1. Brevi cenni
 
Vorrei innanzitutto ringraziare L’ISSIRFA del cortese invito a partecipare alla tavola rotonda di oggi. E lo faccio senza retorica, ma sentitamente, non solo per la presenza di illustri relatori della vita pubblica e amministrativa del nostro paese ma anche perché sfogliando le pagine web dell’istituto ho notato che il logo adottato dell’Istituto è “La città ideale “di Laurana e ciò mi ha riportato indietro di un paio di lustri, quando, quale giovane ricercatore in politica economica all’Università di Urbino ebbi la fortuna di accompagnare per il Duomo di Urbino l’economista Joseph Stiglitz, da poco diventato premio nobel per l’economia. Correva l’anno 2001.
Mi chiesero in quella occasione di intrattenere, forse anche grazie alla facilità con la lingua inglese - ero da poco tornato da Londra per il conseguimento del PhD - per un paio d’ore il premio nobel, in attesa dell’inizio del convegno e così ci ritrovammo in grandissime stanze con stupendi dipinti tra cui proprio “La città ideale” di Laurana.
Pensavo alla conversazione che avrei avuto con il premio nobel e incominciai ad inerpicarmi in una tesi che legava il corso dell’economia Americana alla scelta interventista bellica dell’America in Afghanistan. Da poco era avvenuto l’11 Settembre. Mi fece parlare per un po’ poi, con una certa serietà, mi stroncò con una contro-riflessione sul fatto che non avevo pensato che in fondo Germania e Giappone non avevano, almeno dal dopoguerra ad oggi, usufruito di questo legame, eppure erano tra i paesi che più erano cresciuti economicamente.
A quel punto avevo perso argomenti. E ricordando la sua biografia pensai agli anni in cui era stato consigliere del Presidente Clinton al suo fallimento nell’impresa della riforma sanitaria. Provai ad approfondire la questione della mancata riforma. Mi guardò e mi disse che, in conclusione, dare a tutti una sanità di alto livello, con costanti aggiornamenti tecnologici, cosa a cui avrebbero avuto tutti diritto, era semplicemente molto costoso.
A parte il piacere del ricordo di quel pomeriggio, credo che quelle riflessioni rimandino ad un tema molto attuale e pertinente con il tema in discussione oggi. Il tema è quello delle scelte politiche di fondo che un paese non solo intende ma può anche sostenere.
Credo fermamente che il processo di federalismo avviato sia potenzialmente un potente strumento di trasformazione democratica del paese. Il processo implica infatti un riordino ed un coordinamento dei diversi livelli istituzionali di governo, di cui si sente la necessità, nonché efficientamento della spesa pubblica e una sua migliore rendicontazione, contabile e soprattutto sociale, la cosiddetta accountability.
Il punto quindi non è se invertire la rotta o se l’aspirazione federalista è prioritaria o meno tra i cittadini. Che i cittadini, al di là dei tecnicismi dei costi e fabbisogni standard, avvertano la necessità di una razionalizzione della spesa pubblica e di una maggiore responsabilità di coloro che li amministrano, è innegabile.
La questione credo invece che risieda nella modalità, nei tempi, nelle conseguenze attese ed inattese che l’attuazione del progetto federalista porta con sè, in conclusione nella sua concreta affermazione e sostenibilità.
Anche la riforma sanitaria americana era stata per molti anni attesa ma poi risultò semplicemente molto costosa.   
Se un rischio esiste che il processo federalista si possa arrestare, allora credo che risieda proprio nella sua versione più efficientista slegata dalla realtà di un paese in cui la sanità, lo stato sociale, l’istruzione, la previdenza hanno un costo rilevante a garanzia dei diritti di tutti, che non è comprimibile oltre un certo livello, almeno nel breve periodo e a contesto politico-istituzionale invariato.
 
2. Verso una vera autonomia finanziaria
 
Tra le conseguenze del processo di attuazione del federalismo fiscale gli studiosi dell’Istituto si interrogano, dubbiosi, se tale processo avrà conseguenze positive nel creare le condizioni per una vera autonomia finanziaria delle regioni.
Vorrei poter rispondere di si. Ma diverse sono le considerazioni che mi portano ad essere unitamente dubbioso, oltre all’esperienza diretta degli ultimi anni passati, in qualità di direttore generale al bilancio di una regione, il Lazio, che seconda per Pil in Italia, è ancora di fatto lontana dall’esser capace di una vera gestione autonoma a partire dalla sanità per finire ai rifiuti.
I motivi di preoccupazione di una vera autonomia finanziaria e più in generale delle difficile sostenibilità del processo federalista in corso, come anticipato, attengono prioritariamente alle scelte effettuate a monte del processo federalista.
Inizio da una riflessione di carattere più generale per poi proporre una riflessione più mirata e tecnica che affronti il rapporto tra federalismo e finanza.
 
2.1.   La crisi economica, la scelta dell’invarianza del saldi e un tempo di adeguamento stretto.
 
In generale lascia perplesso la scelta di aver di reso di fatto scollegato il processo federalista da altrettanti fondamentali cambiamenti legislativi avvenuti recentemente nel Paese. Nell’arco di pochi mesi si sono susseguite e non sempre coordinate tra loro, norme di fondamentale importanza per la vita dei cittadini e delle amministrazioni, dalla legge delega sul federalismo alla riforma della legge di contabilità, alla formulazione del nuovo Patto per la Salute oltre ad una serie di decreti legge e bozze di riforma, tra cui quella fiscale e quella di rango costituzionale del Senato delle Regioni e degli Enti Locali, che avrebbero dovuto trovare maggior collegamento le une con le altre.
Lascia però perplessi ancor di più lo sfasamento tra l’attuazione del federalismo e lo sforzo di risanamento dei conti della Pubblica Amministrazione da un alto e la crisi finanziaria mondiale, la crisi economica, industriale e occupazionale del paese e dell’Europa, dall’altro. 
E’ lecito chiedersi in questo mismatch tra le attese federaliste e la realtà di un paese in difficoltà, se non si stiano precorrendo i tempi e dove risieda l’equilibrio tra i benefici della riforma federale del paese e i costi sociali che questa riforma inevitabilmente provocherà.
Che succederà quando, definiti il livelli assistenziali standard non sanitari ma sociali, scopriremo che ci sono larghe parti del territorio nazionale, e non solo al sud, dove la dispersione scolastica è ben al di sopra della media dei più virtuosi e che il fondo per la non autosufficienza sarà ancora mercanteggiato, in sede di formazione di bilancio, durante le concertazioni con le parti sociali, al posto dei fondi per le RSA? Siamo sicuri che sul trasporto pubblico, il sociale, i rifiuti, la difesa del suolo, sapremo rispondere alla domanda di servizi, nel bel mezzo di una dura crisi sociale e occupazionale, con le sole risorse rimaste dopo il taglio degli ultimi anni, e le risorse derivanti dalla lotta agli sprechi di cui al processo federalista? Siamo sicuri che l’inavarianza dei saldi terrà?
Per come conoscono il bilancio della Regione Lazio, non credo ci riusciremo, anzi probabilmente correremo il rischio di aggravare il ciclo recessivo ormai in corso da molti anni. 
Con la legge 133/2010 il taglio di 4 miliardi nel solo 2011, pesa, sulla Regione, per circa il 10%. Sono 400 milioni nel 2011 e 450 nel 2012. Semplicemente non ci sono. E non si tratta di tagliare le società e gli enti inutili che valgono, tutte insieme comprese quelle inutili, in tutto 173 mln. E nemmeno di azzerare le spese del consiglio regionale e della giunta che insieme valgono circa 98 mln (si veda l'esercizio proposto nell'allegato 1). Semplicemente sono tagli sui servizi e non solo sugli sprechi. 
Il rischio che vedo è che il nuovo Washington Consensus della “efficienza” non calato nel contesto di una crisi con pochi precedenti potrebbe sfociare in una recessione economica ancora peggiore dell’attuale. A quel punto il tema del rapporto tra autonomia finanziaria e federalismo potrebbe perdere di centralità.
La Regione Lazio credo sia vicino a tale situazione stante i tagli severissimi già effettuati in bilancio e in sanità, quelli ulteriori in arrivo con una tassazione su imprese e cittadini oltre ai massimi livelli.
Già oggi le imprese e le cooperative del Lazio si stanno dirigendo verso altre regioni e le conseguenze fiscali e sociali non saranno a saldo zero.
Ma permettetemi di raccontare ancora cosa sta succedendo oggi nella Regione Lazio con qualche dettaglio in più:
Dal 2008, quando mi insediai come direttore generale al bilancio, si è proceduto secondo le linee di risanamento dettate dal Piano di Rientro della sanità. Nel 2007 infatti, a fronte dei 10 miliardi di debito fuori bilancio accumulati fino al 2005 e di un disavanzo strutturale che si aggirava intorno ai 2 miliardi l’anno, fu sottoscritto il Piano di Rientro. In soli tre anni sono cambiate molte cose. Prima la Giunta Marrazzo e poi la Giunta Polverini hanno proceduto a contrarre mutui per pagare il debito fuori bilancio con gravosi rate annuali per complessivi a 600 mln di euro, a tagliare di netto le spese regionali non solo in sanità, a bloccare le assunzioni in sanità, a inserire i ticket sui farmaci e sulla specialistica, a riconvertire tutte le strutture private per acuti sotto i 90 posti letto e oggi, è su tutti i giornali, a tagliare 3000 mila posti letto tra pubblico e privato, a chiudere ben 27 piccoli ospedali pubblici soprattutto presenti in provincia. Il disavanzo rimane oltre il miliardo per il 2010 e anche per il 2011, con le aliquote che, già ai massimi livelli, si alzeranno ancora di 0,15 punti per l’irap e di 0,30 punti per l’addizionale Irpef. Si tratta di oltre 1,3 miliardi drenati da imprese e cittadini per coprire il disavanzo sanitario. Una distorsione allocativa di dimensioni enormi. Su questo impianto si abbatte la scure del governo che persegue, non a torto, un progetto di risanamento dei conti pubblici in seno ad una fase speculativa, non senza responsabilità, della finanza internazionale.
In sintesi, grandi tagli alla spesa pubblica regionale per via dei tagli del governo, forzato rientro dal deficit sanitario in tempi strettissimi con costi enormi per imprese e cittadini con una distorsione allocativa impressionate per quantità e qualità, sanità inefficace per ancora diversi anni e federalismo alle porte con una deadline per il 2014 per comuni e province per diventare autonomi finanziariamente.
La domanda che mi pongo, non sensa qualche serio dubbio, è se saremo davvero capaci di arrivare al 2014.
 
2.2    Federalismo fiscale e finanza
 
In questo contesto si inseriscono una serie di riflessioni sulla modalità di attuazione del processo federalista. In particolare mi vorrei soffermare sui rapporti tra federalismo fiscale e finanza.
La tesi, è che l'attuazione del federalismo si innesta su una impalcatura finanziaria che rimane sostanzialmente invariata, sottovalutando in questo modo una serie di elementi che potrebbero rendere vulnerabile il processo stesso. Il rischio vero è che la finanza possa vincolare, frenare o velocizzare l’autonomia finanziaria regionale nonché l’attuazione del federalismo stesso fino al punto di intercettare e influenzare gli indirizzi più significativi di sviluppo dell’economia e del paese.
Ma andiamo per gradi.
Tra gli elementi rilevanti capaci di influenzare l’affermazione di una rafforzata autonomia finanziaria regionale ci sono certamente gli aspetti direttamente finanziari o con conseguenze finanziarie rilevanti. Perché, sia chiaro, sto parlando principalmente di cassa. 
Mi riferisco in particolare alla scelta non felice di mantenere invariate:
1.   le regole di copertura e di ripartizione del fondo sanitario;
2.   le regole di copertura dei disavanzi sanitari;
3.   le regole del patto di stabilità;
4.   le regole del mondo della finanza;
5.   le regole dell'offerta.
 
Sul tempo di trasformazione e di cambiamento poi permettetemi una parentesi.
Le trasformazioni le fanno le persone. Nel caso del pubblico le fanno gli impiegati, i quadri, i dirigenti della Pubblica Amministrazione. Quelli bravi certo e sono in tanti. Purtroppo, quando arrivai in Regione Lazio ne avevano appena perequati 524 cioè promossi dirigenti sul campo, senza bando pubblico e, in molti casi, senza laurea. Nonostante tanta virtù, l’ufficio delle entrate – e, badate bene, non esisteva una direzione come in Veneto ma solo un ufficio – era allo sbando come pure la ragioneria ed il bilancio. E non crediate che gli uffici delle entrate dei comuni stiano molto meglio. In molti di essi - si pensi, solo a titolo di esempio, a Nettuno, Pomezia, Aprilia, Ardea - il servizio di accertamento e riscossione è stato o è ancora esternalizzato, cioè è in mano a ditte esterne con l’effetto immediato della perdita totale di controllo e di programmazione economica e finanziaria del comune. 
E’ stato un lungo e faticoso lavoro quello di ricreare un senso alto della pubblica amministrazione che sapesse confrontarsi con lo Stato, con le altre regioni, accompagnare i comuni, affrontare il patto di stabilità e la scommessa federalista. Ed è molto positiva, oggi, la presenza della SPPA tra i relatori, perché è solo ricostruendo una classe dirigente e un senso profondo della Pubblica Amministrazione che questo paese potrà affrontare con successo qualunque trasformazione. 
 
Riprendiamo per ordine i temi elencati.
 
Le regole di finanziamento e di riparto del fondo sanitario
 
Un breve accenno su come funziona il sistema di finanziamento del fondo sanitario e dei suoi effetti sul sistema dell’autonomia finanziaria regionale.
IL fondo sanitario nazionale è finanziato con l’Irap, l’addizionale all’Irpef e con compartecipazione all’IVA che viene conteggiata “a tappo” rispetto ai fabbisogni indicati nella delibera CIPE annuale rispetto alla stima delle entrate Irap e dell’addizionale all’Irpef, anch’essa contenuta nella delibera CIPE.
Fino al 2008 vigeva un sistema di trasferimento di fondi, mensilmente, dallo Stato alle regioni.
I conteggi della fiscalità erano tali che i fondi di competenza erano disponibili con almeno due anni di distanza. Lo Stato garantiva i trasferimenti di cassa mensili pari al deliberato CIPE al netto di un 3% trattenuto per la verifica degli adempimenti. I conteggi e i relativi riallineamenti di competenza e di cassa venivano fatti con due o tre anni di distanza. Nel caso la fiscalità fosse risultata superiore alla stima di riparto in sede CIPE, lo Stato tratteneva la parte in eccedenza che andava a confluire nel fondo di garanzia mentre nel caso la stima CIPE fosse stata per difetto, lo Stato interveniva con la compartecipazione IVA salvo poi recuperarla a fine anno sui trasferimenti regionali per poi finalmente reintegrare la regione con lo stesso fondo di garanzia, ma appunto con almeno due anni di distanza.
Purtroppo anche il gettito di cui alle manovre fiscali regionali aggiuntive entravano a far parte di questo meccanismo.
Era certamente un sistema complicato e che strideva con il processo federalista intrapreso dal paese. Dal 1 gennaio 2009 infatti il sistema cambia e le regioni incominciano ad incassare direttamente sui conti d'ordinanza l’Irap e l’addizionale all’Irpef oltre che una quota fissa di compartecipazione Iva decisa in sede di riparto CIPE.
Il sistema cambia, da trasferimenti a incassi diretti, ma rimane invariato il principio per il quale che nel caso la fiscalità sia superiore alla stima CIPE lo Stato procede a trattenere le somme, mentre nel caso sia inferiore interviene con una anticipazione da recuperare a fine anno sulle disponibilità regionali, per poi reintegrare la regione con il fondo di garanzia, a conteggi fatti, sempre con due anni di distanza. In sintesi il nuovo sistema garantisce, nelle fasi espansive, in maniera molto positiva rispetto al passato, che si incassi sia il Fondo Sanitario Regionale (FSR) che la manovra fiscale. A contrario nelle fasi recessive, quale quella del 2009 e ancora il 2010, la manovra regionale viene utilizzata per sostenere le spese del FSR in attesa del recupero con il Fondo di garanzia.
Il sistema di finanziamento del fondo sanitario viene quindi modificato con notevoli miglioramenti – potevamo controllare direttamente e mensilmente gli incassi di Irap, pubblica e privata nonché quelli legati all’addizionale all’Irpef - pur rimanendo in piedi il problema finanziario di fondo legato al recupero prima della compartecipazione Iva prima e poi delle anticipazioni sulle disponibilità regionali che sarebbero state reintegrate dal fondo di garanzia con notevoli ritardi. Quando alla fine del 2009 lo Stato recuperò oltre 1 miliardo di anticipazioni sulla manovra regionale capimmo la distorsione del sistema. La stima fatta in sede CIPE era stata per la Regione Lazio e non solo, sopravvalutata e a quel punto chiedemmo con forza che i recuperi delle anticipazioni dovessero avvenire al netto delle manovre regionali. Ottenemmo la modifica con l'art. 77 quater del decreto legge 112/08, convertito con modificazioni nella Legge 133/08.
Per avere un ordine di idee di quello che rappresentava per la Regione la costante sterilizzazione di cassa delle manovre regionali, pari a circa 1 miliardo di euro l’anno - per il Lazio pari ad 1 punto percentuale in più dell’Irap (650 milioni circa) e di 0,5 punti in più di addizionale all’Irpef (350 milioni circa) – destinata a pagare le fatture dei fornitori di cui all’anno precedente, si tenga conto che i costi finanziari legati all’anticipazione delle tesorerie delle Asl nonché della tesoreria regionale ammontavano ormai a diverse decine di milioni di euro. Chiudemmo il 2009 con 44 milioni di euro di oneri finanziari per utilizzo dell’anticipazione di tesoreria in attesa che lo Stato attivasse il fondo di garanzia. La legge 133/2010 ha raccolto la modifica proposta, il che significherà che alla fine dell’anno 2010 la manovra regionale del Lazio, per la prima volta e non solo per il Lazio, sarà utilizzabile interamente per pagare i fornitori 2009.
In realtà, la norma che è stata pubblicata presenta qualche difformità da quella proposta dalle Regioni. La proposta regionale prevedeva, infatti, oltre al divieto di utilizzo da parte dello Stato dei fondi regionali destinati per legge ai fornitori di cui al disavanzo sanitario dell’anno precedente, anche il fatto che le anticipazioni, che lo Stato eventualmente eroga durante l’anno nel caso la fiscalità fosse insufficiente a coprire il Fondo sanitario, vengano erogate direttamente al netto delle manovre. Questo, “in soldoni”, avrebbe significato per le Regioni disporre già da Luglio 2010 - quando le imprese pagavano l'Irap 2010 ed il saldo Irap 2009, per diverse centinaia di milioni di euro - di una parte consistente della loro manovra per pagare fornitori che aspettavano, magari, da gennaio o febbraio 2009.
Tale richiesta, a mio avviso da reiterare con forza, eviterebbe che durante l’anno il finanziamento del fondo sanitario regionale avvenisse ancora attraverso l’uso distorto della manovra regionale, rafforzando per questa via l’autonomia finanziaria delle regioni, che oggi, ma solo in parte e grazie ad un serrato confronto su un tema apparentemente solo tecnico, non dovrà scontare più tutti gli oneri finanziari fin qui sostenuti.
C’è inoltre, nell’ambito del finanziamento del fondo sanitario una altra importante questione: quella legata alle modalità del suo riparto. Tale questione attiene meno direttamente con la cassa e gli aspetti finanziari regionali pur avendo un grandissimo peso nella determinazione degli equilibri più generali di bilancio regionale. Il riparto proposto nell’ultimo schema di decreto delegato, in linea con quanto precedentemente effettuato, ripropone un errore di fondo nella redistribuzione delle risorse sul territorio. E’ una questione ampia e complicata che attiene agli equilibri politico-istituzionali nel paese e che esulano da questa trattazione. Quello che rileva qui, invece, è la possibilità di modificare il semplice parametro usato per la definizione dei fabbisogni standard della popolazione pesata per l’età, preferendo parametri che sappiano meglio pesare le differenze regionali in tema di mortalità, soprattutto infantile, di condizioni socio economiche, di popolazione non residente o clandestina, etc. Tale modifica potrebbe favorire un oggettiva redistribuzione tra le regioni a favore di quelle del centro-sud, del sud e delle isole rendendo leggittimamente più sostenibile il percorso di rientro dagli strutturali disavanzi regionali e creando una situazione di autonomia finanziaria più vera rispetto a quella indotta dalla sola necessitàdi copertura dei disavanzi stessi.
 
Le regole di copertura dei disavanzi sanitari
 
La situazione esplosiva di alcune Regioni a causa del disavanzo prodotto dalla gestione della Sanità induce a fare delle riflessioni circa le modalità che l’impalcatura normativa vigente ha delineato per la sua copertura.
I disavanzi sanitari sono il differenziale tra costi e ricavi della sanità. Ora il disavanzo può derivare: da una gestione inefficiente; da una sottostima del fabbisogno o dalla combinazione dei due fattori;
1. Il fabbisogno sanitario è finanziato, come ho già detto, dal Fondo Sanitario Nazionale ripartito tra le Regioni dal CIPE;
2. Il disavanzo è finanziato con fondi propri regionali che, se non esistono, vengono reperiti con una manovra fiscale che colpisce l’Irap privata e l’addizionale regionale all’Irpef;
3. Il disavanzo che viene registrato alla fine di un esercizio viene finanziato dalla manovra fiscale dell’anno successivo, che entrerà nelle casse della Regione: per la parte relativa all’Irap privata alla fine del medesimo anno; per la parte relativa all’addizionale regionale all’Irpef alla fine dell’anno successivo, quindi due esercizi dopo il manifestarsi del disavanzo;
4. Il ritardo strutturale per il pagamento delle fatture che hanno provocato il disavanzo è dunque di almeno 1-2 anni;
5. Questo ritardo ha un costo di interessi per la pubblica amministrazione, ma anche per i fornitori che si fanno anticipare i fondi dalle banche. Queste ultime, infatti, prendono anticipatamente gli interessi per la cessione dei crediti da parte dei fornitori e successivamente da parte delle regioni a seguito dei ritardi rispetto alle scadenze prestabilite.
Questo quadro è aggravato dal disallineamento di cassa di cui al finanziamento del fondo sanitario, generato dalla normativa vigente, sopra evidenziato. Il risultato, come si è detto, è che, ad esempio, la manovra 2008 incassata nel 2009 nel Lazio, pari a 873 milioni, è stata trattenuta dallo Stato per recuperare le anticipazioni date nel corso del 2009, con buona pace dei fornitori che aspettano di essere pagati. Con la manovra 2008 dovevano essere pagati i fornitori che avevano provocato il disavanzo 2007, i quali potranno essere pagati soltanto dopo che lo Stato avrà erogato il fondo di garanzia che compensa il minor gettito fiscale reale rispetto alla delibera CIPE di attribuzione del fondo sanitario regionale. Tale erogazione non ha tempi certi, potrebbe avvenire nel 2010 con tre anni di ritardo rispetto alle fatture ricevute per servizi prestati nel 2007, oppure addirittura nel 2011.
Gli unici a guadagnare da questo sistema sono le banche, mentre bisognerebbe trovare soluzioni che non aggravino la difficile situazione finanziaria delle imprese e delle Regioni.
Bisogna prendere atto che la scelta di finanziare il disavanzo sanitario con la manovra fiscale dell’anno seguente non funziona, in particolare la scelta dell’addizionale regionale all’Irpef appare totalmente sbagliata. Questa, infatti, se tutto va bene, si incassa due anni dopo l’insorgere del credito, mentre se va male, come nell’esempio della regione Lazio, si incassa dopo tre o quattro anni.
In un'ottica più di cassa che di competenza, credo che la scelta di costruire una autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali basata sempre più sull'uso dell'addizionale all'Irpef vada maggiormente ponderata perché il rischio è quello di scaricare sui livelli di governo territoriali oneri finanziari rilevanti, sicuramente non sostenibili. 
Cè infine, in questo ambito, una questione temporale che merita di essere quantomeno menzionata. Si è parlato della presenza di piani di rientro regionali, e sono molte le regioni coinvolte nel nostro paese, a fronte di disavanzi sanitari più o meno rilevanti. Il punto che non riesco a capire è come si possa aver previsto un rientro nei parametri di posti letto per abitanti differenziato per regioni, in cui quelle sottoposte al piano hanno un periodo limitato al 31/12/2010 e quelle non inserite all'interno di un piano hanno invece un periodo che scade il 31/12/2012. Anche in questo caso credo vada capito meglio il sentiero di rientro da perseguire e qual'è il tempo necessario per percorrerlo al fine di evitare che, complessivamente i costi siano superiori ai benefici. Riflettendo sul caso della Regione Lazio, si possono tagliare 3000 posti letto nella lungadegenza e nella riabilitazione ma se non si sono aperti contemporaneamente i posti letto nelle RSA o in altre strutture residenziali o territoriali si rischia di bloccare i pronto soccorsi, i reparti di medicina, la sanità nel suo complesso.
 
Le regole del patto di stabilità
 
La riflessione che vorrei sottoporre all'attenzione non è quella relativa al rapporto tra i vincoli stretti imposti in termini di patto di stabilità e una vera autonomia finanziaria delle regioni. A me sembra infatti che la domanda, vestita con abiti differenti, quelli della difficoltà di procedere ad assetti politico-istituzionali invariati, con il progetto federalista nel mezzo di una violenta crisi economica e occupazionale, abbia già avuto una sua risposta nelle pagine precedenti.
Mi concentrerò invece brevemente su un aspetto che spesso sfugge ai non addetti ai lavori e che considero fondamentale per una reale costruzione di autonomia finanziaria regionale.
Molti dei presenti sanno che il calcolo di cui ai vincoli del patto di stabilità regionale fanno riferimento ad un unico anno base (e non alla media di tre o cinque anni che avrebbe evitato l’erraticità dei calcoli): l’anno 2005.
Prima di raccontarvi in sintesi cosa rappresenta il 2005 per la regione Lazio, vorrei farvi soffermare un istante sulla differente natura del vincolo di cassa e del vincolo di competenza del patto di stabilità. Sono tecnicamente, finanziariamente e politicamente due vincoli fortemente diversi. 
Seguite l'esempio. L’anno 2005 è purtroppo per la Regione Lazio il peggiore sia per cassa che per competenza. In quell’anno infatti i pagamenti ai fini del patto non sono stati superiori ai 2,5 mld sia perché non fu incassato alcun finanziamento per mutui, sia perché lo Stato non trasferì molti fondi alla Regione (anzi, quasi 1 mld in meno rispetto al 2004). Per non tacere sulle difficoltà ormai evidenti della Regione, già in forte disavanzo, nel far fronte ai pagamenti dei fornitori della sanità, difficoltà che costrinsero a drenare risorse dagli altri settori considerati nel patto a favore dei pagamenti verso sanità che era ed è, invece, fuori patto. Con ciò, essendo il 2005 l’anno base per gli anni avvenire, il vincolo di cassa per il Lazio è stato fermo a 2,5 mld fino ad oggi.
Due considerazioni: la prima riguarda il fatto che solo per le spese per il personale, rate di mutuo, “acqua, luce e gas” alla Regione Lazio serve circa 1,8 mld l’anno che sommato ai circa 700 mln di trasferimenti statali esaurirebbero completamente il vincolo di patto di cassa. Il che significherebbe che per tutta la politica regionale in termini di formazione, sociale, trasporto, non si potrebbe procedere a pagamento alcuno. La seconda riguarda il fatto che sempre nel 2005, anno elettorale, tutto lo stanziamento possibile pari a circa 5,5 mld (escluso sanità) era stato invece impegnato. Insomma, la Regione poteva impegnare oltre 5 mld l’anno per beni e servizi in favore di imprese e cittadini sapendo di poterne pagare solo 2,5.
La Direzione, nel 2008, fu investita dalla politica del difficile compito di verificare possibili soluzioni normative con i dirigenti della Ragioneria Generale dello Stato. Soluzioni che potessero contribuire al superamento della impasse nella quale ci si era venuti a trovare. Tale attività si tradusse, ovviamente, in una politica di riduzione della spesa e, contemporaneamente, nella costruzione di un emendamento - poi approvato con la legge 102/09 di conversione del d.l. 78/09 - che ha consentito a tutte le Regioni di pagare fuori patto i residui passivi correnti a favore degli enti locali. Tale modifica normativa ha avuto per la Regione Lazio un valore di € 1,2 mld di euro che in altro modo non si sarebbero mai potuti pagare.
Credo che sia prioritario rivedere la metodologia di calcolo alla base del patto di stabilità, stante il fatto che anche per altre regioni di Italia, e non solo quelle del sud esiste un differenziale rilevante tra il potenziale impegnabile ed il potenziale pagabile, proprio a fronte della semplice casualità della scelta di un solo anno quale riferimento per il raggiungimento degli obiettivi del patto di stabilità. Tale modifica permetterebbe di rendere più stabile l'autonomia finanziaria regionale rispetto alla alternativa di ricorrere a continui aggiustamenti nel corso delle manovre finanziarie e di bilancio dello Stato.
 
Le regole del mondo della finanza
 
Il problema di fondo è che il paese spende troppo rispetto a quello che si può permettere, stante anche l'attuale sistema fiscale che insiste pressoché solo sulla parte attiva della società.
Quando applichiamo questa massima al processo federalista in corso, succede che la finanza, inevitabilmente, si troverà nuovamente a riempire il vuoto lasciato dall'economia, incapace di gestire i forti disavanzi strutturali e gli ingenti debiti presenti in tutti i livelli della Pubblica Amministrazione.
In sanità esiste il piano di rientro, uno strumento per riportare in equilibrio i territori non virtuosi. Per il paese in generale esiste la legge delega 42/09, che richiederà nel periodo di 5 anni, di riprendere il corso di un’efficienza perduta. In questi anni i territori inefficienti verranno agevolati da un percorso perequativo.
Ma mano a mano che si ridurrà la spesa locale, regionale e statale e si manterranno forti gli squilibri economici e sociali nel paese cosa permetterà di rendere credibile il percorso di efficienza, trasparenza e accountability iniziato? Perché gli effetti reali del processo di risanamento dei conti troverà forti resistenze nei territori. Nonostante la forte richiesta di riduzione della spesa, sono convinto che a livello territoriale si tenterà di mantenere i livelli raggiunti, anche aumentando il ricorso alla finanza attraverso prestiti bancari o, più semplicemente, anticipazioni di tesoreria.
E qui viene il punto. Una pubblica amministrazione, apparentemente in equilibrio, che spende 100 e che incassa 100, rispetto ai quali il 35% dell’incasso è preso a prestito e il 45% della spesa è relativa alle rate di ammortamento di cui ai prestiti già presi, può chiedere ai propri territori di stare dentro tale “disequilibrio" semplicemente riqualificando la spesa pubblica?
Se vogliamo procedere in questo percorso dovremo saper controllare al meglio anche gli aspetti finanziari del processo.
C’è stata una fase nel nostro paese in cui la maggiore autonomia finanziaria di regioni e comuni ha fatto si che - sotto le pressioni di una domanda crescente, spesso non del tutto legittima, e di una classe dirigente improvvisata, spesso non del tutto legittimata, e con una finanza mondiale senza regole - si avviasse un periodo di finanza creativa senza precedenti in cui i termini economici diventavano finanziari. Rate bassissime all’inizio del periodo ma poi molto elevate, upfront di swap che davano ricavi, poi rispalmati negli anni successivi, rate che duravano 40 anni, ospedali venduti e ricomprati dalle regioni con soldi di signore anziane del Wisconsin che trovavano per la prima volta nel loro portfolio un pezzo di carta chiamato “disavanzo regionale”, portfolio che pensavano si chiamasse “bilanciato”.
C'è stata e ancora c'è una fase in cui la finanza creava l’economia.
La finanza ha permesso alla Regione Lazio di vendere gli ospedali. Nessuno si è preoccupato di vedere se la Regione poteva permettersi di prendere a prestito, con la cartolarizzazione sugli stessi, ben 7 mld di euro, se poteva ripagarli, tanto era stupefacente tecnicamente l’operazione e tanta era la necessità di pagare migliaia di fornitori per tale gigantesco importo. In altre circostanze e in altri luoghi si sarebbe detto che si stava rischiando di far saltare il banco. Di fatto è saltato comunque, ma con qualche anno di distanza e non solo nel Lazio ma anche in molte altre regioni italiane: Campania, Puglia, Sicilia, Calabria etc.
Oggi dobbiamo tagliare gli ospedali, ridurli, chiuderli. Spendiamo troppo. Con il federalismo si è ritornati finalmente a parlare di economia. Se non vogliamo che si spenga questa fase, è necessario premunirci ed interrogarci se e a quali condizioni il sistema finanziario opterà per sostenere il nuovo processo di federalismo in corso a fronte delle difficoltà che i territori stanno incontrando nel percorrere questa strada.
 
Le regole dell'offerta
 
L’idea di approcciare una riforma socio economica nel Paese, con particolare attenzione agli sprechi, l’inefficienza, l’immobilismo e la scarsa riconducibilità delle spese della PA a specifici obiettivi, ha trovato una sintesi tecnico-politica nel progetto di una Italia federalista. Rinviando per brevità ad un eventuale successivo approfondimento, pare necessario ritornare su uno dei tratti più distintivi del processo federalista in corso: l’approccio dal lato dell’offerta. Il tentativo ambizioso messo in campo con la legge 42/2009, è di determinare condizioni di offerta dei servizi sanitari, sociali, di mobilità, di istruzione, etc. più efficienti. La parola d’ordine, in un contesto di risorse date (a somma zero, si direbbe) e di maggiore responsabilizzazione della classe dirigente rispetto agli obiettivi, è “efficienza”.
In questo quadro, manca invece un approccio dal lato della domanda che verifichi l'efficacia reale della spesa pubblica rispetto a quella attesa.
Per le regioni inefficienti avremo uno periodo transitorio di perequazione (all’80%) che si concluderà in 5 anni, necessari per effettuare lo spending review e, nel caso, aumentare la pressione fiscale.
Le regioni efficienti invece potranno nel frattempo alzare l’asticella dell’efficacia, incominciando a guardare più attentamente ai bisogni, alla qualità del servizio, al soddisfacimento dell’utente. Per loro è già iniziata la fase di ricerca della massima “efficacia della spesa”.
Gli obiettivi di servizio, in questo contesto potrebbero giocare un ruolo di mitigatore nazionale. Si tratta di target vincolanti in quattro macro aree - risorse idriche, istruzione, rifiuti, sociale - su cui si concentra uno sforzo economico dello Stato con risorse aggiuntive pari a 3 miliardi rispetto ai trasferimenti ordinari e/o definiti nelle sedi di riparto, che dovrebbero costituire strumento di perequazione territoriale tra il Nord ed il Sud d’Italia.
Introducendo elementi di efficacia (migliorare i servizi) in sistemi che si trovano a cimentarsi con il problema dell’efficienza (ridurre il costo degli attuali servizi), gli obiettivi di servizio potrebbe rappresentare un modo per salvaguardare processi di “sviluppo convergente” che in una fase come questa potrebbero invece andare del tutto dispersi.
Sono progetti paralleli, l’uno il federalista che abbassa il costo dei servizi resi, l’altro, gli obiettivi di servizio, che introduce nuovi servizi per il territorio (spesso non nuovi per il paese), con risorse aggiuntive. Gli “obiettivi di servizio” indirizzano la politica del mezzogiorno su un percorso di “tenuta” nel mentre i governi regionali e locali sono costretti ad adoperarsi in operazioni di riduzione drastica della spesa, rese inevitabili dal federalismo nella sua ottica di offerta.
In sostanza, ben calibrata, l’operazione degli obiettivi di servizio potrebbe essere la carta per indirizzare risorse aggiuntive laddove i livelli minimi non sarebbero mai raggiunti e il peso della trasformazione federale fosse troppo gravoso, nel rispetto ed in coerenza con l'autonomia finanziaria regionale.
Stessa logica dovrebbe seguire la politica di riequilibrio sostenuta con le risorse FAS, con particolare attenzione al processo di perequazione infrastrutturale. In questa fase, particolarmente gravosa per l’equilibrio della finanza pubblica, pare difficile recuperare il senso delle analisi che legano l’assenza degli interventi PON sulle regioni non convergenza con lo scarso raggiungimento dei target degli obiettivi di servizio. Potrebbe valere la pena di comunicare, invece, l’esigenza di sostenere interventi aggiuntivi (anche nella forma premiale) quale antidoto al possibile fallimento di una ricetta di riforma che stimola cambiamenti unicamente nella direzione dell’efficienza. In sintesi il metodo degli Obiettivi di Servizio potrebbe essere funzionale ad una rilettura del processo federalista, recuperando anche un approccio “dal lato della domanda”.
 
3. Conclusioni
 
Nella relazione ho tentato di portare argomentazioni alla tesi secondo la quale il processo federalista in corso nel paese, pur necessario, rischia di non trovare terreno fertile per sua stessa non sostenibilità.
La riflessione è di carattere tecnico ed è legata alla sottovalutazione di effetti esogeni ed endogeni al processo.
Più intuitive e legate all'esperienza diretta fatta nel corso degli anni quale amministratore della res pubblica, sono le ragioni sottostanti la preoccupazione che ci avvicini alla fatidica data di avvio dell'autonomia finanziaria regionale del tutto impreparati, per non aver saputo o potuto mantenere l'equilibrio economico-finanziario nonché la stabilità occupazionale e sociale in questi anni.
Senza ripetermi, il dubbio è che “non ci si arrivi” al 2014 e che sia necessario rivedere i tempi di perequazione, l'invarianza del saldo pubblico, il criterio di riparto del fondo sanitario, anche e non solo per evitare che la crisi economico, finanziaria e sociale, forte nel paese e in Europa, possa aggravarsi, specie in alcuni territori.
Più tecniche invece sono le ragioni che mi spingono a proporre una riflessione urgente sull'invarianza, nonostante l'avvio di una riforma così strutturale quale il federalismo, delle regole che sottendono alla finanza, ai trasferimenti di cassa dallo Stato alle regioni, al finanziamento del fondo sanitario, alla copertura del disavanzo sanitario, al calcolo del patto di stabilità basato su un unico anno base, alla visione unicamente di offerta del processo federalista.
Ci sono delle incoerenze che stridono con la speranza riposta in un processo di riforma in senso democratico del paese di straordinaria portata, che vanno affrontate.
Come valutare tecnicamente che il riparto delle risorse di cui al fondo sanitario nazionale avvenga ancora su parametri che non rispecchiano fino in fondo il reale fabbisogno sanitario del paese, ma piuttosto la necessità di favorire un qualche equilibrio complessivo delle parti?
Come non percepire negativamente che i ritardi nei trasferimenti di cassa dallo Stato alle regioni in tutti i settori, sono un segnale di gravissima situazione economico finanziaria generale a cui tutti sono chiamanti a rispondere, ciascun livello istituzionale e di governo per competenza e capacità?
Come non preoccuparsi della scelta di fondo di proseguire nella strada dell'Irap e soprattutto dell'addizionale all'Irpef quali imposte con cui rendere finanziariamente autonome le regioni, sapendo, dall'esperienza fallimentare fatta in sanità, che la cassa è molto distante nel tempo dalla competenza per queste imposte?
Come non considerare negativo, in conclusione, il probabile trasferimento, per via del federalismo fiscale, di massicci oneri finanziari dal centro ai livelli di governo periferici, stante l'invarianza delle regole che sottendono alla finanza ed al patto di stabilità?
Questa sono le domande conclusive a cui ho provato a dare risposta, portando ad evidenza il caso della Regione Lazio dal 2005 ad oggi.
Sarebbe necessario continuare a ragionare sulla forza che il sistema finanziario e bancario potrebbe esercitare nel dirigere, frenare o accelerare il processo federalista. Sarebbe quanto mai sgradevole sapere che, per la necessità del sistema finanziario, potenzialmente “stressato"" dagli effetti diretti ed indiretti del processo federalista in corso, debbano essere riviste al rialzo le condizioni finanziarie applicate alle imprese, ai cittadini, ai comuni, alle regioni. L'efficientamento nella spesa non è di per se garanzia di solvibilità, soprattutto se non siamo convinti della piena sua sostenibilità.

Allegato 1
 
Tab. 1 Previsione degli effetti dei tagli di cui alla legge 133/2010 sul bilancio previsionale della
Regione Lazio 2010-12 (23,9 mld di euro al netto delle poste tecniche di 1930 mln). Milioni di euro 
Voci di bilancio per ambito
Totale risorse stanziate
Totale risorse in conto capitale stanziate
Totale risorse correnti stanziate
Comprimibili
Disavanzo per investimenti
3223
3223
0
No, sono impegni già presi ed obbligazioni assunte
Programmi comunitari e rete delle società per lo sviluppo
1850
1460
390
No, sono fondi comunitari o nazionali e relativi cofinanziamenti. Si potrebbe intervenire con riduzioni del 20% sulla quota destinate alle società (73 mln di parte corrente) = 14 mln
Attività produttive, commerciali e turistiche
285
167
118
Pensabile di ridurre linearmente del 10% = 28 mln 
Infrastrutture e trasporti
1376
264
1112
Incomprimibile a meno di non tagliare sul tpl che è invece fortemente sottodimensionato rispetto alla domanda
Ambiente energia, territorio e casa
779
560
219
Pensabile di ridurre linearmente del 10%= 79 mln
Istruzione, formazione e lavoro
301
100
201
Pensabile di ridurre linearmente del 10%= 30 mln
Cultura, sport e tempo libero
40
6
34
Pensabile di ridurre linearmente del 10%= 4 mln
Sanità e servizi sociali
13894
671
13223
Incomprimibile a meno di non fare di più del piano di rientro, già difficile da conseguire
Organi e funzioni istituzionali
202
22
180
Pensabile di ridurre linearmente del 10% = 20 mln
Risorse umane e strumentali
441
38
403
Incomprimibile a meno di non licenziare dipendenti pubblici
Risorse finanziarie e poste tecniche
1556
420
1136
Incomprimibile: rate di mutui, tasse, perenzione, copertura disavanzo sanitario
Totale
23947
6931
17016
175 mln
 
Fonte: Elaborazioni su bilancio regionale di previsione 2010-2012, Regione Lazio, disponibile on line:
http://www.regione.lazio.it/web2/contents/bil_prog/dettaglio.php?vmf=8
 
 
Con alcune opportune spiegazioni, che i dati da soli non riescono a fornire, si può concludere che sarebbe impossibile calare un taglio di 400 mln nel bilancio 2011 della Regione Lazio. A meno di non tagliare i servizi.
Tra le considerazioni, una su tutte, riguarda il fatto che i 175 mln di eventuali risparmi riportati nel totale, potrebbero essere molto sovrastimati essendo calcolati sull’intera cifra messa in bilancio, sia corrente che capitale. Il punto è che i trasferimenti dello stato sono sostanzialmente legati alla spesa corrente perché sostengono i servizi indispensabili dei trasporti, del sociale, della politica abitativa.
Il taglio di 175 mln inoltre, nell'esempio, si concentrerebbe, tra le altre, in settori che già sono stati per anni sottoposti a ripetuti tagli, con particolare riferimento a cultura e istruzione, che sono le basi per uno sviluppo sano, creativo, durevole di una società moderna.
L’idea che tagliando le regioni ed i comuni si operi soltanto sulla fetta degli sprechi non corrisponde necessariamente al vero. Tagliando in modo indiscriminato, si taglierebbero inevitabilmente anche i servizi.

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