Necesse est enim ut veniant scandala: dal “caso Fiorito” e dintorni, pregiudizi da evitare e due incognite per il futuro.
 
L’edificio è una gigantesca banconota. Uomini con ventiquattrore al seguito, donne in abiti impiegatizi: tutti vi accedono, oltrepassando, fiduciosi, l’arco barocco sovrastato dall’insegna “Consiglio Regionale”. In basso, la didascalia recita: “Autonomia locale”.
La vignetta appena descritta[1] contribuisce a confermare, nella sua impietosa valenza iconica, come l’eco delle recenti vicissitudini della presidenza Polverini abbia ridestato, nel dibattito politico, alcuni perniciosi luoghi comuni che non giovano alla riflessione sui temi delle autonomie. L’occasione è utile per ribadire nozioni da ritenersi ormai acquisite e fare il punto sulle prospettive future.
Le istituzioni regionali – occorre prenderne atto – non godono, da alcuni mesi a questa parte, di buona fama mediatica: tra Presidenti in carica (Lombardia, Emilia Romagna e Puglia) indagati per indebiti favoritismi ed altri (Sicilia, Lazio) dimissionari a seguito di clamorose indiscrezioni giudiziarie, tra scandali che scuotono più d’un Consiglio (Lazio e Lombardia), minacciando di estendersi altrove (ad esempio in Piemonte e in Campania), le regioni si presentano, nell’immagine restituita dalle cronache, come un inerte proscenio del malaffare politico.
Soprattutto, in un generale clima di austerity e tagli alla spesa, a destare scalpore nell’opinione pubblica è l’impiego – per così dire – disinvolto delle risorse finanziarie in dotazione agli enti regionali; ecco, allora, che il Laziogate, con i suoi plateali eccessi, viene ad assestare il colpo ferale alla cattiva reputazione di cui s’è detto, innescando una serie di equazioni: regioni uguale sprechi, o, in una versione meno triviale, autonomia legislativa uguale libertà assoluta di destinazione, e distrazione, del denaro pubblico.
Seguono, perciò, gli inviti a “ripensare” il decentramento[2], ideale ormai tradito – si osserva – dall’evidenza empirica[3]. Tanto da far dubitare – quasi con una punta di resipiscenza – che, in fin dei conti, fossero proprio le regioni, anziché le province, quegli “enti inutili” verso cui avrebbe dovuto essere più opportunamente indirizzata la scure della soppressione legislativa[4].
Alla tentazione del sillogismo semplificatore – le regioni hanno ampie potestà legislative, le regioni sperperano, ergo la troppa autonomia genera sprechi e malcostume – non sfugge, in qualche caso, neppure la dottrina costituzionalistica[5].
Non meno autorevolmente[6], però, si è replicato che quel ragionamento muove da premesse errate, se non altro perché la libertà di movimento del legislatore regionale esce – com’è del resto noto agli studiosi del settore – fortemente ridimensionata dalla giurisprudenza costituzionale sul riformato Titolo V.
E non è – hanno correttamente ricordato altri notisti[7] – la moltiplicazione dei centri decisionali, di per sé stessa, a favorire una gestione incontrollata della spesa. Piuttosto, è l’esercizio di poteri di autodeterminazione politica non accompagnato da una piena (almeno tendenzialmente) autonomia finanziaria,a sottrarre gli amministratori locali alle responsabilità cui sarebbero tenuti nei confronti del rispettivo elettorato[8].
Così più correttamente impostato l’argomento, almeno due sembrano i problemi sui quali, realmente, andrebbe posta l’attenzione.
Il primo è il così (e mal) detto “federalismo fiscale”. Se la risposta più efficace alla voracità delle classi politiche regionali consiste nella responsabilizzazione delle stesse, e questa a sua volta non può che venire – secondo quanto fin qui chiarito – dalla concretizzazione dei principi posti dall’art. 119, Cost., sarebbe legittimo attendersi, da parte dei soggetti coinvolti, un solerte interesse nei confronti della compiuta attuazione del dettato costituzionale. E invece, il perfezionamento dell’iter tracciato dalla legge delega (l. n. 42/2009) si avvia alla sua definitiva conclusione nell’apparente indifferenza collettiva.
Il 1° gennaio 2013 segna il termine – ormai imminente, salvo proroghe – a decorrere dal quale il d.lgs. n. 68/2011 dispone la cessazione dei trasferimenti di risorse da parte dello Stato, in favore del principio dell’autofinanziamento regionale. Come si apprestano le regioni ad affrontare questo passo, che si preannuncia radicale? Ed inoltre, è conciliabile un regime ad autonomia “spinta”, ispirato al modello competitivo, quale quello a prima vista disegnato dalla disciplina attuativa, con la tendenza chiaramente manifestata dall’attuale governo ad un controllo della spesa pubblica in chiave accentuatamente centripeta (si veda, non ultima, la reintroduzione della c.d. tesoreria unica per gli enti sub-statali)? Si tratta di interrogativi cui occorrerà fornire, al più presto, una risposta.
Un secondo corno della questione attiene, poi, alla presumibile capacità di un sistema di autonomia fiscale regionale di generare prassi virtuose, tenendo conto delle effettive condizioni ambientali in cui sarà destinato ad operare.
Detto apertis verbis, in contesti fortemente caratterizzati da logiche clientelari, l’introduzione di un meccanismo fondato sull’autonomia regionale di entrata, oltre che di spesa, potrebbe, allo scopo, non bastare. È vero, in merito, che, in virtù del criterio di territorialità dell’imposta, l’onere sociale della corruzione e della dissipazione delle risorse non verrebbe addossato, in linea di principio, alla collettività nazionale. Ma si corre comunque il rischio che il peso finisca col gravare, in larga parte, sulla platea dei contribuenti della regione rimasti estranei al circuito delle lobbies (recte: clientele) locali, i cui appartenenti possono invece in ogni caso – e cioè anche laddove la regione si trovasse costretta ad acuire la pressione fiscale o a ridurre i servizi sul territorio per bilanciare i costi della cattiva gestione – contare sui benefici loro riservati dalla contiguità con il ceto politico.
Anche il nesso di responsabilità dei governanti nei confronti del corpo elettorale verrebbe, in tal modo, a spezzarsi, rivelandosi anzi – quasi per paradosso – elettoralmente premiante proprio un atteggiamentoincline alla prodigalità (ad esclusivo vantaggio, naturalmente, dei propri clientes), perché facilmente in grado di assicurare la successiva rielezione del patron. Specie in presenza di tassi crescenti d’astensionismo[9], infatti, il risultato elettorale può dipendere sensibilmente dall’apporto di minoranze organizzate – quali, appunto, le élites clientelari, in senso paretiano – dando vita ad un circolo autoreferenziale.
Per contro, tuttavia, sotto il profilo delle dinamiche sociologiche è anche sostenibile che, una volta operanti i vincoli indotti dall’autonomia finanziaria, l’elevata onerosità sociale della remunerazione delle clientele (in termini di minore qualità delle prestazioni pubbliche e più gravosa imposizione tributaria nella regione) possa spingere la componente maggioritaria del corpo elettorale locale – formata, è ragionevole supporre, dai cittadini “onesti”, vale a dire intenzionati a far valere, attraverso il voto, interessi legittimi e non un personale tornaconto – ad una maggiore partecipazione ai suffragi, rendendo così più difficile, per gli amministratori poco parsimoniosi, sottrarsi alla sanzione elettorale.
Ad ogni modo, considerato anche – come evidenziano le notizie degli ultimi giorni – il carattere politicamente trasversale, nonché tipicamente individuale, dei fenomeni in questione, non appare insensato domandarsi se esistano, sul piano strettamente costituzionale, dei deterrenti alla polarizzazione di preferenze “interessate” intorno a singoli candidati.
Un rimedio di attendibile efficacia in tal senso, seppure decisamente drastico, potrebbe ravvisarsi nella previsione del divieto di doppio mandato consecutivo (id est della non immediata ricandidabilità) per tutti i consiglieri uscenti. Qualificandosi come principio fondamentale in materia di cause di ineleggibilità, una soluzione del genere rientra, peraltro, a mente dell’art. 122, co. 1, Cost., nella disponibilità del legislatore centrale[10]. Ad ulteriore riprova del fatto che la Costituzione non fa mancare allo Stato incisivi margini di manovra nella vita istituzionale delle regioni.

(30 settembre 2012)

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NOTE

[1] La vignetta, apparsa, a firma di Emilio Giannelli, nella prima pagina del Corriere della Sera del 29 settembre scorso, è visibile al sito internet della rassegna stampa della Camera dei deputati, http://rassegna.camera.it.
[2] Così, ad esempio, Franco Bruni, Federalismo, è l’ora di ripensarlo, in La Stampa, 23 settembre 2012, 1 e 33 ss. Negli stessi termini si è espresso Pierluigi Bersani in un’intervista rilasciata a Barbara Jerkov, Bersani: ripensare il federalismo, la nostra riforma fu un errore”, in Il Messaggero, 26 settembre 2012, 1 ss.
[3] In questo senso Mario Calabresi, con l’editoriale Quei miti andati in frantumi, in La Stampa, 22 settembre 2012, 1 e 29 ss.
[4] Così Carmelo Caruso, Abolite le Regioni! Ma non erano le province?, in www.panorama.it, 23 settembre 2012.
[5] Cfr. M. Ainis, I pachidermi delle regioni, in Corriere della Sera, 22 settembre 2012, 1 e 36 ss.
[6] Per questo ed altri rilievi cfr. V. Onida, Colpevoli gli eletti, non le istituzioni, in Corriere della Sera, 24 settembre 2012, 39.
[7] In particolare, Luca Ricolfi, Il federalismo funziona se responsabile, in La Stampa,24 settembre 2012, 1 e 22 ss.
[8] Su questi aspetti, cfr., per tutti, A. D’Atena, Diritto regionale, Torino, 2010, 206 ss.
[9] Secondo le statistiche tratte dall’Annuario dell’ISTAT, ad esempio, nelle ultime elezioni regionali, svoltesi tra il 28 e il 29 marzo del 2010, la percentuale dei votanti rispetto al totale degli elettori è stata pari al 63,6% su scala nazionale (contro il 71,4% delle omologhe consultazioni del 2005). Ne deriva che nel Lazio, dove l’astensione ha raggiunto il 39,1%, la coalizione che sosteneva Renata Polverini quale candidata alla presidenza regionale è risultata vittoriosa ottenendo, complessivamente, il consenso del solo 31,1% del corpo elettorale, corrispondente però al 51,14% dei voti validi (dati del Ministero dell’Interno).
[10] Attualmente, la normativa statale si limita a sancire la “non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto” (art. 2, co, 1, lett. f), l. n. 165/2004), consentendo, per altro verso, alla fonte regionale di differenziare la disciplina dell’ineleggibilità del Presidente da quella dei consiglieri (lett. e)).
 
 

 
 

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