Cesare PINELLI, La crisi dei Consigli regionali e i circuiti fra Stato e Regioni (Aprile 2008)
AVVERTENZA: Il contributo è destinato agli “Studi in onore di Michele Scudiero”
Sommario:
Note
Da qualche tempo ci siamo abituati ad annoverare i Consigli regionali fra le istituzioni malate della Repubblica. Una buona ragione per occuparsi del loro stato di salute consiste nel collegamento con questioni più ampie, quali la capacità deliberativa di assemblee rappresentative, la funzione della legge, la forma di governo, i circuiti fra Regioni e Stato. Tuttavia, non bisogna per questo sottovalutare la specificità del fenomeno. Proprio qui, come adesso vedremo, risiede un limite della diffusa tendenza ad imputare la crisi dei Consigli solo alle scelte sulla forma di governo regionale.
Nell’ambito di tale tendenza, una prima tesi fa leva sulla “torsione personalistica” che negli anni Novanta ha investito il sistema politico sul piano nazionale come su quello locale e regionale, dove la l.cost. n. 1 del 1999, prevedendo l’elezione diretta del Presidente della Regione con contestuale scioglimento del Consiglio anche in caso di sfiducia, configura anzi una “concezione estrema della democrazia di mandato” (1). Da cui l’indebolimento dei partiti, la formazione di un’“area grigia” intorno alle amministrazioni regionali che “fa nascere una nuova questione di etica nella politica”, e soprattutto la dequotazione delle assemblee: “Si vota, si vince, si governa, si vota di nuovo. Nel mezzo, si lascia fare a chi governa, che verrà giudicato nel voto successivo per quel che avrà fatto. E se chi è eletto deve essere lasciato governare per poi rispondere solo agli elettori nel successivo turno elettorale, è chiaro che niente devono contare i luoghi diversi dalle sedi di governo: possono solo essere un fastidioso ostacolo. Tale è il caso anche delle assemblee elettive” (2). L’elezione diretta dei Presidenti, togliendo ogni freno alla loro azione, avrebbe annullato la regola essenziale del sistema democratico, ossia la responsabilità per l’esercizio del potere (3).
Altri non contestano che il Consiglio regionale sia “il vero sconfitto dalla riforma costituzionale del 1999”, ma l’addebitano al fatto che con la riforma esso ha perduto quel “potere della crisi” in virtù del quale i governi regionali nascevano e morivano sulla base di accordi tra consiglieri regionali, che potendo così ricattare Presidente e assessori influenzavano l’attività amministrativa diretta alla cura degli interessi dei loro elettori. La riforma avrebbe tolto loro queste risorse, e la possibilità di rielezione su tale base. Né gioverebbe allo scopo l’incremento delle competenze legislative previsto dal nuovo Titolo V, poiché deliberare sugli interessi generali della società regionale non aiuta la causa della rielezione. D’altra parte l’elezione diretta dei Presidenti di Regione avrebbe solo amplificato una diffusa tendenza alla personalizzazione attraverso i media, che si ripercuote sulla dimensione territoriale della politica prima che sul ruolo dei Consigli (4).
Pur da posizioni opposte, ambedue le tesi si inscrivono in una visione generale dei mutamenti istituzionali intervenuti negli anni Novanta. La prima, che riconduce la crisi alla versione estrema della democrazia di mandato accolta dalla riforma del 1999, presuppone un passato nel quale i Consigli erano sedi di deliberazioni consapevoli e volte alla cura degli interessi generali della collettività che rappresentavano. Per quanto la rapida rimozione sia un’abitudine nazionale, la litigiosità permanente, la delega ai partiti della scelta dei governi regionali e le frustrazioni degli stessi consiglieri che allora caratterizzavano la vita quotidiana delle assemblee (5), sono però un ricordo troppo fresco, che invita a ricercare in vicende di più lungo periodo le ragioni della crisi odierna.
La seconda tesi, all’opposto, descrive impietosamente l’assetto anteriore alla riforma. Un universo di ricatti, interessi particolari, influenze, che la clausola simul stabunt simul cadent avrebbe cancellato, sottraendo ai Consigli il potere di togliere la fiducia alla Giunta senza subirne alcuna conseguenza. Quel che non si dice, ma si desume da quanto detto, è che la clausola ha così sancito il passaggio del potere di ricatto da un organo all’altro. E tuttavia, ridurre a questo la crisi dei Consigli equivale a descrivere un gioco a somma zero, su cui non vi è più nulla da dire. Se assumiamo che ogni visione dell’interesse generale sia necessariamente estranea all’orizzonte dei consiglieri regionali perché non agevola la loro rielezione, su cosa può reggersi l’auspicio di una “politica programmante” che aggreghi interessi e provi a dare ordine alla complessità sociale (6)?
Ancora, è facile chiedersi cosa resti, dopo la personalizzazione indotta dai circuiti mediatici, “della Regione come istituzione, dell’idea cara ai maestri del diritto costituzionale di un indirizzo politico regionale autonomo rispetto a quello dello Stato” (7). Ma di cosa dobbiamo interessarci se non della Regione in quanto istituzione? La “forza” di un organo di indirizzo si misura sulla capacità di ricattarne un altro o, prima di tutto, sulla idoneità ad adempiere le funzioni cui è preposto per Costituzione e Statuto? E il rendimento di un modello istituzionale deriva dalla “forza” che riesce ad concentrare nell’uno o nell’altro organo, o dalla idoneità ad instaurare fra loro un rapporto soddisfacente?
Altri, senza contestare l’incidenza del mutamento della forma di governo sulla debolezza dei Consigli, vanno alla ricerca di fattori ulteriori. Ad esempio, la funzione di rappresentanza politica sarebbe pregiudicata dal fatto che, venute meno le strutture tecniche che i partiti offrivano loro un tempo tramite centri studi, riviste e organizzazioni collegate, le assemblee si trovano a deliberare sulla base di dati e informazioni acquisite dall’esecutivo e dai suoi uffici (8).
Il raffronto fra Consiglio e Giunta con Presidente eletto viene così spostato sul piano dell’efficienza. Desumere la crisi dei Consigli dalla loro strutturale dipendenza dall’esecutivo anche in ordine agli strumenti necessari al “conoscere per deliberare” invita ad approfondire i profili istituzionali della questione. Lo stesso vale per il rilievo che già negli anni Ottanta il Consiglio dipendeva dalla Giunta quanto all’ideazione e al perseguimento in via legislativa delle politiche pubbliche regionali, con il conseguente sospetto che la crisi dei Consigli abbia radici assai più antiche della riforma del 1999 (9).
3. Necessità di guardare alle caratteristiche della legge regionale e al diverso ruolo dei Consigli e delle Giunte nei rapporti con gli organi centrali.
Di passi in quella direzione se ne possono compiere sicuramente altri. Mi riferisco al contenuto prevalentemente provvedimentale delle leggi regionali, e al rapporto del Consiglio con le istituzioni nazionali, raffrontato a quello della Giunta.
Nei primi decenni di attività le Regioni mostrano un “profilo basso, incline alla gestione amministrativa” (10). Persa di vista la prospettiva della Regione quale ente politico o di governo, prevale una versione degradata della Regione amministrativa, con tendenza a “pluralizzare, senza mutarlo, quel tipo di gestione degli interessi che era sinora effettuato in sede centrale e nel quale legislazione e amministrazione si connettono come aspetti interdipendenti di un potere sostanzialmente unitario, provvedendo l’una all’autorizzazione di spese (o comunque di benefici) nei confronti di categorie predeterminate, l’altra alla loro erogazione” (11).
Sappiamo che a questo esito concorsero, sullo sfondo di un sistema dei partiti fortemente compatti e radicati a livello nazionale, sia la legislazione nazionale, che invertendo l’ordine delle priorità indicato in Costituzione subordinò i trasferimenti di competenze legislative a quelli delle funzioni amministrative, sia gli statuti, che per un verso adottarono modelli di organizzazione amministrativa che replicavano quello della tradizione statale, proprio mentre si cominciava a distinguere la responsabilità dei dirigenti dei Ministeri per l’esercizio delle loro funzioni (d.P.R. n. 748 del 1972), e per l’altro affidarono alle commissioni consiliari permanenti compiti amministrativi o di supervisione su di essi, con la conseguenza di incentrare nella sede consiliare le occasioni di scambio politico (12).
La ridotta capacità deliberativa dei Consigli, la conseguente natura provvedimentale di gran parte della legislazione, le incongruenze che ne derivavano rispetto all’impianto costituzionale erano quindi già all’epoca un dato pacifico, e tali ne erano anche le ragioni. Questo è però a mio avviso solo un aspetto della debolezza dei Consigli nell’assetto istituzionale anteriore alla riforma del 1999. Se ne può individuare un altro, che non si aggiunge semplicemente al primo, ma complica notevolmente il quadro dei problemi.
Mi riferisco al rapporto con gli organi centrali, ossia con una legislazione statale intrusiva e con una Corte costituzionale poco disposta, soprattutto nei primi tempi, a concedere spazi di autentica autonomia alle Regioni. In quanto titolare del potere legislativo, il Consiglio era giocoforza l’istituzione chiamata in causa, a doversi muoversi negli interstizi lasciati dal Parlamento e a subire i colpi assestati dalla Corte alle sue leggi. Così, il tasso di autonomia delle Regioni continuava a venire apprezzato in termini di legislazione, nonostante la dequotazione di questa a misura amministrativa, ma era sempre il Consiglio, e il singolo Consiglio, a trovarsi esposto in prima fila in una partita da cui usciva quasi sempre perdente.
Nel frattempo si diffondevano congegni e sedi di raccordo fra Stato e Regioni, sempre rappresentate dalle rispettive Giunte. Erano state loro a creare un fronte comune tramite riunioni periodiche dei Presidenti, ad ottenere col d.P.C.M. del 1983 un primo riconoscimento della Conferenza Stato-Regioni, presieduta dal Presidente del Consiglio, a guadagnare in seguito per il nuovo organo poteri non più solo consultivi ma anche codecisori sull’amministrazione, nonché poteri consultivi o codecisori sugli atti normativi primari e secondari di spettanza governativa (d.lgs. n. 281 del 1997) (13).
Già prima delle leggi costituzionali del 1999 e del 2001, i rapporti Stato-Regioni si imperniavano dunque su due circuiti paralleli: il primo fra singolo Consiglio regionale, Parlamento e Corte costituzionale, prefigurato dalla Costituzione a garanzia di conflitti insorti sulla potestà legislativa, l’altro fra Giunte – presenti, si badi, sempre congiuntamente – e Governo, previsto dalla legislazione ordinaria e destinato alla cooperazione e non di rado alla codecisione. Lo scostamento dalle previsioni costituzionali rivelava profonde ripercussioni sull’assetto istituzionale regionale. La centralità del Consiglio, presupposta anche dal riferimento alla Giunta quale mero “organo esecutivo della Regione” (art. 121, terzo comma, peraltro lasciato immutato dalla l.cost.n. 1 del 1999), giocava contro il Consiglio stesso, esponendolo in prima fila e singolarmente nel conflitto con gli organi centrali, e facendone il collettore di tutte le critiche al particolarismo della legislazione regionale. Le Giunte, tutto al contrario, in via di prassi concertate e per questo tanto più efficaci, guadagnavano progressivamente spazi decisionali attraverso il loro raccordo privilegiato col Governo.
Tutto questo accadeva prima del 1999, e non è perciò azzardato considerare la modifica della forma di governo allora intervenuta solo come uno dei fattori, più che il fattore originario e decisivo, della parabola discendente dei Consigli.
D’altronde, la l.cost. n. 3 del 2001 ha prodotto conseguenze inattese che hanno ulteriormente sbilanciato i circuiti istituzionali che abbiamo considerato. La Commissione per le questioni regionali a composizione integrata prevista dall’art. 11, nella quale verosimilmente avrebbero trovato posto consiglieri regionali, non è stata ancora istituita, mentre sono state variamente rafforzate le procedure di concertazione, e con esse gli spazi decisionali a disposizione delle Giunte. L’art. 8 l.n. 131 del 2003 ha configurato la Conferenza quale sede di intese per favorire l’armonizzazione delle legislazioni statali e regionali anche al fine di “prevenire e limitare il contenzioso costituzionale”, oltre che di raggiungimento di posizioni unitarie e di conseguimento di obiettivi comuni (14). E il notissimo indirizzo avviato dalla sentenza n. 303 del 2003, pur se non sempre poi seguito coerentemente, ha subordinato alla stipulazione di intese con la Regione la legittimità di interventi sussidiari statali su materie oggetto di competenze regionali concorrenti o residuali. Ancora una volta, la dinamica istituzionale effettiva è andata nel senso di un recupero di congegni e sedi di cooperazione che le previsioni costituzionali non contemplano. Ancora una volta, ad essa non poteva non corrispondere un rafforzamento delle Giunte, e a più forte ragione, stavolta, dei loro Presidenti, a scapito dei Consigli.
E’ comprensibile che la scrittura dei nuovi Statuti sia parsa ai Consigli l’occasione per reagire. E le reazioni sono andate dalle ritorsioni contro il primato dei Presidenti fino alla ricerca di soluzioni innovative cui la Regione, prima di suoi singoli organi, era chiamata dal nuovo Titolo V.
Inizialmente, i Consigli misero in campo delle forzature compensative della loro pur inevitabile frustrazione: dai mezzucci coi quali i progetti di statuto della Calabria, dell’Abruzzo e in parte delle Marche cercarono di aggirare l’alternativa fra le scelte istituzionali prefigurate dalla l.cost. 1 del 1999, al proposito del Consiglio della Liguria di autoqualificarsi “Parlamento”, ponendosi all’inseguimento del più tradizionale modello statale di rappresentanza politica (15). Tutti questi tentativi furono però fermati dalla Corte costituzionale prima di un possibile contagio.
L’altra pista, perlomeno negli Statuti finora approvati, ha preso al contrario le mosse dalla duplice esigenza di restituire credibilità ai Consigli attraverso un ripensamento della funzione della legge regionale delineata dagli Statuti dei primi anni Settanta e, come è stato osservato, di riequilibrarne la posizione rispetto a quella del Presidente eletto riportando le politiche regionali nella sede autenticamente rappresentativa (16). In tale direzione va l’introduzione di strumenti e sedi volte ad assicurare la qualità della legislazione, nonché di moduli di partecipazione al procedimento legislativo della “società regionale” o di sue espressioni.
Sotto il primo profilo, si possono anzitutto ricordate le previsioni che richiedono la motivazione degli atti legislativi. E’ il caso dello Statuto dell’Emilia-Romagna, il quale prevede la possibilità di istruttoria pubblica sugli atti normativi o amministrativi di carattere generale e l’obbligo, in tal caso, che il provvedimento sia motivato. Chiamata a giudicare della legittimità di tali disposizioni, la Corte costituzionale ha respinto le censure di violazione della l.n. 241 del 1990, assunta come norma interposta, dal momento che questa “non impone, ma certo non vieta, la motivazione degli atti normativi”, aggiungendo che questa è la regola nell’ordinamento comunitario (sent.n. 379 del 2004).
In una serie di Regioni sono stati altresì istituiti Comitati per la legislazione, sulla falsariga di quello previsto dal Regolamento della Camera, e grande rilievo è quasi ovunque ascritto alla valutazione della fattibilità della legislazione, non solo ex ante ma anche ex post, tramite l’inserimento nelle leggi di “clausole valutative”, volte a valutarne gli effetti sui loro destinatari; e se molti Statuti non prevedono sanzioni in caso di inottemperanza, quello toscano precisa che “Le proposte di legge che non osservano le disposizioni stabilite a tutela della qualità della legislazione sono dichiarate improcedibili dal presidente del consiglio, d’intesa con l’ufficio di presidenza” (art. 44, settimo comma) (17).
Si inscrive nella stessa prospettiva il frequente ricorso al riordino e al consolidamento della legislazione tramite testi unici – talora solo regolamentari, altre volte composti da disposizioni di rango legislativo oltre che regolamentare, e di solito sprovvisti di capacità innovativa – accompagnati da clausole di risoluzione espressa (18).
Il ripensamento della funzione della legge regionale di cui l’insieme di queste misure è espressione riflette tendenze di lungo periodo che investono la legislazione in generale. Ma non si può dire, per questo, che gli Statuti si siano limitati a scimmiottare quanto previsto in sede nazionale. Non è detto, infatti, che il trapianto in ambito regionale di istituti quali il Comitato per la legislazione debba sortire gli stessi effetti. E il requisito della motivazione delle leggi costituisce un’autonoma sperimentazione di alcune Regioni, che sicuramente non segue, e potrebbe addirittura anticipare, l’esperienza statale.
Inoltre, dal momento che l’esecutivo regionale dispone di una maggioranza garantita dal simul stabunt simul cadent, le innovazioni esaminate non vanno tanto viste come un’autolimitazione della sovranità dell’assemblea, quanto come un limite posto all’esecutivo.
Funzionerà, oppure fra qualche anno dovremo registrare l’ennesimo fallimento di innovazioni immaginate per un altro mondo? Potranno le Giunte, e per esse i loro Presidenti, superare quei limiti senza pagare alcun prezzo in termini di credibilità e trasparenza dell’azione di governo? Le motivazioni degli atti legislativi e le clausole valutative si tradurranno senz’altro in formule tralaticie, o innescheranno gradualmente processi di apprendimento e di autocorrezione?
La cautela è d’obbligo, vista anche la forte espansione del ricorso ai regolamenti e la parallela diminuzione della legislazione regionale che si registrano nell’ultimo decennio (19). Possiamo solo aggiungere che, per avviare una dialettica virtuosa con le Giunte, i Consigli dovrebbero reinventare la loro funzione di rappresentanza, e con essa un’alterità istituzionale oggi gravemente compromessa.
Indicazioni preziose in tal senso si possono cogliere in quegli Statuti che si richiamano a una “società regionale” come punto di riferimento di vecchi e nuovi raccordi partecipativi. Il termine non mi pare enfatico, ma appropriato (20). Come definire, dopotutto, una collettività che non si può considerare “popolo” senza evocare una “sua parzialità di frazione autonoma insediata in una porzione del territorio nazionale” (sent.n. 496 del 2000), né “comunità” senza richiamare una nozione troppo polivalente? Sul piano funzionale, poi, “società regionale” indica una collettività che si esprime attraverso istanze e in sedi partecipative ulteriori rispetto a quelle di un elettorato, analogamente al termine “società europea”, che troviamo nel Titolo II del Trattato di riforma del TUE, approvato a Lisbona nel dicembre 2007 e attualmente in corso di ratifica negli Stati membri dell’Unione (21). Infine, quanto al profilo identitario, il variabile grado di autoconsapevolezza di essere una “società regionale” – si direbbe, da un massimo della Toscana o della Lombardia al minimo del Lazio – non è una buona ragione per escludere che i testi normativi possano aiutare a “costruire” nozioni simili anziché rifletterne passivamente la pretesa essenza, come è stato detto da più parti a proposito della “società europea”.
D’altra parte, nel prevedere moduli di partecipazione al procedimento di formazione della legge, alcuni Statuti non si sono limitati a una replica dei classici istituti della petizione, dell’iniziativa legislativa popolare e del referendum, ma hanno battuto strade innovative. E’ il caso dello Statuto emiliano, là dove stabilisce che l’adozione di un atto legislativo o amministrativo generale sia preceduta da un’istruttoria pubblica proposta da almeno 5000 persone, e che l’atto in questione sia motivato con riferimento alle risultanze istruttorie. A parte quanto detto sulla motivazione, è significativo che la partecipazione di privati e associazioni avvenga sulla base di una richiesta cui il Consiglio deve dare corso, e che dia luogo a un contraddittorio fra istituzioni politiche regionali e tali privati ed associazioni (22). Ancora, taluni Statuti hanno istituito Consigli regionali dell’economia e del lavoro con poteri di iniziativa legislativa e consultivi, che, vista la loro maggiore prossimità agli interessi rappresentati, non necessariamente sono destinati a replicare le sorti dell’omologo organo nazionale.
Infine, e soprattutto, in attuazione dell’art. 123, u.c., Cost. gli Statuti hanno provveduto a istituire, anche là dove già non lo erano, i Consigli delle autonomie locali. E’ vero che non vengono configurati quali seconde camere regionali, ma solo quali organi consultivi (23), ma è la stessa norma costituzionale a parlare di “organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali”. Conviene piuttosto notare che gli effetti del mancato accoglimento del loro parere sulle leggi di interesse degli enti locali consistono quasi sempre nell’obbligo di motivazione da parte dei Consigli, e molti Statuti richiedono altresì la maggioranza assoluta ai fini della riapprovazione (24). Non sembrano effetti trascurabili.
Può darsi che il nuovo organo sia stato visto più come antagonista del singolo consigliere nel convogliare le richieste della periferia in sede regionale, che come occasione di arricchimento della rappresentanza dell’assemblea (25). Ma altro è dir questo, e altro sono le conseguenze dell’inserimento del Consiglio delle autonomie locali sulla procedimentalizzazione della legge regionale, le quali restano largamente impredicibili. Anche qui si gioca la capacità dei Consigli regionali di fungere da sede privilegiata di collegamento e sintesi degli interessi e delle istanze presenti sull’intero territorio. Abbandonata la pretesa di riprodurre su scala regionale un modello assorbente di rappresentanza politica, ormai desueto anche a livello nazionale, mi pare questo l’unico tentativo di restituire credibilità alle assemblee regionali (26).
Una Commissione di studio istituita dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee regionali ha proposto di recente una serie di misure di rafforzamento dell’istituzione non incompatibili col disegno della forma di governo delineato nella riforma del 1999 e negli Statuti già approvati, e tali invece da far corrispondere “a un Governo regionale forte.....un Consiglio/Assemblea altrettanto forte”, ossia “funzionante secondo procedure efficienti e giuste, facilmente percepibile dal cittadino nelle sue dialettiche interne ma non per questo frammentato, consapevole del proprio ruolo di centro di imputazione istituzionale della disciplina degli interessi generali, interlocutore necessario e autorevole delle altre istituzioni e della società civile” (27).
In questa prospettiva, il documento per un verso sconsiglia ulteriori strumenti di pressione della Giunta sull’Assemblea elettiva, come la questione di fiducia, per l’altro propone di utilizzare l’occasione della riforma dei regolamenti consiliari, il cui impianto risale generalmente agli anni Settanta, per introdurre misure e congegni adeguati allo scopo. Fra questi, uno “Statuto dell’Esecutivo in Consiglio” e uno “Statuto delle Opposizioni” dovrebbero rendere reciprocamente compatibili l’esigenza della Giunta di attuare il suo programma in tempi certi e ragionevoli e quella delle opposizioni di controllare l’operato dell’esecutivo nonché di illustrare e discutere le proprie proposte. Corrispondentemente, si attribuiscono al Presidente di Assemblea poteri arbitrali, si razionalizza l’attività dei gruppi consiliari, e si potenziano le funzioni istruttorie, consultive e di controllo delle Commissioni.
Quanto alle funzioni di controllo, un’altra Commissione di studio istituita dalla Conferenza dei Presidenti ne suggerisce l’integrazione con quelle legislative, attraverso il potenziamento del ruolo consultivo delle Commissioni consiliari competenti per le questioni ordinamentali e finanziarie, auspicando altresì la previsione di flussi informativi dalla Giunta al Consiglio in modo da definire i contenuti essenziali delle relazioni programmatiche e sullo stato di attuazione delle leggi anche con l’utilizzo di clausole valutative, nonché la possibilità di attivare Commissioni di inchiesta presiedute da esponenti dell’opposizione su richiesta di minoranze qualificate, secondo quanto previsto in alcuni Statuti (28).
Non mancano in definitiva soluzioni in grado di integrare, sul versante dei rapporti con la Giunta, le innovazioni statutarie concernenti il procedimento legislativo e gli istituti di partecipazione. Anche in questo caso si presuppone che, per immaginare un rilancio del ruolo del Consiglio, sia indispensabile un ripensamento integrale e coerente dei suoi raccordi con le istituzioni, gli enti e le componenti della “società regionale”.
Fra le cause della crisi dei Consigli, abbiamo però assegnato un rilievo cruciale allo squilibrio a favore dei Presidenti delle Giunte determinato dal crescente potenziamento sia della Conferenza Stato-Regioni che delle intese e degli altri congegni di cooperazione dello Stato con singole Regioni. Come dicevamo, mentre il circuito fra Parlamento e Consigli concerne per Costituzione la produzione legislativa, ed è improntato alla separazione delle sfere di competenza tanto da venire presidiato allo scopo dalla Corte costituzionale, quello che collega il Governo alle Giunte comprende scelte che vanno ormai ben oltre la sfera amministrativa, basandosi sulla necessità della cooperazione fra enti territoriali che il primo circuito non può soddisfare.
La costante crescita delle intese e dei poteri della Conferenza va perciò interpretata come una supplenza al difetto di codecisione insito nel modello garantistico della separazione delle competenze legislative. Il vertice è toccato dalle intese interistituzionali per l’esercizio della funzione legislativa previste dalla l.n. 131 del 2003, le quali fanno assurgere la Conferenza a stanza di compensazione non più solo tra Regioni e Stato ma addirittura tra Governi (nazionale, regionali e locali) e Parlamento (29). Nondimeno gli atti prodotti dal secondo circuito, pur condizionando variamente i procedimenti di formazione delle leggi, non possono attingere in quanto tali il livello legislativo, ed anzi per la Corte un atto di intesa non può nemmeno “produrre una vera e propria fonte normativa” (sent.n. 270 del 2005).
Al grado di legittimazione formale degli organi del primo circuito non corrisponde dunque lo stesso grado di capacità decisionale, e viceversa. E questa forbice fra impianto costituzionale e prassi dei rapporti Stato-Regioni, pur riconosciuta e legittimata dalla legislazione e dalla giurisprudenza, è stata accentuata dal nuovo Titolo V per le ragioni prima esaminate.
Conviene ricordare che un disegno di legge costituzionale approvato dalla Commissione Affari costituzionali della Camera nella XV Legislatura (A.C. 553 e abb.) modificava fra gli altri l’art. 57 Cost. prevedendo che i senatori venissero eletti dal Consiglio regionale, al proprio interno, con un numero variabile a seconda della popolazione regionale, e dai Consigli delle autonomie locali in ragione di un senatore nelle Regioni sino a un milione di abitanti e di due senatori in quelle con più di un milione di abitanti.
La scelta di trasformare il Senato in una Camera delle Regioni e delle autonomie – o, come non perspicuamente prevedeva il progetto, in “Senato federale” – composta prevalentemente da consiglieri regionali consentirebbe non solo di superare lo squilibrio fra Consigli e Presidenti, ma soprattutto di colmare, attraverso procedimenti di codecisione fra Stato e Regioni sugli atti legislativi, la strutturale asimmetria fra i circuiti istituzionali concernenti, rispettivamente, la legislazione e le scelte politiche e di governo. Più che dare voce alle Regioni al centro, come poteva dirsi venti anni fa, questa mi sembra ormai la motivazione più forte a favore di una soluzione simile (30).
Di recente, l’ipotesi di trasformare il Senato in Camera delle Regioni e delle autonomie, ormai divenuta quasi communis opinio fra i costituzionalisti, è stata incomprensibilmente criticata quale “schermo ideologico”, che distoglierebbe l’attenzione dalla ricerca di una soluzione più funzionale, individuata in una riforma del sistema delle Conferenze (31).
Forse si vuol dire che l’ipotesi criticata trascura per un eccesso costruttivistico gli aggiustamenti incrementali della prassi, e più percorribili sul piano politico. In ogni caso, si trascura così che è proprio la nostra esperienza ad aver prodotto un intreccio fra i due circuiti caratterizzato da finzioni e disfunzioni, le quali sarebbero perpetrate da ogni riassetto dei raccordi Stato-Regioni che, a meno di trasformare assurdamente la Conferenza in una terza Camera, lasciasse inalterata composizione e funzioni degli organi legislativi nazionali.
L’ulteriore argomento che sedi informali di concertazione intergovernativa si vanno diffondendo in tutti gli Stati composti, indipendentemente dalla presenza di camere di rappresentanza territoriale (32), non tiene conto che tali sedi assolvono a una funzione molto diversa a seconda che servano a compensare un rigido impianto garantistico delle competenze legislative previsto in Costituzione, come nei casi del Belgio e del Canada, oppure ad integrare sul versante governativo una cooperazione già operante sotto il profilo legislativo, come ad esempio può dirsi per la Germania (33). Grosso modo, l’assetto costituzionale italiano rientra nella prima categoria, e non pare che il Belgio e il Canada offrano oggi soluzioni illuminanti dei problemi di articolazione territoriale del pubblico potere.
I contorni e le cause della crisi dei Consigli regionali sono molteplici, e altrettanti debbono essere i relativi rimedi. C’è una crisi di identità e di rappresentanza prodotta dalla concorrente legittimazione popolare dei Presidenti, al cui interno il disappunto per la perdita di antiche rendite di posizione convive con la denuncia degli abusi indotti dalle nuove. C’è una crisi di funzionalità dell’istituzione Consiglio, determinata da carenze di apparati informativi, dall’obsolescenza di istituti partecipativi immaginati in un’altra epoca, dal carattere provvedimentale della legislazione. C’è una crisi da emarginazione dai circuiti cooperativi, che collegando le Giunte al Governo erodono la capacità decisionale dei Consigli.
Tuttavia, nelle Regioni che hanno approvato i nuovi Statuti, molti rimedi sono già diritto vigente, e anche grazie alla giurisprudenza della Corte non mirano a compensare la frustrazione per le perdite subìte con la modifica della forma di governo. Si può cogliere al contrario la tendenza a collocare il Consiglio al centro di una rete dinamica di raccordi con le Giunte, con gli enti locali e con la società regionale. Sarà certo la prassi a farne apprezzare il rendimento, ma il tentativo di invertire la rotta non va per questo sottovalutato. Rimane infine del tutto aperta la questione della cooperazione con lo Stato, che investendo l’intero sistema istituzionale non si può affrontare senza coinvolgere gli organi legislativi dello Stato e delle Regioni. Anche qui, come si vede, non è solo un’astratta esigenza di riequilibrio con l’esecutivo regionale a venire in gioco.
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(1) C.Salvi e M.Villone, Il costo della democrazia, Mondadori, Milano, 2005, 133.
(2) C.Salvi e M.Villone, Il costo della democrazia, cit., 136.
(3) L.Carlassare, La sent.n. 2 del 2004 tra forma di governo e forma di stato, in Le Regioni, 2004, 925.
(4) G.Pitruzzella, L’impatto dei “governatori regionali” nelle istituzioni e nella politica italiana, in Le Regioni, 2004, 1240.
(5) L.Vandelli, Il nuovo ruolo delle assemblee elettive, in Le Istituzioni del Federalismo, 2002, 917.
(6) G.Pitruzzella, L’impatto dei “governatori regionali”, cit., 1244.
(7) G.Pitruzzella, L’impatto dei “governatori regionali”, cit., 1243.
(8) R.Bin, Il ruolo del Consiglio regionale nei nuovi Statuti, in Le Istituzioni del Federalismo, 2002, 925.
(9) A.Mangia, Consigli regionali e partecipazione politica nei nuovi statuti, in E.Catelani ed E.Cheli (a cura di), I princìpi negli statuti regionali, Il Mulino, 2008, 123 ss.
(10) M.Scudiero, La nuova Regione. Un disegno da completare, Editoriale 6/2005, in www.federalismi.it
(11) G.Amato, I limiti innovativi dell’esperienza regionale (1975), in Una Repubblica da riformare. I dibattiti sulle istituzioni in Italia dal 1975 ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1980, 114-115.
(12) B.Dente, Governare la frammentazione. Stato, Regioni ed enti locali in Italia, Il Mulino, Bologna, 1985, 112.
(13) Su questa evoluzione e sul suo significato istituzionale, C.Calvieri, Stato regionale in trasformazione: il modello autonomistico italiano, Giappicheli, Torino, 2002, 72 ss.
(14) In proposito, R.Carpino, Evoluzione del sistema delle Conferenze, in Le Istituzioni del Federalismo, 2006, 41 ss.
(15) A.Mangia, I consigli regionali e la fine della rappresentanza politica, Oss. a sent.n. 106 del 2002, in Giur.cost., 2002, 887.
(16) F.R. De Martino, Consiglio regionale e strumenti dell’integrazione politica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2007, 90.
(17) B.Malaisi, Qualità della normazione e divulgazione delle leggi: profili generali e loro disciplina nei nuovi statuti regionali, in G.Di Cosimo (a cura di), Statuti atto II. Le regioni e la nuova stagione statutaria, eum, Macerata, 2007, 164 ss.
(18) G.Martinico, La razionalizzazione normativa e i testi unici regionali: un modello in circolo?, in P.Caretti (a cura di), Osservatorio sulle fonti 2005. I nuovi Statuti regionali, Giappichellli, Torino, 2006, 242 ss.
(19) Il numero delle leggi regionali passa da una media annua di un migliaio nel periodo 1980-2001 a una media di circa 650 l’anno fra il 2002 e il 2007, mentre i regolamenti regionali risultano triplicati dopo il 1999, pur se il loro numero (fra i 110 e 120 l’anno) è ancora molto inferiore a quello delle leggi (dati riportati da G.Vesperini, “Venti anni di riforme dei poteri regionali e locali: modelli normativi e sviluppi dell’ordinamento”, Relazione al Convegno della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza” su “Le riforme amministrative”, Roma, 10 aprile 2008, in paper, 8-9). Peraltro bisogna considerare che, a seguito della sent. n. 313 del 2003, gli Statuti hanno potuto distribuire la potestà regolamentare tra Giunta e Consiglio, che alcuni di essi hanno continuato a mantenere la relativa imputazione in capo al Consiglio, e che gli Statuti i quali hanno attribuito alla Giunta la potestà regolamentare l’hanno circondata di limiti di vario ordine (cfr. F.R. De Martino, Consiglio regionale, cit., 154 ss.).
(20) Diversamente A.Mangia, Consigli regionali, cit., 127.
(21) Sul Titolo VI, Parte Prima, del Trattato costituzionale, recante disposizioni dal tenore molto simile, si può vedere C.Pinelli, La vita democratica dell’Unione, in ASTRID, La Costituzione europea. Un primo commento, a cura di F.Bassanini e G.Tiberi, Il Mulino, Bologna, 2004, 75 ss.
(22) Cfr. A.Mangia, Consigli regionali, cit., 134.
(23) E’ quanto sembra deprecare M.Carli, I rapporti Regione-enti locali come problema di organizzazione e funzionamento della Regione, in Osservatorio sulle fonti 2005, cit., 177.
(24) S.Calzolaio, Le fonti “rinforzate” e “specializzate” negli statuti regionali, in Statuti atto II, cit., 201.
(25) M.Carli, I rapporti Regione-enti locali, cit., 178.
(26) Nello stesso senso A.Mangia, Consigli regionali, cit., 149-150, e diffusamente F.R. De Martino, Consiglio regionale, cit., 166 ss.
(27) Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province autonome – Commissione di studio per il rafforzamento dell’istituzione e dell’autonomia organizzativa e funzionale delle Assemblee legislative regionali, Documento finale, 3 ottobre 2007, in paper, 5.
(28) Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province autonome – Commissione di studio per l’armonizzazione delle fonti dell’ordinamento regionale (Costituzione, Statuti, legislazione, regolamenti interni) e l’equilibrio nei rapporti tra gli organi che compongono la forma di governo regionale, Documento finale, 13 luglio 2007, in paper, 7-8.
(29) Così R.Carpino, Evoluzione del sistema delle Conferenze, cit., 43.
(30) In senso favorevole alla proposta, pur criticando giustamente il riparto delle competenze fra Camera e Senato per il previsto affidamento in via esclusiva alla prima di quelle “trasversali”, e alla congiunta deliberazione di ambedue la legislazione di cornice, A.D’Atena, Un Senato “federale”. A proposito di una recente proposta parlamentare, in Rass.parl., 1/2008.
(31) R.Bin e I.Ruggiu, La rappresentanza territoriale in Italia. Una proposta di riforma del sistema delle conferenze, passando per il definitivo abbandono della Camera delle Regioni, in Le Istituzioni del Federalismo, 2006, 905.
(32) Così R.Bin e I.Ruggiu, La rappresentanza territoriale in Italia, cit., 924 ss.
(33) Si può vedere C.Pinelli, Forme di Stato e forme di governo, Jovene, Napoli, 2007, 248.