Antonio D'ATENA, Le Regioni speciali ed i 'loro' enti locali, dopo la riforma del titolo V (Marzo 2003)
Relazione al Convegno nazionale (organizzato da: ANCI, UPI, UNCEM, Formez, Osservatorio sul federalismo delle autonomie e Legautonomie, e con il patrocinio del Presidente della Regione Sardegna, del Presidente del Consiglio regionale Sardo, del Presidente dell'Unione delle Province Sarde e del Sindaco di Cagliari) su "Le autonomie locali nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome" (Cagliari 20 marzo 2003)
SOMMARIO: 1. La riforma del titolo V Cost. e la difficile coesistenza delle due autonomie regionali. – 2. L’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001. – 3. Segue: una clausola salva-specialità o salva autonomie? – 4. L’incidenza della clausola sulle funzioni amministrative. – 5. La competenza ordinamentale e i suoi limiti. – 6. La questione dei controlli sugli atti degli enti locali.
1. La riforma del titolo V Cost. e la difficile coesistenza delle due autonomie regionali
Nel corso del lungo cammino della riforma, in dottrina non si era mancato di segnalare quanto sarebbe stato problematico far coesistere il nuovo impianto costituzionale, centrato sul rovesciamento dell’enumerazione delle competenze legislative, con il mantenimento delle autonomie regionali speciali. In tal modo – si osservava – la Costituzione avrebbe accolto dentro di sé elementi in radicale opposizione: la tecnica federale del rovesciamento dell’enumerazione delle competenze e l’asimmetria, tipica del regionalismo iberico.
Per rendersi conto della fondatezza della valutazione sono sufficienti pochissimi flash.
Primo: la legislazione. In base al Titolo V novellato, la regola è ormai che sia il legislatore regionale il titolare della competenza legislativa generale. Gli statuti speciali, invece, sono costruiti sulla diversa logica della enumerazione in positivo delle competenze spettanti alla Regione.
Secondo: il rapporto tra legislazione ed amministrazione. Alla luce del nuovo Titolo V la regola è quella della dissociazione: infatti, mentre l’ente titolare di competenza amministrativa generale è il comune, l’ente titolare di competenza legislativa generale è la Regione. Negli statuti speciali, invece, vige il principio del parallelismo, in forza del quale la titolarità delle funzioni amministrative e quella delle funzioni legislative si cumulano nella Regione (ovviamente, con riferimento alle materie enumerate).
Terzo: l’amministrazione in senso stretto. Come si è appena ricordato, il sistema messo a punto dalla nuova disciplina costituzionale è costruito sulla competenza generale del comune (e – può aggiungersi – sulla sussidiarietà). In base agli statuti speciali, per contro, l’idea-forza è rappresentata dal principio dell’amministrazione indiretta necessaria; in virtù del quale la Regione è titolare delle funzioni amministrative, che deve normalmente esercitare, valendosi del braccio secolare degli enti locali, da investire attraverso gli istituti della delega e dell’avvalimento.
Quarto ed ultimo punto: i controlli. Essi, espulsi dall’orizzonte del nuovo Titolo V della Costituzione, restano nel testo degli statuti, salvo a vedere, poi, quale sia il destino delle disposizioni che li contemplano.
2. L’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001
Com’è noto, per cercare di superare questa tensione, la riforma ha introdotto la clausola di equiparazione di cui all’art. 10 della l. cost. n. 3 del 2001, ai sensi della quale le disposizioni del nuovo Titolo V si applicano anche alle Regioni ad autonomia speciale per le parti in cui prevedono “forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
L’intento che ha ispirato la previsione è trasparente. Senza di essa, infatti, le Regioni di tipo differenziato avrebbero corso il rischio di venirsi a trovare in una condizione nettamente deteriore, in termini di competenze, rispetto alle Regioni ordinarie.
Quello che ci si deve chiedere è se tale obbiettivo non sarebbe stato più appropriatamente perseguito, mediante norme transitorie più analiticamente calibrate, invece che con una formulazione ellittica come quella che è stata concretamente adottata. La quale pone una serie di interrogativi di non trascurabile complessità.
Tralasciando in questa sede altre questioni, concentrerò l’attenzione sul tema centrale affrontato dal Convegno: quello delle incidenze della novella costituzionale del 2001 sulla posizione degli enti territoriali minori localizzati nelle Regioni speciali.
Com’è noto, i maggiori interrogativi che al riguardo si pongono si riferiscono a tre ordini di problemi: all’individuazione dei destinatari della clausola di equiparazione; al destino della competenza ordinamentale sugli enti locali, di cui alla l.cost. n. 2/1993; ai controlli sugli atti degli enti predetti.
3. Segue: una clausola salva-specialità o salva autonomie?
Quanto al primo punto, le letture proposte sono – com’è noto – due. Secondo la prima, la clausola si rivolgerebbe alle sole Regioni (speciali); stando alla seconda, invece, essa riguarderebbe il complesso delle autonomie (e, quindi, anche gli enti territoriali minori localizzati sul loro territorio).
La portata dell’alternativa è di piena evidenza.
Se la clausola venisse riferita alle sole Regioni, essa assicurerebbe la sopravvivenza di una serie di istituti che oggi ne connotano l’autonomia in termini non deteriori rispetto alla nuova autonomia ordinaria. Permarrebbero – ad esempio – il parallelismo delle funzioni ed i controlli sugli enti locali.
Se, invece, si accogliesse la seconda opzione, lo scenario sarebbe completamente diverso, dal momento che la logica del nuovo Titolo V penetrerebbe negli statuti speciali. A tale stregua – per riprendere gli stessi esempi – cadrebbero, probabilmente, i controlli e cadrebbe il principio del parallelismo delle funzioni, sostituito dal riconoscimento della competenza amministrativa generale dei Comuni e dall’ammissione di deroghe, nelle forme e nei limiti di cui al nuovo art. 118.
Dico subito, che le mie preferenze vanno decisamente alla prima lettura.
Anzitutto, per una ragione di ordine letterale. L’art. 10, infatti, prevede che le forme di autonomia più ampie rispetto a quelle attribuite si applichino alle Regioni speciali, non nelle Regioni speciali. Ed oppone, quindi, un ostacolo non facilmente superabile alla lettura estensiva.
Ma non è questo il solo argomento. A me sembra, infatti, che nella lettura estensiva si annidi un’incongruenza logica di fondo. E’, infatti, estremamente dubbia la stessa configurabilità di meccanismi suscettibili di avvantaggiare ecumenicamente l’intero complesso delle autonomie. Per la ragione che il complesso delle autonomie costituisce un sistema integrato, nel quale all’incremento di un livello di autonomia corrisponde frequentemente il decremento di un livello diverso, in un gioco di dare e avere al quale è difficile sfuggire. Un solo esempio: se si ritiene – come comunemente si ritiene – che il potere ordinamentale delle Regioni speciali nei confronti degli enti territoriali localizzati nel loro territorio metta questi ultimi in posizione deteriore rispetto ai corrispondenti enti ubicati nel restante territorio nazionale, la lettura estensiva della clausola di equiparazione dovrebbe decretarne la cancellazione. In questo modo, tuttavia, si verrebbe a comprimere l’autonomia delle Regioni speciali, che – con riferimento al potere ordinamentale sugli enti locali – non è meno ampia di quella riconosciuta alle Regioni ordinarie dalla novella costituzionale del 2001. E si realizzerebbe un risultato, il quale, lungi dall’avvantaggiare l’intero sistema delle autonomie, ne favorirebbe alcune, penalizzandone altre.
4. L’incidenza della clausola sulle funzioni amministrative
Tutto ciò premesso, va subito precisato che la lettura qui accolta non impedisce che anche gli enti territoriali ubicati nei territori regionali speciali possano, in qualche misura, beneficiare degli incrementi di autonomia di cui, per effetto della riforma del titolo V, hanno goduto i corrispondenti enti localizzati nel territorio delle Regioni ordinarie.
Il rilievo vale, anzitutto, per le funzioni amministrative relative a materie non contemplate dagli statuti speciali.
A mio avviso, infatti, se, per effetto dell’art. 10, la Regione differenziata acquisisce competenze legislative in materie diverse da quelle ad essa statutariamente spettanti, non vi è alcuna ragione per ritenere che tali ulteriori competenze siano attratte dalla logica degli statuti. Non c’è, in altri termini, motivo di ritenere che esse, per effetto della regola del parallelismo, trascinino con sé un corrispondente incremento delle competenze amministrative della Regione. Tale risultato, infatti, andrebbe al di là dell’obbiettivo perseguito dall’art. 10. Che è quello di assicurare alle Regioni speciali competenze attribuite alle Regioni ordinarie dalla novella costituzionale, non anche competenze a queste ultime non spettanti.
È, pertanto, da ritenere che la clausola di equiparazione, nel momento in cui sposta, in favore delle Regioni differenziate, competenze legislative su materie spettanti alle Regioni di diritto comune, sposti, altresì, l’intero regime cui tali materie sono assoggettate, immettendo negli statuti dosi di art. 118. Con conseguente incremento degli spazi di autonomia garantiti agli enti locali in esse operanti.
Alla luce di quanto precede, può, quindi, sostenersi che, per effetto della clausola di equiparazione, negli ordinamenti regionali speciali vengano a coesistere due regimi nettamente distinti: il regime speciale, informato al parallelismo delle funzioni (ed avente – in principio – ad oggetto le materie comprese negli elenchi statutari), ed il regime comune, relativamente agli oggetti attratti dall’art. 10 l. cost. n. 3/2001.
(Nota: In questa sede non è possibile andare al di là della schematica rappresentazione offerta nel testo. È, comunque, da considerare che la situazione presenta elementi di maggiore complessità, per la ragione che gli incrementi di competenze legislative di cui fruiscono le Regioni speciali per effetto della clausola di equiparazione non hanno esclusivamente ad oggetto materie non contemplate dai rispettivi statuti, ma anche materie statutarie. Ciò accade in tutti i casi in cui sulle materie predette la potestà legislativa loro assicurata dallo Statuto sia meno ampia (in quanto soggetta a limiti maggiori) di quella riconosciuta alle Regioni ordinarie dal tit. V. Si pensi a tutti i casi in cui gli Statuti prevedono competenze integrative o concorrenti e la Costituzione competenze, rispettivamente, concorrenti od esclusive. Senza contare che la stessa competenza “piena” (o primaria) delle Regioni ad autonomia speciale è destinata a convertirsi in competenza esclusiva, ove riguardi oggetti rientranti nella generale previsione di cui all’art. 117, comma 4, mantenendo, invece, i suoi caratteri peculiari nelle materie di cui al comma 3 della medesima disposizione od in quelle non assegnate alle Regioni ordinarie (è, questo, ad esempio, il caso della competenza ordinamentale sugli enti locali di cui alla l. cost. n. 2/1993). Ebbene, nei casi in cui l’art. 10 comporti un mutamento del titolo competenziale e non dell’oggetto, c’è da chiedersi se il mutamento trascini con sé la disciplina dell’art. 118, sul versante dell’amministrazione. Personalmente tenderei ad inclinare per la negativa. Non mi nascondo, tuttavia, l’incertezza della soluzione).
5. La competenza ordinamentale e i suoi limiti
Considerazioni non molto dissimili possono valere per la competenza ordinamentale sugli enti locali. Essa – come si è anticipato – non dando vita ad una posizione deteriore delle Regioni speciali rispetto alle Regioni ordinarie, non è da ritenere travolta dalla clausola di equiparazione. D’altra parte – può di passaggio aggiungersi – la titolarità di una competenza siffatta da parte delle entità sub-statali non costituisce un’eccentricità italiana. Come conferma il caso degli ordinamenti federali, che normalmente adottano analoga soluzione. In Germania – ad esempio – la disciplina giuridica dei comuni non è federale, ma regionale: ed è conseguentemente differenziata a livello dei singoli Länder, per effetto delle distinte Gemeindeordnungen da essi adottate.
Dal persistere di tale competenza in capo alle Regioni speciali non deve, tuttavia, dedursi che i regimi applicabili agli enti locali in esse esistenti siano totalmente separati dal regime generale (e incomunicabili con esso). Ad un esito del genere osta il tipo di potestà al riguardo spettante al legislatore regionale: una potestà piena (o primaria), non una potestà propriamente esclusiva (come quella contemplata dall’art. 117, comma 4, Cost.). Cosa significa tutto ciò? Significa che nell’esercizio di tale potestà il legislatore regionale è tenuto al rispetto dei principi generali dell’ordinamento e delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali dello Stato.
I corollari della precisazione sono fondamentalmente due: a) che i legislatori regionali speciali non possano discostarsi dai principi che informano la novella costituzionale (in quanto – è ovvio – non puntualmente derogati dai rispettivi statuti); b) che le leggi ordinamentali da essi adottate debbano, inoltre, attenersi ai principi inducibili dalla normativa statale in materia di organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Province (art. 117, comma 2, lett. p), Cost.).
In tal modo – come si vede – la problematica posta dalla competenza in parola risulta fortemente sdrammatizzata: i limiti predetti essendo in grado di scongiurare che le soluzioni adottate dalle Regioni speciali possano divergere così radicalmente da compromettere la fondamentale unitarietà del regime applicabile agli enti locali della Repubblica.
6. La questione dei controlli sugli atti degli enti locali
Se, nei casi precedentemente considerati, la lettura restrittiva della clausola di equiparazione non è tale da differenziare profondamente, dal regime comune, il particolare regime applicabile agli enti locali localizzati nei territori regionali speciali, diverso è il discorso per i controlli sugli atti di tali enti. Per la ragione che la loro persistenza non risulta temperata da correttivi paragonabili a quelli considerati nei paragrafi precedenti.
Non sembra, in particolare, sostenibile che l’eliminazione dell’istituto – ad opera della novella costituzionale del 2001 – concorra a connotare “costitutivamente” l’autonomia locale. E sia conseguentemente provvista di incidenza diretta sui previgenti statuti differenziati. E’, infatti, noto che, a differenza dei progetti licenziati dalla Bicamerale, che addirittura vietavano i controlli preventivi di legittimità e di merito sugli atti delle Regioni e degli enti locali, la l. cost. n. 3/2001 si è limitata ad abrogare espressamente le disposizioni costituzionali che tali controlli contemplavano: e, più specificamente – per quanto attiene al nostro discorso – l’art. 130. Dal che dovrebbe – a stretto rigore – argomentarsi che i controlli predetti siano venuti a perdere la copertura costituzionale di cui in precedenza godevano, ma non siano stati vietati. In conseguenza di ciò, la loro previsione non dovrebbe ritenersi interdetta al legislatore ordinario (né, ed a più forte ragione, al legislatore statutario speciale, che opera con atti di rango costituzionale).
Mi rendo perfettamente conto delle riserve che una simile conclusione può suscitare sul piano del merito. Riserve, peraltro, significativamente condivise dalle stesse Regioni ad autonomia speciale. Le quali – sia pure con tecniche diverse (che vanno dalla circolare interpretativa all’intervento legislativo) – hanno archiviato i controlli sugli atti degli enti locali: correggendo, così, l’insipienza di cui, in questa materia, ha dato prova il legislatore costituzionale.
Non mi sembra, tuttavia, contestabile che le soluzioni a tal fine adottate, pur perseguendo una finalità apprezzabile, costituiscano, pur sempre, degli espedienti: la strada maestra restando quella della modificazione degli statuti speciali in termini corrispondenti al titolo V novellato.