1. Clausola di democraticità e autonomia statutaria dei partiti

2. Il difficile percorso di positivizzazione del valore della democraticità

2.1. Legittimazione delle decisioni e diversa natura pubblica delle risorse e degli interessi

2.2. La ricerca della democraticità e la transizione dalla legittimazione sociale alla legittimazione politica

2.2.1. Autonomia della politica e crisi della sua legittimazione sociale. Berlinguer e la "questione morale"

2.2.2. Primato della politica, responsabilità dei partiti e controllo delle risorse pubbliche. Craxi e il problema morale del finanziamento della politica

2.3. Cittadinanza attiva e istituzioni della democrazia repubblicana

2.4. I limiti delle letture giuridiche della crisi della democrazia dei partiti

3. I fondamenti della democraticità repubblicana: pari dignità e partecipazione pluralista

3.1. Democraticità e rapporti esterni all’associazione

3.1.1. Associazioni e istituzioni pubbliche elettive. Democraticità come presupposto di partecipazione ai procedimenti pubblici. Libertà organizzativa

3.1.1.1. Libertà di forma

3.1.1.1.2. Libertà di tipo

3.1.1.2. Libertà di autodeterminazione e ordine pubblico democratico

3.1.2. Associazioni e sistema di relazioni pubbliche

3.1.3. Democraticità e regime associativo

3.1.3.1. Democraticità nelle relazioni fra associazioni

3.1.3.1.1. Pluralismo

3.1.3.1.1.1. Libertà di costituzione

3.1.3.1.1.2. Libertà di «concorrenza» e regime della comunicazione simbolica

3.1.3.1.2. Sussidiarietà

3.1.3.1.2.1. La ripartizione delle competenze sociali

3.1.3.2. Democraticità nelle relazioni con l’esterno

3.1.3.2.1. Trasparenza

3.1.3.2.1.1. Divieto di segretezza

3.1.3.2.1.2. Obbligo di informazioni essenziali

3.1.3.2.2. Accessibilità

3.1.3.2.2.1. Divieto di preclusioni in violazione dei valori costituzionali

3.1.3.2.2.2. Regime di verificabilità del diniego

3.2. Democraticità e regime dei rapporti interni all’associazione

3.2.1. Democraticità nelle relazioni fra associati

3.2.1.1. Pari dignità

3.2.1.2. Diritto di accesso all’informazione

3.2.2. Democraticità nelle relazioni fra associazione e associati

3.2.2.1. Principio maggioritario

3.2.2.1.1. Ragionevolezza del vincolo maggioritario

3.2.2.1.2. Disponibilità dello scopo associativo

4. Clausola generale di democraticità e sistemi di controllo

4.1. Controllo preventivo di legittimità democratica

4.1.2. Controllo successivo di legittimità democratica

5. Conclusioni

 

 

1. Recenti provvedimenti legislativi[1] e ulteriori proposte in corso di discussione hanno riportato all’attenzione il tema della regolazione dei partiti politici che era stato affrontato e accantonato all’Assemblea Costituente[2]. Esso aveva costituito pure oggetto di riflessione della dottrina civilistica nei primi decenni dell’età repubblicana.

La domanda (apparentemente immutata nel tempo) è quella relativa alla possibilità di definire un regime di democrazia per le varie attività dei partiti[3].

Il tema, ovviamente, si presta ad una riflessione di carattere piú ampio sulle possibili discipline delle formazioni sociali. Il presente contributo, tuttavia, si limita a proporre alcune riflessioni circoscritte al regime dei partiti per due ragioni: la prima è quella storica, connessa all’interpretazione dell’art. 49 cost., la seconda risiede nella necessità di definire con esattezza il significato e il valore normativo del termine democraticità che viene utilizzato dal legislatore[4].

La riflessione dovrà dare conto delle ragioni che hanno consentito, per molti anni, di non analizzare il rapporto tra democrazia e partiti in tutte le sue implicazioni e, allo stesso tempo, di utilizzare lo schema contrattuale per ricostruire la specifica libertà di «associarsi in partiti».

La tesi consolidata della natura contrattuale delle associazioni (e quindi dei partiti) apre la strada alla riflessione sui limiti di rilevanza costituzionale che incontra l’esercizio della specifica libertà.

La definizione di quei limiti e la stessa interpretazione[5] dello specifico contratto associativo impone, ovviamente, la ricostruzione della storica concezione di quel valore costituzionale alla luce della sua concreta attuazione.

L’art. 49 cost. è il risultato di un compromesso politico istituzionale di grande delicatezza. La formula adottata fu la sintesi di posizioni che andavano ben oltre le specifiche visioni della democrazia di ciascuna componente politica dell’Assemblea. Era necessario affermare il pluralismo politico ma non si poteva piú tornare al sistema prefascista. Era necessario riconoscere il ruolo dei partiti per affermare la partecipazione popolare, prendere atto dell’irreversibile presenza delle masse sulla scena politica e superare l’esperienza del fascismo senza tornare allo «Stato moderno». I neo-liberali (presenti in tutti gli schieramenti) puntavano a ridurre la rilevanza dei partiti nei confronti dello Stato. I post-liberali (forti dell’esperienza della Resistenza e del Comitato di Liberazione Nazionale[6]) puntavano ad affermare la legittimità della coesistenza di un articolato sistema istituzionale mediato dai partiti e costitutivo della Repubblica democratica[7]. La scelta di non richiedere l’adozione di specifici modelli di democrazia ma solo l’adozione di un «metodo democratico» (con la significativa eccezione, che ovviamente conferma la regola, del divieto di ricostituzione del partito nazionale fascista prevista dalla XII disp. trans.) esprimeva l’unico equilibrio tollerabile fra forze in competizione sulla scelta del modello istituzionale che avrebbe dovuto dare risposta democratica alle esigenze che avevano trovato soluzione totalitaria nel fascismo.

Il dibattito si è quasi sempre concentrato sul problema (e sul rifiuto) di qualunque definizione della democrazia. Minore attenzione è stata rivolta al «metodo» e alla portata della relativa indicazione[8].

Il problema è quello di capire in quali forme e con quali strumenti il diritto può garantire la libertà di partecipazione alla politica tutelando, contemporaneamente, la libertà di autoregolamentazione del gruppo e i diritti dei singoli associati[9].

La recente svolta legislativa che ha introdotto un articolato regime statutario dei partiti lascia aperti molti problemi.

La rilevanza civilistica del problema emerge con particolare evidenza perché la legge che, per la prima volta, disciplina i partiti è la stessa che ne abolisce il finanziamento pubblico.

Da un lato è necessario verificare se si può declinare il valore della democraticità in una vera e propria clausola generale[10].

Dall’altro è necessario valutare se il nuovo regime individua un «tipo» associativo specifico con successive ricadute sulla legittimazione alla partecipazione ai procedimenti elettorali pubblici.

Si riapre, in questo modo, un dibattito che aveva visto la partecipazione di grandi giuristi nella prima fase repubblicana e che sembrava pervenuto ad un punto fermo con l’inquadramento della problematica delle associazioni (soprattutto partiti e sindacati) nello schema del contratto come il piú adeguato ad esprimere la pari dignità dei partecipanti e la libertà di determinazione dei contenuti del regolamento[11].

Come è stato autorevolmente sottolineato dalla dottrina costituzionalistica e dalla filosofia politica, l’argomento si presta a riflessioni che coinvolgono insieme i problemi di identificazione della forma di Stato e della forma di governo[12].

Viene in evidenza la distinzione tradizionale fra Società e Stato che ha avuto un ruolo costitutivo nei processi istituzionali dell’Ottocento[13] e nella determinazione degli àmbiti giuridici del pubblico e del privato[14].

La «crisi dello Stato moderno» che ha travagliato la prima metà del Novecento può e deve essere letta nella prospettiva del rapporto fra forme di Stato e altre istituzioni che si confrontano nello sforzo di esprimere i diversi e mutanti rapporti fra le forze sociali[15]

Pubblico e privato non hanno piú il valore semantico che gli attribuivano (prescrittivamente) leggi e giuristi del XIX sec. Nonostante i reiterati tentativi di ricondurre i problemi a quella classificazione dicotomica o, peggio, di affrontarli come se quella classificazione avesse un valore ontologico, ci dobbiamo sistematicamente confrontare con l’evanescenza di un sí labile confine concettuale e dell’orizzonte di senso che essi definiscono.

Proprio per queste ragioni, l’argomento presenta profili di indubbio interesse per verificare l’efficacia degli strumenti del giurista per la comprensione dei sistemi sociali e per la validazione delle scelte e che eccedono la semplice riflessione sulla forma di governo.

Come è stato riproposto da recente negli studi dedicati all’opera di F. Galgano nella specifica materia il diritto civile deve, dunque, tornare ad affrontare il problema. Si deve superare la separazione pubblico/privato e cogliere la significativa novità introdotta dalla Costituzione[16].

Per la prima volta, con l’art. 49 cost. si è avviato un processo di superamento formale dello Stato liberale[17] per definire uno «Stato di tipo nuovo»[18] o, per essere piú fedeli al lessico del Costituente, una Repubblica democratica[19]. Una chiave di lettura essenziale per ricostruire il sistema è quella di cogliere la novità del quadro di formazioni sociali individuate come istituzioni che concorrono all’esercizio di funzioni pubbliche (dalla determinazione dell’indirizzo politico, alla stessa produzione di contratti collettivi con forza di legge) pur mantenendo natura di diritto privato[20].

È necessario operare in due direzioni.

È necessario recuperare in primo luogo tutta la ricchezza delle riflessioni su specifici profili della disciplina dei partiti (e piú in generale delle formazioni sociali costituzionalmente rilevanti) per esplicitarne il carattere innovativo rispetto a letture piú tradizionali del regime civilistico delle associazioni[21].

È ancor piú necessario ricondurre la riflessione a profili metodologici di ordine generale e, specificatamente, alla ricerca delle formule e degli strumenti che consentono di cogliere la determinatezza storica dell’incidenza dei valori costituzionali sul piano interpretativo[22]. L’affermazione che la previsione dell’art. 49 cost. sul metodo democratico non ha ricevuto la necessaria attenzione dimostra poco se non si valuta l’evoluzione storica del processo interpretativo che ha consentito di qualificarla, nel corso del tempo, come principio o come clausola generale[23].

È necessario verificare se (ed eventualmente come) la stessa disposizione si sia evoluta da principio a clausola generale in ragione dello sviluppo della normativa, della giurisprudenza e, soprattutto, della sensibilità diffusa nei confronti della partecipazione politica.

La democraticità (ovviamente non solo quella interna ai partiti) può costituire un àmbito di verifica del rapporto fra sistema giuridico e sistema sociale ancóra piú significativo di tanti altri sperimentati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. In quest’àmbito emerge con immediatezza la funzione svolta dalle clausole generali per consentire la traduzione dei valori sociali standardizzati in formule giuridiche.

Viene chiamato in causa direttamente il rapporto fra sistema giuridico e altri sistemi sociali e lo si fa con un riferimento diretto sia all’autopoiesi formale sia all’autopoiesi normativa. La democraticità[24], infatti, costituisce, contemporaneamente, regola del processo generale di produzione criterio/parametro di legittimazione della legge e oggetto di ricostruzione interpretativa di un valore fondamentale dell’ordinamento costituzionale[25].

L’analisi della diversa efficacia normativa riconosciuta alla stessa disposizione dell’art. 49 cost. lungo i decenni dell’età repubblicana può costituire un utile terreno di verifica del processo di attualizzazione del valore in esso richiamato e delle forme giuridiche nelle quali si manifesta.

Come è stato autorevolmente sottolineato la democraticità costituisce diretta attuazione della tutela della personalità anche nell’àmbito delle formazioni sociali nelle quali opera l’individuo. Non si può negare, tuttavia, che la concreta declinazione della democraticità nel corso dell’età repubblicana si sia sviluppata lentamente ed abbia incontrato spesso significative difficoltà di affermazione.

La democraticità è stata vissuta prima come mero riferimento implicito alla libertà dei rapporti inter-privati garantita dalla legge.

Successivamente si è registrata una serie di espressi richiami nelle norme relative a specifiche tipologie associative.

Infine, proprio nelle norme sui partiti, è stata esplicitata una declinazione del «metodo democratico»[26]. L’articolata sequenza di disposizioni ripropone il tema classico della riflessione civilistica relativo al rapporto della norma codicistica con la legislazione speciale e, ancor piú, con il sistema dei valori costituzionali[27].

La democraticità proposta come auspicio o, peggio, addirittura negata nell’aspetto formale dell’attuazione dell’ordinamento sindacale, si ripropone come struttura essenziale del complesso sistema di istituzioni sociali[28].

L’affermazione con norme positive del tema della democraticità interna alle formazioni sociali e ai partiti segnala la necessità di ulteriori approfondimenti[29]

Come ha suggerito P. Femia, con una raffinata ricostruzione filologica, non si può evitare di tornare a riflettere criticamente sulla visione sostanzialmente liberale del rapporto Stato-Società alla quale si ispirava il contributo di F. Galgano all’analisi privatistica del partito[30].

Galgano che aveva tentato una lettura del partito come espressione di autorganizzazione sociale fondata sul contratto aveva poi sostanzialmente abbandonato il tema. Le ragioni possono essere state molteplici. Probabilmente Galgano aveva avvertito l’incipiente crisi della relazione tra partiti di massa e Stato interventista ed aveva tentato percorsi neo-liberali di democrazia di mercato.

Con la lucida (quasi spregiudicata) capacità di lettura dei processi che lo contraddistingueva aveva colto il nuovo asse attorno al quale cominciavano a ruotare i rapporti di potere. La stessa ispirazione liberale che lo aveva portato a fondare sul contratto la vicenda giuridica dei partiti lo avrebbe indotto a rileggere le istituzioni dell’economia capitalistica come espressione forte della dialettica sociale capace di esprimere un nuovo Stato.

Di quell’insegnamento restano certamente due forti lezioni: l’approccio realistico allo studio dei profili giuridici della realtà, l’anelito di libertà nell’analisi dei rapporti di potere.

Il disinteresse del «secondo» Galgano (qualunque ne sia stata la motivazione) non giustifica, tuttavia, il disinteresse dei civilisti che permane e che avrebbe richiesto e richiede attenzione.

Forse il partito non è piú il «principe» gramsciano (al quale faceva riferimento Galgano), ma sembra essere ancóra uno snodo essenziale dei processi che istituiscono (e garantiscono) la democraticità della Repubblica (e della stessa Unione europea)[31].

Nei nuovi dinamici scenari che sembrano profilarsi, come segnala ormai da alcuni decenni Nicolò Lipari, il problema della democraticità delle formazioni sociali (anche delle istituzioni dell’economia capitalistica) sembra anzi estendersi e coinvolgere tutte le sedi (private, oltre che pubbliche) nelle quali si formano le decisioni e le scelte[32].

 

2. Definire la democraticità di un ordinamento espresso dall’autonomia privata è sempre e comunque un’impresa difficile. È ancor piú difficile affrontare il problema rispetto ad associazioni che sono caratterizzate dalla duplicità della rilevanza del metodo democratico[33] sia rispetto all’attività erogata nei confronti del pubblico sia come criterio di organizzazione interna che ne dovrebbe legittimare l’attività esterna e pubblica[34].

Si tratta di individuare le specificità di un processo che ha registrato l’evoluzione dello stesso concetto essenziale di democrazia da regime elettorale dello Stato costituzionale liberale a modello generale dell’assetto della Repubblica democratica[35].

La crisi dei partiti degli ultimi decenni del Novecento ha posto a dura prova le letture fondate sull’accettazione (apparentemente realistica) di un’ipotetica forza sociale e normativa dei fenomeni di autorganizzazione. Essa ha riproposto drammaticamente il problema della regolazione delle forme di partecipazione alla determinazione della politica[36].

È stata abbandonata la concezione dell’immunità per la concreta attuazione del principio di democraticità ed è stata pure superata la concezione contrattualistica che aveva circoscritto l’area del possibile intervento giudiziario alla limitata sfera dell’autonomia degli accordi fra gli associati.

La giustificazione sociale del regime di insindacabilità degli interna corporis dei partiti ha perso forza parallelamente all’esaurimento della loro originaria funzione costituente.

La primazia originaria dei partiti di massa rispetto alla Repubblica democratica ha ceduto il passo all’espansione dei processi partecipativi.

Alla fine, i partiti si sono ridotti da protagonisti esclusivi della mediazione fra Società e Stato a istituzioni private di organizzazione della rappresentanza pubblica.

I recenti interventi legislativi che formalizzano una democraticità (almeno) procedurale esprimono la riduzione di àmbito dei partiti e dettano un nuovo e puntuale regime della specifica manifestazione di autonomia privata.

Galgano aveva proposto lo schema del contratto come il piú idoneo a garantire autonomia associativa e tutela individuale dell’associato. L’indicazione può essere ancóra seguita ma è necessario prendere atto che il regime delle associazioni non è piú quello semplice ed essenziale del codice civile. Finita la fase di smantellamento della normativa corporativa sugli enti portatori di interessi specifici, il diritto delle associazioni è tornato ad essere, un sistema caratterizzato dalla specificazione legale di scopi rilevanti e dall’esplicito richiamo al rispetto di valori costituzionali nella regolazione dei rapporti interni.

Ci sono ormai elementi sufficienti per una riflessione nuova sul regime giuridico delle associazioni, nonché sulla stessa concezione delle forme di partecipazione alla determinazione della politica nazionale. Questa riflessione non può prescindere, dunque, da una lettura che superi i limiti di ogni riferimento esclusivo ai partiti e deve aprirsi, invece, alla considerazione del mutamento del loro ruolo e all’emersione di altre forme di partecipazione nel processo di attuazione della democrazia.

I partiti che contribuirono a definire la Costituzione erano costruiti come organizzazioni per mediare tra il pluralismo sociale, culturale, ideologico della Società e la terzietà indipendente della funzione istituzionale pubblica (e specificatamente solo statale). In quel contesto la democraticità non poteva essere disgiunta dalla pluralità di visioni in concorso (forse in competizione)[37] e non poteva costituire forma omogenea di movimenti che si proponevano come espressione di concezioni politiche e sociali radicalmente alternative[38].

Nonostante la rilevanza del compromesso costituzionale fra forze politiche antagoniste[39], ogni tentativo di definire uno specifico regime interno ai partiti non avrebbe significato solamente conformare l’organizzazione privata del movimento ad una ipotetica regola costituzionale, ma avrebbe costituito una ben piú grave imposizione di scelta fra modelli di democrazia[40].

L’unico livello condivisibile di specificazione del valore della democraticità poteva essere solo quello dell’accettazione delle regole elettorali pubbliche.

Per poter affermare la democraticità come regola interna ai partiti (e piú in generale al sistema delle associazioni) è stato necessario attendere che venissero a maturazione complessi processi di trasformazione della concezione del pubblico: capacità di organizzare direttamente una serie di servizi in àmbito sociale; capacità di esprimere autoregolazione fondata sul rispetto della pari dignità; capacità di immaginare livelli e forme differenziate di partecipazione, anche al di fuori delle tradizionali sedi pubblicistiche.

 

2.1. Il problema era stato avvertito già negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta dai costituzionalisti come crisi della funzione originaria dei partiti[41].

Stava emergendo la crisi della concezione dei partiti come interpreti dell’interesse generale e sedi di mediazione della complessità degli interessi specifici[42].

I civilisti, invece, avevano preferito difendere i valori della libertà del singolo all’interno delle formazioni sociali ed avevano concentrato la loro attenzione sulla sofisticata problematica della natura istituzionale o contrattuale del partito[43]. La loro posizione esprimeva, tuttavia, la difficoltà di costruire una riflessione di sistema sul carattere espansivo della democraticità nell’àmbito delle formazioni sociali[44]. Come notava Elia[45] il contributo della dottrina civilistica, nonostante i grandi disegni interpretativi di Rescigno e di Galgano, si era risolto nella sostanziale limitazione dell’intervento giudiziario in materia di controllo sulla legittimità dell’esclusione dal partito.

Il problema del fondamento del potere di esprimere l’indirizzo politico era stato affrontato con le categorie proprie della rappresentanza di diritto privato e, in fondo, aveva conseguito lo stesso limitato esito dell’applicazione delle medesime categorie in àmbito sindacale[46].

Nonostante la sperimentazione in àmbito lavoristico non si costruivano categorie adeguate alla problematica delle organizzazioni esponenziali e, soprattutto, dei partiti. Restava non risolto il problema di fondo della giustificazione dell’esercizio di poteri in nome e per conto del popolo senza vincolo di mandato[47].

Ci si chiedeva (e ci si chiede) se l’esercizio di quel potere fosse attribuito sulla base di una valutazione meritocratica che consentiva di scegliere i migliori tra piú concorrenti in un àmbito socialmente omogeneo o se fosse l’espressione della capacità di guida di movimenti tendenzialmente contrapposti legittimata dal voto popolare[48].

Come è stato ricordato, ancóra da recente, da Lorenza Carlassare, il problema dei processi di formazione delle decisioni non può essere affrontato senza prestare adeguata attenzione alle tecniche di rappresentazione degli interessi nel confronto pubblico[49].

Da una parte, si pone l’esigenza di ricondurre sempre e comunque il processo alle scelte dei singoli come unico reale fondamento della responsabilità e della democrazia.

Dall’altra si pone l’esigenza del controllo del grado di responsività di coloro che sono incaricati dell’esplicitazione, della presentazione al confronto, della mediazione, della formazione delle scelte per la conciliazione di interessi plurimi e (spesso) confliggenti.

Il problema assume, quindi, una vera e propria dimensione di etica della decisione pubblica e di giustificazione dell’esercizio dei relativi poteri. La riflessione proietta, dunque, i profili di democraticità interna ed esterna su uno scenario ben piú vasto di quello elettorale o di quello del conflitto interno e reclama giusta collocazione nel panorama dei processi di evoluzione istituzionale.

Per istituire la Repubblica democratica non si poteva tornare allo Stato liberale prefascista, ma si doveva individuare un modello di distribuzione dei poteri idoneo a garantire con metodo democratico la legittimazione degli aspiranti alle cariche pubbliche già in sede pre-elettorale[50].

Crisafulli (nel 1966)[51] e Mortati (nel 1975)[52] avevano già segnalato[53], anche se con accenti diversi, la crisi del modello di democrazia mediata dai partiti[54]. Barbera (1975)[55] aveva ricostruito il processo di formazione dell’art. 2 cost. e aveva sottolineato una serie di debolezze che avevano caratterizzato il compromesso costituzionale[56]. La lettura di Barbera forniva un’importante analisi del processo di profonda revisione del modello di Stato post-liberale che aveva caratterizzato la prima fase della democrazia repubblicana. Essa rappresentava una raffinata manifestazione della ricerca di nuove forme di partecipazione che consentissero di superare la crisi di rappresentanza segnalata dagli studiosi piú attenti.

Nella varietà delle intersezioni fra ruolo dei partiti e concezioni della partecipazione si è delineata l’evoluzione della democraticità da valore a principio, a clausola generale[57].

La grande capacità dei partiti della prima esperienza repubblicana fu quella di interpretare un ruolo assolutamente nuovo rispetto a quello dei partiti nello Stato liberale e di evitare di riprodurre gli errori che portarono alla caduta di Weimar[58].

Nel nuovo quadro costituzionale i partiti si trovavano nella necessità:

- di confrontarsi con un apparato statale rafforzato dalla duplice defascistizzazione dell’epurazione del personale[59] e della riorganizzazione amministrativa[60];

- di farsi carico della complessità delle relazioni di massa che il fascismo aveva esplicitato in forma istituzionale e che non trovavano piú forme adeguate di espressione nella rinnovata dicotomia pubblico/privato (sindacati, organizzazioni sportive, istituzioni assistenziali, istituzioni mutualistiche);

- di confrontarsi contemporaneamente con il pluralismo delle visioni strategiche (capitalismo, comunismo, economia sociale di mercato) e con il pluralismo degli interessi settoriali;

- di farsi carico delle esigenze di controllo democratico del complesso apparato di governo pubblico dell’economia industriale e del sistema del credito e del risparmio, nato all’inizio del Novecento e consolidato dal fascismo.

È sufficiente tornare alla complessa vicenda delle varie fasi della storia sindacale (unità, separazioni, riunificazioni) e della storia delle organizzazioni datoriali dei vari àmbiti produttivi per rendersi conto che le dislocazioni delle intersezioni fra i diversi piani di espressione della partecipazione hanno fissato (e fissano ancóra) i mutevoli assetti della democraticità del sistema e hanno definito il ruolo dei partiti in ciascuna fase.

È utile rileggere Calamandrei per cogliere la grande differenza di prospettive e di aspettative tra le culture dei Costituenti nei confronti delle istituzioni della Repubblica democratica[61].

Fin troppo spesso si è parlato di partiti, di democraticità, di partecipazione senza inquadrare ciascun termine negli specifici contesti storici e senza attribuire il dovuto rilievo alle mutazioni di ciascuna delle realtà sociali di riferimento.

Solo a titolo esemplificativo si può fare riferimento ad una delle vicende piú interessanti ai fini dell’indagine sulla mutevolezza dei significati dei singoli termini in relazione alle diverse realtà che, di volta in volta, si tenta di rappresentare.

La vicenda è quella della transizione dal regime parapubblico di enti e istituzioni provenienti dai sistemi precostituzionali al regime di gestione dei servizi da parte degli enti territoriali. Essa è strettamente intrecciata con l’evoluzione della concezione della democrazia e del ruolo dei partiti perché riproponeva la vicenda non risolta del processo costitutivo dello Stato liberale e della sua affermazione nei confronti delle istituzioni della società. Dopo un secolo dalla legislazione crispina si poneva ancóra il problema della legittimazione a disporre di risorse che provenivano da iniziative sociali, che erano state pubblicizzate alla fine dell’Ottocento e nazionalizzate dal fascismo.

 

2.2. La concezione della democrazia, dopo la ricchissima fase critica degli anni Sessanta (il Concilio Ecumenico Vaticano II, il «dream» di M.L. King e la «hope» dei Kennedy, la crisi vietnamita, la crisi cecoslovacca, la rivoluzione culturale cinese, la contestazione giovanile, il rock), si era evoluta ed aveva messo in discussione gli assetti del rapporto fra Stato e Società che risentivano ancóra dell’impostazione liberale[62].

La risposta dei partiti, tuttavia, non fu adeguata.

L’inadeguatezza si manifestò nella difficoltà di esprimere l’esigenza di partecipazione e nell’errore di proporsi come strumento esclusivo di legittimazione dell’espansione dei poteri pubblici agli àmbiti vitali.

L’idea, sostenuta da Barbera, di un’espansione della democrazia negli àmbiti prima gestiti dalle istituzioni residuate dall’antico regime, non si concretizzò in una rifondazione dei modelli di partecipazione diffusa

Nelle piú recenti ricostruzioni Barbera evidenzia i processi che hanno portato dallo Stato promosso dai partiti (nella prima fase repubblicana) allo Stato occupato dai partiti (nella fase che va dalla seconda metà degli anni Settanta alla stagione referendaria e alla manifestazione della crisi dei processi partecipativi). L’affermazione che l’occupazione sistematica degli spazi pubblici secondo un processo di potere legittimato solo dall’alto è il risultato della crisi dei partiti coglie in pieno l’essenza del problema[63].

Prima testimonianza della profondità del problema ci viene da un intervento di Enrico Berlinguer in risposta ad una lettera di mons. Luigi Bettazzi[64]. La lettera di mons. Bettazzi era del 6 luglio 1976 (immediatamente successiva alle elezioni politiche del 20/21 giugno 1976 che avevano registrato un profondo mutamento degli equilibri parlamentari), la risposta di Enrico Berlinguer del 7 ottobre 1977 (successiva all’emanazione del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, Attuazione della delega di cui all’art. 1 della l. 22 luglio 1975, n. 382).

Davanti alla sollecitazione a maggior prudenza nel rapporto tra Enti locali e Regioni, da una parte, e Istituzioni autonome assistenziali e sanitarie, dall’altra, il Segretario del PCI formalizzava la concezione della democrazia (forse meglio dire della democraticità) che il suo partito intendeva sostenere:

Non c’è alcuna intenzione, da parte nostra, di «trattar da nemiche» istituzioni religiose dedite ad opere assistenziali ed educative. Il suo invito a non osteggiarle nasce forse dal fatto che, in talune occasioni, l’espansione dell’iniziativa delle amministrazioni locali nel campo della primissima infanzia, in quello scolastico e in quello sanitario, ha oggettivamente creato difficoltà a istituzioni private, sia religiose che laiche.

Lei se ne dispiace, io posso comprenderLa. Ma vorrei che si ponesse attenzione al fatto che l’azione in questi campi di uno Stato democratico non può essere valutata e giudicata alla stessa stregua del comportamento che fu proprio dello Stato liberal-borghese. Come diretta conseguenza dell’essere sorto su cosi ampie e popolari basi sociali, il nostro Stato democratico dissolverebbe se stesso, si decomporrebbe, e lascerebbe decomporre e dissolvere la società, se non intervenisse con la maggior ampiezza possibile sul terreno dei servizi pubblici, sociali, civili, per soddisfare esigenze primarie del popolo.

Lei sa bene che lo Stato liberal-borghese era uno Stato elitario, oligarchico, che, mentre in conseguenza di un generale laisser faire abbandonava ampissimi spazi vuoti in campo sociale ed educativo, nei quali poteva esplicarsi la supplenza dei singoli (privati e organizzazioni, laici e religiosi), alle istituzioni cui esso dava vita e che gestiva direttamente imprimeva, invece, un carattere ed un indirizzo, nonché chiusamente classisti, fortemente ideologizzanti in senso anticlericale e massonico. L’estendersi dell’iniziativa di questo nostro stato, che ha le caratteristiche di cui ho già parlato, avviene invece – e non può non avvenire – con tutt’altro spirito e in tutt’altra forma, e tende a superare, non solo quelle parzialità e quei limiti di classe, ma anche le pregiudiziali ideologiche, che caratterizzavano lo Stato liberal-borghese.

Il nostro Stato democratico e pluralistico, soprattutto attraverso le sue autonome articolazioni locali, non può non assumere in proprio – ma per amministrarli democraticamente – fondamentali servizi civili e sociali per il bene della comunità nazionale. E democraticamente vuol dire che, anche all’interno delle strutture scolastiche, assistenziali e sanitarie cui i poteri pubblici danno vita, debbono poter entrare ed operare, a titolo pieno, con il loro patrimonio ideale e culturale, le diverse energie di tutti coloro che vogliano e siano capaci di soddisfare esigenze delle famiglie e dei cittadini.

E qui si apre un largo spazio alla partecipazione degli appartenenti agli ordini e alle istituzioni religiose, alla iniziativa degli enti e delle autorità ecclesiastiche, sol che si sforzino di comprendere la democrazia con le sue regole, e di appropriarsene, di contribuire a svilupparla non unicamente intendendola come moltiplicazione di corpi separati e incomunicanti, bensí come crescita di realtà sempre piú ricche di una loro multiforme, pluralistica vita interna.

Il dibattito sulle forme giuridiche dell’assistenza sarebbe durato ancóra a lungo e avrebbe messo in evidenza le problematiche complesse della sussidiarietà orizzontale nel rapporto fra Società e Stato[65]. Dopo un tentativo di intervento legislativo per decreto (d.l. 29 marzo 1979, n. 113, non convertito)[66], le tensioni sul problema del trasferimento agli Enti locali delle funzioni delle IPAB non direttamente riconducibili ai comuni continuarono[67] e determinarono, infine, l’intervento della Corte costituzionale e l’affermazione della natura non pubblicistica delle stesse IPAB[68].

Nello stesso periodo, il confronto sulla concezione della democraticità dello Stato sociale sarebbe passato ancóra attraverso una legge di grande importanza.

La legge 23 dicembre 1978, n. 833, «Istituzione del servizio sanitario nazionale», all’art. 1[69], esprimeva la complessa concezione della sussidiarietà che era stata enunciata da Berlinguer nella lettera a Bettazzi. L’impianto generale della legge era, tuttavia, fondato sulla concezione pubblicistica della partecipazione (in capo alle rappresentanze degli enti locali), mentre nel SSN si assicurava il coordinamento delle attività di iniziativa sociale.

Il riconoscimento dell’associazionismo di partecipazione sociale e di solidarietà, specificato dall’art. 45 della stessa legge, segnò, tuttavia, l’avvio di una nuova stagione dell’autorganizzazione sociale e della sussidiarietà orizzontale come reazione all’invadenza dell’intervento pubblico governato dalle strutture di partito nella vita sociale. In particolare, si sviluppò una serie di attività di iniziativa sociale espresse da ambienti laici e religiosi, sostenuta dalle prestazioni individuali dei volontari e dal sostegno economico pubblico. Si trattava di una significativa alternativa al modello premoderno fondato sul patrimonio fondazionale delle IPAB e, spesso, sulle prestazioni di religiosi e religiose.

La democraticità evocata nella lettera da Berlinguer a Bettazzi assumeva una nuova coloritura. Dalla democraticità derivata dalla rappresentanza degli enti locali territoriali o dall’elettività diretta, come nell’esperienza dei consigli scolastici del 1974, si passava ad una prima forma mista di democraticità pubblica associata alla partecipazione del privato-sociale.

 

2.2.1. Nel 1981, lo stesso Berlinguer rilasciava un’intervista a Eugenio Scalfari che doveva acquisire un valore storico[70].

Quell’intervista è stata spesso letta come la proclamazione della «questione morale».

Le vicende immediatamente successive hanno favorito una lettura e una ricostruzione del significato dell’aggettivo «morale» riduttiva e circoscritta alla dimensione giudiziaria del rispetto delle regole e, soprattutto, di quelle di rilevanza penale.

Con una visione piú distaccata si può invece dire che la dimensione «morale» della questione risulta piú profonda e piú strettamente connessa alla legittimità sostanziale delle forme di organizzazione e dei limiti dell’esercizio del potere e della sovranità popolare[71].

La crisi della politica veniva strettamente connessa con la crisi della capacità dei partiti di farsi interpreti della complessità e dell’autonomia della società nei confronti di una funzione statale che esigeva altrettanta indipendenza[72].

La concezione del parteienstaat (e soprattutto la sua visione piú rozza e spartitoria) era l’espressione problematica dei processi di superamento del modello liberale e, soprattutto, del deterioramento dell’etica delle scelte pubbliche, in assenza di qualunque responsabilizzazione dei nuovi attori.

Sotto questo profilo è possibile riscontrare significative analogie fra le esperienze della Repubblica di Weimar e della IV Repubblica francese e quella dell’Italia post-costituzionale. Le prime erano prove di riconoscimento dei partiti, la seconda mancava di discipline attuative dell’art. 49.

In tutti i casi l’etica dei processi di formazione delle decisioni pubbliche è stata affidata alla sensibilità dei singoli e al controllo informale delle organizzazioni di appartenenza.

È mancato qualunque strumento idoneo a rendere verificabile e comunicabile il discorso privato di rilevanza pubblica.

In una prima fase, la tutela del pluralismo delle visioni di fondo («totali») espresse da ciascun partito aveva frenato la libertà del confronto interno e aveva imposto regole di adesione acritica, come sottolineava con particolare enfasi una Simone Weil tradotta e proposta da Franco Ferrarotti per Comunità[73]. La democraticità si presentava nella forma del consociativismo e della sostituzione degli apparati pubblici alle sedi proprie della partecipazione, del confronto delle idee e dei grandi progetti[74].

La successiva qualificazione penalistica di molti comportamenti sarebbe stata solo la manifestazione del superamento dei limiti specifici del rapporto pubblico-privato propri della concezione liberale dello Stato e della Società.

Berlinguer aveva prefigurato ben altro. Egli aveva colto i segni della rottura del modello democratico costituzionale originario nel processo di pubblicizzazione della partecipazione. Avvertiva, già in quegli anni, la consumata delegittimazione dei partiti. Era questa, in realtà, la vera dimensione «morale» della crisi. Si delineava una frattura profonda fra le esigenze di partecipazione, di espressività sociale, di riconoscimento della legittimazione di ampie fasce sociali e la disponibilità di forme adeguate ad esprimerle.

La sequenza società-partiti-Stato che aveva caratterizzato la prima fase costituzionale e che era fondata sul modello del partito-movimento era stata interrotta dall’emersione di nuovi processi di massa alla fine degli anni Sessanta. La risposta istituzionale si era appiattita nella smisurata espansione dei processi di istituzionalizzazione amministrativa della partecipazione degli anni Settanta.

Il confronto con la posizione espressa dallo stesso on. Berlinguer nell’intervento del 1977 fa emergere ancóra di piú l’importanza dell’intervista del 1981 per la definizione della democraticità.

A distanza di trentacinque anni l’intervista di Enrico Berlinguer sulla crisi dei partiti rappresenta ancóra uno straordinario punto di riferimento per la comprensione della portata delle trasformazioni che si consumarono in quella fase.

Nel corso del decennio che intercorse fra l’intervista di Eugenio Scalfari ad Enrico Berlinguer e la fine della c.d. prima Repubblica venne a maturazione la crisi dei partiti e si sviluppò un primo tentativo di riconoscimento della dimensione istituzionale dell’autorganizzazione sociale con la formazione di un complesso apparato normativo.

La profonda dimensione della «moralità» evocata da Berlinguer non si limitava ad una visione astratta. Essa proponeva la ricerca di una reale alternativa all’espansione in forma neo-liberale dello Stato sociale ed esigeva letture e ricostruzioni di una «democrazia repubblicana» capace di sostituirsi all’espansione incontrollata della «democrazia statalista».

 

2.2.2. Tuttavia, la crisi dell’etica dei processi decisionali pubblici preconizzata da Berlinguer si era sostanzialmente risolta in una segmentazione del quadro di riferimento: una riduzione dell’area amministrativa[75], un ampliamento dell’area di mercato nei confronti dell’area pubblicistica[76], il riconoscimento di uno spazio all’area del volontariato, delle istituzioni non lucrative e delle associazioni esponenziali di interessi diffusi come interlocutori privilegiati del sistema pubblico di servizi[77].

La problematica della democraticità era stata risolta in parte come rinvio delle funzioni di governo dell’economia al mercato e alla concorrenza, in parte come requisito necessario dei molteplici soggetti abilitati a collaborare con le funzioni pubbliche di erogazione di servizi[78].

Una riflessione che dovrebbe avere scontato l’emotività di quegli anni consente di affermare che la crisi dei partiti come «princípi»[79]della mediazione tra Società e Stato dava luogo, contemporaneamente, alla reazione referendaria, alla reazione giudiziaria, all’espansione delle forme associative alternative rispetto alla pubblicizzazione amministrativa, alla riprivatizzazione di ampie aree economiche.

Il processo risulta particolarmente chiaro dalla rilettura dei discorsi parlamentari di B. Craxi per la fiducia al Governo Amato[80], di G. Amato per le dimissioni successive al voto referendario del 1993[81], di B. Craxi per la sua autodifesa [82].

Craxi proponeva il problema della giustificazione delle scelte fondamentali della concreta esperienza dei partiti come unica contrapposizione all’affermazione di poteri privi di legittimazione democratica e, in particolare, di poteri economico-finanziari sottratti alla logica della redistribuzione politica. Lo faceva, anche, rivendicando pratiche non conformi alla legge, nel nome del primato della politica e della democrazia della rappresentanza elettiva.

Nella riflessione di Craxi, l’intervento giudiziario («mani pulite») eccedeva la funzione propria del sistema penale e si spingeva fino all’esercizio di una funzione politica («rivoluzionaria») che qualificava «violenza»[83].

La riflessione di Amato si muoveva su terreni parzialmente diversi. Il discorso delle dimissioni dell’aprile 1993 fu una lucida analisi della crisi del modello di governo che aveva caratterizzato la prima fase repubblicana e, segnatamente, del modello di «partito-Stato» che aveva contraddistinto il processo di superamento dello Stato liberale. L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti non si limitava, dunque, a un semplice processo di moralizzazione della vita pubblica, ma, per usare le stesse parole di Amato, costituiva ‹‹un autentico cambiamento di regime, che fa morire dopo settant’anni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale, specie per quanto riguarda le considerazioni sul “pluralismo”».

 

2.3. Con un processo avviato nello stesso momento della massima espansione dello Stato dei partiti degli anni Settanta si sono sviluppate e hanno trovato riconoscimento legale forme associative non partitiche, capaci di assumere ruoli di gestione diretta di interessi collettivi e di determinare un nuovo «discorso pubblico» e nuove soggettività sociali per gestire i beni comuni. Il processo si può leggere come un tentativo di risposta alla crisi della democraticità interpretata dalla partecipazione partitica.

Non si può dimenticare, d’altra parte, che in quegli stessi anni una parte molto significativa dell’economia pubblica veniva privatizzata, ossia ricondotta a forme di proprietà mercantile, senza neppure provare ad attuare le previsioni degli artt. 43 e 47 cost. «riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale» o favorire «l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».

Il quadro generale veniva completato, infine, dal superamento della frattura ideologica che aveva imposto la limitazione del controllo di democraticità al solo livello del rispetto delle regole elettorali. La fine del comunismo come riferimento internazionale consentiva di riproporre il problema dell’adozione di schemi omogenei di democraticità interna. L’antagonismo fra modelli politico-istituzionali si trasformava in concorrenza all’interno di un’unica concezione di democrazia.

Una profonda revisione della concezione del pubblico produceva effetti profondi sull’etica e sulla stessa percezione della democrazia. Ancóra una volta si registrò la difficoltà di costituire un rapporto equilibrato tra i poteri delle amministrazioni pubbliche sopravvissuti alla crisi istituzionale e la rivendicazione di nuovi poteri alle forme di partecipazione diretta. La stagione della concertazione e della negoziazione sociale si esaurì nella resistenza dell’apparato burocratico e nella debolezza rappresentativa di organizzazioni sociali ancóra troppo appiattite sul modello del collateralismo (sindacati, associazionismo di promozione sociale, organizzazioni professionali).

Si riduceva lo spazio delle istituzioni pubbliche della rappresentanza formale e si tentava di trovare nuove forme per i processi partecipativi. Alla crisi della dimensione partecipativa delle forme consiliari nella sanità, nell’istruzione, nell’assistenza si rispondeva con reazioni giudiziali di riconoscimento di diritti che hanno messo in luce con maggiore incisività (anche se non con lo stesso clamore degli interventi repressivi) la natura sociale dell’ordinamento repubblicano[84].

La stessa funzione redistributiva e di giustizia sociale che era stata attribuita alla politica e si era espressa con il governo pubblico dell’economia si esauriva progressivamente e lasciava spazio all’affermazione del mercato come principio di regolazione sociale[85].

Il quadro di riferimento del valore della democrazia e dell’assetto della Repubblica come specifico ed originale modello di composizione dei rapporti fra Società, Stato ed Enti territoriali usciva profondamente modificato dall’esperienza dell’ultimo quarto del Novecento.

Gli stessi esperimenti di cittadinanza attiva sono rimasti per molto tempo circoscritti all’area della testimonianza e dell’elaborazione culturale. L’impegno di N. Lipari, che muoveva dalla ricerca dei primi anni Settanta su Tecniche giuridiche e sviluppo della persona umana[86], ha sempre segnalato l’importanza della libertà associativa (in forma partitica e in altre e concorrenti forme associative) per attuare un processo di democratizzazione diffusa e partecipativa.

I due interventi di E. Berlinguer possono ben essere assunti come riferimenti delle tensioni e dei fattori di crisi che caratterizzarono l’esperienza di quel periodo e che, ancóra oggi, costituiscono il tema fondamentale della riflessione sulla democrazia e la partecipazione.

Gli interventi di Craxi e Amato completano il quadro e contribuiscono a definire l’esatto quadro della crisi, del ruolo dei partiti, della concezione della democrazia, dei rapporti fra Stato, società e mercato.

 

2.4. Quattro decenni di esperienza repubblicana erano stati spesi nella ricerca di modelli di democrazia partecipativa. La contrapposizione radicale aveva impedito la definizione di nuovi istituti e, soprattutto, la fissazione di regole uniche per la democrazia interna ai partiti.

Il problema etico del fondamento delle scelte pubbliche si riproponeva sotto forma di conflitto fra autonomia della politica e concezione tradizionale dello Stato liberale come unica forma di Stato di diritto.

L’intervento giudiziario (al di là delle critiche di Craxi) esprimeva (in misura largamente fedele all’ordinamento legale vigente) quella lettura dello Stato di diritto.

Quella logica era il risultato dell’incapacità del diritto di costruire un apparato concettuale in grado di esprimere i nuovi rapporti democratici prefigurati dalla Costituzione.

Il diritto amministrativo aveva continuato a mantenere nell’àmbito pubblicistico attività e istituzioni che erano tali solo per la difficoltà (soprattutto della cultura giuridica) di rappresentare sistemi di potere, tecnostrutture e sistemi di controllo del mercato[87] tipici delle grandi economie industriali[88], già formalizzati in Italia con la categoria della nazionalizzazione del lessico fascista[89].

Il diritto penale aveva valorizzato i profili di tutela delle libertà e aveva posto minore attenzione alla problematica dell’eccesso di qualificazione pubblicistica.

Il diritto civile, nonostante l’impegno profuso nel passaggio dei primi anni Settanta, si era impegnato piú sui terreni della famiglia, del contratto, della responsabilità che su quelli della partecipazione.

Non si registrò nell’àmbito dei problemi della partecipazione un impegno pari a quello che aveva caratterizzato la rielaborazione dell’esperienza sindacale.

Da quegli interventi traspare, con particolare evidenza, lo spostamento dell’asse problematico della partecipazione. L’esperienza maturata nei primi anni di sperimentazione della gestione di importanti settori delle funzioni sociali da parte degli enti locali territoriali induceva uno spostamento dell’attenzione dall’area pubblicistica tradizionale all’area delle discipline delle forme partecipative, che possiamo considerare come area delle relazioni civili e dell’autonomia dei privati. Nella lucida lettura del Segretario del PCI era già evidente il processo involutivo che avrebbe ridotto il modello partecipativo fondato sul primato della politica a un meccanismo spartitorio. Lo stesso PCI e gli altri partiti di massa, tuttavia, non avrebbero saputo cogliere i segni del cambiamento incipiente e della maturazione di nuove istanze democratiche[90].

È in questa prospettiva che si deve inquadrare la ricorrente previsione della democraticità degli ordinamenti interni delle organizzazioni che perseguono scopi di solidarietà e assolvono a ruoli di sussidiarietà orizzontale[91]. Il processo avviato dal riconoscimento del volontariato nel 1978 tendeva, seppure con significative debolezze, a proporre forme alternative di gestione diretta dei servizi caratterizzate dall’introiezione della democraticità come presupposto legittimante di nuovi soggetti collettivi.

Come si può vedere dalla legislazione di quella fase, il processo fu complesso e forse inadeguato per esprimere un definito concetto di democraticità. Da una parte si scontava la specificità delle esperienze di autorganizzazione sociale e dei relativi ordinamenti, dall’altra pesava la necessità di individuare formule capaci di garantire contemporaneamente esercizio delle funzioni di maggioranza, tutela delle minoranze e unità delle singole organizzazioni[92].

La trasposizione in sede privata dei modelli di democrazia elettiva pubblica si può scontrare con la libertà (positiva e negativa) di associarsi e determinare gravi rischi di frantumazione: se l’unico baluardo della democraticità era il diritto di recedere dall’associazione le minoranze non potevano avere strumento diverso dalla scissione.

 

3. Alla luce di queste (necessariamente sommarie) considerazioni si può tornare a riflettere sul valore normativo delle prescrizioni in materia di democraticità e, in particolare, sul valore della sua previsione nella disciplina dei partiti.

La democraticità è stata, per lungo tempo, un valore individuato dalla Costituzione e relegato al rango di principio, senza una specifica declinazione prescrittiva. Come altri valori[93], forse ancor di piú, ha subíto la riduzione a «principio» regolatore della funzione legislativa.

Gli stessi interventi dei costituzionalisti piú attenti ai problemi di attuazione di quel valore si sono concentrati piú sul problema della libertà di applicazione del regime di democraticità che sul problema del contenuto regolativo dell’autonomia associativa[94].

Non sembra, tuttavia, di correre il rischio di una sottovalutazione della delicatezza del problema e del suo carattere politicamente sensibile, se si sposta l’attenzione dalla tutela della libertà del partito alla tutela della partecipazione nel partito.

Il tema, che era stato oggetto di appassionato dibattito e di attenta ricostruzione nella civilistica degli anni Sessanta del secolo scorso, è stato recentemente ripreso in occasione di un convegno in memoria di Francesco Galgano.

Femia ha ricostruito con particolare attenzione alcuni passaggi essenziali del pensiero di Galgano ed ha colto i profili del rapporto fra diritto, società e Stato che lo hanno caratterizzato. Da quella ricostruzione emerge una concezione sostanzialmente liberale dello Stato anche, forse soprattutto, quando vengono messi in evidenza i poteri delle istituzioni dell’economia capitalistica.

Piepoli, a sua volta, ha segnalato la specificità dei problemi del «tipo» associativo partitico e i rischi di riflessioni che non tengano conto della specificità delle relazioni politiche in una società pluralista. La tradizionale questione della tutela delle posizioni individuali all’interno del partito continua ad avere una grande importanza. È necessario, tuttavia, cogliere la precarietà delle letture esclusivamente privatistiche.

La riflessione non si può fermare all’impostazione tradizionale della problematica del metodo democratico.

Una volta superato il limite (ideologico e storico) che imponeva di non affrontare la materia della democraticità interna ai partiti non si può rinunciare né alla valutazione critica della costruzione diadica in termini di democraticità interna e di democraticità esterna, né alla ricerca della declinazione analitica del regime giuridico che si profila per effetto della nuova normativa e, ancor piú, dei processi sociali e istituzionali.

Sarebbe come proclamare il principio di solidarietà senza coglierne la necessaria ricaduta in termini di responsabilità per l’ingiustizia del danno e di istituti di protezione o come affermare il principio di libertà di mercato senza poi trarne le necessarie conseguenze in termini di buona fede e di ordine pubblico economico.

Il consolidamento della concezione democratica nelle due direzioni della omogeneità di visione generale e della conformazione delle istituzioni di partecipazione diffusa consente oggi di ricostruire una vera e propria clausola generale di democraticità nell’àmbito di tutte le formazioni sociali.

La distinzione della democraticità in interna ed esterna e la limitazione dell’intervento di controllo sull’attività interna dell’associazione (o del partito) è il residuo di una concezione ormai superata dei rapporti fra autonomie sociali e Stato.

La resistenza ai controlli sulle associazioni e sulle formazioni sociali deriva dal risalente conflitto ottocentesco fra Stato e corpi intermedi[95].

L’approccio difensivistico era stato poi riproposto (non sappiamo fino a che punto per inerzia) nell’àmbito del regime dei partiti.

La difesa delle autonomie sociali nei confronti dello Stato si era trasformata in difesa dell’autonomia della politica nei confronti di maggioranze tendenzialmente ostili e radicalmente antagoniste. Si perdeva di vista, in tal modo, la rilevanza dei partiti e delle formazioni sociali costituzionali nel processo di costruzione di nuove statualità[96].

In questa prospettiva risulta sempre piú limitativo continuare a immaginare una democraticità esterna, modellata come tecnica di partecipazione al sistema elettorale pubblico. D’altra parte riflettere sul problema dell’insindacabilità (o della limitatissima sindacabilità di tipo contrattuale) può costituire un inutile esercizio di concettualismo.

È concettualismo continuare a leggere i problemi del regime interno e del controllo con le categorie proprie della tensione Stato/società ampiamente superata dal quadro delle relazioni costituzionali.

Altrettanto concettualistica è la lettura improntata alle concezioni del pluralismo partitico antagonista.

Concettualistica, infine, può risultare ogni ipotesi di regolazione privatistica dei partiti in termini di ricorso alla personalità giuridica come presupposto della partecipazione alle elezioni pubbliche.

La personalità giuridica dei partiti (come quella di tutte le altre associazioni con finalità rilevanti) è un falso problema sia sotto il profilo (proprio) dell’istituto orientato alla limitazione della responsabilità patrimoniale sia sotto il profilo (surrettizio) del tentativo di introdurre controlli.

È necessario prendere atto che il regime delle associazioni del codice civile (che in origine coesisteva con un complesso sistema di altri enti con ben precise regolamentazioni e ancor piú specifiche funzioni pubbliche) non è piú utilizzabile per organizzazioni complesse, titolari di attività di rilevanza pubblica[97].

Il problema della democraticità prescinde dalla personalità giuridica e si traduce, invece, nella ricerca di strumenti di garanzia dei rapporti interni e dei rapporti tra la singola associazione e la società improntati all’inderogabile principio di eguaglianza e di pari dignità.

La democraticità delle formazioni sociali, in realtà, può essere assunta solo come formula sintetica ed elastica, riassuntiva di complessi sistemi di tutela dei valori della persona e della partecipazione secondo le specificità degli àmbiti esistenziali di riferimento.

È chiaro che non esiste un modello unico ed esclusivo di democraticità e che è necessario, invece, valutare secondo ragionevolezza[98] le specificità del rapporto fra assetto dei valori individuato dalla norma giuridica e processi di regolazione sociale di riferimento.

Le evoluzioni del concetto di democraticità e del ruolo dei partiti nella scena politica consentono di riconsiderare il regime associativo e di affrontarlo in una prospettiva adeguata ai nuovi scenari.

In primo luogo è necessario tornare a riflettere sulla utilità della tradizionale separazione dei profili di rilevanza interno ed esterno del metodo democratico richiesto dall’art. 49 cost.

In secondo luogo è necessario rivedere il rapporto fra regime pubblicistico e regime civilistico della partecipazione e riconsiderare nella nuova prospettiva la portata diffusiva del valore costituzionale della democraticità e delle sue specifiche declinazioni.

Si tratta, in particolare, di ricostruire il regime civile dei rapporti tra partiti e società, quello dei rapporti tra partiti e quello dei rapporti associativi interni. I tre regimi costituiscono le componenti essenziali di una visione del metodo democratico fondata sul pluralismo competitivo e non su quello antagonista.

In un contesto di pluralismo competitivo, si deve ammettere che l’affermazione di regole di metodo e i richiami alla legalità democratica non possono costituire limitazioni della libertà politica. D’altra parte, l’evoluzione dei regimi associativi, in àmbiti diversi da quello partitico, è testimonianza di una profonda maturazione del senso di democraticità e dell’irrinunciabilità del relativo valore.

Ovviamente, l’inquadramento in una prospettiva civilistica delle relazioni interpartitiche e delle relazioni intrapartitiche dovrebbe essere condotto abbandonando ogni schema pregiudiziale sul ricorso a istituti e strumenti elaborati nel contesto associativo tradizionale e già utilizzati per escludere (o per esorcizzare) ogni forma di controllo sull’esercizio dell’autonomia associativa.

Il percorso proposto impone di rileggere i singoli problemi in una nuova ottica di sistema, con l’attenzione rivolta alla specificità dell’àmbito di relazioni.

Il metodo democratico è richiesto come «previsione di maniera nelle leggi di sostegno dell’associazionismo»[99]. La previsione di maniera, molto probabilmente, va ben oltre la semplice condizione per l’attribuzione di benefici e costituisce il presupposto per il riconoscimento di funzioni di interesse generale. Nel caso specifico della disciplina dei partiti si deve, anzi, registrare che l’esplicitazione della democraticità è intervenuta in sede di abolizione (tendenziale per quanto si vuole) del sostegno pubblico.

Si deve ritenere, piuttosto, che il carattere della democraticità costituisca un paradigma irrinunciabile di tutte le manifestazioni di socialità. Al di là dell’originaria accettazione del pluralismo antagonista, regolato solo nella forma elettorale pubblica, una democrazia matura esige un’articolazione molto piú estesa dei processi di definizione degli «spazi pubblici» e delle regole di ammissione, di esercizio del confronto e della concorrenza al loro interno.

È proprio per questo che è necessario risolvere la reticente formula della democraticità esterna nelle sue articolate espressioni di regolazione del confronto istituzionale e di regolazione della competizione per il conseguimento di partecipazione sociale e di consenso ben piú ampio di quello elettorale.

La formula di «mercato politico», nella sua crudezza, esprime plasticamente la complessità e l’estensione dell’area di attività dei partiti[100].

 

3.1. Il quadro dei rapporti esterni all’associazione partitica non può essere limitato all’arena del confronto elettorale e dei regimi pubblicistici di presenza nelle istituzioni.

I partiti operano, innanzitutto, nel confronto con gli altri partiti e con gli interessi presenti nella società.

La definizione di regole di comportamento sociale è àmbito di diritto civile, sia perché determina le condizioni per l’istituzione delle associazioni partitiche e per l’esercizio della relativa libertà sia perché determina le condizioni per l’espletamento dell’attività in regime di confronto tra partiti in àmbiti molto piú vasti ed articolati di quelli elettorali.

Si deve prendere atto che le affermazioni (e soprattutto le critiche) sullo «Stato dei partiti» hanno spesso utilizzato in maniera riduttiva chiavi di lettura riconducibili a concezioni parlamentariste della politica, proprie della tradizione liberale.

L’esperienza dell’età repubblicana dovrebbe indurre, invece, ad una lettura piú realistica del complesso rapporto fra attività politica dei partiti, processi sociali ed economici, esercizio di poteri che in larga misura sfuggono alle determinazioni elettorali.

La complessa vicenda dei «patti di coalizione» e del loro (incerto) regime giuridico esprime con evidenza la rilevanza e la complessità del ruolo dei partiti prima e dopo le competizioni elettorali.

Sotto questo profilo, si deve affermare, dunque, che la democraticità dell’associazione partitica costituisce una componente essenziale del piú ampio modello di democrazia e ne rappresenta la garanzia di legittimazione sociale.

 

3.1.1. La libertà di associazione si articola, innanzitutto, come libertà organizzativa. La libertà organizzativa incontra i limiti propri del rispetto dei valori costituzionali (specie di quelli di rispetto della persona, della sua dignità, della parità) e ne resta condizionata solo nella misura della conoscibilità della proposta politica e della tutela delle relazioni con i terzi.

 

3.1.1.1. La democraticità si pone come limite alla libertà di forma solo in quanto istituisce specifici obblighi di pubblicità che consentono all’opinione pubblica di conoscere le scelte fondamentali e gli elementi identificativi che esprimono i valori propri del partito.

 

3.1.1.1.2. Il tipo associativo costituisce una disciplina sintetica di un complesso di profili regolativi di interessi di natura non necessariamente patrimoniale meritevoli di tutela. La libertà di tipo organizzativo incontra, ovviamente, il limite della garanzia dei rapporti economico patrimoniali. Ancor piú significativamente, essa deve essere bilanciata con l’esigenza di tutela della correttezza nei rapporti non patrimoniali tra l’associazione e i terzi quando l’attività caratterizzante è istituzionalmente rivolta verso l’esterno dell’associazione e costituisce un vero e proprio confronto competitivo[101].

L’affermazione della libertà associativa in partiti istituisce un sistema di limiti reciproci all’azione di ciascun partito e tollera soltanto regolamentazioni funzionali. Le ipotesi di adozione per i partiti di forme tradizionali di personalità giuridica non sembrano coerenti con il principio di libertà, sia per la natura essenzialmente patrimonialistica dei tipi conosciuti sia per l’insostenibilità di regimi amministrativi (o assimilabili) di controllo finalistico.

I problemi che emergono nelle ipotesi di adozione di forme di riconoscimento già previste dall’ordinamento italiano dovrebbero, semmai, indurre ad un’attenta ricerca di nuovi tipi associativi adeguati all’esercizio della funzione politica. (Legge sulla limitazione della responsabilità patrimoniale).

Del resto è opportuno ricordare come il regime di associazione non riconosciuta dei partiti sia già stato significativamente modificato in materia di responsabilità patrimoniale ridimensionando in modo incisivo l’esigenza di ricorrere alla personalità giuridica.

Diviene sempre piú rilevante, invece, l’esigenza di un regime delle relazioni sociali dei partiti che vada oltre la semplice regolazione del confronto elettorale.

L’adozione di un regime statutario per i partiti è un possibile percorso per la definizione di un tipo associativo specifico orientato alla tutela della libertà di esercizio della funzione sociale su terreni diversi da quello economico-patrimoniale.

 

3.1.1.2. La democraticità dei rapporti interni all’associazione, d’altra parte, appare sempre piú come un requisito irrinunciabile della soggettività collettiva. L’opinione che si va affermando è che l’ordinamento non possa tollerare relazioni espresse da soggetti collettivi che non rispettino al loro interno regole di formazione della volontà fondate sulla pari dignità e siano in contrasto con i valori costituzionali fondamentali.

Come non è possibile cristallizzare fuori dai riferimenti storici il contenuto della democraticità, sembra anche difficile immaginarne un modello unico, avulso dal riferimento agli specifici contesti.

Neppure nell’ordinamento pubblico è possibile individuare un modello unico in quanto coesistono regole articolate di formazione della rappresentanza e, ancor piú, di determinazione della volontà collettiva. La stessa ipotesi di un limite all’esercizio di poteri da parte di minoranze risulta significativamente rimessa in discussione dalla diffusione di sistemi elettorali premiali che attribuiscono a minoranze piú o meno qualificate poteri «sproporzionali».

Il modello adottato dall’art. 8 cost. per regolare la libertà delle confessioni acattoliche è quello del diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Il principio di democraticità non è espressamente citato, tuttavia il rinvio all’ordinamento giuridico italiano costituisce un potenziale richiamo al sistema di valori costituzionali che si riassume nella democraticità, come la tutela della persona, della dignità, dell’eguaglianza[102].

Ancor piú in àmbito regolato da patti di autonomia privata si deve ritenere che siano tollerabili forme di «sproporzione» di poteri[103].

L’ordinamento delle società commerciali conosce e tollera «sproporzioni» ed esclude solo quella del c.d. patto leonino a condizione che «Il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite, deve essere riguardata in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste anche […] quando le condizioni della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria delle parti, di realizzo impossibile, e nella concretezza determinino una effettiva esclusione totale da dette partecipazioni, con la costanza ragguagliata al periodo di partecipazione del socio in posizione dominante»[104].

Dal principio formulato in materia societaria si può fare derivare, dunque, la considerazione che la democraticità non sia circoscritta alla rigorosa proporzionalità dei poteri attribuiti agli associati.

Allo steso tempo, tuttavia, si deve ritenere che qualunque modifica al criterio proporzionale debba trovare adeguato e ragionevole fondamento nella tutela di interessi meritevoli.

In materia di Onlus, la Cassazione[105] ha avuto modo di chiarire che «le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), ai sensi del d.lg. 4 dicembre 1997, n. 460, art. 10, sono le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica, i cui statuti o atti costitutivi, devono prevedere espressamente alcuni requisiti formali, e tra questi la effettività del diritto di voto per gli associati ed i partecipanti in relazione alla nomina degli organi direttivi dell’associazione. La previsione e la presenza di due membri di diritto viola sicuramente la norma sopra riportata tanto piú che, come constatato dal giudice, con accertamento di merito insindacabile in questa sede, nessuna decisione poteva essere presa dal consiglio di amministrazione della onlus in mancanza del voto di un membro di diritto, in violazione del principio di democraticità di cui al d.lg. 4 dicembre 1997, n. 460, art. 10».

La declinazione concreta del principio di democraticità in una clausola si traduce, dunque, nella ricerca del piú ragionevole assetto di contemperamento fra la tutela dei valori essenziali (come quello della pari dignità) e le concrete esigenze di regolazione degli interessi specifici. Come nella concreta attuazione dell’eguaglianza sostanziale dell’art. 3, comma 2, cost., anche nel caso della democraticità che di quella norma è espressione, è necessario ricorrere al principio di ragionevolezza

 

3.1.2. Nella lettura che si propone, il regime associativo presenta una ulteriore articolazione oltre quella fra profilo pubblicistico e profilo privatistico. Si deve considerare che il profilo privatistico si riferisce all’intero complesso delle relazioni sociali delle associazioni (e specificatamente delle associazioni partitiche). Con una semplice analogia con quanto si registra in materia di società lucrative, si può individuare un’adeguata differenziazione fra profilo dei rapporti fra associazioni partitiche (interpartitici) e profilo dei rapporti fra associazioni e associati (intrapartitici).

Il sistema dei rapporti fra partiti e società nella duplice dimensione interpartitica e intrapartitica costituisce la rete istitutiva della democrazia repubblicana. Esso esige una regolazione giuridica corrispondente e funzionale, idonea a garantire la democraticità delle relazioni. Ancóra una volta, in analogia e in alternativa rispetto alle relazioni di mercato, la democraticità costituisce un principio di sistema delle relazioni sociali (oltre che delle relazioni pubbliche-istituzionali).

 

3.1.3. Nell’esperienza della Repubblica democratica le associazioni hanno subíto significative trasformazioni, anche in corrispondenza delle trasformazioni del ruolo dei partiti. In una prima fase il sistema associativo si è diviso fra un sottosistema strumentale ai partiti e un sottosistema di rilevanza quasi esclusivamente privata, limitata all’attività dei soci. Con la crescita del senso di cittadinanza attiva il sistema si è progressivamente autonomizzato dai partiti, fino a proporsi come modello istituzionale alternativo.

La vicenda rappresenta il superamento del modello monista dello Stato-partito (partito unico ente pubblico-istituzioni corporative collaterali) e, contemporaneamente, del pluralismo antagonista della prima fase repubblicana (partiti conflittuali-associazionismo collaterale). L’esaurimento delle contrapposizioni ideologiche ha cancellato la natura di «parte-totale» dei partiti ed ha consentito di proporne un regime articolato e definito.

In questo quadro è possibile immaginare una nuova dimensione attuativa del valore della democraticità e la sua evoluzione da principio di garanzia del pluralismo antagonista a clausola generale di regolazione del pluralismo competitivo.

 

3.1.3.1. L’evoluzione della democrazia da un modello statalista a partecipazione partitica ad un modello di partecipazione istituzionale sociale diffusa costituisce, dunque, il presupposto piú significativo della crisi dei partiti e della ricerca di nuove ipotesi regolative.

L’autonomia della politica proclamata dai partiti a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta coincideva con la crisi di legittimazione sociale degli stessi partiti e con la progressiva affermazione di nuove dimensioni della democraticità.

In questa prospettiva si devono riconsiderare, in primo luogo, le regole fondamentali dei rapporti fra partiti e società per effetto delle nuove visioni del pluralismo e della sussidiarietà.

 

3.1.3.1.1. La nozione di pluralismo, come quella di democrazia, è storicamente determinata e dipende dalla tipologia e dalla profondità delle fratture (cleavages) che caratterizzano ciascuna fase. A ciascuna concezione del pluralismo corrisponde una specifica articolazione delle tecniche di tutela del grado di ammissibilità del confronto e della qualificazione come libertà/riconoscimento dell’aspettativa di partecipazione.

 

3.1.3.1.1.1. La libertà di associazione è stata concepita come libertà di costituzione di nuovi soggetti dell’ordinamento subordinatamente alla ricorrenza della condizione della irrilevanza sociale dello scopo associativo connessa alla responsabilità patrimoniale individuale dei responsabili. In presenza di scopi socialmente rilevanti, l’ordinamento richiede, invece, un riconoscimento al quale associa la limitazione di responsabilità patrimoniale. Lo schema immaginato nella vigenza dell’ordinamento corporativo è stato sostanzialmente riprodotto nel disegno costituzionale fino a comprendere fra gli scopi socialmente rilevanti e sottoposti a riconoscimento anche quello sindacale, pur con le declinazioni in termini di libertà associativa che sono state sviluppate dalla dottrina (specie di derivazione civilistica)[106] e dalla giurisprudenza costituzionale[107].

Unica eccezione allo schema è stata quella relativa alla libertà di costituzione dei partiti. La formula adottata dalla Costituzione non prevede un riconoscimento-controllo ma sottopone la libertà di associarsi in partiti alla ricorrenza del «metodo democratico».

Nonostante le varie possibili interpretazioni della portata della previsione, non sembra possibile istituire alcun riconoscimento-controllo alla costituzione senza violare la libertà prevista dall’art. 49 cost.

Ferma la libertà di costituzione, tuttavia, è sempre possibile immaginare la previsione di elementi essenziali idonei a garantire la sussistenza del «metodo democratico» come condizione d’esercizio.

 

3.1.3.1.1.2. La libertà associativa dei partiti trova specificazione come libertà di concorrere all’acquisizione del consenso (non solo elettorale) e di nuovi associati. A ben vedere si tratta di una particolare libertà di concorrenza in assenza di mercato. Essa si manifesta come orientamento a costituire legami in forma di rapporti associativi che sono ben diversi dai legami di fidelizzazione della clientela commerciale.

D’altra parte, la proiezione tipicamente pubblica dell’attività di partito e la dialettica della comunicazione politica non possono essere semplicisticamente ricondotte al regime dell’identità della persona umana.

Le tutele specifiche di diritto industriale trovano un limite nella impossibilità di istituire diritti di esclusiva su quella particolare categoria di idee rappresentata dai progetti politici. Le tutele tipiche della disciplina codicistica dell’identità personale, a loro volta, sono immaginate come proiezione dell’unicità e dell’irripetibilità della persona umana.

Per quanto sia possibile immaginare una piú facile analogia fra le esigenze di tutela della non confondibilità dei partiti con quella delle attività imprenditoriali, resta sempre l’esigenza di costruire un regime specifico. È necessario andare oltre il regime della legislazione elettorale, anche in considerazione dell’estensione dell’attività dei partiti oltre la specifica fase elettorale.

 

3.1.3.1.2. La democraticità sociale del modello repubblicano si esprime anche con la valorizzazione della sussidiarietà. In particolare, l’indicazione formulata nella Quadragesimo anno ha inciso, sin dall’elaborazione della Costituzione, sulla concezione delle autonomie sociali nei confronti dello Stato (e delle istituzioni pubbliche)[108].

Le metamorfosi del ruolo dei partiti si sono intrecciate significativamente con lo sviluppo delle concezioni della sussidiarietà. Il modello di pluralismo antagonista si caratterizzava per la mediazione partitica della sussidiarietà: ciascun partito si proponeva come espressione di specifico canale di organizzazione integrale dell’esperienza vitale, quasi come una chiesa. La complessità organizzativa ed il monismo ideologico di ciascuna esperienza trovavano forma in una serie di rapporti convenzionali quasi sempre di natura fiduciaria. Spesso si ricorreva a forzature degli strumenti contrattuali che dissimulavano la natura di rapporti di dipendenza o affiliazione al partito di organismi apparentemente indipendenti.

La svolta culturale degli anni Sessanta determinò una evoluzione della concezione della sussidiarietà come rottura del modello a mediazione partitica ed affermazione dell’autonomia della politica e dell’autonomia dell’associazionismo dalla politica.

I partiti si trovarono progressivamente limitati nello svolgimento di attività di promozione sociale e la conseguenza fu l’esclusione dalle normative di sostegno.

 

3.1.3.1.2.1. Lo sviluppo di una dimensione circolare della sussidiarietà costituisce il presupposto per una tendenziale ripartizione delle competenze sociali e tende ad affermare un principio di tendenziale separazione fra l’attività politica ed eventuali altre attività di rilevanza economica, anche se finalizzate al finanziamento delle attività propriamente di partito[109].

 

3.1.3.2. Per cogliere in tutta la loro dimensione gli effetti delle nuove concezioni della democraticità la riflessione non si può limitare solo ai princípi di pluralismo e sussidiarietà. È necessario sviluppare anche il ragionamento sugli istituti complementari che ne rendono possibile l’articolazione e l’attuazione.

Si devono considerare, in primo luogo, gli istituti che regolano il rapporto fra la singola associazione partitica e la società con il fine precipuo di renderne conoscibili progetto politico, mezzi, organizzazione e, quindi, di comunicarne all’opinione pubblica l’identità politica reale, al di là delle semplici dichiarazioni e/o delle simbologie adottate.

 

3.1.3.2.1. Gli istituti che garantiscono la comunicazione sostanziale possono essere considerati come espressione di quell’aspetto della democraticità che viene correntemente definito trasparenza. Non è un caso se il termine trasparenza è la traduzione nel lessico politico del termine russo glasnost utilizzato da Gorbaciov per indicare la necessità di openess (apertura) del PCUS nei confronti dell’opinione pubblica. La mancanza di glasnost fu ritenuta da Gorbaciov causa primaria della crisi del modello di partito-Stato che avrebbe determinato la fine dell’esperienza socialista sovietica.

 

3.1.3.2.1.1. La trasparenza implica, innanzitutto, una concezione della comunicazione pubblica dell’attività di partito volta a rendere conoscibili e verificabili le scelte e le decisioni. Ancor piú a fondo si deve ritenere che la trasparenza costituisca presupposto della democraticità sia come divieto di segretezza di aggregazioni interne ai partiti sia come limite alla stessa riservatezza dei dati sensibili dell’attività di partito[110].

 

3.1.3.2.1.2. L’esigenza di trasparenza impone altresí l’obbligo di comunicazione di informazioni essenziali per la conoscenza delle fonti di finanziamento e per il conseguente regime di impegni (politici e morali, ancor prima che giuridici) del partito.

In particolare, la disciplina della redazione della contabilità e della sua pubblicità, della certificazione, dei limiti e della comunicazione obbligatoria dei finanziamenti privati non può essere considerata una semplice evoluzione della pubblicità della gestione dei finanziamenti pubblici introdotta già nel 1974 volta a rendere verificabile l’uso delle risorse pubbliche. Si deve ritenere che si tratta, invece, di una vera e propria disciplina limitativa del sostegno privato degli associati e dei non associati che tende a rendere espliciti i rapporti di sostegno nei confronti del partito.

Sia per il profilo limitativo della contribuzione privata sia per il profilo comunicativo della stessa, la disciplina svolge un ruolo essenziale di garanzia della democraticità come garanzia della coerenza tra fonti di finanziamento e obiettivi politici del partito.

 

3.1.3.2.2. Il regime di conoscibilità degli elementi essenziali dell’attività dell’associazione partitica svolgono un ruolo particolarmente importante nell’àmbito delle relazioni fra l’associazione e il pubblico dei potenziali aderenti ai quali si rivolge la proposta politica.

L’apertura al pubblico della compagine associativa dovrebbe costituire uno degli strumenti essenziali per consentire ai cittadini l’esercizio del diritto di partecipazione e, contemporaneamente, il principale canale di sostegno al funzionamento del partito.

Nonostante la centralità della funzione di aggregazione, la tutela della libertà dei componenti l’associazione non può tollerare l’imposizione di accessi di aspiranti portatori di valori non coerenti con quelli espressi dal partito. La mutazione della concezione del pluralismo da antagonista a competitivo, tuttavia, ripropone il problema del diniego di ammissione anche se in termini meno drammatici di quanto non succedesse in passato.

 

3.1.3.2.2.1. In primo luogo si deve segnalare che l’autonomia statutaria difficilmente potrebbe spingersi fino alla determinazione di clausole in espressa violazione dei valori costituzionali di tutela della personalità, della dignità, della libertà.

Clausole lesive di quei valori dovrebbero considerarsi sicuramente nulle e non applicabili in sede di diniego dell’accesso.

 

3.1.3.2.2.2. Nel senso appena considerato emerge, dunque, un primo profilo di verificabilità del diniego di ammissione. Ma piú e oltre il limite delle clausole in violazione di valori fondamentali, il problema della verificabilità del diniego di ammissione deve essere affrontato sotto il profilo della proiezione esterna dei rapporti interni all’associazione. In particolare, si deve riconoscere che l’esclusione di qualunque possibilità di intervento delle minoranze nei procedimenti di valutazione dell’ammissione di nuovi soci potrebbe portare all’estremizzazione del potere delle minoranze e alla negazione della necessaria dialettica aggregativa.

 

3.2. Delineato il quadro dei profili di diretta rilevanza per le relazioni sociali del regime civilistico dei partiti, resta ora da riconsiderare l’incidenza delle nuove concezioni della democraticità sul quadro delle relazioni interne.

La problematica tradizionale del conflitto endoassociativo riemerge in una nuova luce per effetto dell’evoluzione delle concezioni del pluralismo e della funzione pubblica dei partiti.

La democraticità interna nella dimensione competitivo del pluralismo rileva almeno sotto due profili.

Da un lato, costituisce il presupposto di affidabilità e di confrontabilità di partiti che non propongono piú opzioni ideologiche incompatibili ma si muovono su terreni molto simili e tendono, quindi, ad aggregare nella medesima area sociale.

Dall’altro, costituisce il presupposto di legittimazione della scelta delle candidature per la partecipazione a procedure elettorali.

La libertà di organizzazione del partito incontra, dunque, il limite della violazione dell’interesse alla correttezza delle procedure.

Ancóra una volta la distinzione fra democraticità interna e democraticità esterna ai partiti mostra la sua debolezza e viene in evidenza la necessità di una ricostruzione che garantisca la corretta dialettica tra maggioranze e minoranze, tra associazione e associato, tra associati e non associati nel rispetto dei valori costituzionali irrinunciabili.

 

3.2.1. La recente legislazione sugli statuti dei partiti ha formalizzato regole che si sarebbero potute esplicitare già da tempo, solo che si fosse rimossa la pregiudiziale del pluralismo antagonista come fondamento della democraticità. Non ha senso processare la storia. È bene prendere atto, tuttavia, che le condizioni che hanno limitato la lettura costituzionalmente orientata della disciplina associativa partitica sono venute meno. Come dimostrano anche prime prese di posizione della giurisprudenza, a prescindere dalla qualificazione formale di partito, le associazioni che intendono comportarsi da partito non possono eludere il rispetto dei valori costituzionali che integrano la democraticità. L’affermazione, d’altra parte, trova ulteriore sostegno nella considerazione che l’attuale ordinamento ha esteso la richiesta positiva di democraticità, ancor prima che ai partiti, alle associazioni che svolgono azioni politiche rilevanti nei vari àmbiti della cittadinanza attiva.

 

3.2.1.1. Con la formula della pari dignità si vogliono richiamare, contemporaneamente, i valori espressi negli artt. 2 e 3 cost. nella inscindibile composizione della tutela dell’individualità e della socialità della persona con l’eguaglianza formale e sostanziale.

La formula si traduce certamente in un divieto di regimi preclusivi per i cittadini (fatti salvi espressi limiti costituzionali). Essa, tuttavia, non si limita all’istituzione di un regime negativo ma impone azioni positive adeguate al superamento delle diseguaglianze di fatto.

L’esempio piú facile è ovviamente quello della tutela positiva della parità di genere.

 

3.2.1.2. L’attuazione della pari dignità all’interno dell’associazione, d’altra parte, non può prescindere dalla disponibilità di un adeguato accesso all’informazione interna come presupposto di effettiva partecipazione.

 

3.2.2. Nell’àmbito delle regole di tutela dei valori essenziali della personalità e della partecipazione una considerazione particolare deve essere rivolta, infine, alle forme e alle garanzie della dialettica interna, sia nella direzione della tutela delle posizioni minoritarie sia nella direzione della libertà di esercizio delle funzioni delle maggioranze.

 

3.2.2.1. La libertà di esercizio delle funzioni di indirizzo incontra il limite delle garanzie attinenti alla piú larga libertà associativa. In tanto una componente può considerarsi maggioranza in quanto sia garantita la possibilità di articolazioni interne che propongono e sostengono posizioni concorrenti ma non inconciliabili con l’identità essenziale dell’associazione.

A tutela delle reciproche posizioni si devono prevedere, dunque, istituti di garanzia partecipativa che esprimano il livello di condivisione minimo indispensabile perché si dia associazione.

 

3.2.2.1.1. Il problema del rispetto delle maggioranze si presenta sia come problema della ragionevolezza dei suoi limiti sia come problema di definizione della sede associativa titolare del potere di disponibilità del rapporto.

Il limite di ragionevolezza al potere delle maggioranze si presenta come sintesi dei valori di tutela della dignità e dell’eguaglianza nell’interpretazione delle clausole statutarie[111] e nell’esercizio delle funzioni che costituiscono espressione essenziale della libertà associativa.

 

3.2.2.1.2. Il profilo piú delicato del rapporto dialettico interno (con ovvie ricadute sui rapporti fra associazione e società) è costituito dai limiti alla disponibilità dello scopo associativo e, in particolare, del complesso di norme interne ed elementi identificativi simbolici nei quali si sostanzia l’identità essenziale.

Il problema si è posto con particolare evidenza in occasione del trapasso dalle associazioni partitiche eredi della prima esperienza repubblicana alle nuove organizzazioni partitiche del pluralismo competitivo.

La vicenda successoria della Democrazia Cristiana si è spinta fino alla dichiarazione di «non estinzione» del partito, con le vicissitudini successive del conflitto fra i partiti risultanti[112].

L’elemento piú significativo di quella vicenda, come di quella coeva della transizione dal Partito Comunista Italiano alle formazioni successive[113]è rappresentato dalla limitatezza del coinvolgimento degli associati nel percorso di scioglimento/trasformazione[114].

 

4. In conclusione di queste note sul concetto di democraticità nella disciplina delle associazioni partitiche è necessario fare riferimento pure alla problematica dei controlli.

La materia, proprio per la sua caratteristica rilevanza esterna (nel duplice senso di rilevanza pubblicistica e di rilevanza nei confronti del pubblico), esige una particolare attenzione per piú ordini di ragioni.

In primo luogo, si deve segnalare che la connotazione politica (e non solo amministrativa) dei partiti impone una particolare cautela in materia di controlli.

In secondo luogo, si deve segnalare che la stessa ragione della particolare rilevanza del ruolo costituzionale dei partiti nella determinazione dell’indirizzo esige la previsione di controlli indipendenti e idonei a garantire comunque la democraticità del metodo della partecipazione.

Le difficoltà con le quali si misurarono i Costituenti e, successivamente, dottrina e giurisprudenza dipendevano in larga misura dalla mancata risoluzione del problema di fondo della democrazia repubblicana. Sotto questo profilo, il compromesso costituzionale era stato un patto di sospensione della definizione della democraticità in attesa della determinazione di assetti politici e istituzionali dei quali unico arbitro poteva essere il popolo.

L’ipotesi di una immunità dei partiti da controlli anche giurisdizionali era un tentativo di esprimere l’autonomia e l’originarietà dell’ordinamento delle istituzioni della società rispetto all’ordinamento statale. Fu proposto troppo presto rispetto ai traumi di processi istituzionali che avevano rappresentato la degenerazione della teoria degli ordinamenti. L’esperienza legislativa successiva, in verità, avrebbe ripreso elementi e spunti significativi di quella lettura.

L’ipotesi di una estensione (o di un contenimento, secondo altri punti di vista) del regime dei controlli nell’àmbito di una ricostruzione contrattuale delle autonomie sociali, d’altra parte, risentiva troppo di una visione liberale dello Stato. Va dato atto che i riferimenti ideali di quella visione sono stati poi a fondamento di letture piú articolate e complesse del rapporto fra istituzioni dell’economia capitalistica e Stato.

 

4.1. Le caratteristiche della dialettica democratica della fase nella quale gli antagonismi di sistema della prima età repubblicana sembrano esauriti hanno consentito la sperimentazione di nuovi percorsi per il controllo della democraticità del metodo di partecipazione alla determinazione dell’indirizzo.

È stato introdotto un modello di controllo basato sulla individuazione degli elementi essenziali dell’atto di autonomia costitutiva del partito. Non si sono definiti i contenuti specifici (e politici) di ciascun elemento statutario anche se il quadro di riferimento (anche per i collegamenti con il regime europeo dei partiti) sembra essere quello della democraticità degli Stati di democrazia liberal-sociale[115].

Con il d.l. 28 dicembre 2013, n. 149, «Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore», convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 13, è stata attribuita alla Commissione di cui all’articolo 9, comma 3, della legge 6 luglio 2012, n. 9 (la quale ha assunto la denominazione di «Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici») la funzione di verificare la presenza nello statuto degli elementi richiesti dalla stessa legge, e di procedere all’iscrizione del partito nel registro nazionale, da essa tenuto, dei partiti politici riconosciuti.

Qualora lo statuto non sia ritenuto conforme alle disposizioni di legge, la Commissione, anche previa audizione di un rappresentante designato dal partito, invita il partito, tramite il legale rappresentante, ad apportare le modifiche necessarie e a depositarle, in copia autentica, entro un termine non prorogabile che non può essere inferiore a trenta giorni né superiore a sessanta giorni.

Qualora le modifiche apportate non siano ritenute conformi alle disposizioni di legge o il termine non sia rispettato, la Commissione nega, con provvedimento motivato, l’iscrizione al registro dei partiti. Contro il provvedimento di diniego è ammesso ricorso al giudice amministrativo nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione in forma amministrativa o dalla notificazione di copia integrale del provvedimento stesso.

 

4.1.2. Il controllo di legittimità democratica non si limita, ovviamente, alla verifica preventiva. La giurisprudenza in materia di associazioni sottoposte alla clausola di democraticità ha cominciato a elaborare da tempo criteri per la specificazione del suo contenuto[116]. I risultati sono stati abbastanza parziali e, soprattutto, non hanno avuto il supporto normativo che potrebbe avere una decisione in materia di partiti.

D’altra parte, l’eventuale conflittualità in materia di democraticità dei partiti potrebbe svilupparsi in sedi giurisdizionali differenziate a seconda che si tratti di vertenze inerenti l’esercizio delle funzioni di controllo preventivo o di vertenze inerenti l’applicazione della clausola di democraticità nei rapporti interni fra associazione e soci, nei rapporti fra associati, nei rapporti esterni fra associazioni, nei rapporti fra associazioni e autorità elettorali.

Le piú recenti decisioni[117] fanno prevedere significativi cambiamenti rispetto ai consolidati orientamenti non interventisti e lasciano supporre un rinnovato interesse per la problematica.

 

5. Alla conclusione di questa riflessione possiamo dare una prima risposta al quesito dal quale abbiamo preso le mosse, vòlto a cogliere il valore normativo del termine democraticità utilizzato dal legislatore per regolare il rapporto fra democrazia e partiti.

Innanzitutto, potremo dire, seguendo l’insegnamento di Sartori, che il ricorso al termine democraticità non serve ad affrontare il problema di definizione della democrazia. L’uso del termine serve, piuttosto, a specificare che il legislatore non ha potuto (e non può) fissare i contenuti della democrazia, neppure in una fase storica nella quale non si registrano piú confronti antagonistici.

Neppure all’interno di sistemi caratterizzati da visioni omogenee della democrazia è possibile definirne con esattezza i contenuti. L’omogeneità di fondo consente, tuttavia, di affrontare il problema della comparazione e della misura reciproca delle proposte di democrazia.

Il passaggio dal pluralismo antagonista al pluralismo competitivo elimina i problemi di incomparabilità e rende possibile una disciplina che determini i limiti di variabilità tra visioni omogenee della democrazia.

Solo in questo contesto e con questi limiti è possibile ammettere una regolazione e superare il compromesso dei costituenti.

Il carattere procedimentale della democrazia si afferma in tutta la sua pienezza e la democraticità ne determina i limiti di senso.

Il regime contrattuale al cui interno si esplica la libertà di associarsi cessa di svolgere le funzioni di contenitore di un’incontrollata autonomia dei privati che, vista dopo tanto tempo, sembra essere stata una diversa (magari piú individualistica) manifestazione di immunità. Il contratto di associazione in partito può assumere per intero la sua funzione di esercizio di libertà all’interno del sistema di legalità costituzionale.

I valori costituzionali fondamentali possono essere declinati come contenuti della clausola generale di democraticità che viene ad assumere la funzione di clausola di ordine pubblico politico e può consentire, in questi termini limitati, il controllo di ragionevolezza della conformità dell’autodisciplina statutaria dei partiti allo schema democratico, alle procedure partecipative essenziali, alle tutele inderogabili della persona.

 


[1] L. 8 luglio 2012, n. 96 «Norme in materia di riduzione dei contributi pubblici in favore dei partiti e dei movimenti politici, nonché misure per garantire la trasparenza e i controlli dei rendiconti dei medesimi. Delega al Governo per l’adozione di un testo unico delle leggi concernenti il finanziamento dei partiti e dei movimenti politici e per l’armonizzazione del regime relativo alle detrazioni fiscali». D.l. 28 dicembre 2013, n. 149 conv. con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 13, «Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore». Regolamento (UE, EURATOM) n. 1141/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2014 «relativo allo statuto e al finanziamento dei partiti politici europei e delle fondazioni politiche europee». Per una piú ampia analisi della normativa mi permetto fare rinvio a G. Vecchio, I Partiti. Autonomia associativa e regime europeo di democraticità nella partecipazione politica, in Tratt. dir. civ. CNN diretto da Pietro Perlingieri, II, 4, Napoli, 2016.

[2] E. Rossi, La democrazia interna nei partiti politici, in www.rivistaaic.it.

[3] A. D’Atena, Approfondimenti di diritto costituzionale, Torino, 2012, p. 42 ss.

[4] G. Sartori, Democrazia, in Enc. Treccani on line, 1992.

[5] A. D’Atena, Approfondimenti di diritto costituzionale, Torino, 2012, p. 42 e ss. V. Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, Napoli, 1985.

[6] Cass., 8 luglio 1957, n. 2696, in Foro it., I, 1957, c. 1397. Trib. Militare Territoriale di Roma, 20 luglio 1948, n. 631, in www.difesa.it.

[7] P. Costa, Lo Stato totalitario: un campo semantico nella giuspubblicistica del fascismo, in Continuità e trasformazione: la scienza giuridica italiana tra fascismo e repubblica, in Quad. fiorentini, 1999, I, p. 61 ss.

[8] A. Poggi, È ancóra attuale il dibattito sul «metodo» democratico interno ai partiti?, in www.federalismi.it.

[9] P. Perlingieri e P. Femia, in P. Perlingieri e Aa.Vv., Manuale di diritto civile, Napoli, 2014, p. 54: «Le formazioni sociali (famiglia, sindacato, partito, associazioni in genere) hanno rilievo costituzionale quali luoghi nei quali si sviluppa la personalità, sono in posizione servente rispetto alla persona. Non vi è supremazia del gruppo sull’individuo; la formazione sociale ha meritevolezza di tutela soltanto se concretamente idonea a garantire lo sviluppo di ogni persona che ne faccia parte [...]. Ne deriva, da un lato, che la lealtà nei confronti dell’associazione non giustifica egoismi di gruppo o la rivendicazione di privilegi contro gli esterni. Il pluralismo delle formazioni sociali è un bene se è bene per la persona, non una alternativa o un valore da preservare anche contro i diritti fondamentali degli associati e i diritti dei cittadini che non riescono a far parte di associazioni elitarie o non intendono farne parte. Autonomia delle formazioni sociali non significa potere della maggioranza di determinare al proprio interno le regole che vuole, senza interferenze da parte dell’ordinamento giuridico. Al contrario, la legalità costituzionale controlla gli atti e l’attività del gruppo, assicura il rispetto della dignità dell’associato e tutela l’eguaglianza e la democrazia interne alle vicende associative. Dall’altro lato, si tende ad ammettere, sul fondamento dell’art. 2 cost., il riconoscimento dei diritti della personalità (in particolare: il diritto al nome, all’immagine, alla riservatezza) ai gruppi intermedi tra la persona e lo Stato – non importa se dotati di personalità giuridica».

[10] M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006, p. 12 s. «Lo “scambio” continuo e crescente di informazioni tra sistema giuridico e ambiente sociale è, anzi, il modo specifico attraverso il quale il diritto moderno assolve le sue funzioni di ordinamento (e, di semplificazione e indirizzo) verso la realtà: approssimativamente si può dire che esso operi riconoscendo gli inputs che provengono dall’ambiente sociale, selezionandoli e qualificandoli secondo punti di vista suoi propri e facendovi seguire propri outputs».

[11] R. Scognamiglio, L’ordinamento sindacale e la sua autonoma rilevanza, in Il contributo di Mario Rusciano all’evoluzione teorica del diritto del lavoro. Studi in onore, Torino, 2013.

[12] S. Gambino, Partiti politici, forma di governo e forma di Stato (di democrazia pluralista), in Astrid Rassegna, n. 11/2013; A. Cantaro, Dopo la democrazia dei partiti, in Dem. dir., 1995, 2.

[13] P. Ridola, La dignità dell’uomo e il principio libertà nella cultura costituzionale europea, in R. Nania (a cura di), L’evoluzione costituzionale delle libertà e dei diritti fondamentali, Torino, 2012.

[14] N. Bobbio, Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia, Napoli, 1965.

[15] A. Mangia, La rappresentanza politica e la sua crisi. Un secolo dopo la prolusione pisana di Santi Romano, in www.forumcostituzionale.it.

[16] N. Lipari, Introduzione al convegno, in Partiti politici e ordinamento giuridico. In ricordo di Francesco Galgano, Napoli, 2015; D. Memmo, Il ruolo dei gruppi intermedi dalla costituente ad oggi e il contributo di Francesco Galgano alla collocazione dei partiti politici nel sistema giuridico, ivi; P. Ridola, Dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica dei cittadini. L’attuazione dell’art. 49 della Costituzione, ivi; P. Femia, Politica e libertà di contratto. I partiti politici nel pensiero di Francesco Galgano, ivi; G. Gitti, Il rapporto partiti-gruppi di interesse. L’influenza del sistema economico sul sistema dei partiti e il problema del loro finanziamento, ivi; F. Macario, Nome, simboli, immagine: titolarità dei diritti e rappresentatività del gruppo, ivi; G. Piepoli, La democrazia nei partiti. La disciplina del partito come struttura associativa, ivi; G.Azzariti, Il rapporto partito-eletto: per un’interpretazione evolutiva dell’art. 67 cost. 117, ivi. E. Resta, Partiti, maggioranza, leadership, ivi; G. Vecchio, L’art. 49 cost. e la forma privata dello «spazio pubblico», ivi; P. Perlingieri, Conclusioni, ivi.

[17] T. Greco, Norberto Bobbio: un itinerario intellettuale tra filosofia e politica, Roma, 2000.

[18] C. Mortati, Concetto e funzione dei partiti politici, cit.: «Nei due tipi di Stato, liberale e democratico, il partito assume una diversa funzionalità e quindi presenta una diversa problematica, in relazione non solo alla diversa struttura della società politica, ma altresí in corrispondenza ai diversi cómpiti che lo Stato considera come propri.

Nel regime democratico la collettività appare interessata non solo al mantenimento dell’ordine pubblico ed alla garanzia della libertà dei singoli, ma anche a che l’esercizio delle libertà stesse sia reso effettivo e si realizzi una maggiore giustizia sociale fra i cittadini. D’altra parte in tale regime all’accrescimento del numero dei cittadini attivi si accompagna la formazione di una vasta rete di raggruppamenti sociali ordinati intorno agli interessi delle varie categorie sociali, che tendono ad influenzare, per vie diverse da quelle delle competizioni elettorali, l’azione dello Stato.

In questa mutata situazione, il partito non solo deve adattare le sue strutture alla nuova entità numerica degli elettori ed alla maggiore eterogeneità della loro composizione, ma venire a contatto con gli organismi ai quali si è accennato, per ricondurli ad un’azione politica negli schemi propri del regime democratico. Appunto da questo contatto, se opportunamente ordinato e se integrato con l’impegno di consultazioni popolari su singole questioni, il partito può desumere una maggiore concretezza nella sua azione, ed una maggiore aderenza del suo programma a problemi specifici ed attuali».

[19] A. Ruggeri, «Itinerari» di una ricerca sul sistema delle fonti, XVI, Torino, 2013, pp. 184 ss., 400 ss.

[20] G. Giugni, sub art. 39, in Comm. cost. Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 268 ss.

[21] M. Basile, L’intervento dei giudici nelle associazioni, Milano, 1975. E. Del Prato, Immagini dell’autonomia privata, Torino, 2013.

[22] F. Macario, L’autonomia privata, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni Settanta del diritto privato, Milano, 2008, p. 119 ss.

[23] V. Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, cit., p. 39.

[24] G. Sartori, Democrazia, cit.

[25] A. Barbera, Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica, Introduzione al volume Una e indivisibile, Milano, 2007. (Riedizione fuori commercio della voce “Costituzione” di Costantino Mortati, per i sessanta anni della Costituzione e i cinquanta anni dal primo volume della Enciclopedia del diritto), in www.forumcostituzionale.it.

[26] Art. 2, comma 2, d.l. n. 149 del 2013.

[27] L. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Jus, 1976, p. 3 ss.; P. Perlingieri, Scuole tendenze e metodi: problemi del diritto civile, Napoli, 1989; P. Barcellona, Contributo alla discussione sul negozio giuridico, in Categorie giuridiche e rapporti sociali: il problema del negozio giuridico, Milano, 1978, p. 229 ss.; N. Irti, L’età della decodificazione. «L’età della decodificazione» vent’anni dopo, Milano, 1999; V. Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, cit.; C. Castronovo, Rileggendo Luigi Mengoni da Problema e sistema in poi, in Eur. dir. priv., 2011, p. 931 ss.; L. Nogler, L’itinerario metodologico di Luigi Mengoni, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 47/2006, in www.csdle.lex.unict.it.

[28] M. Rusciano, Lettura e rilettura dell’art. 39 della Costituzione, in www.csdle.lex.unict.it.

[29] M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, cit., p. 12.

[30] P. Femia, Politica e libertà di contratto. I partiti politici nel pensiero di Francesco Galgano, cit.

[31] B. Andò e F. Vecchio (a cura di), Costituzione, globalizzazione e tradizione giuridica europea, Padova, 2012.

[32] N. Lipari, Cambiare le regole praticate, prima di quelle dettate, in Appunti di cultura e politica, XI, 1, 1988, p. 5 ss.

[33] E. W. Böckenförde, Stato, costituzione, democrazia: studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, Milano, 2006.

[34] P. Perlingieri e P. Femia, in P. Perlingieri e Aa.Vv., Manuale di diritto civile, cit., p. 54 s.

[35] L. Elia, Realtà e funzioni del partito politico: orientamenti ideali, interessi di categoria e rappresentanza politica, in Aa.Vv., Partiti e democrazia, Atti del terzo Convegno nazionale di studio della D.C., San Pellegrino Terme, 13-16 settembre 1963, Roma, 1963, p. 107 ss.

[36] F. Raniolo, La crisi dei partiti e la sociologia di Michels: La sociologia del partito politico. La sociologia del partito politico al tempo della crisi dei partiti, in Quad. sociol., 2013, 63. G. Sartori, Partiti e sistemi di partito, Firenze, 1965.

[37] D. Zolo, Il principato democratico: per una teoria realistica della democrazia, Milano, 1992.

[38] C. Mortati, Concetto e funzione dei partiti politici, cit.: «Mentre nello Stato a partito unico si consente la facoltà di manifestazione politica ai portatori di una sola ideologia, in quello a pluralità di partiti la formazione della volontà comune è intesa come la risultante del dibattito fra concezioni contrastanti e si attua attraverso l’alternarsi al governo dello Stato di quelle forze politiche che di volta in volta sono investite del potere dal suffragio popolare, secondo il principio maggioritario. Ma questa serie alternata di propulsioni all’azione statale (alla quale sono predisposti tutti gli istituti del regime, e che tendono a garantire i diritti delle minoranze) non sarebbe in pratica possibile se essa non si svolgesse nell’àmbito di una stessa ideologia fondamentale, sulla base dell’accordo sostanziale delle varie forze contrastanti, intorno a certi princípi fondamentali, i quali valgono a caratterizzare il tipo di Stato: se non sussiste al di là delle divisioni, una omogeneità della struttura sociale che sottostà alle formazioni politiche e della quale queste appaiono espressioni».

[39] A. Barbera, Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica, cit.; E. Macaluso, Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo, Milano, 2013. S. Andò, Togliatti e Berlinguer. La discontinuità e il continuismo, in Mondoperaio, 2014, 5, p. 82 s.

[40] S. Merlini, I partiti politici e la Costituzione (rileggendo Leopoldo Elia), in Id. (a cura di), La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Firenze, 2009, pp. 5-58.

[41] L. Elia, L’attuazione della Costituzione in materia di rapporto tra partiti e istituzioni, in AA.Vv., Il ruolo dei partiti nella democrazia italiana, (Atti del Convegno di studi promosso dal Comitato regionale della Democrazia Cristiana lombarda, Cadenabbia, 18-19 settembre 1965), edito a cura del Comitato regionale DC lombarda, 1965, p. 67 ss.

[42] Aa.Vv., Piero Calamandrei e la costruzione dello Stato democratico, 1944-1948, Roma-Bari, 2007; S. Merlini, Costituzione e partiti politici, Firenze, 2008.

[43] F.Galgano

[44] P. Rescigno, Persona e comunità: saggi di diritto privato, I, Bologna, 1966; N. Lipari (a cura di), Tecniche giuridiche e sviluppo della persona, Bari, 1974.

[45] L. Elia, L’attuazione, cit.

[46] M. Rusciano, Lettura e rilettura, cit.

P. Jannaccone, Il Sindacato ed il mercato del lavoro, in Accademia nazionale dei Lincei, Rapporti tra stato e sindacati, relazione e discussione, Roma, 1956; F. Santoro-Passarelli, Esperienze e prospettive giuridiche dei rapporti tra i sindacati e lo stato, ivi; C. Esposito, Lo Stato e i sindacati nella Costituzione italiana, ivi.

[47] G. Pasquino, I problemi della rappresentanza politica, in Enc. Treccani on line, 2009; S. Gambino, Del rappresentare e del governare: la difficile riforma della ‘costituzione materiale’ del paese, fra riforme elettorali (partigiane), partiti politici (sregolati) e governi (deboli), in G. Moschella e P. Grimaudo (a cura di), Riforma elettorale e trasformazione del “partito politico”, Milano, 2008, p. 1 ss.

[48] M. Gregorio, Le dottrine costituzionali del partito politico: l’Italia liberale, Firenze, 2012, p. 32 ss.

[49] L. Carlassare, Rappresentanza politica e partiti tra pubblico e privato, in www.astrid-online.it.

[50] P. Ridola, Democrazia rappresentativa e parlamentarismo, Torino, 2011.

[51] V. Crisafulli, Partiti, Parlamento, Governo, in Id., Stato, Popolo, Governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985.

[52] C. Mortati, sub art. 1, in Comm. cost. Branca, Art. 1-12. Princípi Fondamentali, Bologna-Roma, 1975; M. Galizia (a cura di), Forme di stato e forme di governo: nuovi studi sul pensiero di Costantino Mortati, Milano, 2007.

[53] G. De Rosa e G. Monina, L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta: sistema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, 2003.

[54] M. Gregorio, L’attuazione della Costituzione: il ruolo dei partiti politici nelle riflessioni della giuspubblicistica, in G. Brunelli e G. Cazzetta (a cura di), Dalla Costituzione inattuata alla Costituzione inattuale? Potere costituente e riforme costituzionali nell’Italia repubblicana. Materiali dall’incontro di studio Ferrara, 24-25 gennaio 2013, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, 103, Milano, 2013, p. 225 ss.

[55] A. Barbera, sub art. 2, in Comm. cost. Branca, cit.

[56] A. Barbera, Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica, cit.

[57] G. Alpa, I princípi generali. Una lettura giusrealistica, in Giust. civ., 2014, 4, p. 957 ss.

[58] P. Ridola, La Costituzione della Repubblica di Weimar come esperienza e come paradigma, in www.rivistaaic.it, 2014, 2.

[59] M. Giannetto, Defascistizzazione: legislazione e prassi della liquidazione del sistema fascista e dei suoi responsabili (1943-1945), in Ventunesimo Secolo, 2003, 2(4), pp. 53-90, in www.jstor.org.

[60] G.B. Ferri, Filippo Vassalli e la defascistizzazione del codice civile, in Diritto privato 1996, Padova, 1997, p. 611 ss.

[61] P. Calamandrei, Appunti sul professionismo parlamentare, in Crit. soc., XLVIII, 5 ottobre 1956.

[62] P. Ridola, La Costituzione della Repubblica di Weimar, cit.

[63] A. Barbera, Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica, cit.

[64] Il carteggio Bettazzi-Berlinguer. Nota introduttiva di R. B., in Agg. soc., novembre 1977, p. 649 ss.

[65] A. Caruso, L’Italia cambia volto: la legge 382 e i decreti di attuazione, in Civ. catt., 1977, IV, p. 348 ss.

[66] L’art. 1 del decreto non convertito sottraeva alla pubblicizzazione alcune categorie di IPAB.

[67] Posizioni dei partiti sulle IPAB, in Prosp. assistenziali, 58, aprile - giugno 1982.

[68] Corte cost., 17 luglio 1981, n. 173, in DeJure on line.

[69] Art. 1. I princípi.

[70] La Repubblica, 28 luglio 1981.

[71] S. Lupo, Partito e antipartito: una storia politica della prima Repubblica, 1946-78, Roma, 2004, p. 299 ss.

[72] G. De Rosa e G. Monina, L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta: sistema politico e istituzioni, cit., p. 304 ss.

[73] S. Weil, Appunti sulla soppressione dei partiti politici, traduzione di Franco Ferrarotti, in Comunità n. 10, ottobre 1951.

[74] P. Gomarasca, Comunità e partecipazione. L’idea di democrazia in Pier Luigi Zampetti, Torino, 2011.

[75] G. Napolitano, Le riforme amministrative in Europa all’inizio del ventunesimo secolo, in S. Cassese (a cura di), Riforme istituzionali e disciplina della politica, Milano, 2015, p. 611 ss.

[76] L. Torchia, Il sistema amministrativo e le attività produttive: le barriere, gli ostacoli, i nodi. Studi di caso per uscire dal labirinto. Introduzione, in Id. (a cura di), I nodi della pubblica amministrazione, Napoli, 2016.

[77] C. Iaione, L’alba del giorno dopo nei servizi pubblici locali, in www.labsus.org.

[78] Autorità Nazionale Anticorruzione, Linee guida per l’affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali. Consultazione pubblica. Osservazioni pervenute, in www.anticorruzione.it.

[79] A. Tortorella, Partito come «moderno principe», in www.enricoberlinguer.org.

[80] B. Craxi, Camera dei Deputati, Resoconto stenografico 15. Seduta di venerdì 3 luglio 1992, p. 626 ss.

[81] G. Amato, Camera dei Deputati, Resoconto stenografico 170. Seduta pomeridiana di mercoledì 21 aprile 1993, p. 12841 ss.

[82] B. Craxi, Camera dei Deputati, Resoconto stenografico 174. Seduta di giovedì 29 aprile 1993, p. 13116 ss.

[83] G. Acquaviva e L. Covatta (a cura di), Il crollo. Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Venezia, 2012. S. Andò, La resa della Repubblica, Roma, 2006 e la recensione di L. Violante, Quando appassì il garofano rosso, in l’Unità, 26 agosto 2006.

[84] S. Gambino, Stato sociale e Stato socialista in Costantino Mortati, in M. Galizia (a cura di), Forme di stato e forme di governo, cit.

[85] M. Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011, p. 109 ss. D. La Rocca, Diritto e denaro: il valore della patrimonialità, Milano, 2006.

[86] N. Lipari (a cura di), Tecniche giuridiche e sviluppo della persona umana, cit.

[87] Banca e industria fra le due guerre. Ricerca promossa dal Banco di Roma in occasione del suo primo centenario, I, L’economia e il pensiero politico, II, Le riforme istituzionali e il pensiero giuridico, Banco di Roma, Bologna, 1981. G. Melis, Due modelli di amministrazione tra liberalismo e fascismo: burocrazie tradizionali e nuovi apparati, Ministero per i beni culturali e ambientali-Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 1988.

[88] A.A. Berle, La repubblica economica americana, Milano, 1966; P. Baran e P. Sweezy, (trad. it. L. Occhionero), Il capitale monopolistico: saggio sulla struttura economica e sociale americana, Torino, 1968; J.K. Galbraith, (trad. it. P. Ciocca e G. Costa), Il nuovo stato industriale, Torino, 1968.

[89] M.S. Giannini, Profili storici della scienza del diritto amministrativo, in Quad. fiorentini, II, Milano, 1973, p. 179 ss.; I. Stolzi, L’ordine corporativo: poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Milano, 2007; C. Bersani, Appunti su amministrazione e Costituzione, in M. Galizia (a cura di), Forme di stato e forme di governo, cit.

[90] G. Cotturri, Declino di un partito. Il PCI negli anni Ottanta visto da un suo centro studi, Roma, 2016.

[91] Art. 3, comma 3, l. 11 agosto 1991, n. 266 «Legge-quadro sul volontariato»; art. 10, comma 1, lett. h, d.lg. 4 dicembre 1997, n. 460 «Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale»; art. 3, comma 3, lett. f, l. 7 dicembre 2000, n. 383 «Disciplina delle associazioni di promozione sociale»; art. 90, comma 18, lett. a, l. 27 dicembre 2002, n. 289 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003)»: «rispetto del principio di democrazia interna» (per le associazioni sportive dilettantistiche); art. 1, comma 1, lett. b.1, l. 13 giugno 2005, n. 118 «Delega al Governo concernente la disciplina dell’impresa sociale» (d.lg. 24 marzo 2006, n. 155 «Disciplina dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118»).

[92] P. Perlingieri e P. Femia, in P. Perlingieri e Aa.Vv., Manuale di diritto civile, Napoli, 1997, p. 44

[93] P. Perlingieri, Dittatura del relativismo etirannia dei valori, in Iustitia, 2011, 2, p. 225 ss.; Id., I valori e il sistema ordinamentale aperto, in www.civilistica.com, a. 3. n. 1. 2014, 1; P. Femia, Segni di valore, in L. Ruggeri (a cura di), Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e influenza sul diritto interno, Atti del Convegno di Camerino 2009, Scuola di Specializzazione in diritto civile, Napoli, 2012, p. 83 ss.

[94] L. Elia, A quando una legge sui partiti?, in S. Merlini (a cura di), La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, cit., p. 5 ss.; F. Bassanini, Lo statuto democratico dei partiti e le elezioni primarie, in www.astrid-online.it; A. Ruggeri, Note minime in tema di democrazia interna dei partiti politici, in www.rivistaaic, 2010, 1; A.M. Poggi, È ancóra attuale il dibattito sul «metodo» democratico interno ai partiti?, in www.federalismi.it, 24/2014; S. Merlini, I partiti politici ed il metodo democratico, in www.astrid-online.it; T.E. Frosini, È giunta l’ora di una legge sui partiti politici?, in www.dirittoestoria.it.

[95] A. Mangia, La rappresentanza politica e la sua crisi. Un secolo dopo la prolusione pisana di Santi Romano, in Dir. soc., 2012, 4.

[96] S. Mangiameli, Partiti politici e parlamentarismo tra principio liberale e principio democratico. A partire da una riflessione su Heinrich Triepel, in E. Gianfrancesco e G. Grasso (a cura di), H. Triepel, La Costituzione dello Stato e i partiti politici, Napoli, 2015; F. Bilancia, La Costituzione dello Stato e i partiti politici: l’attualità del noto saggio di Heinrich Triepel, ivi; G. Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Roma, 2013.

[97] U. Allegretti, La democrazia partecipativa in Italia e in Europa, in www.rivistaaic.it.

 [98] G. Perlingieri, Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile, Napoli, 2015.

[99] M.V. De Giorgi, Le associazioni, in Diritto civile diretto da N. Lipari e P. Rescigno, I, Milano, 2009, p. 387 ss.

[100] D. Della Porta, Scambio politico, in Enc. Treccani on line, 1997.

[101] G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966. P. Spada, La tipicità delle società, Padova, 1974.

[102] F. Finocchiaro, sub art. 8, in Comm. cost. Branca, Bologna-Roma, 1975; G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, Torino, 5a ed., 2014, p. 108 ss.

[103] V. Rizzo, Interpretazione dei contratti, cit.

[104] Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927, in DeJure on line.

[105] Cass., 24 ottobre 2014, n. 22644, in DeJure on line.

[106] M. D’Antona, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in Dir. lav. rel. ind., 1998, p. 665 ss., in www.aidlass.it.

[107] Corte cost., 23 luglio 2013, n. 231, in DeJure on line.

[108] E. Preziosi, Il Codice di Camaldoli. Storia e attualità di un’esperienza, in Civitas, 2013, 1, 2.

[109] S. Zamagni, Paradossi sociali della crescita ed economia civile, Istituto Economico - Facoltà di economia Università della Tuscia, Viterbo, 1997.

[110] Garante per la Protezione dei Dati Personali, Provvedimento in materia di trattamento di dati presso i partiti politici e di esonero dall’informativa per fini di propaganda elettorale, n. 107 del 6 marzo 2014 (pubblicato in G.U., 26 marzo 2014, n. 71).

 

[111] V. Rizzo, Trasparenza e «contratti del consumatore» (la novella al codice civile), Napoli, 1994.

[112] G. Maestri, Appena tornata e già diffidata: la Democrazia cristiana senza pace (e i partiti senza regole), in www.forumcostituzionale.it.

[113] Trib. Roma, 26 aprile 1991, n. 9043 (ord.).

[114] G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo: Un’autobiografia politica, Bari, 2008.

[115] G. Vecchio, Stato nazionale senza partiti e partiti europei senza Stato, in La Cittadinanza Europea, 2015, 2.

[116] Cass., 11 dicembre 2012, n. 22578, in DeJure on line; Cass., 20 febbraio 2013, n. 4147, ivi. Commissione tributaria regionale Aosta, 13 aprile 2015, n. 8, in Leggi d’Italia on line.

[117] Trib. Roma, 12 aprile 2016; Trib. Napoli, 13 luglio 2016, (ord.).

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