Intervento al Seminario di studio organizzato dall'Istituto di Studi sulle Regioni "Massimo Severo Giannini" (ora ISSiRFA), su “Le fonti regionali dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001” (Roma 19 marzo 2002)



1. Le disposizioni contenute nel nuovo Titolo V in materia di rapporti dello Stato e delle regioni con gli enti locali consentono di cogliere alcune caratteristiche della riforma costituzionale particolarmente rilevanti per la sua interpretazione e attuazione.
Ne abbiamo individuate quattro, che potrebbero sintetizzarsi così: a) originalità; b) continuità; c) oscurità; d) lacunosità.

2. Prima di esaminarle, occorre però richiamare i punti salienti della disciplina costituzionale.

a) nell’art. 114, commi 1 e 2 troviamo il riconoscimento dell’autonomia costituzionale degli enti locali: anche comuni e province, cui oggi si aggiungono le città metropolitane, sono, al pari delle regioni, definiti come “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla costituzione”.

b) nell’art. 117 incontriamo due disposizioni di rilievo:
in base all’art. 117.2, lettera p), alla legge statale, dopo l’abrogazione dell’art. 128, spetta soltanto la competenza a disciplinare la materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane”; per cui deve ritenersi riconosciuto uno spazio per la legge regionale (grazie alla competenza residuale dell’art. 117.4) riguardo a tutti quei profili che non sono riservati alla legge statale: ad esempio, forme associative, organizzazione degli uffici e del personale, servizi pubblici locali, controlli, ordinamento finanziario e contabile; naturalmente tutte e due le fonti (legge statale e legge regionale) debbono rispettare l’autonomia locale;
inoltre, va richiamato il comma 6 dell’art. 117: spetta agli enti locali la potestà regolamentare “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”; per la prima volta tale potestà, che si affianca a quella statutaria di cui parla l’art. 114, trova riconoscimento costituzionale;

c) riguardo alle funzioni amministrative, l’art. 118 rompe il principio del parallelismo; le funzioni amministrative sono di regola attribuite ai comuni, secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza;
d) ci sono poi previsioni di rilievo in materia di autonomia finanziaria (art. 119); c’è l’art. 123, ultimo comma, secondo il quale in ogni regione lo statuto disciplina il consiglio delle autonomie locali, come organo di consultazione tra la regione e gli enti locali (art. 123, ultimo comma); c’è l’abolizione dei controlli preventivi sugli atti (con l’abrogazione dell’art. 130).

1. Abbiamo detto: originalità, continuità, oscurità, lacunosità.

a) originalità: i rapporti stato-regioni-enti locali sono delineati in modo originale rispetto ai modelli presenti nel diritto comparato: né nel sistema spagnolo né in quello tedesco, cui per tanti altri aspetti la riforma si ispira, comuni e province dispongono di una autonomia costituzionale analoga a quella di comuni e province italiani, garantita dagli interventi regionali attraverso la “copertura” della legge statale.
Dalle disposizioni cui ci riferiamo è possibile ricavare il carattere essenziale della forma di Stato decentrato italiano: l’esistenza, con uguale rilevanza costituzionale, di vari livelli di soggetti autonomi. Accanto alle regioni, enti di area vasta titolari di potestà legislativa, si collocano province e comuni (e, oggi, le città metropolitane), titolari in base alla Costituzione di funzioni regolamentari e amministrative e di autonomia finanziaria.
Si tratta di livelli istituzionali dotati di una autonomia costituzionale formalmente equiparabile a quella delle Regioni, anche se con poteri diversi.
Tale peculiarità, ben più che la mancanza di un’autoqualificazione, impedisce di definire come “federale” la forma di Stato italiana. Se i modelli hanno ancora qualche significato, lo Stato federale è lo stato dei due livelli: Federazione e Stati membri. Il Titolo V, invece, dà vita a un sistema policentrico, assimilabile a quel multilevel constitutionalism ben noto a livello comunitario. Come è stato detto, “ciò che risulta dagli artt.114, 117 e 118 è un sistema istituzionale a più livelli, costituito da una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, che interagiscono reciprocamente”.

b) continuità con la tradizione italiana. Se ne può parlare in due sensi:

1) con l’art. 5 della costituzione e, per certi versi, anche con il vecchio titolo V. Se il nuovo titolo V appare assai più conforme del vecchio ai principi contenuti nell’art. 5 (almeno secondo le letture datene fin dai primi anni di vita della costituzione dalla dottrina più avanzata: Esposito, Berti, Benvenuti), non si può però neppure negare – pur nell’ambito di una sostanziale discontinuità - che alcuni limitati tratti del vecchio titolo V siano stati trasfusi nel nuovo (ad esempio, come elemento di continuità con l’art. 128 Cost. può essere letta la riserva allo Stato della legislazione esclusiva sulla forma di governo e le funzioni fondamentali degli enti locali dell’art. 117.2, lettera p);

2) tuttavia quando si parla di continuità ci si riferisce essenzialmente al fatto che la riforma costituisce il risultato di un processo sviluppatosi in via legislativa negli anni novanta, a partire dalla legge n. 142 del 1990, per arrivare alla legge n. 59 del 1997 e al d.lgs. n. 112 del 1998 e al d.lgs. n. 267 del 2000.
La continuità con l’evoluzione legislativa è evidente nell’art. 118, che rappresenta una trasposizione a livello costituzionale di principi (sussidiarietà, differenziazione adeguatezza) emersi nella legislazione, attraverso il “federalismo amministrativo” e la “riforma a costituzione invariata”; inoltre, la potestà legislativa regionale in materia di ordinamento locale (oggi ricavabile dall’art. 117.4) ha trovato sviluppo a partire dall’art. 3 della legge 142 del 1990, per arrivare all’art. 4 del testo unico 267/2000 che reca il titolo "sistema regionale delle autonomie locali", e per le regioni speciali, è stata riconosciuta con la legge cost. n.2 del 1993; la scomparsa dei controlli era già avvenuta con la legge n.127 del 1997; organi di raccordo tra regioni ed enti locali erano già previsti dalla legge n. 59 del 1997 (e su questa base le regioni avevano dato vita al consiglio regionale delle autonomie locali, ora costituzionalizzato nell’art. 123, u.c.).

I due profili della “continuità” si riunificano, peraltro, se si considera che la Corte costituzionale, nel corso degli anni novanta, ha respinto tutti i tentativi di far dichiarare incostituzionali le nuove leggi per violazione del vecchio titolo V, e ciò sia in riferimento alle competenze riconosciute alle regioni in tema di ordinamento locale (riguardo alle quali la Corte ha parlato delle regioni come centro propulsore e di coordinamento dell’intero sistema delle autonomie locali: sent. n. 343 del 1991), sia riguardo al principio di sussidiarietà e alla centralità dei comuni nello svolgimento delle funzioni amministrative (la Corte costituzionale ha sottolineato, nella sentenza n. 408 del 1998, che non si trattava, come le regioni lamentavano, di una violazione del vecchio titolo V e della loro posizione costituzionale, ma di una tra le sue possibili interpretazioni, la cui scelta è rimessa alla politica istituzionale statale).

c) oscurità: anche riguardo ai rapporti dello stato e delle regioni con gli enti locali non mancano nel testo costituzionale punti particolarmente oscuri, anche come conseguenza della carente tecnica redazionale messa in evidenza da tutti i commentatori. Mi limito a sottolinearne due, che attengono rispettivamente al riparto delle competenze normative e di quelle amministrative tra i tre livelli di governo.

1) riguardo alla potestà normativa, sorge il problema del rapporto tra potestà normative statali e regionali e potestà regolamentare degli enti locali: questi ultimi, come già ricordato, vedono riconosciuta a livello costituzionale la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite; quale rapporto viene a sussistere tra leggi (statali e regionali) e regolamenti locali nelle materie (e dovrebbero essere la maggior parte) nelle quali le funzioni amministrative sono attribuite agli enti locali? E, in tali materie, i regolamenti statali e regionali possono intervenire o meno (tenuto conto che l’art. 117.6, affermata la potestà regolamentare dello stato nelle materie di legislazione esclusiva, stabilisce che la potestà regolamentare spetta alle regioni in ogni altra materia)? In altre parole, l’attribuzione di funzioni amministrative agli enti locali, quali ricadute ha sulla distribuzione delle competenze normative?
2) riguardo alle funzioni amministrative, oltre alle difficoltà, già rilevate dai commentatori della legge n. 59 del 1997, connesse all’applicazione del principio di sussidiarietà (e alla sua giustiziabilità), il testo costituzionale presenta ulteriori problemi, che derivano dal promiscuo utilizzo, in riferimento alle funzioni locali, delle espressioni di funzioni “proprie”, “attribuite”, “conferite”, “fondamentali”…con ricadute sui rapporti tra leggi statali e leggi regionali nella distribuzione delle funzioni; in particolare, ci si chiede, che cosa significa che la legge statale disciplina le “funzioni fondamentali” degli enti locali? È rintracciabile in questa previsione una di quelle competenze trasversali dello stato, suscettibili di incidere sulle materie regionali? Lo stato è abilitato a individuare le funzioni fondamentali degli enti locali anche nelle materie regionali?

Quanto questo intreccio di competenze, e di fonti, sia complesso, e ricco di conseguenze pratiche, è stato testimoniato pochi giorni dopo l’entrata in vigore della riforma dal dibattito al Senato sulla nuova disciplina dei servizi pubblici locali (art. 35 della legge 28 dicembre 2001, n.448): quale parte di questa riforma è ancora riservata alla legge dello Stato, in nome della determinazione delle funzioni fondamentali degli enti locali o della tutela della concorrenza, e quale rientra nella competenza regionale residuale? Quale parte, infine, è riservata alle autonome valutazioni di province e comuni, nell’esercizio della rispettiva potestà regolamentare sullo svolgimento delle funzioni attribuite?

Come risolvere questi dubbi interpretativi? Mi pare che proprio la “continuità” ci possa fornire un utile ausilio: la riforma costituisce il risultato di una evoluzione normativa durata più di dieci anni, e ai fini della sua interpretazione, laddove la lettera è oscura, può soccorrere una interpretazione sistematica che tenga conto dei risultati raggiunti proprio nella legislazione ordinaria.
Ad esempio, riguardo ai rapporti tra fonti statali, fonti regionali, fonti locali, mi pare difficile che si possa tornare indietro rispetto a quanto stabilito dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000, secondo il quale la legislazione (statale e regionale) in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell’esercizio delle funzioni ad essi conferite deve enunciare espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa: i regolamenti locali, nella parte in cui disciplinano l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni, sarebbero vincolati al rispetto dei soli principi delle leggi statali e regionali (così l’art. 7 del d.lgs. n. 267/2000). Con la differenza, non secondaria, che oggi tale principio trova riconoscimento direttamente a livello costituzionale.
Riguardo alle funzioni amministrative, precisato che spetta alla legge statale o regionale, a seconda della materia di competenza, attribuire le funzioni agli enti locali (e che le funzioni attribuite, ai sensi dell’art. 118.1, possono essere proprie o conferite, in base al 118.2, anche se varie sono le interpretazioni che si possono dare dell’uso di questi due termini), per la interpretazione della nozione di “funzioni fondamentali”, da determinare con legge statale, può essere d’aiuto, anche qui, il d.lgs. 267/2000, che conteneva non tanto una “determinazione delle funzioni” (ai sensi del vecchio art. 128 Cost.), bensì i principi per la determinazione delle funzioni (artt. 13 e 19). Alla legge statale spetterebbe quindi dettare quei principi che consentano di individuare un nucleo “storico” e incomprimibile di funzioni locali, che debbono essere attribuite agli enti locali dalle leggi statali e regionali anche in deroga al principio di sussidiarietà: tale legge verrebbe a integrare, insieme alle norme costituzionali, il “blocco di costituzionalità”, ponendosi come parametro interposto, determinando quel nucleo minimo di autonomia la cui compressione potrebbe produrre l’illegittimità costituzionale delle leggi statali o regionali di allocazione delle funzioni (nucleo incomprimibile più volte richiamato, già in passato, dalla Corte costituzionale: v. ad esempio sentenza n.83 del 1997).

1. Come si vede da questi pochi esempi, i problemi sono tanti. L’oscurità è tale da poter dar luogo a una forte conflittualità.

d) E proprio su questo versante si registra la lacunosità della riforma, sotto due punti di vista.
Innanzitutto, della mancanza di sedi di cooperazione e collaborazione che coinvolgano i tre livelli di governo e che potrebbero prevenire il sorgere di conflitti. Va tra l’altro ricordato che se c’è un principio chiaramente affermato dalla giurisprudenza costituzionale in materia di autonomie locali (nella vigenza del vecchio Titolo V) questo è il principio in base al quale gli enti medesimi debbono partecipare al procedimento di adozione degli atti suscettibili di incidere sull’autonomia stessa (ad es., v. sentenza n. 378/2000).
Un importante passo è stato quello della costituzionalizzazione del Consiglio delle autonomie locali, ma mancano, se si esclude la norma transitoria dell’art. 11, sedi di raccordo con lo Stato, che invece esistono a livello legislativo (si pensi alla Conferenza Stato-città e alla Conferenza unificata). La legge statale dell’art. 117.2, lettera p), tra l’altro, non è sottoposta al parere della bicamerale integrata.
Inoltre, oggi come in passato, è assai difficile che controversie che abbiano ad oggetto atti ritenuti lesivi dell’autonomia degli enti locali trovino una soluzione giurisprudenziale da parte della Corte costituzionale: gli enti locali non hanno strumenti per difendere le proprie competenze nei confronti delle leggi statali e regionali. In assenza del ricorso diretto degli enti locali alla Corte costituzionale (la cui introduzione pure potrebbe porre problemi di altro genere, relativi alla funzionalità della Corte medesima), le questioni che attengono l’autonomia locale possono pervenire al giudice costituzionale in via incidentale oppure su ricorso dello Stato (contro leggi regionali) o delle regioni (contro leggi statali): una garanzia debole e quasi casuale, che rischia non solo di lasciare senza tutela giurisdizionale l’autonomia locale, ma anche di privare la Corte costituzionale della possibilità di svolgere in tale materia la sua funzione arbitrale e di custode della costituzione.
Pertanto, allo stato, un ruolo rilevante nella definizione dei rapporti tra i tre livelli di governo (e nella interpretazione del nuovo testo costituzionale) saranno chiamati a svolgere (almeno a livello di fonti secondarie) i giudici comuni e, ove previsti dagli statuti regionali, appositi organi regionali di garanzia.

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