogoverno democratico il loro carattere organizzativo, sono dotati del potere di polizia e di potestà fiscale.
Tutte le autonomie locali svolgono funzioni pubbliche, ma la Regione aggiungeva a ciò la circostanza che essa avrebbe dovuto adempiere, insieme e in concorrenza con lo Stato, ai compiti statali o di “interesse nazionale”, nella legislazione e nell’amministrazione, con limiti materiali e di legittimità per la potestà legislativa, ma sarebbe stata aperta nell’amministrazione ben oltre il novero delle materie enumerate in modo da consentire “il più ampio decentramento amministrativo”.
Questo disegno, che possiamo definire l’essenza del regionalismo secondo la nostra Costituzione, resta essenzialmente valido anche dopo la riforma costituzionale degli anni 1999 / 2001, nonostante anche il testo di questa riforma presenti, al pari di quello originario, una lettura problematica, dal momento che introduce elementi di organizzazione federale, come il principio dell’enumerazione statale, ma al contempo non risolve alcune delle problematiche del precedente regionalismo, prima fra tutte quella del federalismo fiscale.
Oltre a mantenere ferma e ad attuare concretamente la forma costituzionale dello “Stato regionale autonomistico”, appare necessario che da parte dello Stato e delle Regioni si guardi con un occhio diverso all’esercizio delle competenze.
Sempre per rispondere all’interrogativo posto all’inizio di quale sia il migliore assetto della Repubblica per la salvaguardia degli interessi nazionali, non ci si può limitare a prendere atto che il riparto delle competenze legislative sia rimasto quello disegnato con la riforma del 2001, anche perché nel frattempo numerose prassi istituzionali e la giurisprudenza costituzionale hanno messo in evidenza che la condotta del riparto delle competenze non è affatto efficace ed efficiente.
Il limite maggiore dell’esperienza dell’ordinamento, dal 2001 in poi, anche con lo spostamento neo-centralista della legislazione della crisi, è dato dalla mancanza di perspicacia del ruolo legislativo svolto dallo Stato, che è stato negligente in molte occasioni, oppure attento solo a rivendicare pezzi di materie od oggetti della legislazione e, in ogni caso, volto a condizionare l’esercizio delle funzioni regionali e locali.
In realtà, il nostro regionalismo è stato un regionalismo senza lo Stato. Anche quando i contrasti sono finiti nel contenzioso davanti alla Corte costituzionale, le decisioni del giudice costituzionale non sono state risolutive, dal momento che di fatto hanno solo ribadito la prevalenza del centralismo rispetto alla differenziazione regionale, senza possibilità alcuna di potere colmare le “omissioni” dello Stato. Infatti, nonostante lo Stato si sia avvantaggiato del riconoscimento di competenza legislativa ottenuto, grazie alla giurisprudenza costituzionale, successivamente non ha adoperato affatto il potere riconosciutogli dalla Corte, determinando così solo uno spreco di attività giuridica (legislativa e giurisprudenziale). In ogni caso, appare significativo che in tutti questi anni lo Stato abbia omesso di determinare i principi fondamentali delle materie di competenza legislativa concorrente.
Nella condizione storica attuale, che non è quella dell’ordinamento statuale chiuso e protezionista, bensì quella dell’ordinamento aperto, internazionalizzato e inserito nel processo di integrazione europea, il Parlamento e il Governo, grazie anche al giudice costituzionale, hanno mantenuto e difeso il ruolo di supremazia interno, senza considerare che la mutata collocazione dello Stato avrebbe richiesto loro di svolgere un compito diverso: quello di essere lo snodo tra la salvaguardia degli interessi nazionali sul piano europeo e globale e l’articolazione interna delle politiche pubbliche. Gli Stati, infatti, in collegamento con le politiche di bilancio, sono ora chiamati a produrre politiche pubbliche e a erogare servizi e beni pubblici, secondo logiche di promozione del mercato e del welfare, piuttosto che come garanti di un assistenzialismo insostenibile.
Di qui la necessità di una compiuta riforma degli Stati nazionali, derivante per l’appunto dal diverso ruolo attivo che viene loro richiesto rispetto al mercato interno e internazionale. È proprio rispetto a questo diverso ruolo dello Stato che il regionalismo appare essere la forma di Stato più adatta per coniugare la dimensione dell’economia, imposta dall’integrazione europea e dalla globalizzazione, e la cura del welfare interno.
In un quadro siffatto, e con riferimento alle politiche pubbliche, la dialettica tra Stato e Regioni non può essere ricomposta – come ha pensato la Corte costituzionale – sulla base di moduli che permettono l’interferenza del legislatore statale sulle materie di competenza legislativa regionale, dal momento che la salvaguardia della supremazia statale, di per sé, non è risultata essere un vantaggio per l’intero sistema nazionale nella competizione europea e internazionale.
A conferma di ciò, si consideri che la relazione tra la legge regionale e la fonte statale, nel caso delle politiche pubbliche, non si sviluppa secondo lo schema della esclusività, ma secondo quello della concorrenza, anche se lo schema basato sulla distinzione tra principio fondamentale e disciplina della materia può risultare non esaustivo. Infatti, nel caso delle politiche pubbliche, occorre considerare anche una ripartizione di ruoli (e cioè: un riparto delle competenze) che ubbidisca alla realizzazione dei medesimi obiettivi attinenti alle politiche considerate, secondo i vincoli creati dal livello europeo, tenendo conto che per il diritto europeo è chiaramente irrilevante l’attribuzione interna (legge statale o regionale) per l’attuazione.
Di conseguenza, il riparto delle materie previsto dall’articolo 117, commi 2, 3 e 4, Cost., che dovrebbe essere conformativo dei poteri legislativi statali e regionali, andrebbe considerato come lo schema di realizzazione delle politiche pubbliche e queste come parte del disegno europeo che assicura la competizione tra gli Stati membri.
Con lo sguardo a questa realtà, allora, dovrebbe esserci un esercizio concreto della competenza che, tenendo conto dei poteri costituzionali riconosciuti allo Stato e alle Regioni, si svolga grazie alla considerazione (Berücksichtigung) dei poteri attribuiti all’altro soggetto. Di conseguenza, lo schema prevalente dovrebbe essere quello della “concorrenza consapevole” delle fonti, secondo il principio di leale collaborazione.
Ciò significa che le azioni dello Stato e delle Regioni andrebbero coordinate consapevolmente. Con la conseguenza che, dal punto di vista dei contenuti, allo Stato sarebbe riservato l’esercizio del livello unitario, mentre alle politiche pubbliche attuate dalla legge regionale dovrebbe riconoscersi una valenza generale. Non mancano peraltro esempi in cui questo diverso atteggiamento sia stato realizzato, per cui si tratterebbe di riconoscerne la virtuosità e di formalizzarlo meglio.
Per questa ragione, considerare insieme le politiche pubbliche e l’esperienza del regionalismo di questi anni può risultare utile, non solo a formulare un bilancio di quanto è accaduto per via della crisi economica, quanto soprattutto a tracciare il percorso più appropriato per il prossimo futuro.
[1] Le materie della legislazione più importanti dal punto di vista dell’impegno legislativo delle regioni sono due di competenza esclusiva dello Stato (beni culturali e ambiente), due di competenza concorrente (tutela della salute e governo del territorio) e due da ricondurre alla competenza esclusiva/residuale dell’articolo 117, comma 4, della Costituzione (agricoltura e servizi sociali), cui segue la materia del turismo. L’attività legislativa delle Regioni, in concreto porta a considerare in modo diverso il riparto della competenze disegnato dall’articolo 117 e questa diversa lettura si può considerare ormai un dato acquisito dall’esperienza costituzionale.
[2] Resta un dato che, nonostante il tentativo politico di ridimensionare il ruolo e la posizione costituzionale delle Regioni, compiuto in quest’ultimo quinquennio, queste godano di un giudizio dei cittadini migliore rispetto a quello di cui gode lo Stato e una parte delle istituzioni statali (v. il Rapporto 2016 di Demos &Pi, Gli Italiani e lo Stato, che colloca le Regioni avanti allo Stato con una crescita della fiducia, sul 2015, di tre punti).