Carmela SALAZAR, Regioni, diritti fondamentali, crisi economica: qualche considerazione alla luce del disegno "Renzi-Boschi" (aprile 2015)
(Intervento alla Tavola rotonda del Seminario "L'impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni. La prospettiva italiana, spagnola ed europea", organizzato dall’ISSiRFA-CNR, dalla LUMSA e dall’Università di Macerata e svoltosi a Roma, presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA, il 13 novembre 2014).
1. Le relazioni che abbiamo ascoltato inducono ad esprimere alcune riflessioni sulla sorte riservata all’autonomia legislativa delle Regioni nel disegno di revisione costituzionale “Renzi-Boschi”, approvato in prima deliberazione dal Senato lo scorso agosto e licenziato nel marzo del 2015 dalla Camera dei deputati con marginali modificazioni, che non ne alterano l’impianto di fondo (AC 2613).
In particolare, vale la pena di soffermarsi sull’interazione perseguita dal disegno tra il superamento del bicameralismo perfetto, la ristrutturazione del Senato quale Camera imperniata sulla rappresentanza territoriale e la riscrittura del Titolo V, al fine di evidenziare come la tensione (ri)centralizzatrice sottesa al testo sin dalla sua originaria stesura e stemperata in misura minima nell’iter parlamentare, possa finire per favorire lo svuotamento dell’autonomia legislativa regionale, suscitando molte preoccupazioni in ordine al possibile deficit di tutela dei diritti fondamentali che da tale esito potrebbe derivare.
2. Notoriamente, alle ragioni “storiche” che militano per il superamento del bicameralismo perfetto prevedendo, come suole dirsi, l’insediamento delle autonomie locali “al centro”, negli anni più recenti si è aggiunta la necessità di rimediare all’exploit del contenzioso in via principale[1]. Per questa ragione, al momento della messa in cantiere della riforma sembrava lecito attendersi che il ruolo legislativo al Senato conservasse un rilievo significativo, posto che nelle forme di governo parlamentare – come mostra il diritto comparato – l’esclusione dal circuito fiduciario delle “seconde Camere” non trova necessario parallelo nella marginalizzazione anche rispetto all’attività di indirizzo politico tout court. Nel nostro ordinamento, la ristrutturazione del Senato quale Camera imperniata sulla rappresentanza territoriale dovrebbe finalmente consentire la proiezione delle esigenze dell’autonomia e del decentramento – alle quali l’art. 5 Cost. impone che la legislazione adegui i propri princìpi e i propri metodi – nel vivo della discussione sulla formazione delle leggi statali, in modo da trasformare il Parlamento nel luogo deputato ad ospitare in prima battuta il confronto tra Stato e Regioni sul riparto costituzionale della funzione legislativa. La qual cosa, ovviamente, dovrebbe giovare alle ragioni dell’autonomia, favorendo il contenimento della vis espansiva delle discipline nazionali, oltre che contribuire a insediare “a monte”, in sede politica, lo scioglimento dei nodi sulla titolarità della competenza legislativa, nell’auspicio che il confronto tra Stato e Regioni non si ripresenti – almeno, non nelle proporzioni sperimentate dopo il 2001– “a valle”, in sede giurisdizionale[2].
Sennonché, pur dopo le modifiche apportate al testo durante il percorso parlamentare, il ruolo legislativo del Senato resta minimale, quasi ancillare rispetto a quello assegnato alla Camera dei deputati[3]. In estrema sintesi, tolte le ipotesi in cui resta confermata la partecipazione paritaria delle due Aule (le leggi costituzionali, quelle di revisione costituzionale ed il ristretto insieme delle leggi ordinarie “bicamerali”), Palazzo Madama può in sostanza esercitare – peraltro, in tempi molto rapidi – un potere di «veto relativo»[4] sui testi approvati dalla Camera dei deputati[5]. A questa spetta non solo l’avvio del procedimento legislativo ma anche “l’ultima parola” su di esso, potendo superare gli emendamenti senatoriali, in linea di principio, a maggioranza semplice[6]: difficile accantonare l’impressione che il rimodellamento della forma di governo si strutturi, per questo verso, intorno a un “sostanziale monocameralismo”[7]. A ciò si aggiunge, guardando alla riscrittura degli elenchi nell’art. 117 Cost., la delusione per il mancato recepimento di un dato emergente in modo netto dalla giurisprudenza costituzionale sull’attuale Titolo V: benché sia impossibile abbandonare la “tecnica” della distribuzione delle competenze basata sui cataloghi di materie[8], questi andrebbero intesi come elementi di una mappatura solo tendenziale, poiché nella realtà «le materie si sovrappongono reciprocamente ed estesamente, tanto da doversi ogni volta stabilire se la disciplina oggetto di sindacato sia riportabile in maggior misura a questo o a quell’ambito materiale, facendosi quindi attrarre dall’uno o dall’altro per praevalentiam (e, laddove ciò si dimostri impossibile, rendendosi indispensabile il ricorso a quel vero e proprio deus ex machina che è la “leale cooperazione”)»[9].
In altre parole, nessuna potestà legislativa dovrebbe considerarsi veramente esclusiva, compresa quella statale[10]: ma nel disegno “Renzi-Boschi” il catalogo relativo a quest’ultima, oltre a inglobare alcuni campi dell’attuale potestà concorrente – la quale, come si sa, scompare del tutto[11] – si estende ben al di là di quanto sarebbe stato ragionevole al fine di rimediare alle carenze ed agli errori presenti nella stesura oggi vigente, inanellando numerose “materie-non materie” destinate con ogni probabilità ad atteggiarsi ad ambiti “trasversali”[12]. L’applicazione di tale logica catch all in favore della competenza statale appare poi ulteriormente confermata dalla previsione della possibilità riconosciuta alle leggi statali di sconfinare da tali pur vasti ambiti, ogni volta che il Parlamento approvi i disegni di legge ai quali il Governo “apponga” la “clausola di supremazia”, la cui introduzione, tra l’altro, ha determinato la trionfale rentrée in Costituzione dell’interesse nazionale[13]. La facilità con cui potranno essere travolti i confini a difesa della potestà residuale – la sola rimasta alle Regioni – appare, perciò, ancora più evidente di quanto non si palesi già oggi, negli orientamenti “centralisti” della Corte costituzionale.
Questo quadro rischia, peraltro, di non produrre gli effetti benefici attesi sul versante della contrazione del contenzioso in via d’azione, poiché non è pensabile che, «come per incanto, gli interessi cesseranno di essere “misti” per magicamente apparire o solo nazionali o solo regionali (e locali in genere)»[14]. Vero è che, nella stesura attuale del disegno di revisione, l’art. 70 c. 6 prevede che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti», ma tale meccanismo, che potrà favorire l’approvazione della legge sulla base di un accordo politico tra i due Presidenti, non necessariamente garantirà che in questo accordo si esprima la composizione tra gli interessi dello Stato e quelli delle Regioni. Il Presidente del Senato, come tutti gli altri componenti di Palazzo Madama, non è assoggettabile ad alcun vincolo di mandato da parte dell’ente di provenienza, nonostante tale scelta sollevi molti dubbi di coerenza con la logica di fondo della rappresentanza territoriale [15].
Non è detto, perciò, che la litigiosità tra Stato e Regioni sulla spettanza della competenza legislativa si attenui rispetto ad oggi, anche se forse si assisterà al ribaltamento nella provenienza dei ricorsi in via d’azione – al momento, prevalentemente statali[16] – a fronte della reazione delle Regioni che si sentano “espropriate” dei loro ambiti dalle leggi statali, specie di quelle approvate sotto l’egida della “clausola di supremazia”[17].
3. Naturalmente, in questo momento è possibile azzardare soltanto delle mere ipotesi sul modo in cui la riforma si “innesterà” nell’ordinamento, sempre ammesso che essa entri in vigore. Ma pur con tale riserva, va detto che il quadro d’insieme ora rapidamente ripercorso, risultante dallo strabismo del “nuovo” bicameralismo[18], dalla espansione dell’elenco della potestà esclusiva statale, dall’introduzione della “clausola di supremazia” e dalla cancellazione della potestà concorrente, contraddice quanto ricavabile dalla relazione al disegno di legge di revisione, leggendo la quale si evince che l’intento della riforma sarebbe quello di «valorizzare, declinandolo in modo nuovo, il pluralismo istituzionale e il principio autonomistico», attraverso la definizione di «sedi, strutture, procedure e metodi procedimenti nuovi»[19]: una dichiarazione di volontà di superamento dell’ancien régime – vale a dire: dell’assetto attuale, caratterizzato da un evidente favor per il “centro”– che per le ragioni sin qui esposte sembra a chi scrive più proclamato che realmente perseguito.
Quel che però appare più grave è che il disegno svela la convinzione del legislatore di revisione che l’autonomia legislativa regionale sia una variabile del sistema costituzionale delle autonomie locali ridimensionabile discrezionalmente, sino al suo tendenziale svuotamento.
A tal proposito, si impongono almeno due considerazioni.
La prima è che certamente la “tipologia” degli enti locali, l’insieme delle loro funzioni ed il fascio dei loro rapporti con lo Stato possono essere oggetto di ampia riscrittura attraverso la procedura dell’art. 138 Cost., sino alla possibilità della privazione della garanzia costituzionale per taluno degli enti indicati dall’art. 114 Cost. Come è noto, in tal senso si è espressa la sent. n. 220/2013 sul “riordino” delle Province condotto dal Governo Monti ed in questa direzione va lo stesso disegno “Renzi-Boschi”, cancellando queste ultime dal testo della Carta, a “completamento” della riforma avviata con la l. n. 56/2014. Questa – come si sa, uscita indenne dal giudizio di costituzionalità che riuniva le molte questioni proposte da diverse Regioni[20]– introduce la nuova disciplina delle Province «in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione» (art. 1, c. 51): laddove ce ne sia bisogno, tale continuità ideale tra la legge ora richiamata e la riforma costituzionale in itinere conferma che quest’ultima si inquadra perfettamente nella «vistosa virata in senso centralistico»[21] operata dagli interventi legislativi sul sistema degli enti locali adottati dalle maggioranze succedutesi alla guida del Paese dopo l’avvento della crisi, specie a quelli ispirati a una visione dell’autonomia territoriale non già come «governo (in senso lato) delle popolazioni locali, bensì come governo per le popolazioni locali»[22].
In questa peculiare prospettiva, che colloca il momento di affermazione ultima dell’unità politica «al di fuori dello stesso ordinamento autonomo, il quale – per definizione – presuppone l’esistenza di un ulteriore e più comprensivo ordinamento», nulla si oppone, in teoria, a che le autonomie locali vengano ridimensionate al ruolo di enti «meramente funzionali al più efficiente soddisfacimento di interessi definiti a livello nazionale o sovranazionale»[23]. E poco o nulla, purtroppo, si oppone anche in pratica a tali operazioni, poiché i clamorosi episodi di corruzione e di spreco del denaro pubblico che hanno travolto rappresentanti e amministratori locali in ogni parte del territorio nazionale hanno rinfocolato e contribuito a diffondere il sentimento anti-autonomista da sempre presente in una parte della società civile[24]. Le politiche di impoverimento delle attribuzioni delle autonomie locali non suscitano, insomma, dissensi marcati nell’opinione pubblica, specie se presentate come operazioni volte (anche) a perseguire la riduzione dei “costi della politica”.
La seconda considerazione è che, al di là della “narrazione” delle riforme sull’assetto degli enti locali da parte delle forze politiche che ne sono artefici ed a prescindere dalle reazioni da esse suscitate nella società civile, resta fermo che di certo l’aspirazione della Carta a proiettarsi nel tempo esige che essa sia disponibile a offrire uno specchio ai mutamenti che attraversano la società di cui pretende di orientare l’evoluzione. Ciò, tuttavia, non toglie che dall’art. 139 Cost. discenda l’obbligo del legislatore di revisione di operare secondo un canone di ragionevolezza-adeguatezza più stringente rispetto a quello riferibile al piano della legislazione ordinaria, ancorché il parametro di validità degli interventi ex art. 138 Cost. si racchiuda nel solo “nucleo duro” della Carta. Volendo, alla riscrittura della Costituzione ci si può riferire con un ossimoro, poiché essa dovrebbe sempre condurre a un “mutamento conservativo”[25], dovendo escludersi che l’adattamento al “fatto” da parte del legislatore di revisione si traduca in un «semplice cedimento» dinanzi alle esigenze di cambiamento che dal “fatto” stesso promanano, e dovendosi invece intendere come «uno strumento di salvaguardia del quid che le costituzioni intendono preservare»[26]. Vale a dire, con le celebri parole della Corte costituzionale, «i princìpi supremi che non possono essere modificati nel loro contenuto essenziale neppure dalle leggi di revisione costituzionale» (sent. n. 1146/1998), tra i quali «i principi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana, elementi indentificativi e irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale» (sent. n. 238/2014).
In questa prospettiva, al fine di valutare la ragionevolezza-adeguatezza degli interventi di revisione sulla seconda parte della Carta, non ha tanto senso verificare se si siano manifestate o meno “trasformazioni” del sistema politico e istituzionale: nessuno dubita che, in particolare negli ultimi vent’anni, se ne siano concretizzate molte e di particolare rilievo[27]. Occorre, semmai, chiedersi se le forze politiche abbiano o meno preso le mosse dall’accertamento di una reale interruzione nel circuito di funzionalizzazione assiologica[28] che dovrebbe porre in collegamento costante le norme organizzative e l’insieme dei princìpi e dei diritti che definiscono l’identità costituzionale del nostro Paese. E se, inoltre, le modifiche proposte per riaccendere tale circuito siano effettivamente in grado di produrre un siffatto esito positivo, tenendo conto anche dell’impatto che esse potrebbero produrre sulla Carta nella sua interezza, come pure del contesto entro il quale esse sono destinate ad operare[29].
In altre parole, le riforme dell’architettura costituzionale della Repubblica dovrebbero sempre presupporre uno scollamento tra la “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”[30] al quale non sia possibile porre un rimedio efficace se non attraverso una revisione di quest’ultima (e non, ad esempio, mediante la legislazione ordinaria, l’interpretazione “adeguatrice”, il mutamento della prassi, etc.). Al tempo stesso, tale valutazione non appare per nulla semplice, presentandosi la Costituzione come atto e processo insieme[31], persino nel suo “nucleo duro”, esso stesso soggetto ad un’incessante ridefinizione – peraltro, non sempre lineare – come dimostra l’espansione in via giurisprudenziale dell’universo dei diritti fondamentali.
In questa luce, ogni disegno di ridefinizione della trama costituzionale dei rapporti centro-periferia che voglia dirsi rispettoso del limite posto dall’art. 139 Cost. dovrebbe muovere dall’evidenza che il sistema degli enti componenti la Repubblica non si riflette più nell’art. 5 Cost., mirando all’introduzione delle modifiche che appaiano al tempo stesso maggiormente idonee a ricomporre tale lacerazione e ad innestarsi con successo nel tessuto dell’ordinamento.
4. Si giunge, così, all’art. 5 Cost., intorno al quale in questa sede può appena ricordarsi che esso mette al bando la concezione delle autonomie locali quali «mere proiezioni spaziali di dinamiche socio-economiche»[32]. Il riconoscimento e la promozione delle autonomie evocano la natura di queste ultime quali strutture consustanziali alla Repubblica unica e indivisibile, in quanto al tempo stesso necessarie per assicurare l’autogoverno delle collettività stanziate sui territori (i quali, rilevando quali centri di riferimento degli interessi che a queste fanno capo, danno concretezza alla località dell’ente)[33], ed indispensabili per assicurare l’effettiva tutela dei diritti inviolabili e per la difesa della pari dignità sociale dei cittadini, in particolare attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione sociale, politica ed economica del Paese (artt. 2 e 3 Cost.).
In tale quadro, l’autonomia legislativa, traducendosi nella possibilità che ogni Regione – nei limiti delle competenze costituzionali – possa costruire un proprio indirizzo politico, anche diverso da quello nazionale, funziona essa stessa come presidio dell’unità-indivisibilità della Repubblica: almeno, qualora si reputi che questa «è salvaguardata se (e fino a quando) il patrimonio dei diritti fondamentali e dei doveri inderogabili è comune a coloro che vivono a Trapani così come a quelli di Pordenone»[34]. L’attribuzione alle Regioni della capacità di progettazione politico-legislativa acquista il suo senso più compiuto se si traduce nella reale possibilità di concretizzazione di una protezione “diffusa” – e tendenzialmente differenziata – dei diritti fondamentali sul territorio nazionale: in linea di principio, di quelli sociali, restando le libertà negative fuori dalla competenza del Consigli, così da arricchire continuamente «il contenuto “sostanziale” della cittadinanza, inteso come la quantità e la qualità dei diritti di cui sono titolari i cittadini e anche i non cittadini»[35].
Molti spunti, in proposito, si possono trarre dalle relazioni al nostro Seminario. Viene in mente, ad esempio, la corposa legislazione regionale sulla tutela dei diritti fondamentali universali dei migranti – in particolare, di quelli “irregolari” – approvata durante l'arco temporale (non breve) in cui la legislazione nazionale sulle politiche migratorie sembrava avere smarrito la componente solidaristica[36]. Tale ultimo esempio, peraltro, conferma che sono necessarie anche le risposte locali, intese come risposte offerte tanto dagli Stati quanto dagli enti sub-statali, per affrontare i problemi le cui radici si proiettano ben al di là del piano nazionale: la moltiplicazione dei flussi migratori da una parte all'altra del pianeta è, notoriamente, una conseguenza della globalizzazione economico-finanziaria, oltre che dell’incrudelirsi delle guerre nel vicino Oriente e dell’acuirsi della miseria e dell’instabilità politica in molte zone dell’Africa.
Un’ulteriore conferma di tale conclusione proviene dai dati elaborati dall’Issirfa-CNR con riguardo alle soluzioni proposte dalle Regioni alla diffusione del disagio economico tra la popolazione dopo l’avvento della crisi, durante il triennio 2011-2013. Nonostante la decurtazione dei finanziamenti distribuiti dallo Stato[37], esse hanno mantenuto inalterato, in linea generale, il trend legislativo in favore dei “soggetti deboli” consolidatosi dopo la riforma del 2001, continuando a riservare al settore dei servizi alla persona e alle comunità il rango di ambito privilegiato tra i diversi campi di intervento ascrivibili alla loro competenza[38]. Particolarmente interessanti appaiono, poi, i dati sulla reazione delle Regioni alla crisi, specie quelli che segnalano come molti legislatori locali abbiano elaborato strumenti di vario tipo per rendere efficace il contrasto alla diffusione della povertà, non da ultimo attraverso l’erogazione di ammortizzatori sociali destinati ai soggetti in situazione di disagio economico non protetti dagli strumenti predisposti dalla legislazione nazionale[39].
Vero è che il panorama complessivo della legislazione regionale offre uno scenario variegato: a colpo d’occhio, le “leggine”, le leggi “manifesto”, le leggi volte a creare o conservare privilegi per la classe politica locale, le leggi “oscure”, etc. appaiono più numerose di quelle che offrono reali, immediate rispose ai bisogni della collettività locali. Ma in primo luogo, anche il legislatore statale esibisce palesi difficoltà nel colmare persistenti “vuoti” di disciplina, sia sul versante che riguarda più da vicino le tematiche qui affrontate (ad esempio, come è stato ricordato ancora di recente, il tema della definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” è stato semplicemente ignorato da tutte le maggioranze che si sono succedute alla guida del Paese dal 2001 ad oggi[40]); sia su altri ambiti di particolare delicatezza, nonostante – in molti casi – gli insistiti richiami ed i moniti provenienti dal Quirinale e dal Palazzo della Consulta: basti pensare, solo per citare esempi notissimi, al sovraffollamento carcerario, alle tematiche del c.d. fine-vita, alle unioni civili tra coppie eterosessuali e tra coppie omosessuali ed, in generale, ai diritti delle persone LGBTI.
In secondo luogo, l’irragionevolezza della riforma apparirebbe in re ipsa se davvero le forze politiche, preso atto dell’inveramento solo parziale del disegno costituzionale sull’autonomia legislativa locale, utilizzassero lo strumento della revisione non già per porre un rimedio a tale prassi in urto con la Carta, bensì per sancire una sorta di resa dinanzi ad essa: una forma discutibile di revisione-bilancio[41], per di più volta a impoverire il ruolo delle Regioni quali enti di elaborazione politico-normativa rispetto all’originario Titolo V, attraverso la sostanziale riconfigurazione della potestà legislativa quale competenza (tendenzialmente) attuativa-integrativa delle discipline statali, al di là della mancata riproposizione di tale nomen juris.
Con ciò, peraltro, mostrando di trascurare (o, peggio, di ignorare) la mole degli altri dati sulla performance complessiva del sistema delle autonomie, quelli che segnalano quanto rilevante sia stato sin qui – nonostante tutto – l’apporto da esse elargito alla concretizzazione della tutela “diffusa” dei diritti fondamentali[42].
Né può dirsi che una “ri-centralizzazione” così smaccata sia imposta rigidamente dall’esigenza di garantire gli standard di efficienza economico-finanziaria richiesti dalla l. cost. n. 1/2012 sul pareggio di bilancio. Come è noto, tale novella ha coinvolto anche il Titolo V, ritoccando gli artt. 117 e 119 Cost. nelle forme che, appena pochi anni fa, sono sembrate al legislatore di revisione sufficienti a raggiungere gli scopi perseguiti dalla riforma, alla luce dei quali la l. n. 243/2012, approvata per la prima attuazione della novella, ha ulteriormente precisato i “nuovi” termini dei rapporti economico-finanziari intercorrenti tra Stato e autonomie locali[43]. Senza contare che, al di là della recente attivazione dei poteri di controllo attribuiti alla Corte dei Conti, lo Stato può intervenire incisivamente sulla spesa (e, più in generale, sull’autonomia) delle Regioni, soprattutto attraverso il ricorso agli “onnivori” princìpi fondamentali di “coordinamento della finanza pubblica”[44] ampiamente utilizzati già prima del varo della l. cost. n. 1/2012, con il sostanziale avallo della Corte costituzionale.
5. Come si è già detto, le considerazioni ora svolte coinvolgono in larga misura valutazioni de futuro, che – bisogna ammetterlo – potrebbero essere smentite in occasione dell’“innesto” della riforma nell’ordinamento, qualora essa giunga all’approdo finale. Del resto, proprio la vicenda dell’attuale Titolo V ha mostrato, per un verso, come le suggestioni provenienti dal dato testuale possano non trovare riscontro (o inverarsi solo parzialmente) nel “diritto costituzionale vivente” (si pensi, ad esempio, a come la Corte ha disinnescato la capacità attrattiva della clausola residuale, sulla carta amplissima); per l’altro, ha evidenziato come l’interpretazione giurisprudenziale sia in grado di spingersi ben la di là di quanto le formulazione delle norme novellate lascerebbero intendere, sino ad ipotesi di una sostanziale “riscrittura” delle stesse da parte della Consulta (basti ricordare la “chiamata in sussidiarietà”).
Ma se tutto ciò è vero, al tempo stesso appare innegabile che, salva l’ipotesi del raggiungimento della maggioranza dei due terzi in entrambe le Camere nella seconda deliberazione, il Costituente ha considerato che la valutazione ex ante sulla conformità agli artt. 138 e 139 Cost. di ogni legge di revisione costituzionale – non importa quale ne sia la portata, la complessità e il contenuto – sia sufficiente perché i soggetti indicati dallo stesso art. 138, c. 2, Cost. avanzino la richiesta di indizione del referendum popolare dal quale potrebbe derivare la preclusione dell’entrata in vigore delle modifiche. Evidentemente, la mera possibilità che le proposte di riscrittura della Carta producano un’incisione sull’identità costituzionale del Paese fa “risuonare un campanello d’allarme” da tenere nella massima considerazione.
Tuttavia, sembra a chi scrive molto improbabile – salvi colpi di scena dell’ultimo momento – che l’impianto di fondo del disegno “Renzi-Boschi” venga rimesso in discussione nei futuri passaggi parlamentari. Ad ogni modo, se la riforma supererà lo scoglio della seconda deliberazione a maggioranza assoluta, sarà sottoposta al referendum: almeno, così dovrebbe concludersi, considerando che in varie occasioni il Presidente del Consiglio ha dichiarato pubblicamente che l’indizione della consultazione popolare sarà richiesta dai parlamentari della stessa maggioranza, a prescindere da eventuali analoghe iniziative degli altri soggetti individuati dall’art. 138, c. 2, Cost. e sempre che non venga raggiunga la soglia dei due terzi. Come, del resto, è già accaduto con riguardo alla l. cost. n. 3/2001, nonostante la contraddizione con la natura “oppositiva” e di strumento di minoranza propria del referendum costituzionale[45].
Se le cose andranno davvero così, il destino della riforma dipenderà dal voto popolare: ma poiché – secondo una boutade attribuita a Niels Bohr – «è difficile fare previsioni, specie quando riguardano l’avvenire», è bene che il giurista non vada oltre e si fermi qui.
In particolare, vale la pena di soffermarsi sull’interazione perseguita dal disegno tra il superamento del bicameralismo perfetto, la ristrutturazione del Senato quale Camera imperniata sulla rappresentanza territoriale e la riscrittura del Titolo V, al fine di evidenziare come la tensione (ri)centralizzatrice sottesa al testo sin dalla sua originaria stesura e stemperata in misura minima nell’iter parlamentare, possa finire per favorire lo svuotamento dell’autonomia legislativa regionale, suscitando molte preoccupazioni in ordine al possibile deficit di tutela dei diritti fondamentali che da tale esito potrebbe derivare.
2. Notoriamente, alle ragioni “storiche” che militano per il superamento del bicameralismo perfetto prevedendo, come suole dirsi, l’insediamento delle autonomie locali “al centro”, negli anni più recenti si è aggiunta la necessità di rimediare all’exploit del contenzioso in via principale[1]. Per questa ragione, al momento della messa in cantiere della riforma sembrava lecito attendersi che il ruolo legislativo al Senato conservasse un rilievo significativo, posto che nelle forme di governo parlamentare – come mostra il diritto comparato – l’esclusione dal circuito fiduciario delle “seconde Camere” non trova necessario parallelo nella marginalizzazione anche rispetto all’attività di indirizzo politico tout court. Nel nostro ordinamento, la ristrutturazione del Senato quale Camera imperniata sulla rappresentanza territoriale dovrebbe finalmente consentire la proiezione delle esigenze dell’autonomia e del decentramento – alle quali l’art. 5 Cost. impone che la legislazione adegui i propri princìpi e i propri metodi – nel vivo della discussione sulla formazione delle leggi statali, in modo da trasformare il Parlamento nel luogo deputato ad ospitare in prima battuta il confronto tra Stato e Regioni sul riparto costituzionale della funzione legislativa. La qual cosa, ovviamente, dovrebbe giovare alle ragioni dell’autonomia, favorendo il contenimento della vis espansiva delle discipline nazionali, oltre che contribuire a insediare “a monte”, in sede politica, lo scioglimento dei nodi sulla titolarità della competenza legislativa, nell’auspicio che il confronto tra Stato e Regioni non si ripresenti – almeno, non nelle proporzioni sperimentate dopo il 2001– “a valle”, in sede giurisdizionale[2].
Sennonché, pur dopo le modifiche apportate al testo durante il percorso parlamentare, il ruolo legislativo del Senato resta minimale, quasi ancillare rispetto a quello assegnato alla Camera dei deputati[3]. In estrema sintesi, tolte le ipotesi in cui resta confermata la partecipazione paritaria delle due Aule (le leggi costituzionali, quelle di revisione costituzionale ed il ristretto insieme delle leggi ordinarie “bicamerali”), Palazzo Madama può in sostanza esercitare – peraltro, in tempi molto rapidi – un potere di «veto relativo»[4] sui testi approvati dalla Camera dei deputati[5]. A questa spetta non solo l’avvio del procedimento legislativo ma anche “l’ultima parola” su di esso, potendo superare gli emendamenti senatoriali, in linea di principio, a maggioranza semplice[6]: difficile accantonare l’impressione che il rimodellamento della forma di governo si strutturi, per questo verso, intorno a un “sostanziale monocameralismo”[7]. A ciò si aggiunge, guardando alla riscrittura degli elenchi nell’art. 117 Cost., la delusione per il mancato recepimento di un dato emergente in modo netto dalla giurisprudenza costituzionale sull’attuale Titolo V: benché sia impossibile abbandonare la “tecnica” della distribuzione delle competenze basata sui cataloghi di materie[8], questi andrebbero intesi come elementi di una mappatura solo tendenziale, poiché nella realtà «le materie si sovrappongono reciprocamente ed estesamente, tanto da doversi ogni volta stabilire se la disciplina oggetto di sindacato sia riportabile in maggior misura a questo o a quell’ambito materiale, facendosi quindi attrarre dall’uno o dall’altro per praevalentiam (e, laddove ciò si dimostri impossibile, rendendosi indispensabile il ricorso a quel vero e proprio deus ex machina che è la “leale cooperazione”)»[9].
In altre parole, nessuna potestà legislativa dovrebbe considerarsi veramente esclusiva, compresa quella statale[10]: ma nel disegno “Renzi-Boschi” il catalogo relativo a quest’ultima, oltre a inglobare alcuni campi dell’attuale potestà concorrente – la quale, come si sa, scompare del tutto[11] – si estende ben al di là di quanto sarebbe stato ragionevole al fine di rimediare alle carenze ed agli errori presenti nella stesura oggi vigente, inanellando numerose “materie-non materie” destinate con ogni probabilità ad atteggiarsi ad ambiti “trasversali”[12]. L’applicazione di tale logica catch all in favore della competenza statale appare poi ulteriormente confermata dalla previsione della possibilità riconosciuta alle leggi statali di sconfinare da tali pur vasti ambiti, ogni volta che il Parlamento approvi i disegni di legge ai quali il Governo “apponga” la “clausola di supremazia”, la cui introduzione, tra l’altro, ha determinato la trionfale rentrée in Costituzione dell’interesse nazionale[13]. La facilità con cui potranno essere travolti i confini a difesa della potestà residuale – la sola rimasta alle Regioni – appare, perciò, ancora più evidente di quanto non si palesi già oggi, negli orientamenti “centralisti” della Corte costituzionale.
Questo quadro rischia, peraltro, di non produrre gli effetti benefici attesi sul versante della contrazione del contenzioso in via d’azione, poiché non è pensabile che, «come per incanto, gli interessi cesseranno di essere “misti” per magicamente apparire o solo nazionali o solo regionali (e locali in genere)»[14]. Vero è che, nella stesura attuale del disegno di revisione, l’art. 70 c. 6 prevede che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti», ma tale meccanismo, che potrà favorire l’approvazione della legge sulla base di un accordo politico tra i due Presidenti, non necessariamente garantirà che in questo accordo si esprima la composizione tra gli interessi dello Stato e quelli delle Regioni. Il Presidente del Senato, come tutti gli altri componenti di Palazzo Madama, non è assoggettabile ad alcun vincolo di mandato da parte dell’ente di provenienza, nonostante tale scelta sollevi molti dubbi di coerenza con la logica di fondo della rappresentanza territoriale [15].
Non è detto, perciò, che la litigiosità tra Stato e Regioni sulla spettanza della competenza legislativa si attenui rispetto ad oggi, anche se forse si assisterà al ribaltamento nella provenienza dei ricorsi in via d’azione – al momento, prevalentemente statali[16] – a fronte della reazione delle Regioni che si sentano “espropriate” dei loro ambiti dalle leggi statali, specie di quelle approvate sotto l’egida della “clausola di supremazia”[17].
3. Naturalmente, in questo momento è possibile azzardare soltanto delle mere ipotesi sul modo in cui la riforma si “innesterà” nell’ordinamento, sempre ammesso che essa entri in vigore. Ma pur con tale riserva, va detto che il quadro d’insieme ora rapidamente ripercorso, risultante dallo strabismo del “nuovo” bicameralismo[18], dalla espansione dell’elenco della potestà esclusiva statale, dall’introduzione della “clausola di supremazia” e dalla cancellazione della potestà concorrente, contraddice quanto ricavabile dalla relazione al disegno di legge di revisione, leggendo la quale si evince che l’intento della riforma sarebbe quello di «valorizzare, declinandolo in modo nuovo, il pluralismo istituzionale e il principio autonomistico», attraverso la definizione di «sedi, strutture, procedure e metodi procedimenti nuovi»[19]: una dichiarazione di volontà di superamento dell’ancien régime – vale a dire: dell’assetto attuale, caratterizzato da un evidente favor per il “centro”– che per le ragioni sin qui esposte sembra a chi scrive più proclamato che realmente perseguito.
Quel che però appare più grave è che il disegno svela la convinzione del legislatore di revisione che l’autonomia legislativa regionale sia una variabile del sistema costituzionale delle autonomie locali ridimensionabile discrezionalmente, sino al suo tendenziale svuotamento.
A tal proposito, si impongono almeno due considerazioni.
La prima è che certamente la “tipologia” degli enti locali, l’insieme delle loro funzioni ed il fascio dei loro rapporti con lo Stato possono essere oggetto di ampia riscrittura attraverso la procedura dell’art. 138 Cost., sino alla possibilità della privazione della garanzia costituzionale per taluno degli enti indicati dall’art. 114 Cost. Come è noto, in tal senso si è espressa la sent. n. 220/2013 sul “riordino” delle Province condotto dal Governo Monti ed in questa direzione va lo stesso disegno “Renzi-Boschi”, cancellando queste ultime dal testo della Carta, a “completamento” della riforma avviata con la l. n. 56/2014. Questa – come si sa, uscita indenne dal giudizio di costituzionalità che riuniva le molte questioni proposte da diverse Regioni[20]– introduce la nuova disciplina delle Province «in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione» (art. 1, c. 51): laddove ce ne sia bisogno, tale continuità ideale tra la legge ora richiamata e la riforma costituzionale in itinere conferma che quest’ultima si inquadra perfettamente nella «vistosa virata in senso centralistico»[21] operata dagli interventi legislativi sul sistema degli enti locali adottati dalle maggioranze succedutesi alla guida del Paese dopo l’avvento della crisi, specie a quelli ispirati a una visione dell’autonomia territoriale non già come «governo (in senso lato) delle popolazioni locali, bensì come governo per le popolazioni locali»[22].
In questa peculiare prospettiva, che colloca il momento di affermazione ultima dell’unità politica «al di fuori dello stesso ordinamento autonomo, il quale – per definizione – presuppone l’esistenza di un ulteriore e più comprensivo ordinamento», nulla si oppone, in teoria, a che le autonomie locali vengano ridimensionate al ruolo di enti «meramente funzionali al più efficiente soddisfacimento di interessi definiti a livello nazionale o sovranazionale»[23]. E poco o nulla, purtroppo, si oppone anche in pratica a tali operazioni, poiché i clamorosi episodi di corruzione e di spreco del denaro pubblico che hanno travolto rappresentanti e amministratori locali in ogni parte del territorio nazionale hanno rinfocolato e contribuito a diffondere il sentimento anti-autonomista da sempre presente in una parte della società civile[24]. Le politiche di impoverimento delle attribuzioni delle autonomie locali non suscitano, insomma, dissensi marcati nell’opinione pubblica, specie se presentate come operazioni volte (anche) a perseguire la riduzione dei “costi della politica”.
La seconda considerazione è che, al di là della “narrazione” delle riforme sull’assetto degli enti locali da parte delle forze politiche che ne sono artefici ed a prescindere dalle reazioni da esse suscitate nella società civile, resta fermo che di certo l’aspirazione della Carta a proiettarsi nel tempo esige che essa sia disponibile a offrire uno specchio ai mutamenti che attraversano la società di cui pretende di orientare l’evoluzione. Ciò, tuttavia, non toglie che dall’art. 139 Cost. discenda l’obbligo del legislatore di revisione di operare secondo un canone di ragionevolezza-adeguatezza più stringente rispetto a quello riferibile al piano della legislazione ordinaria, ancorché il parametro di validità degli interventi ex art. 138 Cost. si racchiuda nel solo “nucleo duro” della Carta. Volendo, alla riscrittura della Costituzione ci si può riferire con un ossimoro, poiché essa dovrebbe sempre condurre a un “mutamento conservativo”[25], dovendo escludersi che l’adattamento al “fatto” da parte del legislatore di revisione si traduca in un «semplice cedimento» dinanzi alle esigenze di cambiamento che dal “fatto” stesso promanano, e dovendosi invece intendere come «uno strumento di salvaguardia del quid che le costituzioni intendono preservare»[26]. Vale a dire, con le celebri parole della Corte costituzionale, «i princìpi supremi che non possono essere modificati nel loro contenuto essenziale neppure dalle leggi di revisione costituzionale» (sent. n. 1146/1998), tra i quali «i principi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana, elementi indentificativi e irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale» (sent. n. 238/2014).
In questa prospettiva, al fine di valutare la ragionevolezza-adeguatezza degli interventi di revisione sulla seconda parte della Carta, non ha tanto senso verificare se si siano manifestate o meno “trasformazioni” del sistema politico e istituzionale: nessuno dubita che, in particolare negli ultimi vent’anni, se ne siano concretizzate molte e di particolare rilievo[27]. Occorre, semmai, chiedersi se le forze politiche abbiano o meno preso le mosse dall’accertamento di una reale interruzione nel circuito di funzionalizzazione assiologica[28] che dovrebbe porre in collegamento costante le norme organizzative e l’insieme dei princìpi e dei diritti che definiscono l’identità costituzionale del nostro Paese. E se, inoltre, le modifiche proposte per riaccendere tale circuito siano effettivamente in grado di produrre un siffatto esito positivo, tenendo conto anche dell’impatto che esse potrebbero produrre sulla Carta nella sua interezza, come pure del contesto entro il quale esse sono destinate ad operare[29].
In altre parole, le riforme dell’architettura costituzionale della Repubblica dovrebbero sempre presupporre uno scollamento tra la “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”[30] al quale non sia possibile porre un rimedio efficace se non attraverso una revisione di quest’ultima (e non, ad esempio, mediante la legislazione ordinaria, l’interpretazione “adeguatrice”, il mutamento della prassi, etc.). Al tempo stesso, tale valutazione non appare per nulla semplice, presentandosi la Costituzione come atto e processo insieme[31], persino nel suo “nucleo duro”, esso stesso soggetto ad un’incessante ridefinizione – peraltro, non sempre lineare – come dimostra l’espansione in via giurisprudenziale dell’universo dei diritti fondamentali.
In questa luce, ogni disegno di ridefinizione della trama costituzionale dei rapporti centro-periferia che voglia dirsi rispettoso del limite posto dall’art. 139 Cost. dovrebbe muovere dall’evidenza che il sistema degli enti componenti la Repubblica non si riflette più nell’art. 5 Cost., mirando all’introduzione delle modifiche che appaiano al tempo stesso maggiormente idonee a ricomporre tale lacerazione e ad innestarsi con successo nel tessuto dell’ordinamento.
4. Si giunge, così, all’art. 5 Cost., intorno al quale in questa sede può appena ricordarsi che esso mette al bando la concezione delle autonomie locali quali «mere proiezioni spaziali di dinamiche socio-economiche»[32]. Il riconoscimento e la promozione delle autonomie evocano la natura di queste ultime quali strutture consustanziali alla Repubblica unica e indivisibile, in quanto al tempo stesso necessarie per assicurare l’autogoverno delle collettività stanziate sui territori (i quali, rilevando quali centri di riferimento degli interessi che a queste fanno capo, danno concretezza alla località dell’ente)[33], ed indispensabili per assicurare l’effettiva tutela dei diritti inviolabili e per la difesa della pari dignità sociale dei cittadini, in particolare attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione sociale, politica ed economica del Paese (artt. 2 e 3 Cost.).
In tale quadro, l’autonomia legislativa, traducendosi nella possibilità che ogni Regione – nei limiti delle competenze costituzionali – possa costruire un proprio indirizzo politico, anche diverso da quello nazionale, funziona essa stessa come presidio dell’unità-indivisibilità della Repubblica: almeno, qualora si reputi che questa «è salvaguardata se (e fino a quando) il patrimonio dei diritti fondamentali e dei doveri inderogabili è comune a coloro che vivono a Trapani così come a quelli di Pordenone»[34]. L’attribuzione alle Regioni della capacità di progettazione politico-legislativa acquista il suo senso più compiuto se si traduce nella reale possibilità di concretizzazione di una protezione “diffusa” – e tendenzialmente differenziata – dei diritti fondamentali sul territorio nazionale: in linea di principio, di quelli sociali, restando le libertà negative fuori dalla competenza del Consigli, così da arricchire continuamente «il contenuto “sostanziale” della cittadinanza, inteso come la quantità e la qualità dei diritti di cui sono titolari i cittadini e anche i non cittadini»[35].
Molti spunti, in proposito, si possono trarre dalle relazioni al nostro Seminario. Viene in mente, ad esempio, la corposa legislazione regionale sulla tutela dei diritti fondamentali universali dei migranti – in particolare, di quelli “irregolari” – approvata durante l'arco temporale (non breve) in cui la legislazione nazionale sulle politiche migratorie sembrava avere smarrito la componente solidaristica[36]. Tale ultimo esempio, peraltro, conferma che sono necessarie anche le risposte locali, intese come risposte offerte tanto dagli Stati quanto dagli enti sub-statali, per affrontare i problemi le cui radici si proiettano ben al di là del piano nazionale: la moltiplicazione dei flussi migratori da una parte all'altra del pianeta è, notoriamente, una conseguenza della globalizzazione economico-finanziaria, oltre che dell’incrudelirsi delle guerre nel vicino Oriente e dell’acuirsi della miseria e dell’instabilità politica in molte zone dell’Africa.
Un’ulteriore conferma di tale conclusione proviene dai dati elaborati dall’Issirfa-CNR con riguardo alle soluzioni proposte dalle Regioni alla diffusione del disagio economico tra la popolazione dopo l’avvento della crisi, durante il triennio 2011-2013. Nonostante la decurtazione dei finanziamenti distribuiti dallo Stato[37], esse hanno mantenuto inalterato, in linea generale, il trend legislativo in favore dei “soggetti deboli” consolidatosi dopo la riforma del 2001, continuando a riservare al settore dei servizi alla persona e alle comunità il rango di ambito privilegiato tra i diversi campi di intervento ascrivibili alla loro competenza[38]. Particolarmente interessanti appaiono, poi, i dati sulla reazione delle Regioni alla crisi, specie quelli che segnalano come molti legislatori locali abbiano elaborato strumenti di vario tipo per rendere efficace il contrasto alla diffusione della povertà, non da ultimo attraverso l’erogazione di ammortizzatori sociali destinati ai soggetti in situazione di disagio economico non protetti dagli strumenti predisposti dalla legislazione nazionale[39].
Vero è che il panorama complessivo della legislazione regionale offre uno scenario variegato: a colpo d’occhio, le “leggine”, le leggi “manifesto”, le leggi volte a creare o conservare privilegi per la classe politica locale, le leggi “oscure”, etc. appaiono più numerose di quelle che offrono reali, immediate rispose ai bisogni della collettività locali. Ma in primo luogo, anche il legislatore statale esibisce palesi difficoltà nel colmare persistenti “vuoti” di disciplina, sia sul versante che riguarda più da vicino le tematiche qui affrontate (ad esempio, come è stato ricordato ancora di recente, il tema della definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” è stato semplicemente ignorato da tutte le maggioranze che si sono succedute alla guida del Paese dal 2001 ad oggi[40]); sia su altri ambiti di particolare delicatezza, nonostante – in molti casi – gli insistiti richiami ed i moniti provenienti dal Quirinale e dal Palazzo della Consulta: basti pensare, solo per citare esempi notissimi, al sovraffollamento carcerario, alle tematiche del c.d. fine-vita, alle unioni civili tra coppie eterosessuali e tra coppie omosessuali ed, in generale, ai diritti delle persone LGBTI.
In secondo luogo, l’irragionevolezza della riforma apparirebbe in re ipsa se davvero le forze politiche, preso atto dell’inveramento solo parziale del disegno costituzionale sull’autonomia legislativa locale, utilizzassero lo strumento della revisione non già per porre un rimedio a tale prassi in urto con la Carta, bensì per sancire una sorta di resa dinanzi ad essa: una forma discutibile di revisione-bilancio[41], per di più volta a impoverire il ruolo delle Regioni quali enti di elaborazione politico-normativa rispetto all’originario Titolo V, attraverso la sostanziale riconfigurazione della potestà legislativa quale competenza (tendenzialmente) attuativa-integrativa delle discipline statali, al di là della mancata riproposizione di tale nomen juris.
Con ciò, peraltro, mostrando di trascurare (o, peggio, di ignorare) la mole degli altri dati sulla performance complessiva del sistema delle autonomie, quelli che segnalano quanto rilevante sia stato sin qui – nonostante tutto – l’apporto da esse elargito alla concretizzazione della tutela “diffusa” dei diritti fondamentali[42].
Né può dirsi che una “ri-centralizzazione” così smaccata sia imposta rigidamente dall’esigenza di garantire gli standard di efficienza economico-finanziaria richiesti dalla l. cost. n. 1/2012 sul pareggio di bilancio. Come è noto, tale novella ha coinvolto anche il Titolo V, ritoccando gli artt. 117 e 119 Cost. nelle forme che, appena pochi anni fa, sono sembrate al legislatore di revisione sufficienti a raggiungere gli scopi perseguiti dalla riforma, alla luce dei quali la l. n. 243/2012, approvata per la prima attuazione della novella, ha ulteriormente precisato i “nuovi” termini dei rapporti economico-finanziari intercorrenti tra Stato e autonomie locali[43]. Senza contare che, al di là della recente attivazione dei poteri di controllo attribuiti alla Corte dei Conti, lo Stato può intervenire incisivamente sulla spesa (e, più in generale, sull’autonomia) delle Regioni, soprattutto attraverso il ricorso agli “onnivori” princìpi fondamentali di “coordinamento della finanza pubblica”[44] ampiamente utilizzati già prima del varo della l. cost. n. 1/2012, con il sostanziale avallo della Corte costituzionale.
5. Come si è già detto, le considerazioni ora svolte coinvolgono in larga misura valutazioni de futuro, che – bisogna ammetterlo – potrebbero essere smentite in occasione dell’“innesto” della riforma nell’ordinamento, qualora essa giunga all’approdo finale. Del resto, proprio la vicenda dell’attuale Titolo V ha mostrato, per un verso, come le suggestioni provenienti dal dato testuale possano non trovare riscontro (o inverarsi solo parzialmente) nel “diritto costituzionale vivente” (si pensi, ad esempio, a come la Corte ha disinnescato la capacità attrattiva della clausola residuale, sulla carta amplissima); per l’altro, ha evidenziato come l’interpretazione giurisprudenziale sia in grado di spingersi ben la di là di quanto le formulazione delle norme novellate lascerebbero intendere, sino ad ipotesi di una sostanziale “riscrittura” delle stesse da parte della Consulta (basti ricordare la “chiamata in sussidiarietà”).
Ma se tutto ciò è vero, al tempo stesso appare innegabile che, salva l’ipotesi del raggiungimento della maggioranza dei due terzi in entrambe le Camere nella seconda deliberazione, il Costituente ha considerato che la valutazione ex ante sulla conformità agli artt. 138 e 139 Cost. di ogni legge di revisione costituzionale – non importa quale ne sia la portata, la complessità e il contenuto – sia sufficiente perché i soggetti indicati dallo stesso art. 138, c. 2, Cost. avanzino la richiesta di indizione del referendum popolare dal quale potrebbe derivare la preclusione dell’entrata in vigore delle modifiche. Evidentemente, la mera possibilità che le proposte di riscrittura della Carta producano un’incisione sull’identità costituzionale del Paese fa “risuonare un campanello d’allarme” da tenere nella massima considerazione.
Tuttavia, sembra a chi scrive molto improbabile – salvi colpi di scena dell’ultimo momento – che l’impianto di fondo del disegno “Renzi-Boschi” venga rimesso in discussione nei futuri passaggi parlamentari. Ad ogni modo, se la riforma supererà lo scoglio della seconda deliberazione a maggioranza assoluta, sarà sottoposta al referendum: almeno, così dovrebbe concludersi, considerando che in varie occasioni il Presidente del Consiglio ha dichiarato pubblicamente che l’indizione della consultazione popolare sarà richiesta dai parlamentari della stessa maggioranza, a prescindere da eventuali analoghe iniziative degli altri soggetti individuati dall’art. 138, c. 2, Cost. e sempre che non venga raggiunga la soglia dei due terzi. Come, del resto, è già accaduto con riguardo alla l. cost. n. 3/2001, nonostante la contraddizione con la natura “oppositiva” e di strumento di minoranza propria del referendum costituzionale[45].
Se le cose andranno davvero così, il destino della riforma dipenderà dal voto popolare: ma poiché – secondo una boutade attribuita a Niels Bohr – «è difficile fare previsioni, specie quando riguardano l’avvenire», è bene che il giurista non vada oltre e si fermi qui.
[1] Anche se, per la verità, nella Relazione sulla giurisprudenza costituzionale nel 2014 il Presidente della Consulta segnala l’affiorare di un’inversione di tendenza: la diminuzione del numero dei ricorsi in via principale, rispetto al 2013, risulta infatti pari al 39,82 % (il testo della Relazione può leggersi in www.cortecostituzionale.it).
[2] Ancora di recente, è stato evidenziato che «negli ordinamenti giuridici moderni nulla può sostituire forme efficaci di cooperazione tra i diversi livelli di governo, né la ricerca di determinazioni sempre più analitiche delle competenze legislative e amministrative può prendere il posto di istituzioni, poste all’interno del processo di decisione politica nazionale, destinate a comporre in via preventiva – già nell’iter di formazione delle leggi statali – le esigenze dell’uniformità e quelle dell’autonomia»: G. Silvestri, Relazione del Presidente Gaetano Silvestri sulla giurisprudenza costituzionale del 2013, 2 (il testo è consultabile in www.cortecostituzionale.it).
[3] Sul ruolo del Senato nell’impianto originario della riforma e nel testo licenziato dal Senato l’8 agosto 2014, v. per tutti L. Violini, Il bicameralismo italiano: quale futuro?, in www.rivistaaic.it, 3/2013; M. Luciani, La riforma del bicameralismo, oggi, ivi, 2/2014; G. Azzariti, Riforma del Senato. Questioni di metodo e di merito, in www.astrid-online.it, 8/2014; R. Bifulco, Il Senato che verrà: Assemblea legislativa o Conferenza camuffata?, in www.confronticostituzionali.eu, 2014; ibidem, v. anche A. Patroni Griffi, Il “Senato delle autonomie”, un disegno in chiaroscuro; B. Caravita, Glosse. Scorrendo il testo della proposta Renzi, in www.federalismi.it, 8/2014; E. Cheli, Ma questo è vero bicameralismo? (Dubbi e suggerimenti in ordine al progetto di riforma costituzionale presentato dal Governo), in www.osservatoriosullefonti.it, 2/2014; C. De Fiores, Un Senato di garanzia a suffragio universale, in www.costituzionalismo.it, 2014; A. Mastromarino, Modificare, superare, abolire. Quale bicameralismo per l’Italia delle riforme?, ivi, 9/2014.
[4] La formula è di A. Lucarelli, Le Macroregioni “per funzioni” nell’intreccio multilivello del nuovo tipo di Stato, in www.federalismi.it, 6/2015, 3.
[5] Cfr. la “nuova” formulazione dell’art. 70 Cost. Alcuni “correttivi” alla marginalizzazione del Senato nel procedimento legislativo sono stati proposti dal parere, favorevole con osservazioni, espresso dalla Commissione bicamerale per le questioni regionali sul testo adottato dalla Commissione Affari costituzionali del Senato come testo base: ad esempio, la Commissione proponeva di valutare la possibilità che la legge statale adottata in materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato venisse approvata dalla Camera dei deputati con il voto favorevole del Senato o, in mancanza di questo, con maggioranza qualificata; o di valutare l’opportunità che, fermo restando il principio secondo cui la decisione definitiva spetta alla Camera dei deputati, le leggi vertenti su materie di interesse regionale iniziassero il loro iter dal Senato, «in modo da configurare una “precedenza procedurale” in grado di valorizzare il ruolo di raccordo che il nuovo Senato potrebbe efficacemente svolgere in ordine alla formazione delle leggi» (il parere si legge in www.doumenti.camera.it). Su tali suggerimenti, v. C. Salazar, Il procedimento legislativo e il ruolo del nuovo Senato, in www.issirfa-spoglio.cnr.it, 2014.
[6] Il c. 4 del “nuovo” art. 70 Cost. precisa che l’esame del Senato sulle leggi statali applicative della “clausola di supremazia” sia disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione, e che la Camera dei deputati possa «non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti». Mentre il testo licenziato dal Senato esigeva che la Camera si esprimesse sempre a maggioranza assoluta onde potersi discostare dalle modifiche proposte da Palazzo Madama, oggi tale vincolo si è allentato, operando esso soltanto quando gli emendamenti stessi siano stati approvati a maggioranza assoluta. Da notare che la norma tace su cosa succeda quando la modifica senatoriale sia stata votata a maggioranza più elevata di quella assoluta.
[7] In tal senso, v. P. Ciarlo, Osservazioni a prima lettura sul disegno Renzi-Boschi di revisione costituzionale, in www.federalismi.it, 9/2014, 1. In favore della percorribilità dell’opzione monocamerale tout court, v. P. Ciarlo-G. Pitruzzella, Monocameralismo: unificare le due Camere in un unico Parlamento della Repubblica, in www.rivistaaaic.it, Osservatorio 2013.
[8] «Si sa che non è un buon sistema, ma non si è riusciti ad inventarne uno diverso e migliore»: A. Ruggeri, Riforma costituzionale e autonomia regionale, dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali (profili problematici), in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XVII. Studi dell’anno 2013, Giappichelli, Torino 2014, 394 (già in www.consultaonline.it, 2013,15).
[9] A. Ruggeri, Note minime a prima lettura del “disegno Renzi” di riforma costituzionale, in www.federalismi.it, 8/2014, 16 (ora anche in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XVIII. Studi dell’anno 2014, Torino, 2015, 79).
[10] In tal senso, v. spec. P. Caretti, La riforma del Titolo V Cost., in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2/2014, 3.
[11] A meno che non si ritenga che i princìpi fondamentali possano rinascere sotto le mentite spoglie delle disposizioni «generali e comuni» che appaiono nell’elenco della potestà statale con riguardo a diversi ambiti competenziali: sul punto si registrano opinioni diverse, per le quali si rinvia a P. Colasante, La competenza concorrente in Italia fra neocentralismo statale e prospettive di riforma, in www.italianpapersonfederalism.it, 2014; E. Gianfrancesco, La ‘scomparsa’ della competenza ripartita e l’introduzione della clausola di supremazia, in www.issirfa-spoglio.cnr.it, 2014; S. Pajno, Considerazioni sulla riforma costituzionale in progress, tra Governo, Senato e Camera dei deputati, in www.federalismi.it, 24/2014, spec. 26 ss.; G. Rivosecchi, Introduzione al tema: riparto legislativo tra Stato e Regioni: le disposizioni generali e comuni, in www.gruppodipisa.it, 2014.
[12] Per riprendere la felice definizione proposta da A. D’Atena, Materie legislative e tipologia delle competenze, in Quad. cost., 1/2003, 15 ss.
[13] Tra i commenti pubblicati durante la discussione in Senato, v. spec. E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), in www.rivistaaic.it, Osservatorio 2014; S. Mangiameli, Prime considerazioni sul disegno di legge costituzionale AS/1429 sulla modifica della seconda parte della Costituzione, in www.issirfa-spoglio.cnr.it, 2014, che discorre dell’attribuzione alle Regioni di un ruolo “fittizio”; G. Scaccia, Prime note sull’assetto delle competenze legislative statali e regionali nella proposta di revisione costituzionale del Governo Renzi, in www.astrid-online.it, 8/2014, 5, che parla di autonomia legislativa “ottriata”. Con riguardo al testo approvato da Palazzo Madama, M. Olivetti, Alcune osservazioni sulla riforma del Senato e del Titolo V nel disegno di legge costituzionale n. 1429, approvato dal Senato l’8 agosto 2014, in www.amministrazioneincammino.it, 2014, rileva «quasi una decostituzionalizzazione» dell’autonomia legislativa. Evidenzia la persistenza di una «deriva neocentralista» nell’articolato licenziato dalla Camera dei deputati G. C. De Martin, Le autonomie nel ddl 2613: un passo avanti e due indietro, ivi, 2015, 6.
[14] A. Ruggeri, Quali insegnamenti per la riforma costituzionale dagli sviluppi della vicenda regionale?, in www.rivistaaic.it, 4/2014, 23 (ora in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XVIII. Studi dell’anno 2014, cit., 466).
[15] Nel disegno di revisione, al momento il “nuovo” art. 67 continua a ribadire che «i membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato». Sull'opportunità dell’introduzione del vincolo di mandato (e del voto unitario) per i “nuovi” senatori si sono espressi da subito diversi commentatori, in molti casi unitamente alla manifestazione di serie perplessità sulla composizione “mista” del Senato (cfr. art. 57 del testo in esame) nonché sulla “rappresentanza delle istituzioni territoriali” ad esso ricondotta (cfr. art. 55, c. 4; la rappresentanza della Nazione è invece riferita «a ciascun membro della Camera dei deputati»: art. 55, c. 2). In proposito, v. R. Bin, Coerenze e incoerenze del disegno di legge di riforma costituzionale: considerazioni e proposte, in www.forumcostituzionale.it, 2014, 4 ss.; M. D’Amico, Una riforma irragionevole?, in www.federalismi.it, 8/2014; G. De Vergottini, Sulla riforma radicale del Senato, ibidem, 3 ss.; I. Nicotra, Note a margine del ddl costituzionale deliberato dal Consiglio dei Ministri in data 31 marzo 2014, ibidem, 4; A. Poggi, Funzioni e funzionalità del Senato delle autonomie, ibidem, 3; E. Rossi, Senato delle Autonomie: una composizione da rivedere (è possibile un Senato di dopolavoristi?), ibidem, 4 ss.; F. Paterniti, Riflessioni a prima lettura su alcuni elementi critici della nuova composizione del Senato delle Autonomie nel progetto di riforma costituzionale del Governo Renzi, ivi, 9/2014, 10; B. Pezzini, La riforma del bicameralismo, in www.rivistaaic.it, 2/2014, 2 ss.; M. C. Grisolia, A proposito della composizione del Senato delle autonomie, in www.rivistaaic.it, 2/2014, 4. Rilievi critici sull’eventuale introduzione del vincolo di mandato sono stati invece avanzati, tra gli altri, da E. Catelani, Stato federale o Stato regionale nel Senato delle Autonomie? Note sul progetto di riforma costituzionale del Governo, in www.federalismi.it, 8/2014, 5; A. Barbera, Note di Augusto Barbera sul Disegno di legge costituzionale n.1429 (Riforma del Bicameralismo e del Titolo V) Audizione presso la Commissione Affari Costituzionali del Senato Seduta del 27 maggio 2014, ore 14.00, in www.forumcostituzionale.it, 2014, 3.
[16]Cfr. i dati elaborati da F. Dal Canto, E. Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2011-2013), a cura di R. Romboli, Giappichelli Torino 2014, 144.
[17]Non se ne può avere la certezza, ma appare probabile che il Giudice delle leggi si orienti verso il riconoscimento di un ampio margine di discrezionalità del Parlamento nel ricorso alla “clausola di supremazia”, sottoponendo al sindacato di ragionevolezza i soli casi in cui gli interventi legislativi risultino afflitti da “manifesta arbitrarietà”, in parallelismo con il trend relativo all'“evidente mancanza” dei presupposti del decreto-legge: in proposito, v. A. Ruggeri, Note minime, cit., par. 7.3, in nt. 32, e Id., Quali insegnamenti, cit., par. 3.3, in nt. 59. Per R. Bin, Coerenze e incoerenze, cit., par. 2, la valutazione della sussistenza delle circostanze che legittimano il ricorso alla clausola dovrebbe invece intendersi come affidata integralmente alle Camere, risultando perciò del tutto precluso il sindacato della Corte costituzionale. In una prospettiva diversa, R. Toniatti, Audizione del Prof. Roberto Toniatti presso la Commissione affari costituzionali della Camera in relazione al p.d.l. cost. sulla Revisione della II parte della Costituzione, par. 4, in www.rivistaaic.it, Osservatorio, 2015, reputa che il contenzioso che scaturirà dalla riforme potrebbe condurre «ad una riappropriazione dei parametri degli interessi unitari da parte della Corte costituzionale che, in un contesto di palese centralizzazione della direzione politica e della funzione legislativa, potrebbe adottare un orientamento interpretativo che restituisca una qualche effettività all’autonomia dell’ordinamento regionale (come del resto la Corte non aveva mancato di fare prima del 2001, a conferma della sua vocazione a ri-equilibrare i disequilibri riconducibili al legislatore della revisione costituzionale)».
[18]L’espressione è di T. E. Frosini, Bicameralismo strabico, in www.confronticostituzionali.eu, 2014.
[19]Corsivi aggiunti. Rileva tale contraddizione anche M. Cecchetti, I veri obiettivi della riforma costituzionale della riforma costituzionale dei rapporti Stato-Regioni e una proposta per realizzarli in modo semplice e coerente, in www.gruppodipisa.it, 2014, 1.
[20]Cfr. la recente sent. n. 50/2015 della Corte costituzionale, su cui v. A. Sterpa, F. Grandi, F. Fabrizzi, M. de Donno, Corte costituzionale, sent. n. 50/2015: scheda di lettura, in www.federalismi.it, 7/2015.
[21]La citazione è tratta da E. Balboni-M. Carli, Stato senza autonomie, Regioni senza regionalismo, in www.federalismi.it, 21/2012, 2.
[22]Così, A. Morelli, L’autonomia territoriale nella dimensione della democrazia costituzionale alla luce del principio personalista, in www.gruppodipisa.it, 2014, par. 2, che riprende la distinzione tra governo del popolo e governo per il popolo formulata da H. Kelsen, I fondamenti della democrazia, in Id., La democrazia (tr. it.), Il Mulino, Bologna 1995, 199.
[23]Ancora A. Morelli, op. loc. cit.
[24]In proposito, v. E. Gianfrancesco, Il regionalismo italiano: crisi ciclica o crisi strutturale? Alcune riflessioni con particolare riferimento alla potestà legislativa, in www.issirfa-spoglio.cnr.it, 2014. S. Staiano, Le autonomie locali in tempi di recessione: emergenza e lacerazione di un sistema, in www.federalismi.it, 17/2012, discorre di un'ideologia ormai consolidata, secondo la quale la semplificazione del sistema autonomistico e la restrizione delle sedi della rappresentanza locale sarebbero strumenti decisivi per il risanamento economico generale.
[25]Per l’esame del rapporto tra gli artt. 54 e 139 Cost., alla luce della ricostruzione del dovere di fedeltà alla Repubblica come dovere di salvaguardare la continuità dell’ordinamento costituzionale nell’identità dei suoi princìpi supremi, v. A. Morelli, Il dovere di fedeltà alla Repubblica, Milano 2013,191 ss.
[26]Le citazioni sono tratte da M. Luciani, Dottrina del moto delle Costituzioni e vicende della Costituzione repubblicana, in www.rivistaaic.it, 1/2013, 2.
[27]Su di esse, v. la panoramica tracciata da A. Rauti, I sistemi elettorali dopo la sentenza costituzionale n. 1 del 2014. Problemi e prospettive, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2014, 14 ss., e da C. Galli, Le trasformazioni della politica italiana. Uno sguardo d’insieme, in AA.VV., Istituzioni e sistema politico in Italia: bilancio di un ventennio, a cura di M. Volpi, Il Mulino, Bologna 2015, 161 ss. Per riflessioni di ordine generale, v. di recente V. Teotonico, Riflessioni sulle transizioni. Contributo allo studio dei mutamenti costituzionali, in www.rivistaaic.it, 3/2014.
[28]La formula è di A. Ruggeri, L’identità costituzionale alla prova: i princìpi fondamentali fra revisioni costituzionali polisemiche e interpretazioni-applicazioni «ragionevoli», in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. II. Studi degli anni 1992/95, Torino, 1996, 256.
[29]Sulla necessità di valutare la bontà dei progetti di riforma costituzionale alla luce di un parametro normativo e fattuale assieme, «che discende dall’alto (dal valori fondamentali) e ascende dal basso (dall’esperienza, per come fin qui maturata) e consente di misurare il “tasso” di inveramento dei valori stessi», v. A. Ruggeri, Riforma costituzionale, cit., 380 (corsivi dell’A.).
[30]Si riprende la terminologia di M. Luciani, La «Costituzione dei diritti» e la «Costituzione dei poteri». Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in AA. VV., Scritti in onore di Vezio Crisafulli, Cedam, Padova 1985, II, 497 ss.
[31]Per tutti, v. A. Spadaro, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo” (storico). Ovvero della continua evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in Quad. cost., 3/1998, 343 ss.
[32]Sul punto, di recente, v. B. Pezzini, Il principio costituzionale dell’autonomia locale e le sue regole, in www.gruppodipisa.it, 2014, 6; ibidem, v. anche L. Ronchetti, Territorio e spazi politici. Inevitabile citare T. Martines, Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, 100 ss., ora in Id., Opere, II, Ordinamento della Repubblica, Giuffrè, Milano 2000, 293 ss.
[33]In proposito, v. da ultimo F. Pizzolato, Democrazia come autogoverno: la questione dell’autonomia locale, in www.costituzionalismo.it, 1/2015, con ampio apparato bibliografico.
[34]A. Ruggeri, L’autonomia regionale (profili generali), in www.federalismi.it, 24/2011, 16. Dello stesso A., v. anche Regioni e diritti fondamentali, in Giur. it., 6/2011, 1461 ss.; Id., Unità-indivisibilità dell’ordinamento, autonomia regionale, tutela dei diritti fondamentali, in Nuove aut., 1/2011, 25 ss.; Summum ius summa iniuria, ovverosia quando l’autonomia regionale non riesce a convertirsi in servizio per i diritti fondamentali (a margine di Corte cost. n. 325 del 2011), in www.consultaonline.it, 2011.
[35]Così, A. Simoncini, La “rivoluzione promessa”: le Regioni tra nuovi diritti e pluralismo sociale, in AA.VV., Che fare delle Regioni?, a cura di N. Antonetti, U. De Siervo, Istituto Luigi Sturzo, Roma 2014, 128.
[36]Cfr. A. Pugiotto, “Purché se ne vadano”. La tutela giurisdizionale (assente o carente) nei meccanismi di allontanamento dello straniero, in AA.VV., Lo statuto costituzionale del non cittadino, Jovene, Napoli 2010, 385 ss. Nell’ampia letteratura, v. per tutti AA.VV., La governance dell’immigrazione. Diritti, politiche e competenze, a cura di E. Rossi, F. Biondi Dal Monte, M. Vrenna, Il Mulino, Bologna 2013; F. Biondi Dal Monte, Dai diritti sociali alla cittadinanza. La condizione giuridica dello straniero tra ordinamento italiano e prospettive sovranazionali, Giappichelli, Torino 2013; AA.VV., La Repubblica e le migrazioni, a cura di L. Ronchetti, Milano 2014; A. Ruggeri, I diritti dei non cittadini tra modello costituzionale e politiche nazionali, Relazione al Convegno su Metamorfosi della cittadinanza e diritti degli stranieri, Reggio Calabria, 26-27 marzo 2015, in www.consultaonline.it, 1/2015.
[37]Sul punto, v. per tutti S. Mangiameli, Crisi economica e distribuzione territoriale del potere, in www.rivistaaic.it, 4/2013; U. De Siervo, Realtà attuale delle funzioni e del finanziamento delle Regioni, in AA.VV., Che fare delle Regioni?, cit.,193 ss.; C. Napoli, L’autonomia finanziaria, in www.gruppodipisa.it, 2014; M. Salerno, Le mitologie dell’autonomia tra equilibrio di bilancio e principio di responsabilità degli enti territoriali, in Ist. fed., 1/2014, 81 ss.
[38]Secondo tali dati, nel triennio 2010-2012 gli interventi nel settore dei servizi alla persona e alla comunità sono stati alimentati anche da consistenti risorse proprie delle Regioni. Ciò risulta non solo dall’esame dei bilanci preventivi, ma anche dai riscontri sui consuntivi nei quali si mostra la crescita, ancora nel 2012, della spesa per i servizi sociali: cfr. l’Introduzione di S. Mangiameli, Il regionalismo tra crisi economica e riforme: verso la riscrittura del modello regionale? nonché il quadro tracciato da A.G. Arabia, Quantità e qualità della legislazione regionale, entrambi in AA.VV., Rapporto 2013 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, Vol. II, Tomo I, a cura dell’Issirfa-Cnr, in www.issirfa-spoglio.cnr.it, 2014.
[39]Si rinvia a E. Innocenti-E.Vivaldi, Assistenza, volontariato, contrasto alla povertà nella legislazione regionale in tempo di crisi, in paper, 9 ss.
[40]Cfr. L. Antonini, Le macro Regioni: una proposta ragionevole ma che diventa insensata senza un equilibrio complessivo dell’assetto istituzionale, in www.federalismi.it, 3/2015, 4 ss.
[41]Per questa terminologia, v. G. Silvestri, Spunti di riflessione sulla tipologia e sui limiti della revisione costituzionale, in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffia, II, Giuffrè, Milano 1987,1208.
[42]Oltre alle indicazioni ricavabili dalle relazioni al Seminario, cfr. l’ampia e documentata ricerca condotta da AA.VV., Diritti e autonomie territoriali, a cura di A. Morelli, L. Trucco, Giappichelli, Torino 2014.
[43]Per un quadro generale, v. C. Buzzacchi, Equilibrio di bilancio versus autonomie e 'Stato sociale', in Amministrare, 1/2014, 49 ss.
[44]In tal senso, v. E. Gianfrancesco, Undici anni dopo: le Regioni, la Corte e la crisi, in AA.VV., La giustizia costituzionale e il nuovo regionalismo, a cura di N. Viceconte, I, Giuffrè, Milano 2013, 130 ss.
[45]Per tutti, v. R. Romboli, Il referendum costituzionale nell’esperienza repubblicana e nelle prospettive di riforma dell’art. 138 Cost., in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2007.