1. Introduzione

2. Motivi dell’istituzione degli enti territoriali

3. L’articolazione territoriale del processo di integrazione europea. Il rapporto fra previsioni e realizzazioni

4. La condizione delle Regioni italiane

5. Le impostazioni della riforma costituzionale 

6. Le Politiche pubbliche come nuovo indirizzo nei rapporti Stato-Regioni

7. La sentenza della Corte Costituzionale n.251/2016 sulla Riforma Madia

8. Conclusioni

 

 

1. Introduzione

Le Regioni certamente non rientrano fra le istituzioni più amate dagli italiani. Un recente sondaggio (Demos – Repubblica 24 Gennaio 2017) rivela che le Regioni godono di notevole fiducia soltanto presso il 27% degli elettori italiani. E’ bene ricordare che, secondo il medesimo sondaggio, lo Stato ha appena la fiducia del 20% degli elettori mentre l’Unione europea si assesta al 29%; soltanto il Comune è apprezzato dal 39% dell’intero elettorato. Ciò testimonia ancora una volta che il cittadino sente come istituzione politica più vicina quella comunale, essendo presso quest’ultima più facile far sentire le proprie necessità ed i rispettivi bisogni in attesa di risposte immediate.

E’ opportuno ricordare che l’introduzione delle Regioni nella Costituzione italiana non fu espressione di un sentimento politico regionalista diffuso. Basti far presente che per circa trent’anni si ritardò l’istituzione delle Regioni ordinarie senza l’insorgere di grandi sommovimenti (v. S. Mangiameli, Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo, 2012).

Le Regioni nell’ambito dell’Assemblea Costituente furono volute da grandi costituenti (Gaspare Ambrosini, Tommaso Perassi, Egidio Tosato, Costantino Mortati etc.); la Costituente, pur non adottando una scelta federale, individuò nelle Regioni un organismo dotato di autonomia politica da cui primariamente conseguiva l’autonomia legislativa (C. Desideri, Se le regioni italiane abbiano un fondamento territoriale e quale sia, 2012).

L’esperienza regionale in Italia iniziò con le Regioni speciali (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, etc.) la cui autonomia fu concessa anche per tenere unito lo Stato italiano ed evitare “ fughe” scissionistiche. L’impostazione di alcuni Statuti speciali (ad esempio quello siciliano) influenzò i Costituenti che, dopo ampi dibattiti, istituirono le Regioni, novità assoluta per la struttura istituzionale italiana.

Nonostante le previsioni costituzionali, ad eccezione delle Regioni Speciali, l’istituto regionale rimase inattuato fino al 1970. Anche successivamente, comunque, vi è stato un continuo tentativo politico-burocratico di ridimensionare il ruolo delle Regioni in termini di competenze legislative ed amministrative, facendo dipendere le istituzioni regionali quasi esclusivamente dalla finanza derivata.

Il Titolo V della Costituzione rimase sostanzialmente inattuato e soltanto nel 2001 se ne approvò una profonda modifica, cercando di delineare uno Stato quasi federale. Si arrivò alla riscrittura del Titolo V del 2001 anche per intercettare una grossa “spinta” federalista emersa “prepotentemente” in alcune aree del centro-nord del Paese espressa, fra l’altro, da alcuni partiti ed in particolare dalla Lega Nord.

Nonostante questa “tensione” popolare – anche per molte contraddizioni del nuovo testo costituzionale – il Titolo V “rinnovato” è rimasto sostanzialmente inattuato per le resistenze politiche-burocratiche che hanno cercato di “ritagliare” le competenze statali a danno delle Regioni godendo anche dell’“avallo” della Corte Costituzionale. Le norme costituzionali, talvolta contraddittorie, hanno generato un considerevole contenzioso Stato – Regioni presso la Corte Costituzionale (v. i rapporti ISSiRFA sulla giurisprudenza costituzionale a rilevanza regionale); spesso, quest’ultima ha privilegiato le istanze del legislatore nazionale elaborando interpretazioni costituzionali che hanno ridimensionato le novità del nuovo Titolo V.

L’esempio più evidente è forse stato quello concernente l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. Fu approvata la legge delega n. 42 del 2009 che avrebbe dovuto permettere la realizzazione del federalismo fiscale in Italia; in seguito furono varati numerosi decreti delegati (seguendo procedure abbastanza complesse indicate dalla suddetta legge n. 42 del 2009) per concretizzare le disposizioni di principio contenute nella delega (v. S. Mangiameli, Il federalismo fiscale e l'evoluzione del regionalismo italiano, 2011).

Nel frattempo scoppiò la grande crisi economica che iniziò negli Stati Uniti nel 2008 che in una fase successiva si propagò in Europa e di cui ancora non si intravede la conclusione. A quel punto, l’Unione Europea ha adottato una politica economica “particolarmente restrittiva” (a differenza degli Stati Uniti che hanno optato per una politica espansiva) ed ha richiesto significativi sacrifici soprattutto ai Paesi del Sud Europa (es: Italia, Grecia, Spagna, Portogallo) dati i loro pesanti deficit di bilancio. Tutto ciò ha prodotto un “riaccentramento” delle decisioni economiche in favore degli Stati nazionali e le leggi finanziarie in Italia (soprattutto negli anni 2010 – 2013) si sono caratterizzate per tagli ingenti ai fondi delle Regioni e degli enti locali.

Tali normative sono state spesso oggetto di contestazioni da parte delle Regioni presso la Corte Costituzionale ma quest’ultima frequentemente ha difeso le disposizioni delle finanziarie nazionali, sostenendo che, in presenza di una crisi economica di così vaste dimensioni e per rispettare gli impegni “presi” in sede europea, il coordinamento della finanza pubblica, pur rientrando fra le materie di potestà concorrente, dovesse essere attribuito allo Stato. Le Regioni e gli enti locali hanno così dovuto far fronte a numerosi impegni presi con i cittadini nonostante le notevoli riduzioni dei trasferimenti statali.

Peraltro le disposizioni finanziarie statali sono state la diretta conseguenza di scelte normative – contabili (patti di stabilità europeo-nazionale-regionale; six pack; fiscal compact; etc.) adottate in sede comunitaria. L’Italia – co n uno zelo per molti aspetti eccessivo – si è adeguata a quest’ultime con la modifica costituzionale dell’articolo 81 della Costituzione ( legge costituzionale 20 Aprile 2012 n. 1) e con la successiva normativa di attuazione ( legge 24 Dicembre 2012 n. 243).

 In questo periodo certamente “ non florido” per l’economia italiana, si è inserita – a mio giudizio non a caso – la campagna di stampa sui costi della politica sia a livello nazionale che regionale e degli enti locali.

In particolare le Regioni sono state accusate di inefficienze, di forte presenza di fenomeni corruttivi e soprattutto di sperpero del denaro pubblico in un tempo in cui sono stati richiesti grossi sacrifici ai cittadini (ad esempio inchieste giudiziarie sulle spese pazze dei consiglieri regionali, anche se talvolta le accuse formulate non hanno retto nella fase dibattimentale).

 In tale situazione di “particolare debolezza” delle Regioni, è stato presentato e discusso il progetto di riforma costituzionale Renzi -Boschi respinto dagli elettori con il referendum costituzionale del 4 Dicembre 2016.

Tale proposta, fra l’altro, era frutto della convinzione che una parte considerevole delle difficoltà italiane fossero da attribuire all’insufficiente funzionamento delle istituzioni. In particolare si intendeva modificare il bicameralismo perfetto e l’eccessivo potere legislativo concesso alle Regioni con la riforma del Titolo V del 2001.

In tal senso si proponeva l’istituzione del Senato delle Regioni che non avrebbe più concesso la fiducia al Governo e che sarebbe stato trasformato nell’organismo di raccordo fra lo Stato e le Regioni; peraltro molte delle competenze legislative regionali erano “ritrasferite” allo Stato con una forte riduzione dei margini di autonomia politica delle Regioni.

Nel rapporto Stato-Regioni si “ribaltava” l’impostazione della riforma del Titolo V del 2001: da una visione “federalista” che aveva cercato di trasferire alle Regioni competenze e poteri, il testo Renzi -Boschi adottava un ’impostazione centralista che intendeva riportare allo Stato gran parte delle materie trasferite nel 2001.

Per i proponenti la riforma costituzionale tutto ciò era la conseguenza anche dei continui conflitti Stato-Regioni e della “ conclamata inefficienza” delle istituzioni regionali.

E’ noto l’esito negativo del referendum del 4 dicembre 2016 e, pertanto, appare opportuno riflettere sul regionalismo italiano al di fuori di alcune convinzioni consolidate delle forze politiche e dell’opinione pubblica, spesso conseguenza di “orchestrate” campagne politico-giornalistiche.

Appare in tal senso interessante, preliminarmente, soffermarsi sui motivi dell’esistenza delle Regioni o di istituzioni simili in Europa (esempio Comunità Autonome in Spagna e Laender in Germania).

 

2. Motivi dell’istituzione degli enti territoriali

E’ bene ricordare che il regionalismo o comunque l’articolazione territoriale del potere appaiono strettamente connessi con il principio costituzionale del pluralismo su cui si basano tutte le Costituzioni moderne. Per realizzare un effettivo pluralismo è essenziale la separazione dei poteri. E’ opportuno altresì fare presente che il pluralismo, come principio costituzionale, implica l’articolazione dello Stato e della società.

Inizialmente la separazione dei poteri ebbe la funzione di limitarne l’espressione mediante il controllo reciproco. La stessa era coerente con l’idea secondo cui lo Stato non dovesse intervenire nello sviluppo della società: era questa la tipica impostazione del liberalismo ottocentesco.

Successivamente si passò dallo Stato liberale allo Stato sociale e lo Stato legale di diritto si trasformò in Stato costituzionale di diritto e la separazione dei poteri fu intesa in modo differente. In questa fase emersero i partiti politici e si affermarono i sistemi di governo parlamentari.

E’ tipico di questo momento storico l’“appannarsi” della separazione fra potere legislativo ed esecutivo; si assistette ad una identificazione tra maggioranza parlamentare e governo mentre si approfondì e si sviluppò la distinzione fra maggioranza ed opposizione.

In una fase successiva, furono le Costituzioni medesime a procedere alla divisione del potere attraverso l’attribuzione delle competenze agli organi statali. Con le Costituzioni “normative” il controllo non si esplicò soltanto in un controllo reciproco di un potere sull’altro ma si realizzò anche sotto forma di controllo esterno (un esempio: è dato dalla presenza di una Corte Costituzionale).

L’organismo esterno ha il compito di controllare la legittimità costituzionale, sia sul piano formale che materiale, dell’esercizio delle funzioni. Pertanto nelle democrazie costituzionali insieme al controllo interno – che si sviluppa quotidianamente nell’azione politica con la contrapposizione tra maggioranza ( che governa) ed opposizione ( che controlla) – esiste anche un controllo esterno, posto a tutela delle minoranze, ed esercitato da un organismo esterno.

Il pluralismo ed il controllo diventano più “effettivi”, anche se più complessi, attraverso l’articolazione territoriale del potere che si realizza fondamentalmente tramite i processi di integrazione sovranazionale e di decentramento territoriale dello Stato. Esiste una serie di realtà costituzionali (Unione Europea, Stato, Regioni, etc.) che insistono sullo stesso territorio, “arricchendo” la divisione del potere (cfr. A. D’Atena, Costituzionalismo multilivello e dinamiche istituzionali, 2007).

E’ questo il fondamento costituzionale delle Regioni. In Italia, la Costituzione all’articolo 5 prevede da un lato che “La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” e dall’altro che la Repubblica “… adegua i principi ed i metodi della sua legislazione all’esigenza dell’autonomia e del decentramento” che si sarebbe dovuto concretizzare ai sensi della IX Disposizione Transitoria e Finale in modo tale che “La Repubblica, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”.

Peraltro nel contesto economico globalizzato in cui siamo immersi, le nuove forme di divisione del potere assumono sempre più un valore fondamentale.

Basti pensare, ad esempio, al processo di integrazione europea per comprendere come si stia producendo un mutamento importante nella funzione della stessa Costituzione italiana.

E’ bene ricordare che l’unificazione sovranazionale in Europa è stata auspicata fin dall’inizio del processo di globalizzazione; d’altronde, non sembrano esserci alternative all’integrazione sovranazionale in presenza dei processi di globalizzazione realizzatisi a livello mondiale.

Per le nuove condizioni dell’economia globalizzata (ne è un esempio la Cina che nel giro di pochi anni è passata da quarta potenza mondiale a prima) i processi di integrazione sovranazionale, come quello europeo, sono assolutamente necessari . E’ peraltro evidente che non possiamo prevedere quali saranno gli sviluppi dei processi di globalizzazione.

Le crisi economiche del sistema potranno investire la stessa globalizzazione? I fenomeni di immigrazione dai Paesi più poveri continueranno verso i Paesi più ricchi? Alcune conseguenze delle attuali difficoltà economiche si sono già viste nelle scelte del Regno Unito con la Brexit e con la nuova amministrazione americana di Trump che intende ridiscutere alcuni Trattati (ad es. il Trattato del libero scambio tra Stati Uniti ed Europa) che avrebbero ulteriormente interconnesso le economie del mondo.

Tuttavia gli effetti della globalizzazione si sono fatti sentire in Europa a partire dagli anni cinquanta del XX secolo, pur producendo alcune conseguenze indesiderate.

Attualmente, la separazione dei poteri si esprime attraverso il pluralismo istituzionale che spesso si traduce in un’articolazione territoriale degli spazi costituzionali.

E’ indubbio tuttavia che l’attuale processo di integrazione europea presenti grossi deficit di democraticità sia per quanto concerne l’organizzazione interna sia per quanto riguarda i rapporti fra l’Unione ed i singoli Stati (v. a riguardo S. Mangiameli, Crisi economica e distribuzione territoriale del potere politico, 2013). Tutto ciò incide pesantemente anche sul pluralismo istituzionale dei singoli Stati.

Si può ben dire che l’Unione Europea presenti caratteristiche confederali nella dimensione politica soprattutto in tema di decisioni, mentre rimane federale nella sua dimensione giuridica con la prevalenza del diritto europeo nelle relazioni con gli ordinamenti degli Stati membri

A livello europeo le decisioni sono adottate mediante i negoziati fra gli Stati membri e successivamente sono imposte ai medesimi Stati compresi i Parlamenti nazionali.

La democrazia pluralista è rimasta “confinata” all’interno degli Stati membri ed “espulsa” dall’ambito comunitario; infatti le indicazioni, le posizioni e soprattutto le decisioni a livello europeo sono adottate dal binomio maggioranza-Governo (Consiglio-Commissione).

 

3. L’articolazione territoriale del processo di integrazione europea. Il rapporto fra previsioni e realizzazioni

La funzione normativa del diritto costituzionale nazionale è stata riconosciuta dal Trattato dell’Unione Europea articolo 6, comma 2), anche antecedentemente l’approvazione del Trattato di Lisbona.

Il rispetto della realtà costituzionale nazionale è sancita da altre disposizioni di diritto europeo (ad es. dall’articolo 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).

Addirittura l’articolo 4, comma 2, del Trattato dell’Unione, così come modificato dal Trattato di Lisbona, espressamente prevede che: “l’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri, insita nella loro struttura politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali”. In sostanza, l’Unione europea riconosce che esiste un nucleo costituzionale, formato dalle strutture politiche e costituzionali degli Stati membri, che deve essere preservato; lo ribadisce, in modo particolare, con riferimento all’organizzazione territoriale (ad esempio Regioni in Italia; Comunità autonome in Spagna, Laender in Germania), come parte integrante della loro realtà costituzionale.

Tuttavia è opportuno notare che il processo di integrazione europeo si è sviluppato in modo alquanto “paradossale” soprattutto in tema di divisione e controllo del potere; a livello dell’Unione, non esiste un’organizzazione incentrata sulla divisione del potere.

Infatti c’è da rilevare che l’assetto istituzionale europeo non è basato sulla contrapposizione tra maggioranza ed opposizione né esiste la centralità della legge.

Il fallito progetto del Trattato costituzionale europeo prevedeva (articoli 1-33, paragrafi 2-3) che la legge istitutiva europea e la legge quadro europea dovessero sostituire rispettivamente i Regolamenti e le Direttive. E’ bene rilevare comunque che, anche nel “fallito” Trattato costituzionale il termine “legge” non avrebbe avuto lo stesso significato che riveste negli ordinamenti nazionali (cfr. S. Mangiameli, La Costituzione europea, in Id. L’esperienza costituzionale europea, 2008).

Ai sensi delle Costituzioni vigenti, per approvare una legge deve esservi un rapporto fra maggioranza ed opposizione; mediante i processi legislativi è possibile ottenere la partecipazione delle minoranze alla produzione legislativa e/ o al controllo sull’applicazione dell’ attività legislativa medesima.

Nell’Unione europea, invece, i processi normativi discendono da “tensioni” fra gli Stati membri anziché da rapporti fra maggioranze e minoranze. Gli Stati membri restano “gli autentici soggetti dei processi di decisione politica a livello europeo”.

Le procedure attualmente seguite in sede europea mettono in discussione la doppia legittimazione dell’Unione su cui si basa il Trattato costituzionale: popolare e derivante dalla cessione di sovranità da parte degli Stati membri.

Nella versione definitiva del Trattato di Lisbona, furono soppressi i termini “ legge” e “legge quadro” e si ritornò alle denominazioni “regolamento” e “ direttiva”. Nel medesimo Trattato non è stata prevista, poi, un’attribuzione generale di competenza per l’adozione di atti legislativi in quanto le istituzioni europee decidono il tipo di atto da adottare “… di volta in volta, nel rispetto delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità”.

Pertanto sono principalmente gli Stati a prendere le decisioni politiche più rilevanti in seno al Consiglio Europeo. Il Parlamento Europeo sta assumendo un ruolo più incisivo ma la sua funzione non è equiparabile a quella dei Parlamenti nazionali. Nell’Unione europea il dibattito pubblico è monopolizzato dagli interessi nazionali degli Stati, che controllano il processo politico europeo.

Gli Stati nazionali gestiscono il processo di integrazione ed in questo modo sbarrano la strada alla partecipazione popolare dei cittadini relativamente alle questioni europee.

Il monopolio delle decisioni politiche europee rimane in mano agli Stati membri e, conseguentemente, è finalizzato alla difesa degli interessi nazionali. Gli Stati, per alleggerire la conflittualità interna, spostano le decisioni a livello europeo, trasformandole in questioni di interesse nazionale. I Governi, a prescindere dai loro orientamenti politici, rappresentano le società nazionali nel loro complesso e quest’ultime finiscono con l’appoggiarli quasi incondizionatamente (esempi in tal senso li stiamo registrando nei continui vertici in tema di immigrazione: i Governi in Europa sembrano essere mossi fondamentalmente dalle aspettative delle rispettive opinioni pubbliche nazionali).

Tutto ciò è molto grave perché viene a mancare la mediazione statale fra gli interessi sociali contrapposti; tale sintesi si esprimerebbe, in primo luogo, all’interno dei Parlamenti nazionali nei rapporti fra forze di maggioranza e di minoranza.

Il conflitto è essenziale per qualsiasi società democratica. Attualmente, invece, i conflitti sociali dei singoli Stati si rivolgono contro l’Europa, trasformandosi in conflitto fra gli interessi nazionali e l’Europa ed in ogni Stato si crea un’unità fittizia “che ostacola la contrapposizione degli interessi. In presenza dell’ Europa, in definitiva, ciascun Governo, indipendentemente dal proprio orientamento politico, inalbera la bandiera degli interessi nazionali, tanto da non lasciare spazio alle opzioni alternative, così come avviene invece nel processo politico democratico interno” (F. Balaguer, Autonomia territoriale e integrazione europea, 2017).

Ribaltando i concetti essenziali dei processi democratici, i Governi nazionali esercitano il potere senza alcuna responsabilità; questi ultimi chiedono alle opinioni pubbliche interne un consenso “incondizionato” alle loro politiche europee, ribadendo che trattasi di interessi nazionali su cui non è possibile sviluppare alcun dibattito.

Tutto ciò produce, fra l’altro, un indebolimento della funzione dei Parlamenti nazionali come organismi di confronto e di dibattito tra opzioni politiche diverse e contrapposte. I conflitti “evaporano” a livello nazionale e si trasferiscono in sede europea.

In tal modo, il controllo del potere è eluso sia a livello nazionale che a livello europeo. Tali modalità distorte di costruire il processo di integrazione europea provoca delle conseguenze pesanti all’interno degli Stati membri.

Rafforzandosi continuamente le identità nazionali, si può sostenere che l’integrazione europea si sta sviluppando “alle spalle” del diritto costituzionale interno, rappresentando un’eccezione ai processi democratici degli Stati membri e un’ elusione del conflitto sociale interno.

Come conseguenza di tutto ciò, tutti gli aspetti negativi delle politiche pubbliche sono “intestate” all’Europa. Quando i Governi nazionali hanno da adottare misure impopolari si scaricano di responsabilità e le attribuiscono alle decisioni delle istituzioni europee. E’ chiaro che questo tipo di processi rafforza le identità nazionali e indebolisce sempre di più l’Unione europea. I cittadini di molti Paesi europei si sentono distanti dalle decisioni adottate a Bruxelles e scaricano tutte le loro frustrazioni per la crisi economica sulla Comunità europea. Tutto ciò sta provocando in alcuni Stati l’insorgere di movimenti populisti che rivendicano, fra l’altro, l’uscita dall’Euro ed il ritorno a politiche nazionalistiche con il ripristino delle monete dei singoli Stati.

Per quanto concerne il pluralismo se ne riscontra un indebolimento nell’ambito delle Costituzioni nazionali e delle relative articolazioni territoriali. Il pluralismo si sostanzia in un controllo dei poteri e nel superamento dei conflitti sociali in modo democratico. Come si è rilevato in precedenza, entrambi gli aspetti sono in crisi anche per le modalità di sviluppo dell’ integrazione europea.

Peraltro non si è realizzato un serio processo di costituzionalizzazione nell’ambito comunitario.

A livello europeo, non è possibile individuare una democrazia pluralista simile a quella dei sistemi costituzionali degli Stati membri. Esiste soltanto una forma di controllo esterno, assicurato dalla Corte di Giustizia, in qualche modo rapportabile a quello delle Corti Costituzionali degli Stati membri.

Pur essendo insufficiente la “qualità democratica” del processo di integrazione europea, lo sviluppo dell’Unione ha limitato il potere politico degli Stati membri, aumentandone il controllo. L’integrazione europea sopranazionale ha prodotto un’articolazione che dovrebbe favorire la stabilità democratica degli Stati membri ed allontanare il rischio di involuzioni autoritarie.

E’ da notare, però, che la crisi economica dell’Eurozona, congiuntamente agli squilibri strutturali del pluralismo costituzionale europeo, sta realizzando gravi processi involutivi nelle articolazioni democratiche degli Stati membri. Le politiche europee, soprattutto di carattere economico, stanno incidendo sul pluralismo politico interno e stanno investendo, negli Stati politicamente decentrati, anche il pluralismo territoriale.

A livello europeo, talvolta le decisioni non sono adottate ai sensi delle competenze dell’Unione Europea e non si rispettano i procedimenti stabiliti dai Trattati, incrementando il “deficit democratico” della stessa Comunità economica europea.

A livello nazionale, le decisioni europee stanno danneggiando la democrazia pluralista. L’impostazione economica adottata in Europa (basata sul rigore, sul pareggio di bilancio, sulla riduzione della spesa pubblica, etc.) è considerata dagli organismi comunitari come l’unica possibile e gli Stati membri dell’Eurozona sono sottoposti (ad esempio Grecia, Spagna, Italia, Portogallo) a pressioni e a condizionamenti inaccettabili dal punto di vista democratico, snaturando i rispettivi sistemi costituzionali ed arrestando le potenzialità del pluralismo costituzionale.

Tutto ciò ha prodotto, peraltro, il sovradimensionamento politico dello spazio pubblico nazionale rispetto a quello europeo. Il dibattito pubblico continua a essere monopolizzato a livello nazionale e gli interessi degli Stati sono prevalenti su quelli europei e territoriali (es: Regioni, Comunità autonome), anche se le competenze statali si sono progressivamente ridotte. A livello comunitario sono prevalsi gli interessi degli Stati economicamente più forti.

“…di fronte alla debolezza di uno spazio pubblico europeo carente di condizioni democratiche di decisione paragonabili a quelle esistenti negli Stati membri, il ruolo centrale resta affidato agli Stati stessi, non secondo criteri di consenso, ma di potere politico, profondamente condizionato dal peso economico di ciascuno Stato” (F. Balaguer, Autonomia territoriale e integrazione europea, 2017).

Come conseguenza di tutto ciò i cittadini europei non si sentono coinvolti dalle scelte economiche adottate a livello comunitario; le percepiscono come imposte dall’alto e su di esse esprimono la loro contrarietà.

Gli stessi Parlamenti nazionali – che avevano difficoltà a sviluppare politiche economiche alternative rispetto a quelle dei Governi in tema di politica europea – si indeboliscono ulteriormente anche perché i Governi nazionali adottano misure di contrasto alla crisi economica ricorrendo spesso alla legislazione d’emergenza (es: in Italia i decreti legge).

 

4. La condizione delle Regioni italiane

 

E’ da premettere che in Italia le Regioni non sono mai state viste con favore dall’opinione pubblica, essendo stato sempre assai insufficiente il dibattito sull’opportunità e le motivazioni del regionalismo.

D’altronde, l’introduzione delle Regioni nel sistema istituzionale italiano operato dalla Costituzione del 1947 non fu espressione di un sentimento politico presente nel popolo italiano. E’ da collegare anche a questa mancanza di slancio vitale il ritardo (circa trenta anni) con cui furono realizzate le Regioni ordinarie.

In Germania, ad esempio, le diverse riforme della Costituzione tedesca in materia di federalismo hanno probabilmente ridotto gli spazi di autonomia dei Laender. Per alcuni aspetti, le Regioni italiane hanno visto riconosciute anche condizioni migliori rispetto ai Laender tedeschi.

Tuttavia, in Germania non sarebbe possibile mettere in discussione il carattere federale dello Stato e l’articolazione della Repubblica in Bund ed in Laender (in tal senso esiste un limite alla revisione costituzionale previsto dal terzo comma dell’articolo 79 della Costituzione tedesca).

“…l’idea stessa di un’organizzazione federale dello Stato rappresenta una parte del patrimonio culturale e della tradizione politica tedesca. Si tratta di un sentimento profondo del popolo tedesco” (S. Mangiameli, Il riparto di competenze legislative nel nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, 2017).

In Italia, invece, la realizzazione delle Regioni fu “piegata ai bisogni della classe politica” senza alcun rispetto per il disegno autonomistico della Costituzione e della funzione democratica che il nuovo ente avrebbe dovuto realizzare nei confronti della Repubblica.

La legislazione dello Stato italiano si sarebbe dovuta adeguare alle esigenze dell’autonomia e del decentramento (articolo 5 della Costituzione e IX Disposizione Transitoria e Finale) mentre quest’estraneità delle Regioni, vissuta a livello centrale, ha comportato una riduzione complessiva delle competenze legislative ed amministrative dell’ istituto autonomistico regionale ed una considerazione negativa nei confronti della spesa regionale considerata sostanzialmente clientelare.

D’altronde, l’istituzione delle Regioni non ha prodotto un’inversione di tendenza nell’opinione pubblica. Sembra che i cittadini continuino a privilegiare una visione centralistica dello Stato rispetto ad un’impostazione autonomistica incentrata sulle Regioni.

Nonostante tutto ciò, la forma di Stato individuata dalla Costituzione del 1948 appare la più rispondente alle esigenze della società italiana anche per gli sviluppi dei processi di integrazione economica ed istituzionale realizzatisi o in corso di realizzazione in questi ultimi anni.

L’Assemblea Costituente, come forma di Stato, individuò alcuni principi che caratterizzano l’azione dell’amministrazione pubblica quali, ad esempio, la democrazia politica, l’autonomia istituzionale, il decentramento amministrativo e la responsabilità economica, politica, istituzionale (su cui v. C. Esposito, La Costituzione italiana. Saggi, 1954).

Tali principi appaiono particolarmente attuali rispetto ai processi di internazionalizzazione dell’economia in corso, anche in riferimento al processo di integrazione europea.

Soprattutto per quanto concerne lo sviluppo dell’ Unione europea, all’interno dello Stato, appare necessario distribuire i compiti fra diverse entità, come prevede lo stesso diritto comunitario (v. P. Costanzo, L. Mezzetti, A. Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, 2014).

E’ preferibile un’organizzazione interna basata sul regionalismo rispetto ad una visione centralizzata dello Stato.

L’idea che ci sia un Governo centrale che possa svolgere da solo tutti i compiti statali (di interesse generale o nazionale), perciò, rappresenta un errore.

Il neo-centralismo (su cui v. S. Mangiameli, Le Regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, 2013) che sembrava sottendere alla riforma costituzionale del Titolo V appare la conseguenza di “sentimenti sbagliati”. Tale visione è stata molto influenzata dai mass-media costantemente impegnati in un’opera denigratoria nei confronti delle Regioni con notevoli refluenze nell’opinione pubblica.

La classe politica regionale, spesso non all’altezza dei compiti affidateli (anche se c’è da dubitare che tale considerazione valga soltanto per quella regionale), sta contribuendo notevolmente a far mettere in discussione l’istituto autonomistico regionale. Trattasi però di due piani completamente diversi.

Invero, “gli stessi interessi nazionali hanno assunto una duplice direzione: per un verso, essi sono espressi dai bisogni politici della comunità interna e richiedono un’autorità di riferimento a cui il cittadino può rivolgersi per ricevere una risposta concreta alla sua domanda di servizi, prestazioni e beni pubblici; per l’altro la tutela degli interessi nazionali, in un sistema ormai aperto verso le istituzioni sovranazionali, richiede che vi sia una loro rappresentazione autorevole in quelle sedi in cui si svolge la mediazione con gli interessi degli altri Stati”. (S. Mangiameli, Il riparto di competenze legislative nel nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, 2017).

La polarità fra Stato e Regioni appare quella che meglio risponde alle due esigenze testé rappresentate.

Peraltro, il ruolo delle Regioni appare consolidato sia per quanto concerne l’attività legislativa sia per quanto attiene l’azione amministrativa.

Da recentissimi dati della Camera dei Deputati, basta raffrontare le leggi approvate dalle Regioni e Province autonome italiane, dai Laender tedeschi e dalle Comunità autonome spagnole per rendersi conto di tutto ciò.

Dati Camera dei Deputati

Paese                                    Leggi approvate

                        2009   2010   2011    2012    2013   2014    2015

Italia               709      578      634      790      711      694      705

Germania      552      614      475      532      548      466      540

Spagna           179     259      169      182      175      203      208

Le leggi (leggi statali + leggi regionali) complessivamente approvate in Italia, Germania e Spagna dal 2009 al 2015 sono le seguenti:

 

Paese                                    Leggi approvate

                       2009    2010    2011    2012   2013    2014   2015

 Italia              796      651      704      900      749      766      792

Germania      699      703      628      660      726      556      669

Spagna           211      312      219      207      211      247      272

 

Da tali dati, emerge chiaramente che la produzione legislativa regionale rappresenta la maggiore fonte dell’attività legislativa in Italia; i Parlamenti e i Consigli regionali italiani hanno prodotto un numero di leggi superiori a quelle dei Laender tedeschi e delle Comunità autonome spagnole.

Peraltro, da recenti pubblicazioni della Camera dei Deputati, si evince che la potestà legislativa regionale si sia concentrata soprattutto sulle seguenti materie: tutela della salute; governo del territorio; agricoltura; servizi sociali; beni culturali; ambiente; turismo (cfr. il rapporto 2015-2016 sulla Legislazione della Camera dei Deputati).

E’ opportuno tra l’altro ricordare che trattasi di dati concernenti l’attività legislativa delle Regioni nonostante la legislazione nazionale della crisi abbia riportato molte competenze allo Stato centrale e vi sia stata la “mancata” applicazione della legge 42/2009 sul federalismo fiscale e dei relativi decreti attuativi.

 

5. Le impostazioni della riforma costituzionale

Nel frattempo sono state avanzate le proposte della riforma costituzionale Renzi -Boschi che cercavano di ridisegnare il Titolo V frutto della riforma costituzionale del 2001 (su cui v. gli atti del Convegno “Le autonomie territoriali nella riforma costituzionale” del 23 novembre 2015, Giappichelli 2016).

Appare opportuno ripercorrere le linee di fondo del testo Renzi -Boschi anche per individuare nuove strategie per lo sviluppo del regionalismo in Italia.

Partendo da un giudizio negativo sull’esperienza regionale soprattutto di quest’ultimo quindicennio, una delle maggiori responsabilità del “presunto” mancato funzionamento del sistema istituzionale è stato attribuito all’“eccessivo” potere legislativo concesso alle Regioni dalla riforma del Titolo V del 2001.

Alcune forze politiche, soprattutto di carattere governativo, hanno cercato di far credere all’opinione pubblica che gran parte dei problemi del Paese (crisi economica, scarsa produttività del sistema, disoccupazione crescente, soprattutto di carattere giovanile, inefficienza della pubblica amministrazione, etc.) dipendessero dal “cattivo” funzionamento di alcune istituzioni fra cui il Parlamento e le Regioni.

In particolare, il disegno di riforma costituzionale sottoponeva a profonde revisioni il bicameralismo perfetto e la potestà legislativa regionale; quest’ultima sarebbe stata causa del notevole contenzioso presso la Corte costituzionale. Tali disfunzioni produrrebbero lentezze e ritardi nell’adozione di decisioni rapide ed essenziali per un sistema economico globalizzato. Per tali considerazioni, la riforma Renzi -Boschi spostava l’asse decisionale delle Istituzioni italiane dal Parlamento al Governo nel tentativo di ridare efficienza al sistema politico ed economico italiano.

Al di là di ipotizzare un Senato delle Regioni che avrebbe dovuto fungere da organismo di raccordo fra il Parlamento nazionale e le autonomie territoriali (ed in particolare le Regioni), il disegno costituzionale incentrava le modifiche del Titolo V soprattutto su un ridimensionamento della potestà legislativa regionale che sarebbe stata causa del “notevole” incremento del contenzioso costituzionale e pertanto fonte di confusione nei rapporti fra Stato e Regioni.

E’ da ridiscutere questo allarme sulla litigiosità fra Stato e Regioni, perché dai dati ufficiali (vedi Il rapporto sulla legislazione 2015-2016 della Camera dei Deputati) emerge che il conflitto Stato-Regioni ha avuto un andamento ciclico, raggiungendo dei picchi in alcuni anni riassorbiti negli anni successivi con numeri più ridotti.

Comunque, l’incremento del contenzioso non è sembrato così abnorme come si è fatto credere; in presenza di un testo nuovo con molte disposizioni costituzionali imprecise e di un mancato assestamento nel riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni, si è prodotta una forte tendenza alla “ amministrativizzazione” della giustizia costituzionale in materia regionale e, conseguenzialmente, ad un incremento del contenzioso presso la Corte Costituzionale.

Qualche studioso sostiene che la giurisprudenza costituzionale nel settore «si presenta sempre più all’interprete come una sorta di “alta amministrazione” dei conflitti normativi, piuttosto che come la risoluzione di questioni dotate di rilievo “materialmente costituzionale”» (Caretti: Rapporto sulla legislazione 2015-2016 della Camera dei Deputati). Tale situazione comunque non ha impedito alla Corte Costituzionale di individuare alcuni filoni interpretativi che peraltro in questi ultimi anni si sono stabilizzati.

Nonostante tutto ciò, la riforma costituzionale intendeva in primo luogo abolire formalmente la potestà concorrente (articolo 117, terzo comma), ritenuta fra le principali cause di confusione normativa e quindi di inefficienza dell’azione statale.

La presunta soppressione della potestà legislativa concorrente era utilizzata dal testo costituzionale come “grimaldello” per riportare molte materie, antecedentemente rientranti nella suddetta potestà concorrente, nell’ambito della potestà esclusiva dello Stato. In altri settori normativi la riforma Renzi-Boschi prevedeva che lo Stato dovesse dettare norme “generali e comuni” o “ disposizioni di principio”, lasciando alla legislazione regionale gli interventi concernenti i rispettivi territori nell’ambito del quadro nazionale.

La proposta di riforma costituzionale reintroduceva altresì gli “interessi nazionali” formalmente soppressi dalla riforma del Titolo V del 2001 (anche se successivamente erano stati sostanzialmente reintrodotti dalla giurisprudenza costituzionale).

A questo “ribaltamento” dell’impostazione del 2001 la riforma Renzi -Boschi aggiungeva la “clausola di supremazia” in base a cui lo Stato poteva intervenire anche in materie non riservate alla legislazione esclusiva statale “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.

E’ evidente che le proposte contenute nella riforma costituzionale respinta dall’elettorato con il referendum del 4 Dicembre 2016 nascondevano una visione “negativa” della potestà legislativa delle Regioni.

Ciò appare conseguenza di un’impostazione “distorta” del ruolo delle Regioni nel nostro sistema istituzionale. Secondo la gran parte dei politici, dei burocrati e degli studiosi la Regione sarebbe un “ grande ente locale” (S. Mangiameli, Il riparto di competenze legislative nel nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, 2017). Tale visione dell’istituzione regionale dimentica il lungo e travagliato dibattito che si svolse in sede di Assemblea Costituente, in cui, pur avendo escluso un’impostazione federale dello Stato repubblicano, si pervenne ad uno Stato regionale dotando le Regioni di un’autonomia politica la cui massima espressione sarebbe stata rappresentata dalla potestà legislativa.

Come ben sappiamo tale impostazione – rispecchiata fra l’altro dall’articolo 5 , dal Titolo V e dalla IX Disposizione Transitoria e Finale – è stata sempre osteggiata a livello nazionale sia politico che soprattutto burocratico. Tutto ciò ha comportato una costante contestazione statale della competenza legislativa regionale; nei confronti dei rilievi nazionali, la giurisprudenza della Corte Costituzionale è stata spesso un punto di riferimento, soprattutto in quest’ultimo periodo di crisi economica in cui frequentemente si è ricorsi ad una legislazione nazionale di emergenza poco rispettosa delle competenze regionali.

Tale impostazione politico-culturale appare in contrasto con l’indirizzo dei Costituenti. Dopo un ampio dibattito in sede di Assemblea Costituente, la Costituzione delineò uno Stato che esercitava il potere legislativo tramite le leggi nazionali e regionali. Le Regioni, pertanto, non sono da considerare qualcosa di estraneo al potere statale ma enti che svolgono compiti ed esercitano poteri statali; lo Stato si sarebbe dovuto occupare degli “interessi nazionali” mediante la legislazione nazionale di principio, mentre le Regioni avrebbero dovuto realizzare i compiti statuali nell’ambito dei rispettivi territori tramite la legislazione regionale.

E’ questa la grande novità della Costituzione del 1948 e corrisponde ad analoghe soluzioni istituzionali presenti in altri Stati europei (ad esempio le Comunità autonome spagnole ed ancora meglio i Laender tedeschi); peraltro, come si accennava in precedenza, tale impostazione è stata ribadita recentemente dalle scelte normative dell’Unione Europea.

In Italia invece, conformemente ad una tradizione politico- culturale, si è considerato lo Stato come l’unico titolare del potere legislativo, paventando altrimenti rischi per l’Unità nazionale. Tale impostazione, peraltro, ha trovato ampio riscontro nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

Come conseguenza di tutto ciò, vi è stato un continuo ridimensionamento del potere legislativo delle Regioni, prima di quelle Speciali – le uniche in precedenza esistenti – e, successivamente, delle Regioni ordinarie, nonostante le previsioni dell’articolo 117 della Costituzione. Pertanto vi è stato un “ continuo rimaneggiamento del riparto delle competenze legislative come se fosse il clou dei bisogni della Repubblica Italiana, per il miglioramento dello Stato regionale.” (S. Mangiameli, Il riparto di competenze legislative nel nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, 2017).

Fino al 2001 si è sviluppato un ridimensionamento, soprattutto tramite la giurisprudenza costituzionale, del potere legislativo delle Regioni, riconducendolo a una funzione “attuativa” della legislazione statale; con la riforma del 2001 ci si è illusi che, allargando la competenza legislativa regionale, si realizzasse lo Stato regionale mentre la riforma Renzi -Boschi prevedeva un “recupero” delle competenze legislative regionali, riportandoci sostanzialmente al testo costituzionale antecedente la riforma del Titolo V del 2001 (v. M. Cavino, La potestà legislativa regionale dopo la riforma: scenari, 2016).

Ciò è avvenuto soprattutto mediante una continua “rimodulazione” dell’elenco delle materie di competenza statale e regionale nell’ambito della Costituzione; un’intensa giurisprudenza costituzionale prevalentemente in difesa delle posizioni statali ed una costante azione burocratica tendente a ridimensionare le competenze regionali hanno permesso la mancata realizzazione dello Stato regionale delineato dal Costituente.

Dovrebbe sembrare abbastanza evidente che non sarà una nuova definizione delle competenze legislative fra Stato e Regioni a risolvere le attuali difficoltà istituzionali. In tal senso, la recente riforma costituzionale, apparentemente, intendeva sopprimere la potestà legislativa concorrente, “accusata” di essere la maggiore fonte del contenzioso costituzionale, ma, sostanzialmente, la nuova distribuzione di competenze fra Stato e Regioni faceva presagire l’insorgere di nuovi contrasti giurisprudenziali; qualche commentatore aveva ipotizzato l’insorgere di una potestà legislativa concorrente “ mascherata”.

Appare opportuno ribaltare le impostazioni fin ad ora seguite anche dalla riforma Renzi -Boschi e contrastanti con le soluzioni adottate dalla Costituente. Le Regioni debbono essere considerate enti dotati di autonomia politica e componenti dello Stato mentre la recente riforma costituzionale ne disegnava un ruolo simile a quello di grandi province, a cui sottrarre al più presto quanto più competenze legislative possibili da riportare nell’ambito statale ,essendo quest’ultimo l’unico garante dell’unitarietà e dell’efficienza dell’attività legislativa.

E’ opportuno prendere atto che una “nuova distribuzione” di competenze legislative – in questa occasione in favore dello Stato – non avrebbe risolto il problema dell’efficienza dell’amministrazione pubblica sia statale che regionale.

Infatti qualsiasi rivoluzione costituzionale, come quella prevista dalla riforma Renzi -Boschi, avrebbe richiesto una lunga fase interpretativa, possibilmente presso la Corte costituzionale, per determinare effettivamente quali competenze erano affidate allo Stato e quali rimanevano alle Regioni.

“E’ bene ricordare che, dal punto di vista dell’attuazione, non basta una semplice elencazione di materie per realizzare rapporti lineari fra i diversi livelli di governo, e ciò perché i riparti di competenze, compreso quello della riforma costituzionale Renzi -Boschi, risultano poco chiari” (S. Mangiameli, Il riparto di competenze legislative nel nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, 2017)

D’altronde, è proprio l’esperienza degli Stati federali a dimostrare che l’elencazione delle materie non è servita a bloccare l’attività delle federazioni che è stata modellata in rapporto alle esigenze economiche anche internazionali e alle necessità di perequazioni economiche fra i diversi territori.

In Italia è forse giunto il momento di uscire da questo continuo conflitto fra Stato e Regioni di cui l’elencazione delle materie costituisce una linea difensiva elaborata per evitare che i contrasti degenerino.

Come avviene in alcuni Paesi europei (ad es., in Germania) bisogna anche in Italia convincersi, soprattutto a livello centrale, che lo Stato è composto da due livelli di governo: quello nazionale e quello regionale; entrambi debbono collaborare, svolgendo compiti differenti ma interconnessi, per rendere competitiva l’amministrazione italiana e più in generale l’intero Paese.

In tal senso, non è stata utile neanche la riforma delle competenze legislative del 2001 che ha cercato di spostare il baricentro della legislazione verso le Regioni, dimenticando che alcuni ambiti non potevano che rimanere statali, e, in ogni caso, generando frantumazione e confusione fra i diversi livelli (es: politica economica dello Stato). Probabilmente, neppure la riforma Renzi -Boschi avrebbe avuto gli effetti taumaturgici annunziati, pur intendendo riportare molte competenze legislative allo Stato.

 

6. Le Politiche pubbliche come nuovo indirizzo nei rapporti Stato-Regioni

Per impostare nuovi rapporti fra lo Stato e le Regioni, è opportuno ribaltare le attuali impostazioni che si concentrano sulla continua conflittualità, cercando di attribuirsi rispettivamente competenze legislative ed amministrative.

E’ preliminare intendersi sul “ruolo delle Istituzioni rispetto alla società e all’economia nel contesto di un sistema internazionalizzato e fortemente segnato dal processo europeo di integrazione. Da questo punto di vista l’elemento portante del ruolo dei soggetti pubblici, le pubbliche amministrazioni statali, regionali e locali, è quello di sviluppare politiche pubbliche che erogano servizi e prestazioni per i cittadini, oppure di assicurare le condizioni per lo sviluppo economico” (S. Mangiameli, Il riparto di competenze legislative nel nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, 2017).

E’ tutto da dimostrare che, per qualsiasi tipo di azione pubblica, la competenza statale sia necessariamente simbolo di efficienza. Come ricorda ancora Mangiameli “… la centralizzazione di una funzione pubblica si giustifica in relazione all’economia di scala che realizza”. In tal senso non basterà una semplice elencazione di materie (come prevedeva anche la riforma Renzi -Boschi) per realizzare un rapporto ottimale ed efficiente tra Stato e Regioni.

In Italia, ad esempio, necessiterebbero di una politica pubblica nazionale soltanto alcuni interventi il cui ambito naturale è certamente quello dell’intero Paese: grandi infrastrutture, giustizia, difesa, sicurezza esterna, funzionamento mercato interno, ricerca, servizi pubblici che riguardano l’intera collettività (ad es., sanità e scuola) da fornire in modo omogeneo sull’intero Paese. Si tratterebbe peraltro per lo più delle stesse materie che la Corte costituzionale in questi ultimi anni ha indicato che dovessero rientrare nella competenza esclusiva dello Stato.

Tanti altri compiti potrebbero essere affidati alle Regioni, essendo quest’ultime più aderenti alle esigenze dei singoli territori.

C’è comunque da rilevare che qualsiasi tipo di politica pubblica richiede una collaborazione costante fra i diversi livelli istituzionali al fine di rendere più efficiente e competitiva l’intera amministrazione.

Andrebbe, pertanto, superato l’attuale stato di conflittualità tra Stato e Regioni che produce soltanto contenzioso costituzionale e talvolta la paralisi e l’inefficienza nell’azione legislativa ed amministrativa.

 

7. La sentenza della Corte Costituzionale n.251/2016 sulla Riforma Madia

Nel corso del dibattito sul referendum costituzionale, la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza che si può definire certamente “innovativa” nella definizione dei rapporti Stato-Regioni, suscitando innumerevoli polemiche (tra gli altri, sulla sentenza in esame sono intervenuti: A. Poggi, G. Boggero, Non si può riformare la Pubblica Amministrazione senza intesa con gli enti territoriali: La Corte Costituzionale ancora una volta dinanzi ad un Titolo V incompiuto, 2016; E. Balboni, La Corte richiede e tutela la leale collaborazione tra Stato e Regioni, 2017; S. Agosta, Nel segno della continuità (più che della vera e propria svolta) l’apertura alla leale collaborazione tra Stato e Regioni della sentenza n.251/2016 sulla delega in materia di riorganizzazione della Pubblica Amministrazione, 2017; R. Lugarà, Sentenze additive di procedura … legislativa? Il problematico seguito della sentenza n.251 del 2016, 2017).         

La Regione Veneto aveva impugnato di fronte alla Corte Costituzionale diverse norme della legge delega 7 Agosto 2015, n.124 concernente “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” (cosiddetta Legge Madia).

La Regione Veneto sosteneva che la Legge Madia – soprattutto in materia di coordinamento informatico, di riorganizzazione della dirigenza pubblica (ad es: ruolo unico dei dirigenti regionali, modalità di accesso, mobilità della dirigenza, modalità del conferimento degli incarichi direttivi, criteri per la responsabilità dei dirigenti, principi e criteri per il conferimento di incarichi dei direttori generali, dei direttori amministrativi e dei servizi del Servizio sanitario nazionale, etc.), di delega per il riordino della disciplina del lavoro dipendente dalle amministrazioni pubbliche, di riordino della disciplina delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche, di riorganizzazione della disciplina dei servizi pubblici locali d’interesse economico generale – violasse alcuni principi costituzionali e determinate competenze legislative regionali.

A giudizio della Regione Veneto, la normativa avrebbe violato, soprattutto, il principio di leale collaborazione previsto dall’articolo 120 della Costituzione e la competenza legislativa regionale.

In particolare, il ricorso della Regione Veneto evidenziava che la legge delega 124/2015 prevedeva, per l’emanazione di molti decreti delegati, il coinvolgimento delle Regioni semplicemente mediante l’emissione di pareri, da rendere in sede di Conferenza Stato-Regioni, la cui valenza era certamente inferiore a quella della intesa;  solo  quest’ultimo strumento avrebbe reso effettiva la leale collaborazione fra Stato e Regioni.

La Corte Costituzionale, inaspettatamente, ha emesso nel novembre 2016 la sentenza numero 251 con cui ha riconosciuto molte delle istanze avanzate dalla Regione Veneto.

Pregiudizialmente, respingendo le obiezioni dello Stato, ha riconosciuto che anche le leggi di delega sono sottoponibili al controllo della Corte Costituzionale in via principale e, pertanto, possono essere impugnate dalle Regioni qualora le ritengano lesive dell’autonomia regionale; in tal senso ha ricordato alcune pronunzie precedenti (es: sentenze n. 224/1990; n. 205/2005; n. 50/2005; n. 359/1993 e soprattutto la sentenza n. 208/2010).

La Regione Veneto, nel ricorso, ha indicato gli ambiti di competenza regionale violati, a suo giudizio, dalla legge Madia ed ha specificato le motivazioni del ricorso nei confronti di diverse norme impugnate.

Entrando nel merito, la Corte ha emesso una sentenza additiva di procedura. Sostanzialmente, la Corte è intervenuta non tanto sui contenuti della legge Madia ma sulle procedure indicate dalla medesima normativa (in tal senso, si era espressa anche con la sentenza n. 7 del 2016). Tali interventi della Corte non sembrano dettati da motivazioni di “stretta legittimità costituzionale” ma da considerazioni di “opportunità costituzionale” sulle modalità di una corretta gestione dei rapporti tra Stato e Regioni.

La Corte premette che la legge delega intenderebbe incidere sulla “riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche secondo un criterio di diversificazione delle misure da adottare nei singoli decreti legislativi” (es: cittadinanza digitale: art. 1; dirigenza pubblica: art.11; lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: art.17; partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche: art. 18; servizi pubblici locali di interesse economico generale: art. 19).

Pertanto, la stessa Corte riconosce che tali normative da un lato “influiscono su molteplici sfere di competenza legislativa anche regionale” e dall’altro che “occorre verificare se vi sia una prevalente competenza statale, cui ricondurre il disegno riformatore nella sua interezza”. La Consulta ritiene, così come si è espressa in altre precedenti decisioni (sent. n 278/2010), che “occorre valutare se una materia si imponga sulle altre, al fine di valutare la titolarità della competenza”. Talvolta la valutazione della “prevalenza di una materia su tutte le altre risulterà impossibile” come in questa ipotesi ed allora si dovrà ipotizzare una “concorrenza di competenze, che apre la strada all’ applicazione del principio di leale collaborazione”.

La Corte Costituzionale, come aveva fatto già in precedenza (v. le sentt. nn. 65/2016; 88/2014; 139/2012), ritiene la “leale collaborazione, quale principio guida nell’ipotesi di intreccio di materie e competenze” ed ha ravvisato nell’intesa la soluzione che meglio realizza la collaborazione fra Stato e Regioni.

Secondo la giurisprudenza della Corte, il parere – strumento preferito dalla Legge Madia – assume un rilievo minore ponendo in una posizione di supremazia le istanze statali rispetto a quelle regionali.

La Corte, con la sentenza in esame, ha ribadito che l’intesa è lo strumento migliore anche nell’ipotesi di “… attrazione in sussidiarietà della funzione legislativa dello Stato, in vista dell’urgenza di soddisfare esigenze unitarie, economicamente rilevanti, oltre che connesse all’esercizio della funzione amministrativa”. La Corte, anzi prosegue, affermando che in tal caso l’esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale – e giustificare la deroga al riparto di competenze contenute nel Titolo V – “solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le  attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà (sentenze n.303/2003; n.7/2016)”.  

La sentenza n. 251/2016 è stata criticata in dottrina con diverse motivazioni. 

E’ stato rilevato che trattasi di una novità considerevole, in quanto, in precedenti decisioni (v. le sentenze nn. 43 e 65 del 2016), la medesima Corte aveva costantemente ritenuto che l’esercizio della funzione legislativa non fosse soggetto alle procedure derivanti dal principio di leale collaborazione, salvi i casi espressamente previsti dalla Costituzione.

In diverse occasioni (ad es. le sentenze n.112/2010 e n.196/2004), la Corte aveva negato che vi fosse “un fondamento costituzionale di simile obbligo” (e cioè il rispetto del principio di leale collaborazione).

Sostanzialmente la Corte, con la sentenza n.196/2004, non aveva individuato un obbligo di procedure  legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni. Tutto ciò non discendeva neppure dall’articolo 2 del decreto legislativo n.281/1997 che su determinati schemi di disegni di legge, di decreti legislativi o di regolamenti del Governo prevede soltanto un parere non vincolante della Conferenza Stato-Regioni.

La Corte, peraltro, si era espressa fino ad ora su norme inserite nell’ambito di decreti legislativi ma mai si era occupata di norme facenti parte di una legge delega. La violazione del principio di leale collaborazione era valutato soltanto se quest’ultimo fosse stato imposto dalla legge delega  (sent. n.225/2009; sent. n.33/2011). La Corte Costituzionale, per valutare la legittimità costituzionale di norme contenute in decreti legislativi, aveva utilizzato il combinato disposto degli articoli 76 e 5 della Costituzione, considerando il principio di leale collaborazione come uno dei limiti che, ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione, il legislatore delegante può porre al legislatore delegato.  

Nella sentenza n. 251/2016, la Corte individua nel Sistema delle Conferenze “il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale” (come peraltro si era già espressa con la sentenza n.401/2007). La Corte prosegue affermando, poi, che “si coniuga col riconoscimento, ripetutamente operato da questa Corte dell’intesa in sede di Conferenza Unificata, quale strumento idoneo a realizzare la leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie” (sentenze n. 88/2014; n. 297/2012 e 163/2012).

Successivamente, la Corte osserva che “il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa. Quest’ultima si impone, dunque, quale cardine della leale collaborazione anche quando l’attuazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale è rimessa a Decreti Delegati, adottati dal Governo sulla base dell’articolo 76 della Costituzione”.

Date tali premesse, molte delle questioni sollevate dalla Regione Veneto sono state accolte ed è stata ridisegnata l’applicazione della Legge Madia soprattutto per quanto concerne la predisposizione dei decreti delegati, ingenerando problemi applicativi per i decreti legislativi che già erano stati adottati (in tal senso, v. il parere del Consiglio di Stato 17 Gennaio 2017, n. 83)

Come si accennava in precedenza, alcuni studiosi hanno avanzato forti perplessità a riguardo, esprimendo la convinzione che, preliminarmente, bisognerebbe delimitare l’ambito di applicazione della sentenza n. 251/2016.

In teoria, l’interpretazione della Corte si dovrebbe estendere a qualsiasi forma di atto legislativo (legge ordinaria, decreti delegati, decreti-legge). Tale impostazione potrebbe produrre la paralisi del Parlamento ogni qualvolta non si realizzasse l’accordo con le Regioni.

Certamente, il coinvolgimento delle Regioni sarebbe incompatibile con l’adozione dei decreti legge, data la necessità e l’urgenza connesse ad esigenze di celerità, elementi imprescindibili per l’esistenza dei medesimi.

Secondo diversi studiosi (G. D’Amico, La sentenza sulla legge Madia,una decisione (forse troppo) innovativa, 2017; R. Bifulco, L'onda lunga della sentenza 251/2016 della Corte Costituzionale, 2017 , Lugarà, 2017, cit.) l’efficacia della sentenza n. 251/2016 dovrebbe essere limitata al procedimento di formazione dei decreti legislativi, perché solo per quest’ultimi, date le loro specifiche caratteristiche,  sarebbe opportuno richiedere una previa intesa con le Regioni.

D’altronde i decreti delegati sono atti di competenza del Governo nazionale e la Conferenza Stato-Regioni costituisce un organismo intergovernativo in cui si confrontano gli esecutivi nazionale e regionali.

Invero, “dalla sentenza sembrerebbe trapelare una  visione “regolamentare” dell’atto decreto legislativo, che pone l’accento sul profilo soggettivo dell’organo deputato alla sua adozione ( atto governativo), anziché sul profilo oggettivo dei suoi effetti nell’ordinamento giuridico ( atto avente forza di legge)” ( Lugarà, op. cit).

Pur seguendo questa interpretazione riduttiva della sentenza 251/2016, si potrebbero ingenerare degli effetti consequenziali non “brillanti”, a giudizio di una parte della dottrina, sottovalutati dal giudice costituzionale.

Il Governo e il Parlamento, pur di evitare la preventiva intesa con le Regioni sul testo dei decreti legislativi, potrebbero preferire la legge ordinaria alla legge-delega, cui il Governo è recentemente ricorso con molta frequenza. Qualche commentatore (Bifulco, cit.) ha ipotizzato, dopo la sentenza n. 251/2016, una “stretta” simile sulle leggi di delega a quella verificatasi alcuni anni fa nei confronti della decretazione d’urgenza, in conseguenza di alcune decisioni della Corte Costituzionale.

Dalla sentenza n. 251/2016, emergerebbe altresì una nuova categoria di leggi “rinforzate” e si porrebbe il problema se sia possibile abrogare o modificare normative, adottate sulla base di intese con le Regioni,  senza un preventivo accordo con le istituzioni regionali.

C’è da rilevare, inoltre, che gli effetti della sentenza in esame inciderebbero in qualche modo sulla forma di governo regionale. Se, da un lato, la Corte ha inteso salvaguardare la competenza legislativa regionale ipoteticamente sottratta dalla legislazione statale, dall’altro lato ha provocato uno “spostamento” del potere dai Consigli regionali (che avrebbero esaminato i testi legislativi delle materie attratte dalla competenza statale) agli esecutivi regionali. E’ da far presente che, all’interno della Conferenza Stato-Regioni, che dovrebbe esprimere l’intesa sui testi normativi, sono rappresentati esclusivamente gli esecutivi nazionali e regionali.

Pertanto, anche qualora si limitasse la portata della sentenza soltanto ai decreti legislativi, a giudizio di alcuni (Calvieri, La declaratoria di illegittimità delle deleghe della legge Madia per violazione del principio di leale collaborazione ed i riflessi sul nuovo testo unico delle società a partecipazione pubblica. Ovvero, il complicato intreccio dei fili della Tela di Penelope ... allo specchio, 2017), la decisione della Corte in esame “aggraverebbe un’evidente forzatura del modello costituzionale, permettendo agli esecutivi regionali di partecipare alla formazione di atti normativi di rango primario, dalla quale sono invece esclusi i Consigli regionali” ( Lugarà, cit.).

Si può concludere osservando che la sentenza n. 251 del 2016 ha certamente una portata innovativa anche rispetto alla precedente giurisprudenza della Corte. Tali elementi di novità sono testimoniati anche dall’“acceso confronto” che si è sviluppato nell’ambito della dottrina.

Senza entrare nel merito sull’opportunità o meno di offrire un’interpretazione  “minimale” della sentenza 251/2016, appare fondamentale attendere la “ lettura” che la medesima Corte darà della sentenza ed il ruolo che le sarà assegnato dalla successiva giurisprudenza costituzionale.
 

8. Conclusioni

Si è cercato di individuare nuove “strategie Istituzionali” nei rapporti fra lo Stato e gli enti territoriali e, in particolare, fra lo Stato e le Regioni. Si spera che da una fase di aperta conflittualità si passi ad una collaborazione fra Stato e Regioni senza continuare nella “battaglia delle competenze” che non ha certamente prodotto uno Stato regionale né maturo né tanto meno efficiente.

Si è avuto modo di rilevare che le Regioni, anche in questi anni di forte crisi economica, hanno continuato a sviluppare un’attività legislativa considerevole e soprattutto a far fronte alle esigenze della società più immediate (ad es: interventi in favore dei disoccupati, dei migranti etc.), ricoprendo spazi lasciati liberi dallo Stato.

Tuttavia non si può negare che attualmente le maggiori difficoltà delle Regioni siano derivate dalla classe politica regionale. Questo nodo è tutto politico e non basterà nessuna alchimia istituzionale per risolverlo.

La crisi dei partiti mostra tutta la sua profondità a livello regionale e locale. Quel poco che rimane del sistema partitico in Italia si concentra a livello statale e soprattutto dell’esecutivo nazionale. L’attività sia del Parlamento che dei Consigli regionali è fortemente ridimensionata e delegittimata. Gli esponenti più significativi delle forze politiche ambiscono a far parte del Governo centrale ed a livello regionale non sempre sono individuate ed elette figure di primo piano.

Peraltro, l’elezione diretta del Presidente della Regione ha ridimensionato l’importanza delle giunte regionali nominate direttamente dal Presidente e soprattutto i Consigli regionali “soffrono una crisi di identità”, essendo il potere a livello regionale riservato quasi esclusivamente agli esecutivi.

Il Costituente (innovando la tradizione politico-istituzionale italiana) creò le Regioni come enti dotati di autonomia politica la cui massima espressione è rappresentata dall’autonomia legislativa. Qualora, come oggi purtroppo spesso avviene, le forze politiche non siano adeguatamente ed efficacemente rappresentate a livello regionale, difficilmente l’istituzione regionale potrà raggiungere le finalità per cui è stata creata. Tutto ciò continuerà a provocare distacco dei cittadini, critiche pesanti nei confronti delle Regioni e soprattutto non si realizzerà uno Stato nella sua accezione globale (centrale, regionale e locale) competitivo a livello internazionale ed europeo.

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