Sommario:
 
 
 
 
1. Alcuni chiarimenti per definire il profilo dell'istituto regionale.

 L’istituto regionale è stato contraddistinto, sin dal suo apparire, dalla preoccupazione dell’instabilità dell’ordinamento.
Altrimenti detto, la regione è stata percepita come una istituzione non radicata nella tradizione giuridica, ma artificiale, la cui presenza metteva in discussione la centralità della stessa statualità, per cui il ruolo delle regioni è sempre stato considerato come un elemento, se non da avversare, quanto meno da ridurre, nell’ambito dell’architettura costituzionale.
In proposito, a fronte della solenne proclamazione dell’art. 5 Cost. (“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo …”), si può ricordare come la condizione storica patita dalle Regioni speciali sia stata quella dell’accerchiamento e la conclusione del c.d. “primo regionalismo” sia stata caratterizzata da una rilevante perdita del ruolo istituzionale delle regioni.
Ora, qual è la condizione dell’istituto regionale in quello che viene chiamato il “secondo regionalismo”, nato dalle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e nn. 2 e 3 del 2001?
A questo proposito è bene notare subito come l’immagine della Regione sia il prodotto di una alchimia complessa nella quale le disposizioni della Costituzione costituiscono solo un elemento particolare e, alla luce dell’esperienza concreta, quasi sempre non decisivo. Di qui una certa difficoltà di trattazione.
Si consideri innanzitutto lo scopo della riforma stessa: quest’ultima non è nata da una scelta storica, né da una progettazione costituzionale consapevole e ragionata, ma da uno stato di necessità in cui si è trovata l’Italia dopo la crisi monetaria del 1992 e l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht il 1° novembre 1993, che hanno determinato la rincorsa ai parametri di convergenza, verso la moneta unica.
Da questa congiuntura è emersa una volontà riformatrice volta ad alleggerire lo Stato dal punto di vista finanziario, in modo da contenere il deficit di bilancio entro il fatidico 3%, per cui le competenze statuali, a lungo gelosamente custodite dai governi della Repubblica nei confronti dei legislatori regionali, vengono cedute in blocco a regioni, province e comuni e per la via più breve: quella del c.d. federalismo a costituzione invariata, attuato con leggi ordinarie (nn. 59 e 127 del 1997) e decreti legislativi (tra i quali il più consistente è il n. 112 del 1998).
L’idea di questa riforma, però, è stata sì di alleggerire lo Stato di molti compiti, a favore dei livelli di governo regionale e locale, ma consentendo allo Stato medesimo – che mantiene la titolarità costituzionale delle competenze – pur sempre ampi margini di intervento e di direzione: attraverso la previsione di forti poteri sostitutivi, della funzione di indirizzo e coordinamento e del rafforzamento di una sede di concertazione nella quale il governo ha la possibilità di verificare e condizionare gli orientamenti regionali e locali (1).
La riforma regionale, però, non è stata figlia solo della crisi finanziaria. Una crisi ben maggiore, infatti, attraversava il Paese in quel periodo: la crisi della politica e della moralità pubblica, il cui sbocco – per effetto anche dei referendum elettorali del 1991 e del 1993 – fu, nell’ambito statale la riforma delle leggi elettorali del 1993 e, nell’ambito locale, quella dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province (legge n. 81 del 1993), offerte alla coscienza dei cittadini come un vero e proprio surrogato di una seria ed efficace riforma delle istituzioni. Le modifiche delle leggi elettorali, peraltro, hanno potenziato le spinte personalistiche e plebiscitarie nel sistema politico.
Da questo punto di vista, anche il sistema elettorale regionale non poteva rimanere immune da modifiche; infatti, dalla tendenza plebiscitaria di quegli anni, che ha rappresentato una onda lunga della politica, sono derivati, prima, un ritocco della legge elettorale regionale (n. 43 del 1995) e, dopo, la riforma costituzionale del 1999.
In sostanza, tra il 1993 e il 1999, si è realizzata una riforma dell’istituto regionale (e dei poteri locali) così radicale da investire non solo l’assetto delle competenze e delle funzioni (con legge ordinaria), ma anche il tema della rappresentanza e della forma di governo (con norme costituzionali transitorie) (2), che metteva concretamente in discussione la tenuta costituzionale del Titolo V della Carta; ed è così che, con la crisi della bicamerale D’Alema e la fine, per la seconda volta, della speranza di una riforma dell’intera parte seconda della Costituzione, si imponeva al dibattito istituzionale la necessità di una urgente “copertura costituzionale” dei cambiamenti che le leggi ordinarie avevano apportato all’assetto delle competenze. Così, si giunge, sul finire della XIII legislatura, all’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 (3).
La riforma costituzionale del nostro regionalismo, in questo modo, prende il posto della riforma dell’ordinamento della Repubblica.
In coloro che operarono in quegli anni vi era l’idea, giustificativa di tale modo di procedere, che l’istituto regionale avrebbe finito necessariamente con il determinare la riforma degli apparati statali.
Una idea, questa, che aveva un forte retroterra nel pensiero del costituente del 1947 e testimoniato dalla “regola dell’adeguamento”, contenuta nella previsione finale dell’art. 5 (“La Repubblicaadegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”) e della IX Disp. trans. e fin. (“La Repubblica … adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”) (4).
Se si vuole riassumere l’essenza di questa riflessione sull’istituto regionale, a sei anni dalla revisione costituzionale del Titolo V, si può porre il quesito, se quanto accaduto in questo lasso di tempo si possa considerare come l’attuazione delle nuove disposizioni costituzionali, o come un cambiamento che deve essere sistematizzato nel contesto istituzionale del nostro ordinamento, a prescindere dalle stesse previsioni costituzionali (5).

2. Il sistema regionale nelle previsioni costituzionali e nell'esperienza dell'ordinamento: a) l'autonomia organizzativa.

La revisione costituzionale ha contrassegnato un distacco dalle precedenti disposizioni del Titolo V (e dalla legislazione precedente) essenzialmente per quattro aspetti maggiormente significativi: a) l’autonomia organizzativa; b) il riparto delle competenze legislative; c) l’assetto delle funzioni amministrative; d) l’autonomia finanziaria.
Con riferimento all’autonomia organizzativa delle regioni il nuovo testo dell’art. 123 Cost. ha realizzato un cambiamento radicale, non solo perché il procedimento di approvazione degli statuti regionali non prevede più la partecipazione della legge statale, quanto soprattutto per i suoi contenuti, che avrebbero dovuto collocare nella piena disponibilità regionale la materia dell’organizzazione, a partire dalla “forma di governo”, che sicuramente implica – come nozione – un complesso di oggetti che vanno ben al di là della mera “organizzazione interna”; a ciò si aggiunga, poi, la disciplina dei “principi fondamentali di organizzazione e funzionamento”, sino a quel momento rimessi alla legge statale; ed infine, la possibilità di disciplinare, con legge regionale (“nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi”), “il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali” (art. 122, comma 1, Cost.).
Che vi sia stato il tentativo di dotare le Regioni di una ampia autonomia nella materia dell’organizzazione, interpretato – per di più – dalle Regioni che hanno scritto i nuovi statuti, quasi come una autonomia estesa sino alla possibilità di dotarsi di una costituzione regionale, appare indubbio.
A favore di questa ipotesi si situano le parti programmatiche degli statuti, nelle quali le Regioni hanno largheggiato nel prevedere limiti al futuro legislatore regionale e nel riconoscere una vasta schiera di “nuovi diritti”, non senza una punta di velleitarismo; e nello stesso senso depone anche la previsione di organi (commissioni, consulte e collegi) di salvaguardia dello statuto medesimo (6).
In entrambi i casi, per una di quelle stranezze che caratterizzano le relazioni istituzionali, la Corte costituzionale, anziché sanzionare come oggetti non pertinenti al contenuto costituzionalmente previsto dello Statuto, e smontare l’estensione e la tipologia degli organi regionali al di fuori della previsione dell’art. 121, comma 1, e dell’art. 123, comma 5, Cost., ha finito con l’ammettere le norme programmatiche e di principio, pur opinando “la misura dell’efficacia giuridica di tali proclamazioni” (7), e col giustificare la presenza di ulteriori organi regionali, incidenti sul procedimento legislativo, attenuandone il potere a livello consultivo con il solo obbligo di riesame (statuto umbro) o di motivazione (statuto abruzzese) da parte del Consiglio regionale.
All’opposto, a fronte di siffatte concessioni, si è manifestata una forte rigidità verso le espressioni più autenticamente politiche dell’autonomia organizzativa delle Regioni che attenevano alla forma di governo.
La sentenza n. 2 del 2004, adottata in relazione allo statuto della Regione Calabria, in tal senso, parte dalla constatazione della scelta operata con la revisione costituzionale, ma conduce la propria motivazione in una direzione opposta. Si afferma, infatti, che “la Regione dispone di un autonomo potere normativo per la configurazione di un ordinamento interno adeguato alle accresciute responsabilità delineate dal nuovo Titolo V della Costituzione ed alle attese di un’istituzione regionale decisamente migliorata sul piano della funzionalità e della sua stessa democraticità”. Subito dopo, però, si sostiene chiaramente una opzione a favore della forma di governo regionale (già espressa in via provvisoria dall’art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999 e indicata dal giudice costituzionale “come «normale» possibilità di assetto istituzionale”) del “Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto”, la cui imposizione sarebbe stata corroborata dalla “esplicita speranza di eliminare in tal modo la instabilità nella gestione politica delle Regioni e quindi di rafforzare il peso delle istituzioni regionali”, per cui la sia pur possibile adozione di una forma di governo regionale, diversa da quella del “Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto”, appare, perciò, nella logica delle parole, come una scelta a favore dell’instabilità e dell’indebolimento del peso delle istituzioni regionali.
Inoltre, la Corte considera che, «attraverso la previsione di una futura “normale” forma di governo espressa sinteticamente con le parole “Presidente eletto a suffragio universale e diretto” e caratterizzata dall’attribuzione ad esso di forti e tipici poteri per la gestione unitaria dell’indirizzo politico e amministrativo della Regione (nomina e revoca dei componenti della Giunta, potere di dimettersi facendo automaticamente sciogliere sia la Giunta che il Consiglio regionale)», si realizzerebbe «una radicale semplificazione del sistema politico a livello regionale» e «la unificazione dello schieramento maggioritario intorno alla figura del Presidente della Giunta», che costituirebbe un vincolo per l’autonomia organizzativa della Regione. Infatti – sempre secondo la Corte – la «possibilità di optare per uno dei tanti possibili modelli diversi di forme di governo regionali non fondate sull’elezione diretta del Presidente della Giunta (troverebbe) un limite del tutto evidente nella volontà del legislatore di revisione costituzionale di prevedere ipotesi di elezione diretta nel solo caso del Presidente della Giunta». Di conseguenza, le Regioni che decidessero di optare per una forma di governo diversa da quella del “Presidente eletto a suffragio universale e diretto”, dovrebbero dimostrare la maggiore idoneità delle forme prescelte “a meglio rappresentare le diverse realtà sociali e territoriali delle nostre regioni” o anche la maggiore adeguatezza delle stesse per i “sistemi politici regionali” (8).
Come è agevole constatare dalla pronuncia richiamata, l’autonomia regionale nella materia dell’organizzazione risulta profondamente ridimensionata; tanto più che il giudice costituzionale, nelle sue diverse sentenze (n. 304 del 2002; n. 196 del 2003; nn. 2, 378 e 379 del 2004; n. 12 del 2006) ha accentuato i limiti che circondano lo Statuto regionale, dandone una configurazione che va persino oltre lo stesso disposto costituzionale.
A tal riguardo è noto come nella nuova formulazione dell’art. 123 Cost. sia venuto meno il precedente limite dell’«armonia con le leggi della Repubblica», residuando solo quello dell’«armonia con la Costituzione», che la prevalente dottrina aveva interpretato come una sorta di “clausola di omogeneità” dell’ordinamento italiano, entro cui si deve svolgere l’autonomia statutaria delle Regioni; in quanto tale, l’«armonia» farebbe riferimento, non alle singole statuizioni della Carta, ma ai principi di struttura della forma di Stato, che, essendo richiamati in modo riassuntivo (e non esplicitati tassativamente, come accade in altri ordinamenti), devono essere definiti in via interpretativa (9).
La giurisprudenza costituzionale, invece, sin dal primo momento asserisce che «il riferimento all’“armonia” … rinsalda l’esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione, poiché (mirerebbe) non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito» (sent. n. 304, cit.), traendone il convincimento ulteriore che «gli statuti dovranno essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (sent. n. 196, cit.), e giungendo infine a sostenere che «l’armonia con la Costituzione» farebbe riferimento al «sistema costituzionale complessivo, che si articola nei principî contenuti nelle singole norme della Carta fondamentale e nelle leggi ordinarie di diretta attuazione», che rappresenterebbero, pertanto, «il contesto, all’interno del quale si deve procedere alla lettura ed all’interpretazione delle norme statutarie, che in quel sistema vivono ed operano» (sent. n. 12, cit.) (10).


3. Segue: b) Il riparto delle competenze legislative
 
Quanto al riparto delle competenze, il distacco dalle precedenti disposizioni si palesava nel c.d. “rovesciamento” del principio enumerativo; peraltro, in una forma alquanto rigida. Infatti, all’enumerazione delle materie di legislazione esclusiva dello Stato, nell’art. 117, comma 2, Cost., fa riscontro l’espressione, del comma 4 del medesimo articolo, per la quale “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non un ambito selezionato di materie in cui insiste la competenza c.d. concorrente, nella quale “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Tra questi due tipi di competenza si situerebbe, poi,
È ampiamente noto che si tratta di una tecnica di riparto classica degli ordinamenti federali formatisi per aggregazione e fondati sul trasferimento di limitate attribuzioni alla federazione, con il mantenimento della competenza generale (e della maggior parte dei poteri legislativi) in capo agli stati membri, secondo una logica di netta separazione.
Ciò che, però, è stato sottovalutato dal legislatore di revisione costituzionale è che questo modello risulta ampiamente superato nella tradizione federale, ormai approdata – anche nel silenzio delle stesse costituzioni – ad una configurazione unitaria dell’ordinamento federale (con l’attenuazione del c.d. federalismo duale), ad una concentrazione di competenze in capo alle federazioni (attraverso clausole di supremazia e poteri impliciti) e al carattere residuale (e non generale) della competenza degli stati membri (11).
A questo errore di prospettiva storica, dovuto alla congiuntura italiana del tempo, si aggiunga l’assurdo modo in cui sono stati compilati gli elenchi dell’art. 117, commi 2 e 3, Cost.): per un verso, le materie di legislazione esclusiva dello Stato che delineano una competenza oggettiva riportano lo Stato alla dimensione ottocentesca dello “stato non interventista” (politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; moneta; sistema tributario e contabile dello Stato; organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; ordine pubblico e sicurezza; cittadinanza, stato civile e anagrafi; giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale); per l’altro, tutti i poteri di governo dell’economia, dello sviluppo e di disciplina delle prestazioni sociali, potremmo dire: le competenze dello “stato interventista”, risultano iscritti quasi per intero nel comma 3 dell’art. 117 (12), alla competenza concorrente delle Regioni. Allo Stato residuano alcuni poteri di carattere eminentemente funzionale (tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; perequazione delle risorse finanziarie; determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) (13).
Per alcune materie, poi, il riparto rasenta il paradosso, come nel caso dell’istruzione, in relazione alla quale spetta allo Stato la disciplina delle “norme generali”, dei “principi fondamentali” della materia e dell’“autonomia delle istituzioni scolastiche”; alle Regioni, a titolo concorrente, la materia dell’“istruzione” e, a titolo esclusivo, “l’istruzione e la formazione professionale” (14).
All’obsolescenza e all’inefficienza del riparto di competenza tracciato dalla revisione costituzionale ha corrisposto una giurisprudenza costituzionale, che in parte ha ripercorso gli schemi culturali elaborati in occasione del primo regionalismo e, in buona parte, è stata creativa: al primo atteggiamento può essere ricondotta, ad esempio, il continuo riferimento, nelle più svariate pronunce, ai c.d. interessi unitari e non frazionabili (15) e l’affermazione circa la deducibilità dei principi fondamentali dalla legislazione vigente nelle materie della legislazione concorrente, nonostante, nello specifico, la nuova formulazione dell’art. 117, comma 3, non possa considerarsi corrispondente alle vecchie espressioni dell’art. 117, comma 1, e, perciò, non possa giustificare le prassi precedenti (16).
Al secondo aspetto vanno ricondotte la creazione di quello che possiamo ormai considerare un vero e proprio istituto costituzionale del nostro regionalismo, e cioè: la c.d. “chiamata in sussidiarietà”, caratterizzata dal passaggio dalla previsione, nell’enumerazione delle materie, dello “specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento” dello Stato, al carattere unitario (e, perciò, statuale) della funzione amministrativa, e l’utilizzazione in senso espansivo delle competenze funzionali e/o trasversali dello Stato (17).
In tutte queste ipotesi la legge statale è posta in condizione di attraversare i campi materiali costituzionalmente attribuiti alla competenza concorrente o esclusiva delle Regioni e di tracciare i confini della propria azione, con scarse possibilità per i legislatori locali di ottenere un qualche riconoscimento.
Ora, appare evidente come, in un riparto caratterizzato dal distacco della prassi dalle previsioni costituzionali, risultino superate tutte le questioni di metodo giuridico e di interpretazione delle voci enumerate, che pure un qualche ruolo avevano giocato nella giurisprudenza del primo regionalismo, ed anche lo stesso “criterio di prevalenza”, richiamato dalla Corte in parecchie sentenze come canone idoneo a risolvere le questioni di sovrapposizione e intrecci delle competenze, assuma un carattere recessivo, tanto più che il giudice costituzionale ha ampiamente adoperato il richiamo al “principio della leale collaborazione” nell’esercizio delle funzioni statali nell’ambito delle competenze regionali (18).
Anche per questo profilo ci troviamo di fronte ad una giurisprudenza creativa e non ancorata al dettato costituzionale, se non per un labile riferimento contenuto nella disposizione che rinvia alla legge statale la disciplina delle procedure di esercizio dei poteri sostitutivi rimessi al Governo nei confronti degli organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni (art. 120, comma 2, Cost.) (19).
È bene precisare che le operazioni di riformulazione del riparto delle competenze sono state compiute dal giudice costituzionale sotto la spinta di questioni concrete, dense di un grande significato per la funzionalità dell’intero sistema nazionale (come nel caso della legge obiettivo [sent. n. 303 del 2003] e del decreto sblocca centrali elettriche [sent. n. 6 del 2004]), e in mancanza dell’attuazione che il Titolo V esplicitamente richiedeva ai poteri statali. Così, il circuito della leale collaborazione, incentrato sullo svolgimento delle funzioni amministrative e sul sistema delle Conferenze, è stato prescelto “nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3” (sentenza n. 6 del 2004).
Questo non vuol dire, peraltro, che l’esasperazione del “principio di leale collaborazione”, ormai diffusosi nella legislazione e nelle procedure amministrative, fosse l’unico percorso possibile per la giurisprudenza costituzionale, all’interno del disegno del Titolo V revisionato;basti pensare al ruolo che avrebbe potuto avere – come norma atta a modificare legittimamente il riparto di competenza – l’art. 119, comma 5, Cost. (20).
Dal punto di vista istituzionale, inoltre, il prevalere di una ampia ed estesa legislazione statale in campi formalmente attribuiti alla competenza regionale genera una perdita di sostanza del regionalismo, pensato – soprattutto dopo la revisione costituzionale – come una riarticolazione del potere legislativo.
Sicché il centralismo della legislazione statale, senza neppure il contrappeso di una camera delle Regioni che partecipi al procedimento di formazione della legge, riporta di fatto il regionalismo italiano ad una situazione di crisi analoga a quella già vissuta nella precedente fase storica (21).


4. Segue: c) l'assetto delle funzioni amministrative.

Né può dirsi che la pratica del principio di leale collaborazione, che il giudice costituzionale impone ormai nel novero non solo delle materie assunte in sussidiarietà, ma anche di quelle di certa pertinenza statale, tali però da incidere sulle sfere di attribuzione regionale, per la loro trasversalità o per il loro carattere funzionale, abbia risolto i problemi di efficienza e di efficacia dell’azione dello Stato e di quella delle Regioni (22).
Qui la questione si sposta dall’ambito legislativo a quello delle funzioni amministrative. Pure per queste deve dirsi come il modello tracciato dalla revisione costituzionale sia tutt’altro che perspicuo: i primi due commi dell’art. 118, anche a non volere considerare le questioni nascenti dalla lett. p), comma 2, dell’art. 117, pongono più di un problema di armonizzazione: in primo luogo, in relazione alla sfera amministrativa di Comuni e Province, per i quali il comma 2 distingue tra funzioni proprie e funzioni conferite, mentre il comma 1 prevede il principio di attribuzione per i soli comuni, – di recente considerato suggestivo, ma alquanto ipocrita (23) –; in secondo luogo, per la regola che riconoscerebbe le funzioni amministrative alle Regioni e allo Stato, solo in caso di incapacità dei livelli amministravi locali.
Anche in questo caso le aporie e le difficoltà di intravedere un chiaro disegno derivano dalla circostanza che i due commi dell’art. 118 richiamati non sono altro che il prodotto del trasferimento di due disposizioni legislative (l’art. 4, comma 3 lett. a, legge n. 59 del 1997 e art. 3, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000) nell’ambito della Costituzione, avvenuto senza considerare la loro armonizzazione e il diverso valore che le medesime formulazioni linguistiche avrebbero acquisito a seguito dell’inserimento nel testo della Carta (24).
Questo modus procedendi offre il fianco a numerose critiche, specie se si considera che la riforma costituzionale ha travolto consolidati schemi dommatici, come il principio del parallelismo e la distinzione tra funzioni di attribuzione e di delega. Ciononostante, un criterio normativo sul modo di allocare e di svolgere le funzioni amministrative, nel comma 1 dell’art. 118, si rinviene: quello di mantenere l’esercizio unitario delle funzioni medesime, attribuendole al livello territoriale più prossimo (o sussidiario) e adeguato.
Nel momento in cui una determinata funzione amministrativa viene allocata, perciò, il buon senso, ancor prima della Costituzione, richiede che essa venga svolta dal livello di pertinenza in autonomia e responsabilmente, e cioè da esso soltanto (25).
La condivisione delle funzioni amministrative, che comporta l’obbligo di definire il contenuto dei propri atti attraverso procedure di concertazione, finisce, pertanto, con il disattendere il canone dell’esercizio unitario. Questo stato di tensione tra esercizio unitario e principio di collaborazione, poi, si traduce sempre in un appesantimento del procedimento, destinato ad operare necessariamente a discapito della collaborazione, tutte le volte che la normativa consente l’adozione di un atto unilaterale (intesa debole, parere, consultazione, ecc.), e a svantaggio dell’esercizio unitario, nel caso in cui l’atto deve essere necessariamente e assolutamente partecipato (intesa forte, accordo, ecc.), nel quale si può giungere persino alla paralisi della funzione, in contrasto con il principio del buon andamento dell’amministrazione (26).
È bene precisare, a questo punto, come i pareri, gli accordi e le intese siano stati pensati essenzialmente per risolvere alcune questioni di partecipazione delle Regioni, in un sistema caratterizzato dalla competenza legislativa generale dello Stato e dalla supremazia amministrativa degli apparati statali e, pertanto, risultassero intesi a permettere allo Stato, e in particolare al Governo, di aprire il complesso delle decisioni di propria competenza alla partecipazione regionale.
Nel nuovo riparto delle competenze, previsto dalla revisione del Titolo V, gli atti della Conferenza hanno modificato profondamente la loro natura, giacché il legislatore di revisione costituzionale voleva accentuare i tratti del regionalismo italiano, anche in funzione del riequilibrio dei compiti statali nascenti dal processo di integrazione europeo e dai processi di internazionalizzazione, per cui molto definiti e limitati risultano i poteri dello Stato sul piano delle funzioni interne.
Di conseguenza, gli atti delle Conferenze hanno giocato il proprio ruolo principale non più per aprire le competenze statali alla partecipazione regionale, ma – al contrario – per assicurare la supremazia dello Stato, in campi in cui la revisione del Titolo V aveva assicurato la competenza esclusiva o concorrente delle Regioni.
Un esempio particolare è offerto dagli accordi, una categoria di atti tipici della Conferenza (art. 4 D. Lgs. n. 281), che attengono al coordinamento dell’esercizio delle rispettive competenze e allo svolgimento delle attività di interesse comune, rispetto ai quali si deve registrare un incremento del loro numero nel corso della vigenza delle nuove disposizioni del Titolo V, dipeso essenzialmente dall’essere, gli stessi, uno strumento utile per condizionare gli atti di normazione delle Regioni e la concreta gestione delle funzioni amministrative connesse alle materie di competenza regionale (concorrente ed esclusiva) (27). In particolare, non è mancato chi ha considerato, basandosi sull’esame degli oggetti su cui sono intervenuti gli accordi, come questi abbiano comportato “l’individuazione di modalità di azione tra lo Stato e le Regioni per le attività di quest’ultime, quasi che la Conferenza diventi la sede per una disciplina unitaria della azione delle Regioni” (28).
Certamente, in questi anni, non sono mancati casi in cui il giudice costituzionale ha proceduto con sentenze additive, introducendo l’intesa nella legislazione statale che aveva omesso il passaggio in Conferenza, nonostante il coinvolgimento delle competenze regionali (29); così come in altre ipotesi le pronunce della Corte hanno sanzionato un certo comportamento omissivo del Governo, tenuto alla ricerca dell’intesa (30).
Tuttavia, alla luce dell’“ordinamento concreto” istituzionalizzato dalla Conferenza, risultante sia dalla prassi, e sia dalla giurisprudenza, il coordinamento delle funzioni ha assunto una carica derogatoria maggiore rispetto al precedente assetto delle competenze, quanto meno per ragioni di tipo quantitativo, e la supremazia dello Stato continua ad offrire la chiave di lettura del sistema della collaborazione. In aggiunta a ciò, proprio l’aumento degli adempimenti concertativi, imposti alla luce del nuovo riparto delle competenze, ha causato lo svuotamento di quel poco di capacità politica che le Conferenze avrebbero avuto e la crisi del loro funzionamento e della loro organizzazione (31).
Ne è nata la diffusa convinzione che la concertazione tra i livelli di governo necessiti di una semplificazione, pena l’inutilità stessa delle procedure di collaborazione dal punto di vista del contenuto dell’attività di concertazione, per cui i meccanismi collaborativi andrebbero limitati a particolari procedimenti generali di programmazione e di pianificazione, o di mera consultazione, o per designazioni di organi comuni, al fine di mantenere la trasparenza delle attribuzioni di competenza, e ciò anche per rendere effettivo il principio di responsabilità (32).


5. Segue: d) l'autonomia finanziaria.

Con riguardo alla questione del c.d. “federalismo fiscale”, possiamo dire che l’art. 119 Cost., il quale ha voluto rafforzare l’autonomia finanziaria regionale e locale, è stato scritto dichiarando, con una certa vis polemica, la propria avversione, non tanto rispetto ai precetti della precedente formulazione della norma costituzionale, quanto con riguardo alle prassi che avevano caratterizzato le relazioni finanziarie tra Stato e regioni nell’esperienza del primo regionalismo (33).
L’elemento di maggiore difficoltà, nell’attuazione del nuovo sistema, deriva, invece, ancora dall’assetto delle competenze legislative delineato nella materia. Anche in questo caso, infatti, sono state proposte letture alquanto diverse sul ruolo della legge statale, di quella regionale e dei regolamenti locali.
Solo per tentarne una breve (e non esaustiva) ricostruzione, può dirsi come il sistema costituzionale risulti incentrato, da una parte, sulla legge statale, che disciplina il sistema tributario e contabile dello Stato, il quale dovrebbe essere preordinato, in via di principio, a creare una provvista statale per tutti i compiti che possono derivare dalle materie del comma 2 dell’art. 117 Cost. e per quelli del comma 5 dell’art 119 Cost.; dall’altra parte, sulla legislazione di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, distribuita tra lo Stato e le Regioni.
In questo contesto, perciò, la legge statale avrebbe il compito di dare vita a un sistema che consenta di realizzare il principio del comma 2 dell’art. 119 Cost., in base al quale “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono ed applicano tributi ed entrate proprie”.
La legge regionale, in base al combinato disposto degli artt. 117, comma 3 e 119, comma 2 Cost., dovrebbe disciplinare innanzitutto il dettaglio del coordinamento tra la finanza regionale e locale, ma non potrebbe toccare il fondamento e la normativa dei tributi locali; in secondo luogo, avrebbe il compito di disciplinare la finanza regionale, anche in tal caso solo nel “dettaglio”, in virtù dell’espresso richiamo ai principi di coordinamento del comma 2 dell’art. 119 Cost.; infine, dovrebbe regolamentare le modalità di coordinamento che servono a determinare il finanziamento delle funzioni amministrative conferite dalla legge regionale agli enti locali (art. 118, comma 2, Cost.).
In conclusione, la potestà legislativa regionale in materia di finanza, anche propria, comporterebbe pur sempre una disciplina di “dettaglio”, in quanto limitata dai principi di coordinamento stabiliti dalla legge dello Stato, ai sensi dell’art 117, comma 3, Cost. e dell’art. 119, comma 2 Cost., mentre spetterebbe alla legge statale mettere in moto l’intero processo di riassetto del sistema finanziario tra tutti i livelli di governo (34). In tal senso, il limite maggiore della revisione costituzionale del Titolo V è dato dall’avere rimesso nuovamente, come già nel 1947, in modo programmatico, allo Stato tutte le decisioni sull’autonomia finanziaria regionale e locale, senza reali garanzie costituzionali.
È noto come a sei anni dall’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 sia chiaramente mancata proprio l’attuazione da parte del legislatore, il quale continua a mantenere ben salda la titolarità dell’intera disponibilità finanziaria.
Ciò è accaduto anche perché non è dato conoscere quale sia il grado di interesse reale delle Regioni per l’esercizio di vere e proprie funzioni fiscali e tributarie, che dovrebbe comportare una diretta assunzione di responsabilità davanti ai cittadini.
In questo ambito, peraltro, la Corte costituzionale non ha mancato di esprimere la sua preoccupazione per un simile ritardo, avvertendo come “la attuazione dell’art. 119 Cost. sia urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni; inoltre, la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli enti locali contraddittorie con l’art. 119 della Costituzione (il riferimento e ai fondi vincolati) espone a rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (35).
Il convincimento generale è che, senza l’attuazione dell’art. 119 Cost., nel nostro regionalismo permanga un alto grado di scollamento tra imposizione e spesa, tra esercizio delle competenze e responsabilità.
Sono note le lungaggini frapposte, anche con la creazione dell’Alta Commissione, che ha occupato tutta la legislatura precedente, e le argomentazioni addotte per non attuare l’art. 119, come il problema degli squilibri territoriali esistenti nel Paese, che rendono le basi imponibili delle diverse Regioni non immediatamente confrontabili, la gestione del debito pubblico, la necessità di controllare la pressione fiscale dell’intero sistema e il rispetto del patto di stabilità interno.
Non mancano, poi, ostacoli a una compiuta realizzazione del federalismo fiscale, derivanti da una certa indeterminatezza delle norme costituzionali sulla finanza pubblica, soprattutto in tema di perequazione. Infatti, se per un verso l’art. 119, comma 3, Cost. (36), ha attribuito alla legge dello Stato l’istituzione del fondo perequativo e l’art. 117, comma 2, lett. e), la materia (di competenza esclusiva) perequazione delle risorse finanziarie, per l’altro, queste disposizioni non indicherebbero un modello esatto di finanziamento del fondo medesimo o del tipo di perequazione prescelto.
Tuttavia, quello dell’art. 119 appare il nodo dell’ulteriore evoluzione del regionalismo italiano.
In questa prospettiva, all’inizio dell’attuale legislatura, il Governo ha inserito tra i temi dell’attuazione del Titolo V proprio la questione del federalismo fiscale. Tuttavia, poiché ad occuparsene sono stati tre ministri diversi, ognuno ritenendo di propria competenza l’oggetto, il risultato raggiunto, nell’unica occasione di incontro concordata per l’esame delle diverse proposte, è stato quello di constatare una profonda divergenza di vedute, sufficiente a bloccare il percorso attuativo.
Nel merito delle questioni, poi, risulta rilevante la posizione espressa, per conto del gabinetto del Ministro dell’economia e delle finanze, da Piero Giarda, in un documento datato 22 dicembre 2006, cui è seguita una bozza (incompleta) di d.d.l..
Non c’è dubbio alcuno che la valutazione di questo d.d.l. dipende dalla pregiudiziale concezione politica sul futuro della forma di stato italiana, da cui discende anche la stessa attuazione del Titolo V. Infatti, se si punta ad una lenta e misurata devoluzione di poteri (legislativi e amministrativi) verso Regioni ed enti locali, con un sostanziale permanere del ruolo dello Stato, come è già accaduto nell’esperienza del primo regionalismo, allorquando le competenze regionali risultavano enumerate e tassative, allora potrebbe essere accettabile un criterio di realizzazione del c.d. federalismo fiscale come quello della «spesa storica», quale base di calcolo per definire i titoli di finanziamento delle funzioni, e per di più applicato in un periodo transitorio alquanto lungo.
Se, invece, dovesse recuperarsi una spinta verso l’attuazione più compiuta della riforma costituzionale, per la realizzazione di una reale autonomia dei livelli di governo territoriale, il d.d.l. non potrebbe sottrarsi a più stringenti critiche, non solo di carattere formale (per la mancanza di una vera e propria disciplina materiale della delega che ponga realmente principi e criteri direttivi), ma anche per il diverso impianto che dovrebbe seguire, non più ancorato alla «spesa storica», ma alla definizione della «base imponibile» e alla sua distribuzione tra i diversi livelli di governo. Solo in questo modo, infatti, anche le parole dell’art. 119, commi 1 e 2, Cost. (37) assumerebbero un reale rilievo.
Alla luce di quanto osservato, risulta facilmente comprensibile come il significato dell’istituto regionale dipenda soprattutto dalle modalità di attuazione dell’art. 119, per cui l’esperienza sinora maturata a livello legislativo e giurisprudenziale potrebbe considerarsi ampiamente provvisoria.


6. A mò di conclusione: per la Regione un profilo incerto, senza la riforma dello Stato.

È possibile, a questo punto, trarre una conclusione generale sul profilo dell’istituto regionale, a sei anni dalla revisione costituzionale.
Il bilancio può considerarsi ampiamente deludente, anche per il concreto svolgersi delle vicende istituzionali all’interno della Repubblica. Privati, infatti, della fiducia nella Costituzione e della sua capacità di determinare gli assetti istituzionali, viviamo una condizione di fatto che si esprime nell’ordinamento generale come una forma di «sovranità debole», che nuoce sempre più alla salvaguardia degli interessi nazionali e alla realizzazione dei diritti fondamentali dei cittadini.
La Regione, in ogni caso, appare come un ente debole nella legislazione; da indebolire nell’autonomia organizzativa e amministrativa; privo di sostanziale autonomia finanziaria.
Se si vuole infierire, si può anche aggiungere che la classe politica regionale risulta tenuta in uno stato di distacco dal contesto istituzionale e perciò appare inadeguata. Ma, in realtà, ciò è dovuto alla circostanza che sempre meno i partiti hanno reali meccanismi di raccordo interno, per cui risultano bloccati gli apporti sinergici tra i diversi livelli del personale della politica e nelle cariche regionali e locali si avverte uno stato di sofferenza.
Le opinioni della dottrina, ed anche di alcuni giudici costituzionali, convergono nell’indicare alcune soluzioni (38). Proprio nel recente dibattito si propone di prendere sul serio il vigente Titolo V, rivitalizzandone il disegno complessivo, a partire da una qualche attuazione dell’art. 119 Cost., ma anche di ripensare ad alcuni limitati cambiamenti (costituzionali) necessari alla luce dell’esperienza di questi sei anni: il riassetto dei cataloghi delle materie, la determinazione degli strumenti di raccordo (a livello parlamentare e governativo) della funzione legislativa e di quella amministrativa, il miglioramento delle forme di partecipazione e di garanzia per le Regioni e le autonomie locali, ecc.
Un punto, nondimeno, sembra doversi sottolineare in questa sede, e cioè che l’esperienza ha mostrato, per la seconda volta nella storia delle nostre istituzioni, come la presenza delle Regioni non abbia comportato la riforma dello Stato, per cui la regola dell’adeguamento, quale modo per giungere alla revisione degli apparati statali e, più in generale, della forma di stato, non risulta adeguata da un punto di vista costituzionale.
Forse, non è il profilo dell’istituzione regionale a caratterizzare lo Stato, ma – al contrario – quello dello Stato a definire la figura della Regione.
 
 
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NOTE

(1)   Sul punto v. E. Gianfrancesco, Il federalismo a Costituzione invariata: profili problematici del conferimento di funzioni amministrative a Regioni ed enti locali previsto dalla L. n. 59/1997, in Scritti in onore di Serio Galeotti, I, Milano 1998, 627 ss..
(2)   Non va dimenticato, infatti, che nell’attesa che le Regioni si attivassero a norma dell’art. 122, comma 1, e dell’art. 123 Cost., come modificati dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, la stessa legge prevedeva, all’art. 5, che “Fino alla data di entrata in vigore dei nuovi statuti regionali e delle nuove leggi elettorali ai sensi del primo comma dell'articolo 122 della Costituzione, come sostituito dall'articolo 2 della presente legge costituzionale, l'elezione del Presidente della Giunta regionale è contestuale al rinnovo dei rispettivi Consigli regionali e si effettua con le modalità previste dalle disposizioni di legge ordinaria vigenti in materia di elezione dei Consigli regionali. Sono candidati alla Presidenza della Giunta regionale i capilista delle liste regionali. È proclamato eletto Presidente della Giunta regionale il candidato che ha conseguito il maggior numero di voti validi in ambito regionale. Il Presidente della Giunta regionale fa parte del Consiglio regionale.”
(3)   In tal senso, si deve notare subito come tra i cambiamenti prodotti con la legislazione ordinaria e quelli introdotti con le leggi di revisione costituzionale (n. 1del 1999 e, soprattutto, n. 3 del 2001) vi sia uno iato che rende i due corpi normativi non leggibili in termini di continuità, e ciò soprattutto in quanto le previsioni costituzionali – alcune volte persino identiche a quelle legislative – realizzano una prescrittività diretta proprio nei confronti del legislatore determinandone contenuti e limiti degli atti che questo può adottare.
(4)   Si può ricordare, andando indietro nel tempo, come l’idea della riforma dello Stato per il tramite delle Regioni, nel corso del primo regionalismo, era stata a lungo alimentata dalle stesse Regioni (v. gli atti del Convegno organizzato dalla Regione Emilia-Romagna sulla legge382, pubblicati con il titolo Le Regioni per la riforma dello Stato, Bologna 1976, e ivi le relazioni di L. Paladin [25] e F. Bassanini [42]; nonché gli atti del Convegno organizzato dal Consiglio regionale della Liguria, pubblicati con il titolo Regioni e riforma istituzionale, Napoli 1985, con relazioni di F. Cuocolo [7], M.S. Giannini [17], T. Martines [25], G. Pastori [43], A. Bardusco [55], E. Gizzi [77], F. Bassanini [97], P. Virga [115], S. Galeotti [125]).
(5)    Altrimenti detto, se il legislatore (o la Corte costituzionale) non si attiene, in tutto o in parte, al quadro costituzionale, viene meno la stessa regola dell’adeguamento della quale si è detto sopra e si fa strada una prospettiva fattuale di ricostruzione dell’istituto regionale.
(6)   Sul punto in dottrina D. Nocilla, Natura delle disposizioni programmatiche statutarie e controlli endoregionali su leggi e regolamenti delle Regioni, in Giur. Cost. 2004, 4134 ss.; P. Salvatelli, Il ruolo degli «organi di garanzia statutaria» di nuovo al vaglio della Consulta, in Forum di Quad. Cost., 17 marzo 2007; S. Mangiameli, Lo Statuto della Regione Abruzzo al vaglio della Corte costituzionale, in Le Regioni, 2006, 778 ss..
(7)   ed anzi affermando che “alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto” (sentt. nn. 2 e 378 del 2004)
(8)   Per alcune considerazioni sul modello delineato dallo Statuto calabrese v. R. Bin, Calabria docet. A che punto sono gli Statuti regionali?, in Forum di Quad. Cost., 6 gennaio 2004.
(9)   Sul punto v. il volume a cura dell’Istituto di studi sulle Regioni del CNR dal titolo La potestà statutaria regionale nella riforma della Costituzione. Temi rilevanti e profili comparati, Milano 2001, e in particolare il contributo di A. Spadaro, “L’armonia con la Costituzione” delle fonti statutarie, in AA.Vv., La potestà statutaria regionale nella riforma della Costituzione. Temi rilevanti e profili comparati, I.S.R. - C.N.R., Milano Giuffré, 2001, 235 ss.
(10)  V., criticamente, S. Mangiameli, La nuova potestà statutaria delle Regioni davanti alla Corte costituzionale, in Giur. Cost. 2002, 2358 ss.; Id., Lo Statuto della Regione Abruzzo al vaglio della Corte costituzionale, cit., 778 ss.
(11)  V. il nostro Riforma federale, luoghi comuni e realtà costituzionale, in Quale dei tanti federalismi, a cura di A. Pace, Padova 1997, 307 ss..
(12)  Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
(13)  Sia detto per inciso, ma la questione dovrebbe far riflettere, che la scelta compiuta nel 2001 dal legislatore di revisione costituzionale italiano è esattamente l’opposto di quella compiuta nel 1787 dai padri fondatori del federalismo statunitense e da quella che caratterizza sin dall’origine anche il processo di integrazione europea, nelle quali il governo del mercato costituisce la competenza di riferimento dell’ente centrale.
(14)  Sul tema dell’istruzione v. Corte cost., sent. n. 13 del 2004; Corte cost., n. 34del 2005; Corte cost., sent. n. 50 del 2005; Corte cost., sent. 120 del 2005 ed in particolare Corte cost., n. 279 del 2005 con nota di G. Scaccia, Norme generali sull’istruzione e potestà legislativa concorrente in materia di istruzione: alla ricerca di un criterio discretivo, in Giur. cost. 2005, 2716 ss.; e M. Michetti, La Corte, le Regioni e la materia dell’istruzione, in Giur. cost. 2005, 5117; v. anche A. Morrone, L’istruzione nella revisione del «Titolo V» della Costituzione, in Europa delle religioni e confessioni religiose, a cura di G. Cimbalo, Torino, 2001, 277; Id., Appunti sulle “norme generali” (dopo il progetto di riforma delle riforma), in Le Istituzioni del Federalismo 2003, 145; A. Poggi, Istruzione, formazione professionale e Titolo V: alla ricerca di un (indispensabile) equilibrio tra cittadinanza sociale, decentramento regionale e autonomia funzionale delle Istituzione scolastiche, in Le Regioni 2002, 771.
(15)    V. Corte costituzionale n. 303 del 2003, in cui si afferma: “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di potestà concorrente, come postulano le ricorrenti, significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze”; in dottrina sul tema degli interessi nazionali, dopo la revisione del Titolo V, v. A. Barbera, Chi è il custode dell’interessa nazionale? in Quad. cost., n. 2/2001, 345ss.; Id., Gli interessi nazionali nel nuovo Titolo V, in E. Rozo Acuna (a cura di) Lo Stato e le autonomie. Le regioni nel nuovo Titolo V della Costituzione. L’esperienza italiana a confronto con altri Paesi, Torino 2003, 11 ss.; R. Bin, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale in Le Regioni, 2000, n. 6, 1213; P. Caretti, La Corte e la tutela delle esigenze unitarie: dall’interesse nazionale al principio di sussidiarietà, in Le Regioni n. 2, 2004, 381; L. Cuocolo, Gli interessi nazionali tra declino della funzione di indirizzo e coordinamento e potere sostitutivo, in Cahiers européens; R. Tosi, Riforma della riforma potestà ripartita, interesse nazionale, in Le Regioni n 4 , 2003; Id., A proposito dell’interesse nazionale, in Forum dei Quaderni costituzionali.
(16)   “La nuova formulazione dell’art. 117, terzo comma, rispetto a quella previgente dell’art. 117, primo comma, esprime l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina. Ciò non significa però che i principi possano trarsi solo da leggi statali nuove, espressamente rivolte a tale scopo. Specie nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore” (Corte cost., sentenza n. 282 del 2003, in Giur. Cost. 2002, con nota di A. D’Atena, La Consulta parla…e la riforma del Titolo V entra in vigore, in Giur. Cost., 2002, n. 3, 2027 ss.).
(17)  Sentenza capostipite, come noto, è la decisione della Corte cost., n. 303 del 2003. Sul punto v., A. Ruggeri, Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma non regolamentare…) in una storica (e, però, solo in parte soddisfacente) pronunzia in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti – Studi dell’anno 2003, tomo 2, Torino 2004, 297 ss.; A. Morrone, La Corte costituzionale riscrive il Titolo V? in Forum di Quaderni costituzionali; S. Bartole, Collaborazione e sussidiarietà nel nuovo ordine regionale in Le Regioni 2004, 578; A. Anzon, Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni inGiur. cost., 2003, 2782; A. Moscarini, Titolo V e prove di sussidiarietà: la sentenza n. 303/2003 della Corte costituzionale in federalismi.it; Id., Sussidiarietà e Supremacy Clause sono davvero perfettamente equivalenti, in Giur. cost., 2003, 2791 ss.. Sul tema delle materie nel nuovo Titolo V, v. A. D’Atena, Materie legislative e tipologia delle competenze, in Quad. cost., 2003, 631; F. Benelli, La smaterializzazione delle materie. Problemi teorici ed applicativi del nuovo Titolo V della Costituzione Milano, 2006; F. S. Marini, La Corte nel labirinto delle materie “trasversali” dalla sentenza 282 alla 407 del 2002, in Giur. cost., 2002, 2952; G. Scaccia, Le competenze legislative sussidiarie e trasversali, in Dir. Pubbl. 2004, 461 ss.; Id., Il riparto delle funzioni legislative fra Stato e Regioni, in Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, a cura di G. Corso e V. Lopilato, Milano 2006.
(18)  Sul punto v. il nostro Il principio cooperativo nell’esperienza italiana (del primo e del secondo regionalismo, in Teoria del diritto e dello Stato 2007.
(19)   nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”. La Corte costituzionale (sentenza n. 43 del 2004) con riferimento al potere sostitutivo di cui all’art. 120, comma 2, Cost. afferma che “esso prevede solo un potere sostitutivo straordinario, in capo al Governo, da esercitarsi sulla base dei presupposti e per la tutela degli interessi ivi esplicitamente indicati” e, su questa base, ritiene poi che la Costituzione lascerebbe “impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione di settore, statale o regionale, in capo ad organi dello Stato o delle Regioni o di altri enti territoriali, in correlazione con il riparto delle funzioni amministrative da essa realizzato e con le ipotesi specifiche che li possano rendere necessari”. Si tratta di una ricostruzione che suscita non poche perplessità e che lo stesso giudice costituzionale finisce col giustificare, ancora una volta, come una soluzione pratica ben diversa da quella cui bisognerebbe addivenire seguendo le disposizioni costituzionali. Infatti, il potere sostitutivo rientrerebbe “nello stesso schema logico”, che ha affidato nell’attuazione delle previsioni dell’art. 118 Cost. al legislatore competente per materia, sia esso quello statale o quello regionale, la concreta attribuzione delle funzioni amministrative (punto 3.2. del Considerato in diritto). In dottrina si v. per tutti C. Mainardis, Poteri sostitutivi statali e autonomia amministrativa regionale, Milano 2007.
(20)  Per il quale “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”.
(21)  Sulla crisi della legge regionale nel primo regionalismo v. A. D’Atena, La crisi della legge regionale, in Costituzione e Regioni. Studi, Milano 1991, 221ss.; Id., Regione (in generale) in Enc. dir., vol. XXXIX , Milano 1988, 317 (325) ss.; S. Mangiameli, Le materie di competenza regionale, Milano 1992, 49; Id., Giuridificazione dell’«ambiente» e perdita di valore simbolico della «caccia» (intorno alla possibilità di una interpretazione «infrasistematica») delle materie regionali, in Giur. cost., 1990, 537 ss.
(22)   Anzi, la più recente giurisprudenza costituzionale (v. sentenza n. 201 del 2007) sembra manifestare una certa preoccupazione per una interpretazione rigida del principio cooperativo, tale da imporre necessariamente una intesa tra lo Stato e le Regioni, per cui ha affermato “la discrezionalità legislativa circa la scelta del modulo concertativo più idoneo a salvaguardare le competenze regionali, non riscontrandosi l’esigenza di specifici strumenti costituzionalmente vincolati di concertazione”.
(23)  L’espressione è stata adoperata da U. De Siervo, Il regionalismo italiano fra i limiti della riforma del Titolo V e la sua mancata attuazione, relazione al Seminario su "Cooperazione e competizione fra Enti territoriali: modelli comunitari e disegno federale italiano", Roma 18 giugno 2007, in http://www.issirfa-spoglio.cnr.it/4173,908.html
(24)  Sul riparto delle funzioni amministrative v.; S. Cassese, L’amministrazione nel nuovo titolo V della Costituzione, in Giorn. Dir. amm., 2001, 1193 ss.; G.C. De Martin, Il processo di riassetto dei ruoli istituzionali dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali, in www.amministrazioneincammino.it, 2001; F. S. Marini, Il nuovo titolo V: l’epilogo delle garanzie costituzionali sull’allocazione delle funzioni amministrative, in Le Regioni 2001, 399 ss.; G. Berti e G.C. De Martin, Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione , Roma 2002; R. Bin, La funzione amministrativa nel nuovo titolo quinto della Costituzione, in Le Regioni, 2002 n. 2-3, 365 ss.; Id., Il nuovo titolo V: cinque interrogativi (e cinque risposte) su sussidiarietà e funzioni amministrative, in forum dei Quaderni costituzionali; G. Falcon, Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 383 ss.; A. D’Atena, Il nodo delle funzioni amministrative, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; Id., L’ allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2003, 2776 ss; A. Anzon, Un passo indietro verso il federalismo duale, in www.associazionedeicostituzionalisti; S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, regionale e statale tra nuove competenze legislative, autonomie normative ed esigenze di concertazione, in Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, a cura di G. Berti e G.C. De Martin, Roma 2002; Id., L’attuazione della riforma del Titolo V Cost. L’Amministrazione: tra Stato, Regioni ed Enti locali, in Sito dell’ISSIRFA, 2004; ora in Regionalismo in bilico. Tra attuazione e riforma della riforma del titolo V, a cura di A. D’Atena; Milano 2005; V. Lopilato, Le funzioni amministrative in Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali. Parte generale, a cura di G. Corso e V. Lopilato, Milano 2006.
(25)  Si può ricordare, al riguardo, che l’art. 4, comma 3, lett. e, della legge n. 59 del 1997, prevede proprio “i principi di responsabilità ed unicità dell’amministrazione, con la conseguente attribuzione ad un unico soggetto delle funzioni e dei compiti connessi, strumentali e complementari, e quello di identificabilità in capo ad un unico soggetto anche associativo della responsabilità di ciascun servizio o attività amministrativa”.
(26)  L’ipotesi della paralisi amministrativa ha comportato che, anche per il caso di intese forti, il giudice costituzionale abbia finito con l’affermare che “l’esigenza di leale cooperazione, insita nell’intesa, non esclude a priori la possibilità di meccanismi idonei a superare l’ostacolo che, alla conclusione del procedimento, oppone il mancato raggiungimento di un accordo sul contenuto del provvedimento da adottare; anzi, la vastità delle materie oggi di competenza legislativa concorrente comporta comunque, specie quando la rilevanza degli interessi pubblici è tale da rendere imperiosa l’esigenza di provvedere, l’opportunità di prevedere siffatti meccanismi, fermo il loro carattere sussidiario rispetto all’impegno leale delle parti nella ricerca di una soluzione condivisa” (Corte costituzionale, sentenza n. 378 del 2005, relativa all’autorità portuale di Trieste).
(27)   Appare emblematico, in proposito, l’accordo sulla sanità dell’8.8.2001, nel cui ambito lo Stato ha concordato anche delle modifiche legislative; sul punto v. Corte costituzionale, sentenza n. 510 del 2002 (v. anche L. Violini, Meno supremazia e più collaborazione nei rapporti tra i diversi livelli di governo? Un primo sguardo (non privo di interesse) alla galassia degli accordi e delle intese, in Le Regioni 2003, 691 ss.).
(28)  “In tal senso va rilevato … come l’accordo sia un atto che va ad incidere sulla sfera giuridica dei terzi e disciplini modalità di azione che rimangono di competenza solo delle Regioni secondo criteri fissati in Conferenza Stato-Regioni” (R. Carpino, Evoluzione del sistema delle Conferenze, in Le istituzioni del federalismo, 2006, 32, che esamina diffusamente anche la particolare vicenda dell’accordo in materia di turismo e le diversità di opinione della Corte costituzionale [sentenza n. 197 del 2003] e del Consiglio di Stato [Sez. I, n. 3165 del 2003 – parere in sede di ricorso straordinario]).
(29)  V. sentenza n. 242 del 2205 e sentenza n. 285 del 2005.
(30)  V. sentenza n. 27 del 2004 e sentenza n. 339 del 2005.
(31)  Non a caso l’unico rimedio che si è palesato a disposizione del legislatore di attuazione è stata la previsione di intese per le quali non risultava ammissibile l’esercizio del potere sostitutivo del Governo (art. 8, comma 6, Legge n. 131) (sul punto ancora il nostro Il principio cooperativo nell’esperienza italiana (del primo e del secondo regionalismo, cit.).
(32)  V. S. Mangiameli, Riflessioni sul principio cooperativo, prima della riforma delle Conferenze, in Le istituzioni del federalismo 2007, 103 ss.
(33)  Sull’art. 119 Cost., dopo la revisione del Titolo V, v. P. Giarda, Le regole del federalismo fiscale nell’articolo 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione, in Le Regioni, 2001, 1425 ss.; G. Vitaletti – L. Antonimi, Il grande assente: il federalismo fiscale, in Rass. parl., 2001, 185 ss.; F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 Cost., in Rass.trib., 2002, 585; L. Antonimi, La vicenda e le prospettive dell’autonomia finanziaria regionale: dal vecchio al nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni, 2003, 11 ss.; A. Brancasi, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni 2003, 41 ss.; F. Bassanini – G. Macciotta, (a cura di) L’attuazione del federalismo: una proposta, Bologna, 2003; M. Bertolissi, L’autonomia finanziaria delle regioni ordinarie, in Le Regioni 2/3, 2004; G. Della Cananea, Autonomie e perequazione nell'articolo 119 della Costituzione, in Le Istituzioni del federalismo, 2005, n. 1, 127 ss.; P. De Ioanna, L’autonomia finanziaria, in Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, a cura di G. Corso e V. Lopilato, Milano 2006, 351 ss..
(34)   Appare evidente, dunque, come – diversamente da quanto ritengono altri (F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 Cost., cit., 585) – non vi sia spazio per far ricadere la materia della finanza regionale e, a maggior ragione, ovviamente quella della finanza locale nell’ambito di applicazione dell’art. 117, comma 4 Cost..
(35)  Corte costituzionale, sentenza n. 370 del 2003.
(36)  V. art. 119, comma 3, Cost. (“La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”).
(37)  V. art. 119, commi 1 e 2, Cost. (“I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. // I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”).
(38)  V., in proposito, A. D’Atena, Sette tesi per il riavvio delle riforme costituzionali, Intervento al Seminario ad inviti sulle riforme istituzionali organizzato il 25.9.2006 a Firenze (Fondazione Spadolini-Nuova Antologia), in http://www.issirfa-spoglio.cnr.it/3509,908.html; .U. De Siervo, Il regionalismo italiano fra i limiti della riforma del Titolo V e la sua mancata attuazione, cit., il quale sottolinea come “gli essenziali ed urgenti punti di confronto sono anzitutto la definizione delle regole di garanzia della responsabile autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali all’interno della complessiva finanza pubblica, nonché la precisa definizione delle aree di responsabilità legislativa ed amministrativa dei diversi livelli istituzionali”; V. Onida, Il giudice costituzionale e i conflitti tra legislatori locali e centrali, in Le Regioni, 2007, 11 ss.; cui sia consentito aggiungere anche S. Mangiameli, I processi di riforma in itinere. Considerazioni sul riflusso della riforma federale in Italia, in Forum di Quaderni costituzionali, 5 ottobre 2006, ed ora anche in Il “gioco” della cooperazione. Autonomie e raccordi istituzionali nelle’evoluzione del sistema italiano, a cura di O. Gaspari e A. Piraino, Roma 2007, 27 ss

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