Luca CASTELLI, Il territorio degli enti locali in italia: caratteri, dimensioni, mutamenti (luglio 2013)
Il territorio degli enti locali in Italia: caratteri, dimensioni, mutamenti.
Sommario:
1. Premessa: l'ente locale come species di ente territoriale
2. L'evoluzione del sistema locale italiano tra autarchia e autonomia: il periodo statutario
3. Segue: le autonomie locali nella Costituzione del 1948 e nella (tardiva) legislazione attuativa
4. Segue: il rafforzamento dell'autonomia locale nella riforma del Titolo V
5. L'estensione territoriale dei Comuni e il problema di una dimensione adeguata
6. La dimensione territoriale di area vasta
7. Le variazioni territoriali degli enti locali
8. L'impatto sul territorio degli enti locali della legislazione sulla crisi
Note
(Con il titolo The Territory of the Local Authorities in Italy: Characteristics, Dimensions, Trasformations, la versione in lingua inglese del presente contributo è pubblicata in Federalism, Regionalism and Territory, Stelio Mangiameli editor, Giuffrè, 2013, p. 357 ss.).
Sommario:
1. Premessa: l'ente locale come species di ente territoriale
2. L'evoluzione del sistema locale italiano tra autarchia e autonomia: il periodo statutario
3. Segue: le autonomie locali nella Costituzione del 1948 e nella (tardiva) legislazione attuativa
4. Segue: il rafforzamento dell'autonomia locale nella riforma del Titolo V
5. L'estensione territoriale dei Comuni e il problema di una dimensione adeguata
6. La dimensione territoriale di area vasta
7. Le variazioni territoriali degli enti locali
8. L'impatto sul territorio degli enti locali della legislazione sulla crisi
Note
1. Premessa: l’ente locale come species di ente territoriale
Se ci si chiedesse cosa accomuna gli enti enumerati nell’articolo 114, comma 1, della Costituzione, oltre al fatto di essere qualificati come elementi costitutivi della Repubblica, si potrebbe facilmente individuare il loro denominatore comune nel ruolo determinante che in essi viene a svolgere il territorio, al punto da consentirne la riconduzione nel novero degli “enti territoriali”.
Ma se si volesse poi approfondire in cosa consiste tale ruolo e in che tipo di rapporto questi si trovano con quello, allora la conclusione sarebbe molto meno pacifica. Raramente, infatti, in dottrina, si è avuta una così ampia diversità di vedute come sul modo di concepire la rilevanza giuridica del territorio ai fini dell’elaborazione della nozione di ente territoriale[1].
Secondo l’opinione prevalente per ente territoriale si dovrebbe intendere quello nel quale il territorio non è solo oggetto di un’autonoma potestà di comando che l’ente esercita su di esso, ma ne rappresenta anche l’elemento costitutivo[2].
E tuttavia la stessa configurazione del territorio come elemento costitutivo dell’ente, per quanto comunemente accolta, è stata messa in discussione sotto molteplici profili, come pure le altre ricostruzioni che hanno visto nel territorio ora un presupposto indefettibile[3], ora un limite[4], ora un ambito di competenza[5]; per non dire delle differenti modalità di concepire la potestà di comando esercitata dall’ente, se si tratti di imperium o di dominium[6].
Una riproposizione di questi temi, così abbondantemente trattata in passato[7], non appare rilevante ai nostri fini, dal momento che si vuole esaminare la questione territoriale in relazione al potere locale secondo il modello positivamente accolto nella Costituzione italiana del 1947 e nella versione revisionata del 2001. A questi fini, occorre innanzi tutto evidenziare come lo stesso genus degli enti territoriali sia tutt’altro che omogeneo, presentando al proprio interno species molto diverse fra loro, tra le quali è possibile enucleare la categoria degli “enti locali”.
La Costituzione del 1947, che nell’articolo 128 disponeva “Le Provincie e i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”, si riferiva espressamente alla categoria degli “enti locali” nell’articolo 118, che prevedeva la possibilità, da parte dello Stato, di attribuire le funzioni amministrative “di interesse esclusivamente locale” a Province, Comuni o ad “altri enti locali”; nonché nell’articolo 130, che estendeva ad “altri enti locali” il controllo di legittimità cui erano sottoposti gli atti di Comuni e Province.
Ma al di là di questi riferimenti testuali la nozione non veniva ulteriormente precisata, sicché restava il problema di capire cosa dovesse intendersi con tale espressione e soprattutto quali enti territoriali vi fossero ricompresi.
Anche perché, partendo dal presupposto che la figura degli enti locali annoverasse tutti gli enti operanti all’interno di una limitata circoscrizione territoriale, si è ritenuto che potessero rientrarvi pure gli enti amministrativi dipendenti dalla Regione, menzionati dall’articolo 117[8].
La Corte costituzionale, invece, ha smentito tale opinione, affermando che gli enti locali di cui agli articoli 118 e 130 “sono accomunati in un identico regime a Comuni e Province: dato, questo, che viene ad evidenziare la presenza di elementi di affinità sostanziale tra i due enti territoriali primari specificamente richiamati e gli altri enti locali e che impedisce di identificare questi ultimi solo sulla base di un generico e indifferenziato richiamo al circoscritto ambito spaziale delle loro funzioni”[9].
Se ne possono allora ricavare le seguenti conclusioni: Comuni e Province sono enti locali e sono, fra questi, i più importanti, essendo espressamente nominati in Costituzione; oltre ad essi, esistono “altri enti locali”, non meglio specificati, ma che di Comuni e Province replicano i tratti essenziali; gli enti locali non sono tali in ragione del loro operare all’interno delle circoscrizioni regionali, ma vanno identificati sulla base di altri caratteri, che la dottrina prevalente avrebbe poi individuato, oltre che nella territorialità, nell’autonomia, nella generalità dei fini perseguiti e nella rappresentatività delle rispettive comunità territoriali[10].
2. L’evoluzione del sistema locale italiano tra autarchia e autonomia: il periodo statutario
In realtà, la qualificazione degli enti locali come enti autonomi non è un dato acquisito sin dall’inizio, ma ha rappresentato il punto di arrivo di un lungo processo di evoluzione storica e di elaborazione scientifica che è partito dalla loro originaria configurazione come enti autarchici.
Secondo la nozione di autarchia, che si deve a Santi Romano[11], l’ente locale si distingue dallo Stato solo sotto il profilo soggettivo, avendo una propria personalità giuridica, ma non sotto il profilo dell’attività, che è invece assimilata a quella statale, in quanto posta in essere per il soddisfacimento di interessi che coincidono con quelli dello Stato.
Proprio nel fatto che gli interessi locali non abbiano un loro specifico rilievo, ma siano assorbiti in quelli statali, sta l’intima impronta “statocentrica” dell’autarchia[12], che porta in sostanza a configurare gli enti locali come organi dello Stato, riconducendoli alla sua amministrazione indiretta.
Tale dottrina, come noto, si è diffusa in antitesi a quella del pouvoir municipal, che Benjamin Constant – uno dei suoi massimi teorizzatori[13] – aveva concepito come quarto potere da contrapporre, in chiave garantistica, ai tre tradizionali poteri sovrani. In base a questa teoria l’ente locale non è frutto di un’autolimitazione da parte dello Stato, ma preesiste ad esso ed è pertanto titolare di poteri propri e non derivati da quelli statali.
Gli echi di questa impostazione si ritrovano in Cattaneo – uno degli autori italiani che ne ha subito maggiormente l’influsso – quando sottolinea che “fin dai primordi la città in Italia è altra cosa da ciò ch’ella è nell’oriente o nel settentrione”[14], ricordando in tal modo come le prime esperienze di libertà comunale risalgano al Medio Evo[15].
Tuttavia, senza andare così indietro nel tempo, l’atto di nascita del nuovo ordinamento comunale e provinciale, più simile alla legislazione francese post-rivoluzionaria, viene generalmente individuato, all’alba dell’Unità d’Italia, nella legge sabauda del 1859 – la cosiddetta legge Rattazzi – che ha ridefinito l’organizzazione amministrativa del Regno di Sardegna plasmandola sul modello prefettizio, per l’appunto di derivazione franco-napoleonica.
Ne è derivato un sistema fortemente accentrato, caratterizzato dalla contestuale presenza, a livello locale, di organi dello Stato e organi degli enti locali operanti nelle stesse materie. La legge Rattazzi, in particolare, determinava un ordinamento uniforme per tutti i Comuni; affidava al Governo la nomina del sindaco; limitava fortemente l’elettorato in base al censo; sottoponeva i Comuni a una fitta trama di controlli, alcuni dei quali rimessi alla competenza del prefetto, cui spettava un generale potere di vigilanza sull’amministrazione locale.
Il prefetto, infatti, era anche posto al vertice della circoscrizione di decentramento statale costituita dalla Provincia, che era nel contempo annoverata tra gli enti locali insieme al Comune e su di esso modellata quanto a organizzazione e funzioni.
Tale impianto era poi esteso a tutto il territorio italiano dalla legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia del 1865. Il carattere dichiaratamente provvisorio di questa legislazione, tuttavia, portava alla riforma Crispi del 1888, che sottraeva al prefetto la presidenza della deputazione provinciale, affidandola a un presidente eletto dal consiglio e sanciva l’elettività del sindaco (da parte del consiglio) nei Comuni con popolazione superiore a diecimila abitanti.
Comuni e Province, a far data dalla codificazione del loro carattere pienamente democratico, venivano in tal modo assoggettati ad un identico schema organizzativo tripolare, basato su un consiglio direttamente elettivo, una giunta/deputazione eletta dal consiglio e un organo di vertice (sindaco/presidente) anch’esso elettivo e non più nominato dal Governo.
Le norme in materia di ordinamento locale venivano in seguito coordinate nel Testo Unico del 1915 il quale, limitatamente alla disciplina degli organi comunali e provinciali, ha trovato integrale applicazione fino alla legge n. 142 del 1990 e per i meccanismi elettorali sino alla legge n. 81 del 1993.
In questo lungo arco di tempo, tuttavia, con l’avvento del regime fascista veniva abolita l’elettività delle cariche delle amministrazioni locali e i loro organi sostituiti con organi di nomina governativa: il podestà e la consulta comunale per quanto riguarda i Comuni (legge n. 237 del 1926 e decreto legge n. 1910 del 1926); il preside e il rettorato per le Province (legge n. 2962 del 1928). Nel 1934 l’adozione di un nuovo Testo Unico consolidava la concezione degli enti locali (Comuni e Province) come parte della persona unica dello Stato cui era ispirata l’ideologia fascista.
3. Segue: le autonomie locali nella Costituzione del 1948 e nella (tardiva) legislazione attuativa
Al momento dell’insediamento dell’Assemblea costituente (2 giugno 1946) la visione delle autonomie locali era alquanto offuscata. Restava sullo sfondo la loro dimensione comunitaria, cioè il loro carattere esponenziale della comunità territoriale di riferimento, che ne costituiva il sostrato sociale e ne faceva enti politici, titolari di interessi che sono propri delle rispettive collettività e distinti da quelli dello Stato. Inoltre, la questione della natura dell’ente locale era inquadrata all’interno del decentramento amministrativo, con la conseguenza che l’ente locale era considerato una mera articolazione indiretta dell’amministrazione statale.
Il patrimonio autonomista e democratico della tradizione giuridica italiana veniva recuperato, innanzitutto, con il ripristino degli organi elettivi di Comuni e Province, grazie alla reviviscenza delle norme del TULCP del 1915; in secondo luogo, la stessa Costituzione repubblicana segnava una netta cesura, introducendo il principio del riconoscimento e della promozione delle autonomie locali tra i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e prevedendo anche per lo Stato il rispetto del principio del decentramento (art. 5).
La profondità di questa innovazione può essere apprezzata in tutta la sua portata solo se si considera che il principio di autonomia designa la peculiare condizione dell’ente territoriale nel sistema dei pubblici poteri proprio in virtù del suo legame con la comunità[16] e va inteso anzitutto come autonomia politica, cioè come il potere di Comuni e Province di elaborare un proprio indirizzo politico, diverso da quello statale e anche eventualmente in contrasto con esso[17].
Sicché anche la capacità dell’ente di produrre da sé le norme giuridiche che regolano la propria sfera d’azione, nella qualcosa si faceva consistere – riduttivamente – l’autonomia locale, non esauriva del tutto il principio autonomistico, ma ne rappresentava, semmai, una delle tante sfaccettature.
La proclamazione costituzionale dell’autonomia trovava il suo svolgimento nelle disposizioni del Titolo V della Costituzione, dedicato a “le Regioni, le Province, i Comuni”, che tuttavia differenziavano nettamente la posizione delle une rispetto a quella degli altri. Solo le Regioni, infatti, erano configurate come enti autonomi “con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione” (art. 115); per gli enti locali, invece, al di là di poche norme stabilite direttamente nella Carta, in materia di funzioni (art. 118, commi 1 e 3), controlli (art. 130) e modifiche territoriali (art. 133), l’autonomia doveva esercitarsi “nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni” (art. 128).
L’autonomia regionale, pertanto, si fondava su attribuzioni costituzionalmente riservate; quella locale, al contrario, era programmaticamente affermata in Costituzione, ma poi affidata alla legge per la sua concreta definizione.
Non è tutto. Sul versante della normazione le Regioni condividevano con lo Stato la potestà di legiferare in alcune materie espressamente enumerate, seppur per la sola disciplina di dettaglio (art. 117), potendo altresì adire direttamente la Corte per la tutela delle loro attribuzioni costituzionalmente garantite (art. 134); gli enti locali, invece, erano titolari di una mera potestà regolamentare conformata dal principio di legalità.
Pur con queste differenze le nuove disposizioni costituzionali hanno in ogni caso rappresentato un forte elemento di discontinuità rispetto al passato, ma sono state contrassegnate da una lunga fase di inattuazione sul piano legislativo, in parte condizionata anche dagli orientamenti non univoci che erano emersi durante il dibattito in Assemblea costituente[18], malgrado autorevole dottrina avesse individuato proprio nell’autonomia – e non nell’unità – il principio direttivo positivo sancito dall’articolo 5 della Costituzione, negando altresì che potesse configurarsi alcuna differenza di genere tra autonomie regionali e autonomie locali[19].
L’implementazione legislativa del disegno costituzionale è stata dunque caratterizzata da inadempienze e ritardi: basti pensare alla sostanziale vanificazione della IX disposizione transitoria della Costituzione, secondo la quale la Repubblica, entro tre anni, avrebbe dovuto adeguare le sue leggi alle esigenze delle autonomie; o alla legge di riforma delle autonomie locali, prevista dall’articolo 128, che sarebbe intervenuta solo nel 1990, ad oltre quarant’anni di distanza dall’entrata in vigore del testo costituzionale.
Nondimeno, proprio con la legge 142 del 1990 prende il via una stagione di forte rivalutazione delle autonomie locali[20], in una prospettiva più aderente all’opzione autonomistica contenuta nell’articolo 5. Questa norma, infatti, stabilendo che la Repubblica, una e indivisibile, si fonda anche sul riconoscimento e sulla promozione di istituzioni di governo rappresentative delle comunità stanziate sul territorio, già prefigurava – in nuce – una nuova “statualità policentrica”[21], nella quale la necessaria presenza delle autonomie territoriali diventa elemento coessenziale al carattere democratico dello Stato contemporaneo e ne mette in crisi la tradizionale concezione monolitica della sovranità[22].
In questo solco si colloca la legge n. 142 la quale, fra le altre cose, ha riconosciuto per la prima volta a Comuni e Province autonomia statutaria; ha consolidato il ruolo politico-istituzionale della Provincia come ente di governo e di programmazione di area vasta, con particolare riguardo all’ambiente e al territorio; ha prefigurato la differenziazione dell’ordinamento locale con l’istituzione delle Città metropolitane; ha incentivato gli accorpamenti fra i piccoli Comuni mediante fusioni e Unioni; ha circoscritto i controlli sugli atti; ha ridisegnato i modelli organizzativi dei servizi pubblici locali.
Le ulteriori tappe di questa stagione di riforme delle autonomie locali sono poi rappresentate dalla legge n. 81 del 1993, che ha introdotto l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo comunale e provinciale; dalla legge n. 59 del 1997, che ha attribuito alle Regioni e agli enti locali tutte le funzioni amministrative ad eccezione di quelle espressamente riservate allo Stato; dal decreto legislativo n. 267 del 2000, che ha raccolto in un nuovo “Testo Unico delle Leggi sull’ordinamento degli Enti Locali” (TUEL), riordinandole, le disposizioni in materia locale a più riprese adottate nel corso degli anni ’90, via via che veniva rimodellato il ruolo delle autonomie locali e regionali.
4. Segue: il rafforzamento dell’autonomia locale nella riforma del Titolo V
Dopo la riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione, recata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, il riferimento agli “altri enti locali” è stato espunto dal testo della Carta, ma in compenso l’elenco degli enti locali dotati di copertura costituzionale si è arricchito con l’aggiunta di un nuovo tipo: la Città metropolitana[23].
Più in generale, la revisione del 2001 ha realizzato un disegno costituzionale maggiormente in sintonia con il principio autonomistico di cui all’articolo 5, sviluppandone appieno le potenzialità fino al punto da accordare a Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato la medesima natura di enti costitutivi della Repubblica, mentre in precedenza ne erano considerati (mere) ripartizioni territoriali (art. 114 vecchio testo).
L’accento è posto sul rafforzamento del ruolo e dei poteri delle autonomie territoriali substatali, soprattutto – per quel che più interessa in questa sede – di quelle locali, in una logica di forte valorizzazione del principio di sussidiarietà, a cominciare dalla nuova formulazione dell’articolo 114, che riedifica la Repubblica dal basso partendo proprio dai Comuni, cioè dagli enti più “prossimi” ai cittadini.
Sul piano amministrativo si afferma la centralità degli enti locali nell’esercizio delle funzioni amministrative (art. 118, comma 1), essendo essi titolari di “funzioni proprie” oltre a quelle “conferite” dalla legge statale e da quella regionale (art. 118, comma 2); a ciò si collega, sul piano della normazione, l’esplicito riconoscimento costituzionale – prima mancante – di una potestà statutaria (art. 114, comma 1) e di una potestà regolamentare, per disciplinare l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni attribuite (art. 117, comma 6); nonché, sul piano delle risorse, l’attribuzione di autonomia di entrata e di spesa, con la possibilità di stabilire e applicare tributi e entrate “propri” (art. 119).
A irrobustire il profilo autonomistico di Comuni e Province concorrono altresì il superamento del sistema dei controlli preventivi di legittimità sui loro atti, in seguito all’abrogazione dell’articolo 130; la loro qualificazione esclusiva di enti autonomi, essendo venuta meno la norma che li configurava anche come circoscrizioni di decentramento statale e regionale (art. 129); il loro necessario coinvolgimento nelle decisioni regionali attraverso l’istituzione del Consiglio delle autonomie locali (art. 123, comma 4).
Se ne ricava, nel complesso, un assetto costituzionale fortemente pervaso di pluralismo istituzionale, che delinea – sono parole della Corte – un “nuovo modo di essere del sistema delle autonomie”[24], caratterizzato “da un livello di autonomia regionale e locale sensibilmente accresciuto”[25].
In questo contesto lo Stato, ovviamente, è l’unico ente territoriale, tra quelli elencati nell’articolo 114, a conservare – secondo la Corte costituzionale – una “posizione peculiare”[26], connessa alla sua funzione di tutela delle istanze di unità del sistema, mentre tutti gli altri restano enti autonomi.
Ma ciò che viene complessivamente ad assimilare i cinque ordinamenti territoriali che compongono la Repubblica, al di là della diversità di poteri e funzioni, è la loro “comune derivazione dal principio democratico e della sovranità popolare”[27]; di modo che, sotto questo profilo, avrebbe dovuto ritenersi ormai superata ogni visione gerarchica e piramidale nei rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali, trattandosi di livelli di governo che hanno pari dignità istituzionale nella rappresentanza delle rispettive comunità stanziate sul territorio.
5. L’estensione territoriale dei Comuni e il problema di una dimensione adeguata
Passando adesso all’esame delle singole istituzioni locali, non si può che partire dal Comune, che rappresenta la porzione più piccola di territorio su cui si insedia una comunità politica ed è storicamente considerato “il nido delle libertà moderne in tutta Europa”[28]. Esso è l’ente “elementare”[29], quello più vicino ai cittadini e costituisce la cellula base dell’amministrazione locale.
Se ci si chiedesse cosa accomuna gli enti enumerati nell’articolo 114, comma 1, della Costituzione, oltre al fatto di essere qualificati come elementi costitutivi della Repubblica, si potrebbe facilmente individuare il loro denominatore comune nel ruolo determinante che in essi viene a svolgere il territorio, al punto da consentirne la riconduzione nel novero degli “enti territoriali”.
Ma se si volesse poi approfondire in cosa consiste tale ruolo e in che tipo di rapporto questi si trovano con quello, allora la conclusione sarebbe molto meno pacifica. Raramente, infatti, in dottrina, si è avuta una così ampia diversità di vedute come sul modo di concepire la rilevanza giuridica del territorio ai fini dell’elaborazione della nozione di ente territoriale[1].
Secondo l’opinione prevalente per ente territoriale si dovrebbe intendere quello nel quale il territorio non è solo oggetto di un’autonoma potestà di comando che l’ente esercita su di esso, ma ne rappresenta anche l’elemento costitutivo[2].
E tuttavia la stessa configurazione del territorio come elemento costitutivo dell’ente, per quanto comunemente accolta, è stata messa in discussione sotto molteplici profili, come pure le altre ricostruzioni che hanno visto nel territorio ora un presupposto indefettibile[3], ora un limite[4], ora un ambito di competenza[5]; per non dire delle differenti modalità di concepire la potestà di comando esercitata dall’ente, se si tratti di imperium o di dominium[6].
Una riproposizione di questi temi, così abbondantemente trattata in passato[7], non appare rilevante ai nostri fini, dal momento che si vuole esaminare la questione territoriale in relazione al potere locale secondo il modello positivamente accolto nella Costituzione italiana del 1947 e nella versione revisionata del 2001. A questi fini, occorre innanzi tutto evidenziare come lo stesso genus degli enti territoriali sia tutt’altro che omogeneo, presentando al proprio interno species molto diverse fra loro, tra le quali è possibile enucleare la categoria degli “enti locali”.
La Costituzione del 1947, che nell’articolo 128 disponeva “Le Provincie e i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”, si riferiva espressamente alla categoria degli “enti locali” nell’articolo 118, che prevedeva la possibilità, da parte dello Stato, di attribuire le funzioni amministrative “di interesse esclusivamente locale” a Province, Comuni o ad “altri enti locali”; nonché nell’articolo 130, che estendeva ad “altri enti locali” il controllo di legittimità cui erano sottoposti gli atti di Comuni e Province.
Ma al di là di questi riferimenti testuali la nozione non veniva ulteriormente precisata, sicché restava il problema di capire cosa dovesse intendersi con tale espressione e soprattutto quali enti territoriali vi fossero ricompresi.
Anche perché, partendo dal presupposto che la figura degli enti locali annoverasse tutti gli enti operanti all’interno di una limitata circoscrizione territoriale, si è ritenuto che potessero rientrarvi pure gli enti amministrativi dipendenti dalla Regione, menzionati dall’articolo 117[8].
La Corte costituzionale, invece, ha smentito tale opinione, affermando che gli enti locali di cui agli articoli 118 e 130 “sono accomunati in un identico regime a Comuni e Province: dato, questo, che viene ad evidenziare la presenza di elementi di affinità sostanziale tra i due enti territoriali primari specificamente richiamati e gli altri enti locali e che impedisce di identificare questi ultimi solo sulla base di un generico e indifferenziato richiamo al circoscritto ambito spaziale delle loro funzioni”[9].
Se ne possono allora ricavare le seguenti conclusioni: Comuni e Province sono enti locali e sono, fra questi, i più importanti, essendo espressamente nominati in Costituzione; oltre ad essi, esistono “altri enti locali”, non meglio specificati, ma che di Comuni e Province replicano i tratti essenziali; gli enti locali non sono tali in ragione del loro operare all’interno delle circoscrizioni regionali, ma vanno identificati sulla base di altri caratteri, che la dottrina prevalente avrebbe poi individuato, oltre che nella territorialità, nell’autonomia, nella generalità dei fini perseguiti e nella rappresentatività delle rispettive comunità territoriali[10].
2. L’evoluzione del sistema locale italiano tra autarchia e autonomia: il periodo statutario
In realtà, la qualificazione degli enti locali come enti autonomi non è un dato acquisito sin dall’inizio, ma ha rappresentato il punto di arrivo di un lungo processo di evoluzione storica e di elaborazione scientifica che è partito dalla loro originaria configurazione come enti autarchici.
Secondo la nozione di autarchia, che si deve a Santi Romano[11], l’ente locale si distingue dallo Stato solo sotto il profilo soggettivo, avendo una propria personalità giuridica, ma non sotto il profilo dell’attività, che è invece assimilata a quella statale, in quanto posta in essere per il soddisfacimento di interessi che coincidono con quelli dello Stato.
Proprio nel fatto che gli interessi locali non abbiano un loro specifico rilievo, ma siano assorbiti in quelli statali, sta l’intima impronta “statocentrica” dell’autarchia[12], che porta in sostanza a configurare gli enti locali come organi dello Stato, riconducendoli alla sua amministrazione indiretta.
Tale dottrina, come noto, si è diffusa in antitesi a quella del pouvoir municipal, che Benjamin Constant – uno dei suoi massimi teorizzatori[13] – aveva concepito come quarto potere da contrapporre, in chiave garantistica, ai tre tradizionali poteri sovrani. In base a questa teoria l’ente locale non è frutto di un’autolimitazione da parte dello Stato, ma preesiste ad esso ed è pertanto titolare di poteri propri e non derivati da quelli statali.
Gli echi di questa impostazione si ritrovano in Cattaneo – uno degli autori italiani che ne ha subito maggiormente l’influsso – quando sottolinea che “fin dai primordi la città in Italia è altra cosa da ciò ch’ella è nell’oriente o nel settentrione”[14], ricordando in tal modo come le prime esperienze di libertà comunale risalgano al Medio Evo[15].
Tuttavia, senza andare così indietro nel tempo, l’atto di nascita del nuovo ordinamento comunale e provinciale, più simile alla legislazione francese post-rivoluzionaria, viene generalmente individuato, all’alba dell’Unità d’Italia, nella legge sabauda del 1859 – la cosiddetta legge Rattazzi – che ha ridefinito l’organizzazione amministrativa del Regno di Sardegna plasmandola sul modello prefettizio, per l’appunto di derivazione franco-napoleonica.
Ne è derivato un sistema fortemente accentrato, caratterizzato dalla contestuale presenza, a livello locale, di organi dello Stato e organi degli enti locali operanti nelle stesse materie. La legge Rattazzi, in particolare, determinava un ordinamento uniforme per tutti i Comuni; affidava al Governo la nomina del sindaco; limitava fortemente l’elettorato in base al censo; sottoponeva i Comuni a una fitta trama di controlli, alcuni dei quali rimessi alla competenza del prefetto, cui spettava un generale potere di vigilanza sull’amministrazione locale.
Il prefetto, infatti, era anche posto al vertice della circoscrizione di decentramento statale costituita dalla Provincia, che era nel contempo annoverata tra gli enti locali insieme al Comune e su di esso modellata quanto a organizzazione e funzioni.
Tale impianto era poi esteso a tutto il territorio italiano dalla legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia del 1865. Il carattere dichiaratamente provvisorio di questa legislazione, tuttavia, portava alla riforma Crispi del 1888, che sottraeva al prefetto la presidenza della deputazione provinciale, affidandola a un presidente eletto dal consiglio e sanciva l’elettività del sindaco (da parte del consiglio) nei Comuni con popolazione superiore a diecimila abitanti.
Comuni e Province, a far data dalla codificazione del loro carattere pienamente democratico, venivano in tal modo assoggettati ad un identico schema organizzativo tripolare, basato su un consiglio direttamente elettivo, una giunta/deputazione eletta dal consiglio e un organo di vertice (sindaco/presidente) anch’esso elettivo e non più nominato dal Governo.
Le norme in materia di ordinamento locale venivano in seguito coordinate nel Testo Unico del 1915 il quale, limitatamente alla disciplina degli organi comunali e provinciali, ha trovato integrale applicazione fino alla legge n. 142 del 1990 e per i meccanismi elettorali sino alla legge n. 81 del 1993.
In questo lungo arco di tempo, tuttavia, con l’avvento del regime fascista veniva abolita l’elettività delle cariche delle amministrazioni locali e i loro organi sostituiti con organi di nomina governativa: il podestà e la consulta comunale per quanto riguarda i Comuni (legge n. 237 del 1926 e decreto legge n. 1910 del 1926); il preside e il rettorato per le Province (legge n. 2962 del 1928). Nel 1934 l’adozione di un nuovo Testo Unico consolidava la concezione degli enti locali (Comuni e Province) come parte della persona unica dello Stato cui era ispirata l’ideologia fascista.
3. Segue: le autonomie locali nella Costituzione del 1948 e nella (tardiva) legislazione attuativa
Al momento dell’insediamento dell’Assemblea costituente (2 giugno 1946) la visione delle autonomie locali era alquanto offuscata. Restava sullo sfondo la loro dimensione comunitaria, cioè il loro carattere esponenziale della comunità territoriale di riferimento, che ne costituiva il sostrato sociale e ne faceva enti politici, titolari di interessi che sono propri delle rispettive collettività e distinti da quelli dello Stato. Inoltre, la questione della natura dell’ente locale era inquadrata all’interno del decentramento amministrativo, con la conseguenza che l’ente locale era considerato una mera articolazione indiretta dell’amministrazione statale.
Il patrimonio autonomista e democratico della tradizione giuridica italiana veniva recuperato, innanzitutto, con il ripristino degli organi elettivi di Comuni e Province, grazie alla reviviscenza delle norme del TULCP del 1915; in secondo luogo, la stessa Costituzione repubblicana segnava una netta cesura, introducendo il principio del riconoscimento e della promozione delle autonomie locali tra i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e prevedendo anche per lo Stato il rispetto del principio del decentramento (art. 5).
La profondità di questa innovazione può essere apprezzata in tutta la sua portata solo se si considera che il principio di autonomia designa la peculiare condizione dell’ente territoriale nel sistema dei pubblici poteri proprio in virtù del suo legame con la comunità[16] e va inteso anzitutto come autonomia politica, cioè come il potere di Comuni e Province di elaborare un proprio indirizzo politico, diverso da quello statale e anche eventualmente in contrasto con esso[17].
Sicché anche la capacità dell’ente di produrre da sé le norme giuridiche che regolano la propria sfera d’azione, nella qualcosa si faceva consistere – riduttivamente – l’autonomia locale, non esauriva del tutto il principio autonomistico, ma ne rappresentava, semmai, una delle tante sfaccettature.
La proclamazione costituzionale dell’autonomia trovava il suo svolgimento nelle disposizioni del Titolo V della Costituzione, dedicato a “le Regioni, le Province, i Comuni”, che tuttavia differenziavano nettamente la posizione delle une rispetto a quella degli altri. Solo le Regioni, infatti, erano configurate come enti autonomi “con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione” (art. 115); per gli enti locali, invece, al di là di poche norme stabilite direttamente nella Carta, in materia di funzioni (art. 118, commi 1 e 3), controlli (art. 130) e modifiche territoriali (art. 133), l’autonomia doveva esercitarsi “nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni” (art. 128).
L’autonomia regionale, pertanto, si fondava su attribuzioni costituzionalmente riservate; quella locale, al contrario, era programmaticamente affermata in Costituzione, ma poi affidata alla legge per la sua concreta definizione.
Non è tutto. Sul versante della normazione le Regioni condividevano con lo Stato la potestà di legiferare in alcune materie espressamente enumerate, seppur per la sola disciplina di dettaglio (art. 117), potendo altresì adire direttamente la Corte per la tutela delle loro attribuzioni costituzionalmente garantite (art. 134); gli enti locali, invece, erano titolari di una mera potestà regolamentare conformata dal principio di legalità.
Pur con queste differenze le nuove disposizioni costituzionali hanno in ogni caso rappresentato un forte elemento di discontinuità rispetto al passato, ma sono state contrassegnate da una lunga fase di inattuazione sul piano legislativo, in parte condizionata anche dagli orientamenti non univoci che erano emersi durante il dibattito in Assemblea costituente[18], malgrado autorevole dottrina avesse individuato proprio nell’autonomia – e non nell’unità – il principio direttivo positivo sancito dall’articolo 5 della Costituzione, negando altresì che potesse configurarsi alcuna differenza di genere tra autonomie regionali e autonomie locali[19].
L’implementazione legislativa del disegno costituzionale è stata dunque caratterizzata da inadempienze e ritardi: basti pensare alla sostanziale vanificazione della IX disposizione transitoria della Costituzione, secondo la quale la Repubblica, entro tre anni, avrebbe dovuto adeguare le sue leggi alle esigenze delle autonomie; o alla legge di riforma delle autonomie locali, prevista dall’articolo 128, che sarebbe intervenuta solo nel 1990, ad oltre quarant’anni di distanza dall’entrata in vigore del testo costituzionale.
Nondimeno, proprio con la legge 142 del 1990 prende il via una stagione di forte rivalutazione delle autonomie locali[20], in una prospettiva più aderente all’opzione autonomistica contenuta nell’articolo 5. Questa norma, infatti, stabilendo che la Repubblica, una e indivisibile, si fonda anche sul riconoscimento e sulla promozione di istituzioni di governo rappresentative delle comunità stanziate sul territorio, già prefigurava – in nuce – una nuova “statualità policentrica”[21], nella quale la necessaria presenza delle autonomie territoriali diventa elemento coessenziale al carattere democratico dello Stato contemporaneo e ne mette in crisi la tradizionale concezione monolitica della sovranità[22].
In questo solco si colloca la legge n. 142 la quale, fra le altre cose, ha riconosciuto per la prima volta a Comuni e Province autonomia statutaria; ha consolidato il ruolo politico-istituzionale della Provincia come ente di governo e di programmazione di area vasta, con particolare riguardo all’ambiente e al territorio; ha prefigurato la differenziazione dell’ordinamento locale con l’istituzione delle Città metropolitane; ha incentivato gli accorpamenti fra i piccoli Comuni mediante fusioni e Unioni; ha circoscritto i controlli sugli atti; ha ridisegnato i modelli organizzativi dei servizi pubblici locali.
Le ulteriori tappe di questa stagione di riforme delle autonomie locali sono poi rappresentate dalla legge n. 81 del 1993, che ha introdotto l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo comunale e provinciale; dalla legge n. 59 del 1997, che ha attribuito alle Regioni e agli enti locali tutte le funzioni amministrative ad eccezione di quelle espressamente riservate allo Stato; dal decreto legislativo n. 267 del 2000, che ha raccolto in un nuovo “Testo Unico delle Leggi sull’ordinamento degli Enti Locali” (TUEL), riordinandole, le disposizioni in materia locale a più riprese adottate nel corso degli anni ’90, via via che veniva rimodellato il ruolo delle autonomie locali e regionali.
4. Segue: il rafforzamento dell’autonomia locale nella riforma del Titolo V
Dopo la riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione, recata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, il riferimento agli “altri enti locali” è stato espunto dal testo della Carta, ma in compenso l’elenco degli enti locali dotati di copertura costituzionale si è arricchito con l’aggiunta di un nuovo tipo: la Città metropolitana[23].
Più in generale, la revisione del 2001 ha realizzato un disegno costituzionale maggiormente in sintonia con il principio autonomistico di cui all’articolo 5, sviluppandone appieno le potenzialità fino al punto da accordare a Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato la medesima natura di enti costitutivi della Repubblica, mentre in precedenza ne erano considerati (mere) ripartizioni territoriali (art. 114 vecchio testo).
L’accento è posto sul rafforzamento del ruolo e dei poteri delle autonomie territoriali substatali, soprattutto – per quel che più interessa in questa sede – di quelle locali, in una logica di forte valorizzazione del principio di sussidiarietà, a cominciare dalla nuova formulazione dell’articolo 114, che riedifica la Repubblica dal basso partendo proprio dai Comuni, cioè dagli enti più “prossimi” ai cittadini.
Sul piano amministrativo si afferma la centralità degli enti locali nell’esercizio delle funzioni amministrative (art. 118, comma 1), essendo essi titolari di “funzioni proprie” oltre a quelle “conferite” dalla legge statale e da quella regionale (art. 118, comma 2); a ciò si collega, sul piano della normazione, l’esplicito riconoscimento costituzionale – prima mancante – di una potestà statutaria (art. 114, comma 1) e di una potestà regolamentare, per disciplinare l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni attribuite (art. 117, comma 6); nonché, sul piano delle risorse, l’attribuzione di autonomia di entrata e di spesa, con la possibilità di stabilire e applicare tributi e entrate “propri” (art. 119).
A irrobustire il profilo autonomistico di Comuni e Province concorrono altresì il superamento del sistema dei controlli preventivi di legittimità sui loro atti, in seguito all’abrogazione dell’articolo 130; la loro qualificazione esclusiva di enti autonomi, essendo venuta meno la norma che li configurava anche come circoscrizioni di decentramento statale e regionale (art. 129); il loro necessario coinvolgimento nelle decisioni regionali attraverso l’istituzione del Consiglio delle autonomie locali (art. 123, comma 4).
Se ne ricava, nel complesso, un assetto costituzionale fortemente pervaso di pluralismo istituzionale, che delinea – sono parole della Corte – un “nuovo modo di essere del sistema delle autonomie”[24], caratterizzato “da un livello di autonomia regionale e locale sensibilmente accresciuto”[25].
In questo contesto lo Stato, ovviamente, è l’unico ente territoriale, tra quelli elencati nell’articolo 114, a conservare – secondo la Corte costituzionale – una “posizione peculiare”[26], connessa alla sua funzione di tutela delle istanze di unità del sistema, mentre tutti gli altri restano enti autonomi.
Ma ciò che viene complessivamente ad assimilare i cinque ordinamenti territoriali che compongono la Repubblica, al di là della diversità di poteri e funzioni, è la loro “comune derivazione dal principio democratico e della sovranità popolare”[27]; di modo che, sotto questo profilo, avrebbe dovuto ritenersi ormai superata ogni visione gerarchica e piramidale nei rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali, trattandosi di livelli di governo che hanno pari dignità istituzionale nella rappresentanza delle rispettive comunità stanziate sul territorio.
5. L’estensione territoriale dei Comuni e il problema di una dimensione adeguata
Passando adesso all’esame delle singole istituzioni locali, non si può che partire dal Comune, che rappresenta la porzione più piccola di territorio su cui si insedia una comunità politica ed è storicamente considerato “il nido delle libertà moderne in tutta Europa”[28]. Esso è l’ente “elementare”[29], quello più vicino ai cittadini e costituisce la cellula base dell’amministrazione locale.
Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, i Comuni italiani erano 7720. Nel 1921 erano diventati 9195, mentre durante il fascismo (1931), che aveva abolito l’elettività delle cariche delle amministrazioni locali, si erano ridotti a 7311. Sono tornati a salire a 7810 nel 1951, per poi crescere costantemente fino a diventare 8101 nel 2001, anno della riforma costituzionale del Titolo V. Al 2011 risultano 8092[30].
Di questi, solo 625 sono i Comuni con più di 15.000 abitanti, che è la soglia di popolazione individuata dal legislatore ai fini della differenziazione dei sistemi elettorali[31]; 5683 sono i “piccoli comuni”, quelli cioè con una popolazione uguale o inferiore a 5.000 abitanti; 1970 sono i Comuni che hanno meno di 1.000 abitanti.
La presenza di “Comuni polvere”, di ridottissime dimensioni, costituisce da sempre uno dei maggiori problemi dell’amministrazione locale in Italia, in ragione dell’inadeguatezza di questi enti a soddisfare i bisogni delle loro comunità e a supportare politiche pubbliche innovative[32].
Rispetto a questo problema si scontrano due esigenze opposte, ancorché meritevoli entrambe della massima considerazione: da una parte, quella di non disperdere l’esperienza di partecipazione democratica che si è sviluppata in questi piccoli centri, né tantomeno la ricchezza del patrimonio storico, artistico, culturale di cui sono portatori; dall’altra, quella di garantire un’efficiente gestione delle funzioni e dei servizi locali.
Lo strumento con cui si è cercato di bilanciare il valore dell’autogoverno locale con quello dell’efficienza della pubblica amministrazione è l’associazionismo comunale, che consiste nella costituzione di forme di cooperazione intercomunale in cui i singoli Comuni conservano la loro individualità, ma esercitano congiuntamente funzioni e servizi che da soli non sarebbero in grado di svolgere non avendo l’organizzazione idonea.
Alla luce del nuovo articolo 118 della Costituzione una soluzione del genere può costituire una delle forme con cui si sopperisce alla mancanza di adeguatezza da parte dei Comuni. Tale norma, infatti, attribuisce in via di principio ai Comuni le funzioni amministrative in tutte le materie, spostando a livello locale il baricentro del sistema amministrativo, ma fa salva la possibilità che le stesse funzioni, per ragioni di esercizio unitario, possano essere conferite a Province, Città metropolitane, Regioni o Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Accanto a una preferenza generalizzata nei confronti dei Comuni, la Costituzione affida la concreta collocazione delle funzioni ai diversi livelli di governo ad un criterio flessibile, guidato da principi generali, fra cui appunto quello di adeguatezza, che può considerarsi la proiezione sul versante locale del più generale principio del buon andamento dell’amministrazione e che esige che i Comuni raggiungano la capacità di governo adeguata per far fronte in modo efficace alle loro crescenti responsabilità sul piano amministrativo.
La costituzionalizzazione del principio di adeguatezza dovrebbe perciò implicare una politica delle aggregazioni comunali, fondata sull’associazionismo, che consenta alle amministrazioni comunali di raggiungere la dimensione organizzativa ottimale per l’esercizio efficiente di tutte le loro funzioni, sia quelle di cui già dispongono, che quelle che sono destinati ad acquisire per il futuro in virtù della centralità da essi assunta sul piano amministrativo.
Già prima della modifica del Titolo V della Costituzione un impulso all’associazionismo comunale si era avuto con la legge n. 59 del 1997 e il decreto legislativo n. 112 del 1998, che hanno previsto nuove forme di collaborazione tra enti locali; hanno codificato per la prima volta il principio di adeguatezza nel conferimento delle funzioni; hanno affidato alle Regioni il compito di individuare i livelli ottimali di esercizio associato delle funzioni comunali, nonché di favorire tale esercizio attraverso l’erogazione di incentivi e di sostituirsi ai Comuni inadempienti.
Il TUEL del 2000 ha poi previsto due diverse tipologie di forme associative: quelle “strutturate”, che danno vita ad un ente di secondo grado, con personalità giuridica di diritto pubblico, dotato di potestà regolamentare; quelle “negoziali”, che consistono in convenzioni (art. 30), consorzi (art. 31) e accordi di programma (art. 34).
Tra le forme associative strutturate la tipologia principale è rappresentata dalle Unioni di Comuni. Il modello era stato inizialmente introdotto dalla legge n. 142 del 1990, che prevedeva la successiva trasformazione dell’Unione in Comune, entro dieci anni dalla sua costituzione, a pena di scioglimento dell’Unione medesima[33].
Ma l’ipotesi – per così dire “forte” – della fusione, come soluzione al problema della frammentazione comunale, si è rivelata sostanzialmente inefficace poiché, implicando il venir meno dei Comuni preesistenti e la creazione di un nuovo ente, ha incontrato le resistenze dei Comuni stessi, gelosi difensori della propria autonomia e identità.
Le Unioni, invece, ai sensi dell’articolo 32 del TUEL, sono “enti locali costituiti da due o più Comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”. Hanno uno statuto e un atto costitutivo, che sono approvati dai consigli dei Comuni partecipanti, con le procedure e la maggioranza richieste per le modifiche statutarie.
Lo statuto, in particolare, individua gli organi dell’Unione e le modalità per la loro costituzione, nonché le funzioni svolte dall’ente e le corrispondenti risorse. Il presidente dell’Unione deve necessariamente essere scelto tra i sindaci dei Comuni interessati e i componenti delle giunte e dei consigli dei Comuni associati devono far parte degli organi dell’Unione, garantendo la rappresentanza delle minoranze.
L’Unione, inoltre, ha potestà regolamentare per la disciplina della propria organizzazione, per lo svolgimento delle sue funzioni e per i rapporti anche finanziari con i Comuni e ad essa si applicano, in quanto compatibili, i principi previsti per l’ordinamento comunale.
La caratteristica dell’Unione, almeno fino alla più recente legislazione sulla crisi, è che essa è configurata come un ente locale eventuale e facoltativo, che i Comuni sono liberi di costituire, o meno, potendo tutt’al più essere sollecitati in tal senso dall’erogazione di incentivi da parte della Regione[34]. Il risultato è che in Italia, secondo dati aggiornati al 2010, esistono 313 Unioni di Comuni, distribuite in 17 Regioni (in Valle d’Aosta, Liguria e Basilicata non sono presenti) e comprendono 1.561 Comuni[35]. Si tratta di numeri che, per quanto cresciuti negli ultimi anni, sembrano confermare la scarsa efficacia di una politica di aggregazione dei piccoli Comuni che sia rimessa unicamente alla volontà dei soggetti interessati e all’erogazione di particolari provvidenze economiche[36].
L’altra forma associativa strutturata è la Comunità montana, che nasce come ente locale autonomo, proiezione dei Comuni che ad essa fanno capo (art. 4, legge n. 1102 del 1971), viene successivamente configurata come “Unione montana” (art. 28, legge n. 142 del 1990), fino alla sua più recente qualificazione come “Unione di Comuni, ente locale costituito fra Comuni montani” (art. 27 TUEL)[37].
Si tratta di un caso speciale di Unione di Comuni, titolare di potestà statutaria e regolamentare (art. 4, comma 5, legge n. 131 del 2003), che viene costituita “in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei Comuni montani, funzioni proprie, funzioni conferite e funzioni comunali”[38].
La Comunità montana ha un organo rappresentativo e un organo esecutivo composti da sindaci, assessori o consiglieri dei Comuni partecipanti. E’ quindi anch’essa ente di secondo grado, poiché i rappresentanti dei Comuni della Comunità sono eletti dai Consigli dei Comuni partecipanti con il sistema del voto limitato, garantendo la rappresentanza delle minoranze. Il presidente della Comunità montana può cumulare la carica con quella di sindaco di uno dei Comuni della Comunità.
Alla Regione, poi, spetta l’individuazione degli ambiti territoriali per la costituzione delle Comunità montane, nonché la disciplina delle modalità di approvazione dello statuto, delle procedure di concertazione, dei criteri di ripartizione dei fondi regionali, dei rapporti con gli altri enti operanti nel territorio.
La riconduzione della disciplina delle Comunità montane alla potestà legislativa residuale della Regione, ai sensi dell’articolo 117, comma 4, è stata ribadita anche dalla Corte costituzionale, che ha sottolineato come la disposizione che attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di organi di governo, sistema elettorale e funzioni fondamentali degli enti locali (art. 117, comma 2, lett. p) si riferisce tassativamente a Comuni, Province e Città metropolitane e non trova applicazione nei confronti delle Comunità montane[39].
Rispetto a questo problema si scontrano due esigenze opposte, ancorché meritevoli entrambe della massima considerazione: da una parte, quella di non disperdere l’esperienza di partecipazione democratica che si è sviluppata in questi piccoli centri, né tantomeno la ricchezza del patrimonio storico, artistico, culturale di cui sono portatori; dall’altra, quella di garantire un’efficiente gestione delle funzioni e dei servizi locali.
Lo strumento con cui si è cercato di bilanciare il valore dell’autogoverno locale con quello dell’efficienza della pubblica amministrazione è l’associazionismo comunale, che consiste nella costituzione di forme di cooperazione intercomunale in cui i singoli Comuni conservano la loro individualità, ma esercitano congiuntamente funzioni e servizi che da soli non sarebbero in grado di svolgere non avendo l’organizzazione idonea.
Alla luce del nuovo articolo 118 della Costituzione una soluzione del genere può costituire una delle forme con cui si sopperisce alla mancanza di adeguatezza da parte dei Comuni. Tale norma, infatti, attribuisce in via di principio ai Comuni le funzioni amministrative in tutte le materie, spostando a livello locale il baricentro del sistema amministrativo, ma fa salva la possibilità che le stesse funzioni, per ragioni di esercizio unitario, possano essere conferite a Province, Città metropolitane, Regioni o Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Accanto a una preferenza generalizzata nei confronti dei Comuni, la Costituzione affida la concreta collocazione delle funzioni ai diversi livelli di governo ad un criterio flessibile, guidato da principi generali, fra cui appunto quello di adeguatezza, che può considerarsi la proiezione sul versante locale del più generale principio del buon andamento dell’amministrazione e che esige che i Comuni raggiungano la capacità di governo adeguata per far fronte in modo efficace alle loro crescenti responsabilità sul piano amministrativo.
La costituzionalizzazione del principio di adeguatezza dovrebbe perciò implicare una politica delle aggregazioni comunali, fondata sull’associazionismo, che consenta alle amministrazioni comunali di raggiungere la dimensione organizzativa ottimale per l’esercizio efficiente di tutte le loro funzioni, sia quelle di cui già dispongono, che quelle che sono destinati ad acquisire per il futuro in virtù della centralità da essi assunta sul piano amministrativo.
Già prima della modifica del Titolo V della Costituzione un impulso all’associazionismo comunale si era avuto con la legge n. 59 del 1997 e il decreto legislativo n. 112 del 1998, che hanno previsto nuove forme di collaborazione tra enti locali; hanno codificato per la prima volta il principio di adeguatezza nel conferimento delle funzioni; hanno affidato alle Regioni il compito di individuare i livelli ottimali di esercizio associato delle funzioni comunali, nonché di favorire tale esercizio attraverso l’erogazione di incentivi e di sostituirsi ai Comuni inadempienti.
Il TUEL del 2000 ha poi previsto due diverse tipologie di forme associative: quelle “strutturate”, che danno vita ad un ente di secondo grado, con personalità giuridica di diritto pubblico, dotato di potestà regolamentare; quelle “negoziali”, che consistono in convenzioni (art. 30), consorzi (art. 31) e accordi di programma (art. 34).
Tra le forme associative strutturate la tipologia principale è rappresentata dalle Unioni di Comuni. Il modello era stato inizialmente introdotto dalla legge n. 142 del 1990, che prevedeva la successiva trasformazione dell’Unione in Comune, entro dieci anni dalla sua costituzione, a pena di scioglimento dell’Unione medesima[33].
Ma l’ipotesi – per così dire “forte” – della fusione, come soluzione al problema della frammentazione comunale, si è rivelata sostanzialmente inefficace poiché, implicando il venir meno dei Comuni preesistenti e la creazione di un nuovo ente, ha incontrato le resistenze dei Comuni stessi, gelosi difensori della propria autonomia e identità.
Le Unioni, invece, ai sensi dell’articolo 32 del TUEL, sono “enti locali costituiti da due o più Comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”. Hanno uno statuto e un atto costitutivo, che sono approvati dai consigli dei Comuni partecipanti, con le procedure e la maggioranza richieste per le modifiche statutarie.
Lo statuto, in particolare, individua gli organi dell’Unione e le modalità per la loro costituzione, nonché le funzioni svolte dall’ente e le corrispondenti risorse. Il presidente dell’Unione deve necessariamente essere scelto tra i sindaci dei Comuni interessati e i componenti delle giunte e dei consigli dei Comuni associati devono far parte degli organi dell’Unione, garantendo la rappresentanza delle minoranze.
L’Unione, inoltre, ha potestà regolamentare per la disciplina della propria organizzazione, per lo svolgimento delle sue funzioni e per i rapporti anche finanziari con i Comuni e ad essa si applicano, in quanto compatibili, i principi previsti per l’ordinamento comunale.
La caratteristica dell’Unione, almeno fino alla più recente legislazione sulla crisi, è che essa è configurata come un ente locale eventuale e facoltativo, che i Comuni sono liberi di costituire, o meno, potendo tutt’al più essere sollecitati in tal senso dall’erogazione di incentivi da parte della Regione[34]. Il risultato è che in Italia, secondo dati aggiornati al 2010, esistono 313 Unioni di Comuni, distribuite in 17 Regioni (in Valle d’Aosta, Liguria e Basilicata non sono presenti) e comprendono 1.561 Comuni[35]. Si tratta di numeri che, per quanto cresciuti negli ultimi anni, sembrano confermare la scarsa efficacia di una politica di aggregazione dei piccoli Comuni che sia rimessa unicamente alla volontà dei soggetti interessati e all’erogazione di particolari provvidenze economiche[36].
L’altra forma associativa strutturata è la Comunità montana, che nasce come ente locale autonomo, proiezione dei Comuni che ad essa fanno capo (art. 4, legge n. 1102 del 1971), viene successivamente configurata come “Unione montana” (art. 28, legge n. 142 del 1990), fino alla sua più recente qualificazione come “Unione di Comuni, ente locale costituito fra Comuni montani” (art. 27 TUEL)[37].
Si tratta di un caso speciale di Unione di Comuni, titolare di potestà statutaria e regolamentare (art. 4, comma 5, legge n. 131 del 2003), che viene costituita “in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei Comuni montani, funzioni proprie, funzioni conferite e funzioni comunali”[38].
La Comunità montana ha un organo rappresentativo e un organo esecutivo composti da sindaci, assessori o consiglieri dei Comuni partecipanti. E’ quindi anch’essa ente di secondo grado, poiché i rappresentanti dei Comuni della Comunità sono eletti dai Consigli dei Comuni partecipanti con il sistema del voto limitato, garantendo la rappresentanza delle minoranze. Il presidente della Comunità montana può cumulare la carica con quella di sindaco di uno dei Comuni della Comunità.
Alla Regione, poi, spetta l’individuazione degli ambiti territoriali per la costituzione delle Comunità montane, nonché la disciplina delle modalità di approvazione dello statuto, delle procedure di concertazione, dei criteri di ripartizione dei fondi regionali, dei rapporti con gli altri enti operanti nel territorio.
La riconduzione della disciplina delle Comunità montane alla potestà legislativa residuale della Regione, ai sensi dell’articolo 117, comma 4, è stata ribadita anche dalla Corte costituzionale, che ha sottolineato come la disposizione che attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di organi di governo, sistema elettorale e funzioni fondamentali degli enti locali (art. 117, comma 2, lett. p) si riferisce tassativamente a Comuni, Province e Città metropolitane e non trova applicazione nei confronti delle Comunità montane[39].
Secondo la Corte, inoltre, dopo la riforma del Titolo V, esse devono ritenersi “enti sub-regionali sforniti di autonomia costituzionale”[40], con la conseguenza che non è possibile delineare “alcuna equiordinazione tra Comuni e Comunità montane”[41]. Ne deriva una complessiva svalutazione del carattere autonomistico di queste forme associative poiché, stando a questo orientamento, nella disciplina dei profili istituzionali dell’ente, le fonti locali – lo statuto in particolare – non avrebbero più una competenza costituzionalmente garantita[42].
In Italia sono attualmente presenti 224 Comunità montane, distribuite in sedici Regioni[43]. Liguria, Puglia, Sicilia e Toscana, invece, le hanno soppresse e analoghe iniziative in questa direzione sono state già assunte anche da altre Regioni[44].
6. La dimensione territoriale di area vasta
L’ambito territoriale intermedio fra Comuni e Regione è invece occupato dalla Provincia, entità territoriale storicamente reale, che affonda le sue radici nel Comune medievale, di cui rappresenta l’evoluzione[45].
La Provincia è ancora oggi l’ente che costituisce lo snodo della relazione tra la campagna e la città e ha il compito fondamentale di garantire i servizi pubblici nelle aree più remote del Paese, favorendo la crescita economica e la sicurezza sociale. Di qui anche le tradizionali funzioni provinciali, attinenti alla viabilità e mobilità territoriale, all’ambiente, alla promozione del territorio e alla scolarità superiore, e quelle oggidì ritenute di area vasta, riguardanti le reti dei servizi pubblici locali, come l’acqua, i rifiuti, i trasporti, l’energia, e la pianificazione territoriale.
Per questa ragione la Provincia, in Italia come in Francia (con i Dipartimenti), è stata sin dall’inizio l’elemento costitutivo dello Stato unitario, che proprio sulla dimensione provinciale ha costruito la sua organizzazione amministrativa, innestando su di un ente autonomo rappresentativo della comunità di riferimento la struttura della sua amministrazione periferica, con a capo il prefetto.
Quando in Assemblea costituente si discusse della nuova organizzazione territoriale della Repubblica e si decise di dare vita alle Regioni, la Provincia fu accusata di essere una duplicazione di livello amministrativo, ma la posizione di quanti ne auspicavano la soppressione, in ragione della previsione costituzionale della Regione[46], fu battuta proprio per il ruolo storico avuto dalla Provincia. Così, alla fine, nella formulazione definitiva dell’articolo 114, la Provincia veniva identificata come uno dei tre livelli di governo substatali costituzionalmente necessari.
Con l’avvento delle Regioni ordinarie, tuttavia, la polemica sulla Provincia si ripropose, in quanto la presenza dell’ente costituiva per i legislatori regionali il principale ostacolo alla possibilità di darsi una propria organizzazione territoriale interna, fatta di circondari e comprensori regionali.
Questi tentativi sono falliti non solo per la loro contrarietà al modello di governo locale previsto dalle norme del Titolo V[47], ma soprattutto perché, rispetto al radicamento storico delle Province, le proposte di circondari e comprensori erano prive di una vera aderenza al territorio e non in grado di esprimere lo stesso contenuto identitario della Provincia; anche funzionalmente, peraltro, tali formule organizzative non si rilevarono in grado di assicurare una migliore gestione delle funzioni e dei servizi.
In Italia sono attualmente presenti 224 Comunità montane, distribuite in sedici Regioni[43]. Liguria, Puglia, Sicilia e Toscana, invece, le hanno soppresse e analoghe iniziative in questa direzione sono state già assunte anche da altre Regioni[44].
6. La dimensione territoriale di area vasta
L’ambito territoriale intermedio fra Comuni e Regione è invece occupato dalla Provincia, entità territoriale storicamente reale, che affonda le sue radici nel Comune medievale, di cui rappresenta l’evoluzione[45].
La Provincia è ancora oggi l’ente che costituisce lo snodo della relazione tra la campagna e la città e ha il compito fondamentale di garantire i servizi pubblici nelle aree più remote del Paese, favorendo la crescita economica e la sicurezza sociale. Di qui anche le tradizionali funzioni provinciali, attinenti alla viabilità e mobilità territoriale, all’ambiente, alla promozione del territorio e alla scolarità superiore, e quelle oggidì ritenute di area vasta, riguardanti le reti dei servizi pubblici locali, come l’acqua, i rifiuti, i trasporti, l’energia, e la pianificazione territoriale.
Per questa ragione la Provincia, in Italia come in Francia (con i Dipartimenti), è stata sin dall’inizio l’elemento costitutivo dello Stato unitario, che proprio sulla dimensione provinciale ha costruito la sua organizzazione amministrativa, innestando su di un ente autonomo rappresentativo della comunità di riferimento la struttura della sua amministrazione periferica, con a capo il prefetto.
Quando in Assemblea costituente si discusse della nuova organizzazione territoriale della Repubblica e si decise di dare vita alle Regioni, la Provincia fu accusata di essere una duplicazione di livello amministrativo, ma la posizione di quanti ne auspicavano la soppressione, in ragione della previsione costituzionale della Regione[46], fu battuta proprio per il ruolo storico avuto dalla Provincia. Così, alla fine, nella formulazione definitiva dell’articolo 114, la Provincia veniva identificata come uno dei tre livelli di governo substatali costituzionalmente necessari.
Con l’avvento delle Regioni ordinarie, tuttavia, la polemica sulla Provincia si ripropose, in quanto la presenza dell’ente costituiva per i legislatori regionali il principale ostacolo alla possibilità di darsi una propria organizzazione territoriale interna, fatta di circondari e comprensori regionali.
Questi tentativi sono falliti non solo per la loro contrarietà al modello di governo locale previsto dalle norme del Titolo V[47], ma soprattutto perché, rispetto al radicamento storico delle Province, le proposte di circondari e comprensori erano prive di una vera aderenza al territorio e non in grado di esprimere lo stesso contenuto identitario della Provincia; anche funzionalmente, peraltro, tali formule organizzative non si rilevarono in grado di assicurare una migliore gestione delle funzioni e dei servizi.
A partire dalle riforme amministrative degli anni ’90, in cui le autonomie locali hanno avuto una considerazione particolare per la riforma dello Stato, si registra una evoluzione legislativa contrassegnata – come visto – dalla tendenza a valorizzare il corredo funzionale della Provincia[48], così che nel momento in cui si riformula l’articolo 114 della Costituzione, appare fuori discussione che tra gli enti costitutivi della Repubblica sia ricompresa anche la Provincia, insieme allo Stato, alle Regioni, alle Città metropolitane e ai Comuni.
In capo alla Provincia si è venuto progressivamente a radicare un corpus di funzioni di area vasta, sul presupposto che proprio la dimensione provinciale fosse quella ottimale per il loro svolgimento, trattandosi di funzioni che non sono esercitabili a livello comunale, o perché tendono al soddisfacimento di interessi di dimensione sovracomunale, o perché devono essere svolte nei confronti dei Comuni e dunque richiedono una certa distanza dai loro interessi.
La presenza delle Province in Italia ha avuto un andamento sempre crescente fino al 1941. Erano 59 nel 1861, 70 nel 1920, 93 nel 1927, 98 nel 1941. Si sono ridotte a 91 nel 1947 per poi riprendere una parabola ascendente fino a diventare 94 nel 1970, 103 nel 1992, 107 nel 2001 e 110 nel 2010[49].
Si è dunque assistito, negli ultimi anni, a un processo di proliferazione delle Province (specie in alcune Regioni speciali), che ha comportato una notevole frammentazione della dimensione di area vasta: basti pensare che, se si escludono le 10 Province metropolitane, la metà delle Province sono al di sotto dei 350.000 abitanti e, per quanto riguarda quelle istituite più di recente, esse non sempre risultano corrispondere ad una esigenza territoriale, dal momento che non appaiono legate alla tradizione storica della formazione dello Stato unitario[50].
La questione, poi, si presenta particolarmente problematica nelle Regioni più piccole, dove il dato dimensionale delle Province risente della più circoscritta estensione del territorio regionale[51]. In questi territori, infatti, il problema sembra essere più la dimensione delle Regioni medesime, che non la presenza, o meno, delle Province. Il nodo vero, perciò, riguarda in primo luogo la scelta costituzionale a favore di un regionalismo (territorialmente) asimmetrico, nell’ambito del quale, avendo alcune Regioni di fatto una dimensione storica di tipo provinciale, potrebbe darsi la necessità di una modulazione della presenza della Provincia.
Un discorso a parte meritano le aree metropolitane, cioè quegli agglomerati urbani che si sono formati attraverso il collegamento di una molteplicità di Comuni contermini di piccole e medie dimensioni intorno al Comune maggiore, con cui si trovano in un rapporto di continuità territoriale e di stretta integrazione dal punto di vista economico e sociale.
Si tratta di entità che coprono sempre una dimensione di area vasta, nella quale tuttavia la contiguità tra la città e la campagna, che è la caratteristica tipica della Provincia, è venuta meno, essendo il territorio caratterizzato da una estesa conurbazione[52]. Di conseguenza, le aree metropolitane possono essere assoggettate a una disciplina differenziata sul piano istituzionale e si è previsto che in questi territori il livello di governo di area vasta faccia capo ad un ente alternativo e corrispondente alla Provincia, individuato nella Città metropolitana. Infatti, è proprio della Città metropolitana la titolarità delle funzioni provinciali, a cui bisognerebbe aggiungere le funzioni di ambito comunale che hanno un rilievo metropolitano, come il piano regolatore della Città metropolitana, il piano del traffico, la pianificazione delle reti infrastrutturali.
A livello legislativo la prima formalizzazione della Città metropolitana è avvenuta ad opera della legge n. 142 del 1990, che ne identificava nove[53], da istituire intorno ai capoluoghi di Regione, con decreto legislativo del Governo, su proposta della Regione interessata. Il termine per la costituzione dell’ente veniva in seguito prorogato e la delimitazione territoriale dell’area metropolitana da parte della Regione, inizialmente obbligatoria, veniva resa facoltativa[54].
La presenza delle Province in Italia ha avuto un andamento sempre crescente fino al 1941. Erano 59 nel 1861, 70 nel 1920, 93 nel 1927, 98 nel 1941. Si sono ridotte a 91 nel 1947 per poi riprendere una parabola ascendente fino a diventare 94 nel 1970, 103 nel 1992, 107 nel 2001 e 110 nel 2010[49].
Si è dunque assistito, negli ultimi anni, a un processo di proliferazione delle Province (specie in alcune Regioni speciali), che ha comportato una notevole frammentazione della dimensione di area vasta: basti pensare che, se si escludono le 10 Province metropolitane, la metà delle Province sono al di sotto dei 350.000 abitanti e, per quanto riguarda quelle istituite più di recente, esse non sempre risultano corrispondere ad una esigenza territoriale, dal momento che non appaiono legate alla tradizione storica della formazione dello Stato unitario[50].
La questione, poi, si presenta particolarmente problematica nelle Regioni più piccole, dove il dato dimensionale delle Province risente della più circoscritta estensione del territorio regionale[51]. In questi territori, infatti, il problema sembra essere più la dimensione delle Regioni medesime, che non la presenza, o meno, delle Province. Il nodo vero, perciò, riguarda in primo luogo la scelta costituzionale a favore di un regionalismo (territorialmente) asimmetrico, nell’ambito del quale, avendo alcune Regioni di fatto una dimensione storica di tipo provinciale, potrebbe darsi la necessità di una modulazione della presenza della Provincia.
Un discorso a parte meritano le aree metropolitane, cioè quegli agglomerati urbani che si sono formati attraverso il collegamento di una molteplicità di Comuni contermini di piccole e medie dimensioni intorno al Comune maggiore, con cui si trovano in un rapporto di continuità territoriale e di stretta integrazione dal punto di vista economico e sociale.
Si tratta di entità che coprono sempre una dimensione di area vasta, nella quale tuttavia la contiguità tra la città e la campagna, che è la caratteristica tipica della Provincia, è venuta meno, essendo il territorio caratterizzato da una estesa conurbazione[52]. Di conseguenza, le aree metropolitane possono essere assoggettate a una disciplina differenziata sul piano istituzionale e si è previsto che in questi territori il livello di governo di area vasta faccia capo ad un ente alternativo e corrispondente alla Provincia, individuato nella Città metropolitana. Infatti, è proprio della Città metropolitana la titolarità delle funzioni provinciali, a cui bisognerebbe aggiungere le funzioni di ambito comunale che hanno un rilievo metropolitano, come il piano regolatore della Città metropolitana, il piano del traffico, la pianificazione delle reti infrastrutturali.
A livello legislativo la prima formalizzazione della Città metropolitana è avvenuta ad opera della legge n. 142 del 1990, che ne identificava nove[53], da istituire intorno ai capoluoghi di Regione, con decreto legislativo del Governo, su proposta della Regione interessata. Il termine per la costituzione dell’ente veniva in seguito prorogato e la delimitazione territoriale dell’area metropolitana da parte della Regione, inizialmente obbligatoria, veniva resa facoltativa[54].
La legge n. 265 del 1999 ha poi valorizzato l’iniziativa dei Comuni interessati e ridimensionato il ruolo regionale, prevedendo un “parere” in luogo della originaria “proposta”, mentre il TUEL ha delineato una procedura ancor più elaborata che, nel richiedere il consenso di tutti i soggetti interessati (Comune capoluogo e altri Comuni, Provincia, Regione, popolazioni interessate, Governo e Parlamento), mette sostanzialmente ciascuno di essi nelle condizioni di esercitare un potere di veto.
Più di recente è intervenuta la legge n. 42 del 2009, recante “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”, che, fra le altre cose, ha prefigurato tre diverse strade per avviare il procedimento di istituzione della Città metropolitana: una proposta congiunta del Comune capoluogo e della Provincia, oppure del Comune capoluogo e del venti per cento dei Comuni della Provincia interessata, o ancora della Provincia e del venti per cento dei Comuni. Sulla proposta deve poi essere acquisito il parere della Regione e deve essere indetto un referendum tra tutti i cittadini della Provincia.
Di fatto, il percorso per l’istituzione della Città metropolitana è rimasto sostanzialmente immutato dal 1990 ad oggi, essendo stato sempre imperniato sulle stesse fasi: la proposta degli enti locali, il parere della Regione, il referendum popolare e la legge dello Stato[55].
Se poi alla complessità di una simile procedura si aggiungono le resistenze e le inerzie dei soggetti più direttamente coinvolti – la Regione, che vede nell’ente metropolitano un “pericoloso” concorrente; i Comuni contermini, che temono l’egemonia del Comune capoluogo – si possono meglio comprendere le ragioni per le quali nessuna Città metropolitana sia stata finora effettivamente costituita.
La dimensione territoriale di area vasta, tuttavia, non è governata solo da un ente locale come la Provincia – o dal suo alter ego Città metropolitana nelle aree metropolitane – ma risulta presidiata da una pluralità di altri enti pubblici “con dimensione territorialmente definita”[56] che, in ambito regionale e sub-regionale, gravitano (a vario titolo) intorno a questa orbita.
Il territorio, infatti, ha assunto un ruolo decisivo nella definizione di nuove figure organizzative ai fini del riassetto dell’amministrazione ed è proprio rispetto all’area vasta che questo nesso tra territorio e organizzazione amministrativa ha trovato le forme più varie.
Comprensori, circondari (ancorché entrambi ormai superati), distretti (scolastici, sanitari, giudiziari), consorzi (interlacuali, industriali, di bonifica), bacini imbriferi montani (BIM), ambiti territoriali ottimali (ATO), di caccia (ATC), integrati (ATI), sono solo alcune delle più diffuse.
L’elenco naturalmente potrebbe continuare[57]. Ma già da questa sommaria rassegna si vede come l’amministrazione sia sempre più divisa per settori, a cui corrisponde una diversa area territoriale. La mancata coincidenza fra le diverse aree è fonte di frammentazione dell’agire amministrativo, anche se proprio la Provincia potrebbe rappresentare il tentativo di una razionalizzazione intorno a una dimensione territoriale più adeguata, in quanto soprattutto per le Province a partire da una certa dimensione (di circa 300/350 mila abitanti) le aree vaste di riferimento dei diversi ambiti hanno una sufficiente coincidenza territoriale[58].
Da questo punto di vista, ad esempio, andrebbe mantenuta ben distinta la realtà dell’associazionismo locale da quella della Provincia. Quest’ultima è l’ente di governo delle funzioni di area vasta, che riguardano almeno vaste zone intercomunali. L’associazionismo comunale, invece, è il frutto della necessaria ricerca dell’adeguatezza da parte di Comuni di piccole dimensioni per l’esercizio ottimale di funzioni comunali.
Tra questi due livelli, pertanto, non dovrebbero esserci interferenze e sovrapposizioni, né nel senso di costruire forme associative comunali di dimensione provinciale cui attribuire funzioni di area vasta (tipo ATO), men che meno nel senso di configurare la Provincia come un ente associativo, in sostituzione (o affianco) delle tradizionali forme di associazionismo locale[59].
7. Le variazioni territoriali degli enti locali
Il territorio non pone solo il problema della sua dimensione ottimale, ma anche quello della garanzia della sua esistenza e quindi delle variazioni territoriali a cui gli enti locali possono essere interessati nel tempo[60].
A questo riguardo la Costituzione italiana ha dettato una disciplina ad hoc nell’articolo 133. Il primo comma si riferisce alle Province e dispone che il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove Province sono stabiliti con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione.
Il secondo comma, invece, riguarda i Comuni e prevede che l’istituzione di nuovi Comuni e il mutamento delle loro circoscrizioni e denominazioni avvenga con legge della Regione, sentite le popolazioni interessate.
In entrambi le ipotesi, a garanzia dell’integrità territoriale dell’ente, è posta una riserva di legge: statale, per le trasformazioni delle Province, regionale per quelle dei Comuni. Si tratta, inoltre, di leggi “rinforzate”, la cui approvazione è subordinata, in ossequio al principio autonomistico di cui all’articolo 5, all’intervento degli enti coinvolti (iniziativa comunale e parere regionale), nel primo caso; o delle rispettive comunità (parere delle popolazioni interessate), nel secondo.
In particolare, per le variazioni territoriali delle Province l’impulso deve partire dal basso, cioè devono essere i Comuni interessati a chiedere al Governo la possibilità di modificare i confini provinciali.
L’iniziativa è dell’ente, non delle rispettive popolazioni, alle quali fa invece esplicito riferimento il secondo comma dell’articolo 133, ma nulla impedisce che il Comune, ove previsto dal proprio statuto, possa rimettere la decisione alla sua popolazione o comunque consultarla.
Né, d’altra parte, è richiesto un numero minimo di Comuni per prendere l’iniziativa, sicché sembra lecito ritenere che sia sufficiente, a tal fine, anche un Comune soltanto. All’iniziativa deve però aderire la maggioranza dei Comuni dell’area interessata, che rappresentino la maggioranza della popolazione e la relativa deliberazione deve essere assunta a maggioranza assoluta (art. 21 TUEL).
Per le modifiche territoriali dei Comuni, invece, la Costituzione richiede espressamente il parere – ancorché non vincolante – delle popolazioni interessate, il cui coinvolgimento nelle decisioni che le riguardano è d’altronde espressione del più generale “principio di autodeterminazione delle popolazioni locali per quel che riguarda il loro assetto istituzionale”[61].
Il Costituente ha voluto così evitare che le Regioni, cui spetta attuare l’articolo 133, comma 2, individuando le popolazioni interessate alle modifiche, possano compromettere la preesistente conformazione dell’ente prescindendo completamente dalla volontà delle rispettive comunità.
Ma su come debbano essere consultate le popolazioni interessate e, soprattutto, su quali siano, in concreto, tali popolazioni, la Costituzione tace. In merito alla prima questione, si ritiene che l’audizione delle popolazioni debba avvenire tramite referendum consultivo, anche se, in astratto, si potrebbero utilizzare anche altre modalità di consultazione, perché laddove la Costituzione ha voluto riferirsi allo strumento referendario lo ha fatto espressamente (art. 132)[62].
Per quanto concerne invece l’individuazione delle popolazioni interessate, la nozione – secondo l’opinione della Corte costituzionale – evoca un dato che può anche prescindere dal diretto coinvolgimento nella variazione territoriale ed è stata di conseguenza interpretata come comprensiva sia dei gruppi direttamente coinvolti nella variazione territoriale, sia di quelli interessati in via mediata e indiretta[63].
Le variazioni sin qui considerate sono quelle che restano circoscritte all’interno del territorio di una singola Regione. Per quelle che comportano il distacco di un Comune o di una Provincia dalla Regione di appartenenza e la loro aggregazione a un’altra Regione, viene invece in rilievo l’articolo 132, comma 2, che è stato peraltro modificato ad opera dell’articolo 9 della legge costituzionale n. 3 del 2001[64].
Nella sua originaria formulazione la norma subordinava lo spostamento di Province e Comuni da una Regione all’altra ad un procedimento che prevedeva, nell’ordine, il referendum delle popolazioni interessate sull’atto d’iniziativa, il parere dei Consigli regionali, la legge statale di approvazione della modifica territoriale.
Dopo la revisione costituzionale la sequenza procedimentale è rimasta immutata, ma è stato specificato che la richiesta di variazione territoriale debba essere approvata, mediante referendum, dalla maggioranza delle popolazioni dell’ente o degli enti interessati, onde evitare che maggioranze non direttamente o immediatamente coinvolte nel cambiamento possano contrastare e vanificare le istanze provenienti da comunità territoriali che vogliono rendersi autonome o modificare la propria appartenenza regionale.
Tuttavia, nella (specifica) ipotesi di mutamento territoriale prevista dall’articolo 132, comma 2, la nozione di popolazioni interessate non coincide con quella individuata ai fini dell’istituzione di nuovi Comuni e della modifica delle loro circoscrizioni e denominazioni, di cui all’articolo 133, comma 2.
La sostanziale diversità delle due fattispecie, infatti, comporta che nei casi di distacco-aggregazione l’espressione popolazioni interessate debba essere riferita, restrittivamente, “soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distacco-aggregazione”[65].
Sulla base di queste argomentazioni la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 42 della legge 352/70, che disciplina i referendum previsti in Costituzione, nella parte in cui prescrive che la richiesta di referendum per il distacco-aggregazione di enti debba essere corredata dalle deliberazioni di tanti Consigli comunali e provinciali che rappresentino almeno un terzo delle restanti popolazioni delle Regioni coinvolte.
Per concludere sull’argomento con un riferimento all’attualità italiana, può aggiungersi che il problema dei mutamenti territoriali ha assunto, più di recente, un rilievo non trascurabile in riferimento alle crescenti richieste di Comuni ubicati nelle Regioni ordinarie di essere aggregati alla confinante Regione speciale, al fine di beneficiare del più favorevole regime finanziario di cui esse godono[66].
Com’è noto, infatti, nel nostro sistema costituzionale le Regioni a statuto speciale, ai sensi dell’articolo 116, dispongono di “forme e condizioni particolari di autonomia”, che consistono non solo in più ampie competenze sul piano legislativo, ma soprattutto in maggiori risorse su quello economico e che hanno finito per tradursi, specie su quest’ultimo versante, in vere e proprie situazioni di privilegio, che si rivelano particolarmente allettanti per i Comuni limitrofi delle Regioni ordinarie, chiamati invece a fare i conti con una consistente e generalizzata decurtazione dei trasferimenti in loro favore.
Tra il 2005 e il 2008 sono stati 13 i Comuni che hanno richiesto e ottenuto il referendum per il distacco-aggregazione[67]. Fino a quella data, l’onerosità del procedimento originariamente previsto dalla legge n. 352 – prima dell’intervento della Corte – non aveva consentito lo svolgimento di alcuna consultazione referendaria.
Discussioni sul cambio di Regione, d’altra parte, sono in corso in molti altri Comuni e Province e non sempre sono mosse da interessi meramente economici. Le ragioni di ordine economico che stanno in genere alla base della richiesta di trasferimento, infatti, ancorché prevalenti, non sono le sole che inducono a prendere l’iniziativa del distacco-aggregazione, come sembra confermare l’unico caso di attuazione dell’articolo 132, comma 2, finora realizzato, costituito dalla legge n. 117 del 2009, che ha approvato il passaggio dei Comuni dell’Alta Valmarecchia dalle Marche all’Emilia-Romagna (entrambe Regioni ordinarie).
8. L’impatto sul territorio degli enti locali della legislazione sulla crisi
Sull’estensione territoriale degli enti locali più che mutamenti avviati dal basso, cioè dai soggetti a vario titolo interessati, hanno influito misure imposte dall’alto. Da questo punto di vista, anzi, sembra possibile affermare, senza timore di smentite, che nessun intervento del legislatore statale abbia mai inciso così in profondità sull’assetto del governo locale come ha fatto la più recente legislazione sulla crisi[68].
Con riguardo alla dimensione di base, si può partire dalla legge n. 244 del 2007 (Finanziaria 2008), che aveva fissato una serie di criteri per il riordino delle Comunità montane da parte delle Regioni, fra i quali la riduzione del numero degli enti montani, dei componenti dei loro organi e delle loro indennità.
La legge n. 191 del 2009 (Finanziaria 2010) ha poi disposto la soppressione delle circoscrizioni di decentramento comunale, tranne che per i Comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti; la soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali, ad eccezione dei bacini imbriferi montani; la cessazione del concorso statale al finanziamento alle Comunità montane.
Il decreto legge n. 2 del 2010, convertito nella legge n. 42 del 2010, ha in seguito modificato la legge n. 191, disponendo la soppressione delle Autorità d’ambito territoriale e affidando alle Regioni il compito di riallocare le funzioni da esse esercitate[69].
Sull’associazionismo comunale è intervenuto dapprima il decreto legge n. 78 del 2010, convertito nella legge n. 122 del 2010, che ha previsto la gestione associata obbligatoria, mediante Unione o convenzione, delle funzioni fondamentali – per come individuate in via transitoria dalla legge n. 42 del 2009 – da parte dei Comuni fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 se appartengono o sono appartenuti a Comunità montane[70].
Il decreto legge n. 138 del 2011, convertito dalla legge n. 148/2011, ha poi stabilito l’obbligo dell’esercizio associato, mediante una (speciale) Unione “municipale”, di tutte le funzioni e i servizi per i Comuni al di sotto dei 1.000 abitanti. A tali Unioni possono aggregarsi anche i Comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 5.000 abitanti. In ogni caso è rimessa alle Regioni la facoltà di stabilire limiti demografici diversi[71].
Infine ulteriori novità sulle modalità di esercizio associato delle funzioni e dei servizi comunali sono state introdotte dal decreto legge n. 95 del 2012, cosiddetta Spending review, convertito nella legge n. 135 del 2012, che, tra le altre cose, ha fornito un nuovo elenco delle funzioni fondamentali che devono essere gestite in forma associata; ha modificato le tempistiche entro le quali deve scattare l’obbligo di esercizio associato per i Comuni fino a 5.000 abitanti; ha fatto venir meno l’obbligatorietà della gestione associata di tutte le funzioni e i servizi per i Comuni al di sotto dei 1.000 abitanti; ha modificato la disciplina sulle Unioni contenuta nell’articolo 32 del TUEL[72].
Per quanto riguarda invece la dimensione territoriale di area vasta, il decreto n. 138 aveva in un primo momento disposto la soppressione delle Province al di sotto dei 300.000 abitanti o dei 3.000 kmq. Questa soluzione era stata poi accantonata e rinviata ad una successiva proposta di revisione costituzionale, che tuttavia non ha avuto alcun seguito[73].
Sull’argomento, però, è tornato in un primo momento il decreto legge n. 201/2011, cosiddetto “Salva Italia”, convertito nella legge n. 214 del 2011, che ha modificato ruolo e posizione istituzionale della Provincia, trasformandola in un ente di secondo grado, eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali e chiamato ad esercitare esclusivamente funzioni di indirizzo e coordinamento dell’attività dei Comuni.
Successivamente il decreto sulla Spending review ha riattribuito alla Provincia alcune sue tipiche funzioni di amministrazione attiva che le erano state sottratte, ma soprattutto ha previsto il riordino delle Province che non soddisfano requisiti minimi di popolazione (350.000 abitanti) e di superficie (2500 kmq)[74], stabilendo altresì la loro soppressione nel territorio in cui vengono istituite le Città metropolitane[75].
All’esito di questo vasto processo di riassetto territoriale l’amministrazione locale – di base e di area vasta – dovrebbe risultare profondamente trasformata. Le Province dovrebbero diventare la metà di quelle attuali, le Città metropolitane dovrebbero vedere finalmente la luce[76] e a livello comunale l’obbligatorietà dell’esercizio associato dovrebbe contribuire a migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi ai cittadini. Per non dire della semplificazione istituzionale che dovrebbe derivare dalla soppressione di diverse formule organizzative operanti a livello regionale e locale.
Se e quando questo disegno si concretizzerà è ancora presto per dirlo[77]. Ma è sul modo in cui è stato realizzato che si vuole svolgere qualche considerazione conclusiva. Non si può fare a meno di rilevare, infatti, come queste misure siano state adottate sotto una spinta puramente emergenziale, dettata dalla gravità delle crisi economica che ha attraversato il Paese, senza che vi sia stata alcuna più organica riflessione di sistema su quale sarebbe dovuto essere l’assetto più congeniale per il governo locale e soprattutto in mancanza della necessaria condivisione e partecipazione degli attori istituzionali coinvolti, che hanno subito queste disposizioni dall’alto, più che farsi promotori della loro adozione. Al punto che sulla costituzionalità di molte di queste previsioni sembra possibile nutrire più di qualche dubbio[78].
Finora la Corte costituzionale ha giustificato la maggior parte di questi interventi di riaccentramento e di intromissione nell’organizzazione interna di Regioni ed enti locali riconducendoli alla potestà concorrente dello Stato in materia di coordinamento della finanza pubblica[79], ormai assurta a competenza legislativa dalla indiscutibile valenza trasversale.
Ad avviso del giudice delle leggi, però, “il principio salus rei publicae suprema lex esto non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione”[80]. Ecco, di questo autorevole monito il legislatore statale non sempre, forse, ha tenuto adeguatamente conto nella sua opera di riordino territoriale dell’amministrazione locale.
Se poi alla complessità di una simile procedura si aggiungono le resistenze e le inerzie dei soggetti più direttamente coinvolti – la Regione, che vede nell’ente metropolitano un “pericoloso” concorrente; i Comuni contermini, che temono l’egemonia del Comune capoluogo – si possono meglio comprendere le ragioni per le quali nessuna Città metropolitana sia stata finora effettivamente costituita.
La dimensione territoriale di area vasta, tuttavia, non è governata solo da un ente locale come la Provincia – o dal suo alter ego Città metropolitana nelle aree metropolitane – ma risulta presidiata da una pluralità di altri enti pubblici “con dimensione territorialmente definita”[56] che, in ambito regionale e sub-regionale, gravitano (a vario titolo) intorno a questa orbita.
Il territorio, infatti, ha assunto un ruolo decisivo nella definizione di nuove figure organizzative ai fini del riassetto dell’amministrazione ed è proprio rispetto all’area vasta che questo nesso tra territorio e organizzazione amministrativa ha trovato le forme più varie.
Comprensori, circondari (ancorché entrambi ormai superati), distretti (scolastici, sanitari, giudiziari), consorzi (interlacuali, industriali, di bonifica), bacini imbriferi montani (BIM), ambiti territoriali ottimali (ATO), di caccia (ATC), integrati (ATI), sono solo alcune delle più diffuse.
L’elenco naturalmente potrebbe continuare[57]. Ma già da questa sommaria rassegna si vede come l’amministrazione sia sempre più divisa per settori, a cui corrisponde una diversa area territoriale. La mancata coincidenza fra le diverse aree è fonte di frammentazione dell’agire amministrativo, anche se proprio la Provincia potrebbe rappresentare il tentativo di una razionalizzazione intorno a una dimensione territoriale più adeguata, in quanto soprattutto per le Province a partire da una certa dimensione (di circa 300/350 mila abitanti) le aree vaste di riferimento dei diversi ambiti hanno una sufficiente coincidenza territoriale[58].
Da questo punto di vista, ad esempio, andrebbe mantenuta ben distinta la realtà dell’associazionismo locale da quella della Provincia. Quest’ultima è l’ente di governo delle funzioni di area vasta, che riguardano almeno vaste zone intercomunali. L’associazionismo comunale, invece, è il frutto della necessaria ricerca dell’adeguatezza da parte di Comuni di piccole dimensioni per l’esercizio ottimale di funzioni comunali.
Tra questi due livelli, pertanto, non dovrebbero esserci interferenze e sovrapposizioni, né nel senso di costruire forme associative comunali di dimensione provinciale cui attribuire funzioni di area vasta (tipo ATO), men che meno nel senso di configurare la Provincia come un ente associativo, in sostituzione (o affianco) delle tradizionali forme di associazionismo locale[59].
7. Le variazioni territoriali degli enti locali
Il territorio non pone solo il problema della sua dimensione ottimale, ma anche quello della garanzia della sua esistenza e quindi delle variazioni territoriali a cui gli enti locali possono essere interessati nel tempo[60].
A questo riguardo la Costituzione italiana ha dettato una disciplina ad hoc nell’articolo 133. Il primo comma si riferisce alle Province e dispone che il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove Province sono stabiliti con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione.
Il secondo comma, invece, riguarda i Comuni e prevede che l’istituzione di nuovi Comuni e il mutamento delle loro circoscrizioni e denominazioni avvenga con legge della Regione, sentite le popolazioni interessate.
In entrambi le ipotesi, a garanzia dell’integrità territoriale dell’ente, è posta una riserva di legge: statale, per le trasformazioni delle Province, regionale per quelle dei Comuni. Si tratta, inoltre, di leggi “rinforzate”, la cui approvazione è subordinata, in ossequio al principio autonomistico di cui all’articolo 5, all’intervento degli enti coinvolti (iniziativa comunale e parere regionale), nel primo caso; o delle rispettive comunità (parere delle popolazioni interessate), nel secondo.
In particolare, per le variazioni territoriali delle Province l’impulso deve partire dal basso, cioè devono essere i Comuni interessati a chiedere al Governo la possibilità di modificare i confini provinciali.
L’iniziativa è dell’ente, non delle rispettive popolazioni, alle quali fa invece esplicito riferimento il secondo comma dell’articolo 133, ma nulla impedisce che il Comune, ove previsto dal proprio statuto, possa rimettere la decisione alla sua popolazione o comunque consultarla.
Né, d’altra parte, è richiesto un numero minimo di Comuni per prendere l’iniziativa, sicché sembra lecito ritenere che sia sufficiente, a tal fine, anche un Comune soltanto. All’iniziativa deve però aderire la maggioranza dei Comuni dell’area interessata, che rappresentino la maggioranza della popolazione e la relativa deliberazione deve essere assunta a maggioranza assoluta (art. 21 TUEL).
Per le modifiche territoriali dei Comuni, invece, la Costituzione richiede espressamente il parere – ancorché non vincolante – delle popolazioni interessate, il cui coinvolgimento nelle decisioni che le riguardano è d’altronde espressione del più generale “principio di autodeterminazione delle popolazioni locali per quel che riguarda il loro assetto istituzionale”[61].
Il Costituente ha voluto così evitare che le Regioni, cui spetta attuare l’articolo 133, comma 2, individuando le popolazioni interessate alle modifiche, possano compromettere la preesistente conformazione dell’ente prescindendo completamente dalla volontà delle rispettive comunità.
Ma su come debbano essere consultate le popolazioni interessate e, soprattutto, su quali siano, in concreto, tali popolazioni, la Costituzione tace. In merito alla prima questione, si ritiene che l’audizione delle popolazioni debba avvenire tramite referendum consultivo, anche se, in astratto, si potrebbero utilizzare anche altre modalità di consultazione, perché laddove la Costituzione ha voluto riferirsi allo strumento referendario lo ha fatto espressamente (art. 132)[62].
Per quanto concerne invece l’individuazione delle popolazioni interessate, la nozione – secondo l’opinione della Corte costituzionale – evoca un dato che può anche prescindere dal diretto coinvolgimento nella variazione territoriale ed è stata di conseguenza interpretata come comprensiva sia dei gruppi direttamente coinvolti nella variazione territoriale, sia di quelli interessati in via mediata e indiretta[63].
Le variazioni sin qui considerate sono quelle che restano circoscritte all’interno del territorio di una singola Regione. Per quelle che comportano il distacco di un Comune o di una Provincia dalla Regione di appartenenza e la loro aggregazione a un’altra Regione, viene invece in rilievo l’articolo 132, comma 2, che è stato peraltro modificato ad opera dell’articolo 9 della legge costituzionale n. 3 del 2001[64].
Nella sua originaria formulazione la norma subordinava lo spostamento di Province e Comuni da una Regione all’altra ad un procedimento che prevedeva, nell’ordine, il referendum delle popolazioni interessate sull’atto d’iniziativa, il parere dei Consigli regionali, la legge statale di approvazione della modifica territoriale.
Dopo la revisione costituzionale la sequenza procedimentale è rimasta immutata, ma è stato specificato che la richiesta di variazione territoriale debba essere approvata, mediante referendum, dalla maggioranza delle popolazioni dell’ente o degli enti interessati, onde evitare che maggioranze non direttamente o immediatamente coinvolte nel cambiamento possano contrastare e vanificare le istanze provenienti da comunità territoriali che vogliono rendersi autonome o modificare la propria appartenenza regionale.
Tuttavia, nella (specifica) ipotesi di mutamento territoriale prevista dall’articolo 132, comma 2, la nozione di popolazioni interessate non coincide con quella individuata ai fini dell’istituzione di nuovi Comuni e della modifica delle loro circoscrizioni e denominazioni, di cui all’articolo 133, comma 2.
La sostanziale diversità delle due fattispecie, infatti, comporta che nei casi di distacco-aggregazione l’espressione popolazioni interessate debba essere riferita, restrittivamente, “soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distacco-aggregazione”[65].
Sulla base di queste argomentazioni la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 42 della legge 352/70, che disciplina i referendum previsti in Costituzione, nella parte in cui prescrive che la richiesta di referendum per il distacco-aggregazione di enti debba essere corredata dalle deliberazioni di tanti Consigli comunali e provinciali che rappresentino almeno un terzo delle restanti popolazioni delle Regioni coinvolte.
Per concludere sull’argomento con un riferimento all’attualità italiana, può aggiungersi che il problema dei mutamenti territoriali ha assunto, più di recente, un rilievo non trascurabile in riferimento alle crescenti richieste di Comuni ubicati nelle Regioni ordinarie di essere aggregati alla confinante Regione speciale, al fine di beneficiare del più favorevole regime finanziario di cui esse godono[66].
Com’è noto, infatti, nel nostro sistema costituzionale le Regioni a statuto speciale, ai sensi dell’articolo 116, dispongono di “forme e condizioni particolari di autonomia”, che consistono non solo in più ampie competenze sul piano legislativo, ma soprattutto in maggiori risorse su quello economico e che hanno finito per tradursi, specie su quest’ultimo versante, in vere e proprie situazioni di privilegio, che si rivelano particolarmente allettanti per i Comuni limitrofi delle Regioni ordinarie, chiamati invece a fare i conti con una consistente e generalizzata decurtazione dei trasferimenti in loro favore.
Tra il 2005 e il 2008 sono stati 13 i Comuni che hanno richiesto e ottenuto il referendum per il distacco-aggregazione[67]. Fino a quella data, l’onerosità del procedimento originariamente previsto dalla legge n. 352 – prima dell’intervento della Corte – non aveva consentito lo svolgimento di alcuna consultazione referendaria.
Discussioni sul cambio di Regione, d’altra parte, sono in corso in molti altri Comuni e Province e non sempre sono mosse da interessi meramente economici. Le ragioni di ordine economico che stanno in genere alla base della richiesta di trasferimento, infatti, ancorché prevalenti, non sono le sole che inducono a prendere l’iniziativa del distacco-aggregazione, come sembra confermare l’unico caso di attuazione dell’articolo 132, comma 2, finora realizzato, costituito dalla legge n. 117 del 2009, che ha approvato il passaggio dei Comuni dell’Alta Valmarecchia dalle Marche all’Emilia-Romagna (entrambe Regioni ordinarie).
8. L’impatto sul territorio degli enti locali della legislazione sulla crisi
Sull’estensione territoriale degli enti locali più che mutamenti avviati dal basso, cioè dai soggetti a vario titolo interessati, hanno influito misure imposte dall’alto. Da questo punto di vista, anzi, sembra possibile affermare, senza timore di smentite, che nessun intervento del legislatore statale abbia mai inciso così in profondità sull’assetto del governo locale come ha fatto la più recente legislazione sulla crisi[68].
Con riguardo alla dimensione di base, si può partire dalla legge n. 244 del 2007 (Finanziaria 2008), che aveva fissato una serie di criteri per il riordino delle Comunità montane da parte delle Regioni, fra i quali la riduzione del numero degli enti montani, dei componenti dei loro organi e delle loro indennità.
La legge n. 191 del 2009 (Finanziaria 2010) ha poi disposto la soppressione delle circoscrizioni di decentramento comunale, tranne che per i Comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti; la soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali, ad eccezione dei bacini imbriferi montani; la cessazione del concorso statale al finanziamento alle Comunità montane.
Il decreto legge n. 2 del 2010, convertito nella legge n. 42 del 2010, ha in seguito modificato la legge n. 191, disponendo la soppressione delle Autorità d’ambito territoriale e affidando alle Regioni il compito di riallocare le funzioni da esse esercitate[69].
Sull’associazionismo comunale è intervenuto dapprima il decreto legge n. 78 del 2010, convertito nella legge n. 122 del 2010, che ha previsto la gestione associata obbligatoria, mediante Unione o convenzione, delle funzioni fondamentali – per come individuate in via transitoria dalla legge n. 42 del 2009 – da parte dei Comuni fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 se appartengono o sono appartenuti a Comunità montane[70].
Il decreto legge n. 138 del 2011, convertito dalla legge n. 148/2011, ha poi stabilito l’obbligo dell’esercizio associato, mediante una (speciale) Unione “municipale”, di tutte le funzioni e i servizi per i Comuni al di sotto dei 1.000 abitanti. A tali Unioni possono aggregarsi anche i Comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 5.000 abitanti. In ogni caso è rimessa alle Regioni la facoltà di stabilire limiti demografici diversi[71].
Infine ulteriori novità sulle modalità di esercizio associato delle funzioni e dei servizi comunali sono state introdotte dal decreto legge n. 95 del 2012, cosiddetta Spending review, convertito nella legge n. 135 del 2012, che, tra le altre cose, ha fornito un nuovo elenco delle funzioni fondamentali che devono essere gestite in forma associata; ha modificato le tempistiche entro le quali deve scattare l’obbligo di esercizio associato per i Comuni fino a 5.000 abitanti; ha fatto venir meno l’obbligatorietà della gestione associata di tutte le funzioni e i servizi per i Comuni al di sotto dei 1.000 abitanti; ha modificato la disciplina sulle Unioni contenuta nell’articolo 32 del TUEL[72].
Per quanto riguarda invece la dimensione territoriale di area vasta, il decreto n. 138 aveva in un primo momento disposto la soppressione delle Province al di sotto dei 300.000 abitanti o dei 3.000 kmq. Questa soluzione era stata poi accantonata e rinviata ad una successiva proposta di revisione costituzionale, che tuttavia non ha avuto alcun seguito[73].
Sull’argomento, però, è tornato in un primo momento il decreto legge n. 201/2011, cosiddetto “Salva Italia”, convertito nella legge n. 214 del 2011, che ha modificato ruolo e posizione istituzionale della Provincia, trasformandola in un ente di secondo grado, eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali e chiamato ad esercitare esclusivamente funzioni di indirizzo e coordinamento dell’attività dei Comuni.
Successivamente il decreto sulla Spending review ha riattribuito alla Provincia alcune sue tipiche funzioni di amministrazione attiva che le erano state sottratte, ma soprattutto ha previsto il riordino delle Province che non soddisfano requisiti minimi di popolazione (350.000 abitanti) e di superficie (2500 kmq)[74], stabilendo altresì la loro soppressione nel territorio in cui vengono istituite le Città metropolitane[75].
All’esito di questo vasto processo di riassetto territoriale l’amministrazione locale – di base e di area vasta – dovrebbe risultare profondamente trasformata. Le Province dovrebbero diventare la metà di quelle attuali, le Città metropolitane dovrebbero vedere finalmente la luce[76] e a livello comunale l’obbligatorietà dell’esercizio associato dovrebbe contribuire a migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi ai cittadini. Per non dire della semplificazione istituzionale che dovrebbe derivare dalla soppressione di diverse formule organizzative operanti a livello regionale e locale.
Se e quando questo disegno si concretizzerà è ancora presto per dirlo[77]. Ma è sul modo in cui è stato realizzato che si vuole svolgere qualche considerazione conclusiva. Non si può fare a meno di rilevare, infatti, come queste misure siano state adottate sotto una spinta puramente emergenziale, dettata dalla gravità delle crisi economica che ha attraversato il Paese, senza che vi sia stata alcuna più organica riflessione di sistema su quale sarebbe dovuto essere l’assetto più congeniale per il governo locale e soprattutto in mancanza della necessaria condivisione e partecipazione degli attori istituzionali coinvolti, che hanno subito queste disposizioni dall’alto, più che farsi promotori della loro adozione. Al punto che sulla costituzionalità di molte di queste previsioni sembra possibile nutrire più di qualche dubbio[78].
Finora la Corte costituzionale ha giustificato la maggior parte di questi interventi di riaccentramento e di intromissione nell’organizzazione interna di Regioni ed enti locali riconducendoli alla potestà concorrente dello Stato in materia di coordinamento della finanza pubblica[79], ormai assurta a competenza legislativa dalla indiscutibile valenza trasversale.
Ad avviso del giudice delle leggi, però, “il principio salus rei publicae suprema lex esto non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione”[80]. Ecco, di questo autorevole monito il legislatore statale non sempre, forse, ha tenuto adeguatamente conto nella sua opera di riordino territoriale dell’amministrazione locale.
[1] Tanto che R. Alessi, Intorno alla nozione di ente territoriale, in Rivista Trimestrale Diritto Pubblico, 1960, p. 292, la ritiene “tra le più nebulose della nostra scienza”.
[2] In questo senso, tra i tanti, C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Tomo Primo, Cedam, 1969, p. 102. Secondo A. Masucci, Enti locali territoriali, in Enciclopedia del Diritto, XIV, Giuffrè, p. 977, il vincolo della necessaria connessione dell’ente con il territorio, su cui poggia la nozione tradizionale di ente territoriale, consiste nel fatto che il territorio è “principium individuationis degli appartenenti agli enti”.
[3] Cfr. U. Forti, La funzione giuridica del territorio comunale, in Studi di diritto pubblico, II, Roma, 1937, p. 268 ss.
[4] Tra gli altri E. Cannada Bartoli, Osservazioni intorno a taluni aspetti del territorio comunale, in Scritti Orlando, Padova, 1957, I, p. 286.
[5] In questo senso H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1952, p. 212 ss.
[6] Cfr. S. Romano, Osservazioni sulla natura giuridica del territorio dello Stato, in Scritti minori, Milano, 1950, I, p. 169 ss.
[7] Una completa rivisitazione del tema è operata da L. Paladin, Il territorio degli enti autonomi, in Rivista Trimestrale Diritto Pubblico, 1961, p. 607 ss.
[8] La Regione Molise, infatti, aveva riapprovato, in data 2 ottobre 1989, una legge recante “Norme in materia di controllo sugli atti degli enti sottoposti a vigilanza e tutela della Regione” che includeva tra gli enti sottoposti al controllo di legittimità del Comitato regionale di controllo anche enti dipendenti della Regione.
[9] Corte costituzionale, sentenza n. 164 del 1990.
[10] Ulteriori indicazioni in G. C. De Martin, Enti pubblici territoriali, in Digesto Discipline Pubblicistiche, Utet, 1991; F. Pizzetti, Sulla nozione di ente locale nel sistema costituzionale, in Le Regioni, 1975; A. Orsi Battaglini – D. Sorace, Contributo alla individuazione degli altri enti locali di cui all’art. 57, 2° comma, dello Statuto toscano e all’art. 118, 3° comma, della Costituzione, in Foro Amministrativo, 1971.
[11] S. Romano, Decentramento amministrativo (1897), in Id, Scritti minori, II, Milano, 1990, p. 7 ss. Sull’evoluzione della nozione di autarchia nel pensiero di Santi Romano cfr. M. Di Folco, La garanzia costituzionale del potere normativo locale. Statuti e regolamenti nel sistema delle fonti tra tradizione e innovazione costituzionale, Cedam, 2007, p. 59 ss. La riflessione romaniana sull’autarchia è criticata da G. Zanobini, L’amministrazione locale, Padova, 1936, p. 139, il quale, secondo S. Cassese, Autarchia, in Enciclopedia del Diritto, IV, Milano, 1959, p. 327, può essere considerato il padre della moderna nozione di autarchia.
[12] Messa bene in evidenza da G. Berti, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Padova, 1969, p. 12 ss.
[13] B. Constant, Principi di politica, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, 1970, p. 147 ss.
[14] C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in I classici del pensiero italiano, Biblioteca Treccani, 2006, p. 570.
[15] Sul collegamento fra l’odierna esperienza di autonomia comunale e i suoi prodromi medievali cfr. M. S. Giannini, Autonomia locale e autogoverno, in Il Corriere amministrativo, 1948, n. 21-22, p. 1063.
[16] Il nesso con la comunità di cui l’ente è espressione è valorizzato, per primo, da C. Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, p. 73 ss.; successivamente, tra gli altri, si veda G. C. De Martin, L’amministrazione locale nel sistema delle autonomie, Milano, 1984, p. 62 ss.; F. Pizzetti, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano, 1979; A. Pubusa, Sovranità popolare e autonomia costituzionale, Milano, 1983, p. 100 ss.
[17] In questo senso M. S. Giannini, Autonomia, in Riv. Trim. Dir. Pubbl, 1951, p. 879.
[18] Per una ricostruzione di tale dibattito ampie indicazioni in S. Mangiameli, La Provincia: dall’Assemblea costituente alla riforma del Titolo V, in Id, La questione locale. Le nuove autonomie nell’ordinamento della Repubblica, Donzelli editore, 2009, p. 131 ss.
[19] Il riferimento è alla celebre posizione di C. Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, cit., p. 73 ss. Ma si vedano anche i contributi di G. Berti, Art. 5, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, 1975; nonché di F. Benvenuti, L’ordinamento repubblicano, Venezia, 1961. Per la progressiva elaborazione della nozione di autonomia nella scienza del diritto pubblico cfr. inoltre O. Ranelletti, Istituzioni di diritto pubblico, V Edizione, Padova, 1935; G. Zanobini, L’amministrazione locale, op. cit.; Santi Romano, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, Giuffrè, 1983; M. S. Giannini, Autonomia, in Enciclopedia del Diritto, IV, Milano 1959, p. 362 ss.
[20] Anticipata peraltro dalla ratifica della Carta europea dell’autonomia locale ad opera della legge n. 439 del 1989.
[21] L’espressione è di G. C. De Martin, La funzione amministrativa tra Regioni ed enti locali, in Diritto pubblico, 3, 2005, p. 975.
[22] Crisi che sarà poi la stessa Corte costituzionale a conclamare nella sentenza n. 106 del 2002, allorché metterà in evidenza come anche le autonomie territoriali concorrano a plasmare l’essenza della sovranità.
[23] La cui concreta costituzione, però, appare ancora di là da venire.
[24] Corte costituzionale, sentenza n. 106 del 2002.
[25] Corte costituzionale, sentenza n. 88 del 2003.
[26] Corte costituzionale, sentenza n. 274 del 2003.
[27] Corte costituzionale, sentenza n. 106 del 2002.
[28] In questo senso si esprime la relazione alla legge comunale e provinciale sabauda 23 ottobre 1959, n. 3702 (legge Rattazzi).
[29] Così G. Zanobini, L’amministrazione locale, op. cit, p.142.
[30] Fonte ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), Banca dati Comuniverso.it.
[31] Per i Comuni maggiori la formula elettorale ha le seguenti caratteristiche: scheda unica per l’elezione del Sindaco e del Consiglio comunale e collegamento obbligatorio fra i candidati a Sindaco e le liste di candidati al Consiglio comunale; facoltà per l’elettore di votare per un candidato a Sindaco e per una lista non collegata ad esso (cosiddetto voto disgiunto); elezione del Sindaco che ha ottenuto la maggioranza dei voti validi, altrimenti eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati al primo turno; maggioranza del 60 per cento dei seggi alle liste collegate al candidato eletto. Nei Comuni minori, invece, ogni candidato è collegato a una sola lista, si vota in un solo turno e viene eletto Sindaco il candidato che prende più voti, con conseguente elezione dei due terzi dei candidati della sua lista.
[32] Cfr. F. Pizzetti, Piccoli Comuni e grandi compiti: la specificità italiana di fronte ai bisogni delle società mature, in D. Formiconi (a cura di), Comuni, insieme, più forti, Torriana, 2008.
[33] Altri limiti previsti per i Comuni erano la contiguità territoriale, l’appartenenza alla stessa Provincia, una popolazione non superiore a 5.000 abitanti, eccezione fatta per un solo Comune con popolazione fra i 5.000 e i 10.000 abitanti.
[34] La legge n. 42 del 2009, recante “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”, ha indicato tra i principi e criteri direttivi concernenti il coordinamento e l’autonomia di entrata e di spesa degli enti locali (art. 12, lettera f), la “previsione di forme premiali per favorire unioni e fusioni tra comuni, anche attraverso l'incremento dell'autonomia impositiva o maggiori aliquote di compartecipazione ai tributi erariali”.
[35] Cfr. Lo stato delle Unioni. Rapporto nazionale 2010 sulle Unioni di Comuni, Cittalia, 2010. In particolare le Unioni sono 53 in Lombardia, 50 in Piemonte, 35 in Sicilia, 30 in Sardegna, 28 in Veneto, 22 in Emilia-Romagna, Lazio e Puglia, 11 nelle Marche, 9 in Campania e Calabria, 8 in Molise, 6 in Abruzzo, 5 in Friuli-Venezia Giulia, 1 in Trentino - Alto Adige, Toscana e Umbria.
[36] Registra il “fallimento delle politiche di accorpamento dei piccoli Comuni” G. Vesperini, Vent’anni di riforme dei poteri regionali e locali: modelli normativi e sviluppi dell’ordinamento, in Amministrazione civile, 2, 2008, p. 76 ss.
[37] Sulla originaria configurazione delle Comunità montane si veda, tra gli altri, C. Desideri, I problemi attuali delle comunità montane. Profili istituzionali, in Id (a cura di), Programmazione ed enti locali. Il caso delle comunità montane, Quaderni di studi regionali, Edizioni Comunità, 1980, p. 7 ss.; nonché G. C. De Martin, Comunità montane, in Digesto Discipline Pubblicistiche, III, Utet, 1989, p. 267 ss.
[38] Corte costituzionale, sentenza n. 229 del 2001.
[39] Corte costituzionale, sentenza n. 244 del 2005.
[40] Corte costituzionale, sentenza n. 397 del 2006.
[41] Corte costituzionale, sentenza n. 237 del 2009. Criticamente su questa mancata equiparazione G. C. De Martin – M. Di Folco, Un orientamento opinabile della Corte costituzionale in materia di comunità montane, in Giurisprudenza costituzionale, 2009, p. 2970 ss.
[42] Questo aspetto è sottolineato in particolare da S. Mangiameli, Titolo V, ordinamento degli enti locali e comunità montane, in Giurisprudenza costituzionale, 2005, p. 2122 ss.
[43] Fonte: elaborazione Ancitel 2012. In particolare in Trentino-Alto Adige ci sono 333 Comuni e 23 Comunità montane cui aderiscono 330 Comuni; in Valle d’Aosta 74 Comuni e 8 Comunità montane cui aderiscono 73 Comuni; in Molise 136 Comuni e 9 Comunità montane cui aderiscono 133 Comuni; in Umbria 92 Comuni e 5 Comunità montane cui aderiscono 88 Comuni; in Basilicata 131 Comuni e 13 Comunità montane cui aderiscono 106 Comuni; nel Lazio 378 Comuni e 22 Comunità montane cui aderiscono 244 Comuni; in Abruzzo 305 Comuni e 11 Comunità montane cui aderiscono 182 Comuni; in Calabria 409 Comuni e 20 Comunità montane cui aderiscono 231 Comuni; in Campania 551 Comuni e 20 Comunità montane cui aderiscono 255 Comuni; in Piemonte 1206 Comuni e 22 Comunità montane cui aderiscono 553 Comuni; in FVG 218 Comuni e 4 Comunità montane cui aderiscono 95 Comuni; nelle Marche 239 Comuni e 10 Comunità montane cui aderiscono 97 Comuni; in Lombardia 1544 Comuni e 23 Comunità montane cui aderiscono 550 Comuni; in Veneto 581 Comuni e 19 Comunità montane cui aderiscono 171 Comuni; in Emilia-Romagna 348 Comuni e 10 Comunità montane cui aderiscono 93 Comuni; in Sardegna 377 Comuni e 5 Comunità montane cui aderiscono 45 Comuni.
[44] Hanno nel frattempo disposto la soppressione delle comunità montane anche l’Umbria (legge regionale n. 18/2011) e il Molise (legge regionale n. 6/2011). Per un quadro aggiornato delle iniziative regionali si veda più diffusamente F. Palazzi, Transizione e prospettive del governo locale: verso la soppressione delle Comunità montane, Nota per il gruppo di studio di Astrid “Dove va il regionalismo”, in www.astrid-online.it, 16 novembre 2011.
[45] Sul radicamento della Provincia, vista come “la successione reale al libero comune medievale”, cfr. S. Mangiameli, La Provincia: dal processo storico di formazione alla ristrutturazione istituzionale, in Id (a cura di), Province e funzioni di area vasta. Dal processo storico di formazione alla ristrutturazione istituzionale, Roma, Donzelli, 2013, p. 559 ss.
[46] Sul punto cfr. amplius S. Mangiameli, La Provincia: dall’Assemblea costituente alla riforma del Titolo V, op. cit., p. 132 ss.
[47] Venendo di fatto a configurare una forma di amministrazione indiretta della Regione, in contrasto con il principio secondo il quale la Regione doveva esercitare normalmente le sue funzioni delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici (art. 118, comma 3, vecchio testo).
[48] La legge 142 del 1990 ha chiaramente delineato un livello di area vasta dell’amministrazione locale in capo alla Provincia, con una serie di funzioni di programmazione e di pianificazione, in primo luogo territoriale (art. 15) e di gestione operativa (art. 14). Nell’ambito del processo di conferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni e agli enti locali, avviato dalla legge n. 59 del 1997 e dal decreto legislativo n. 112 del 1998, il decreto legislativo sostitutivo n. 96 del 1999, in particolare, ha indicato espressamente tutta una serie di funzioni amministrative regionali da conferire alle Province. Cfr. G. C. De Martin, Un ente strategico ancorché misconosciuto: la Provincia, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 26 giugno 2009. Constata “l’avvenuto potenziamento della fisionomia funzionale della Provincia” anche la Corte costituzionale, che ha ritenuto “l’arricchimento dei compiti della Provincia con una legge della Repubblica […] coerente con la stessa linea di tendenza del sistema costituzionale”, in base al vecchio testo dell’art. 118, comma 3. Cfr. sentenza n. 341 del 1993.
[49] Fonte ANCI, Banca dati Comuniverso.it.
[50] Più in particolare 2 Province hanno meno di 100.000 abitanti, 16 ne hanno tra 100 e 200 mila, 20 tra 200 e 300 mila, 23 tra 300 e 400 mila (di queste 12 sono al di sotto dei 350 mila abitanti), 11 tra 400 e 500 mila, 28 tra 500 e un milione, 10 hanno più di un milione di abitanti.
[51] A parte la Valle d’Aosta, che ha 128 mila abitanti ad è l’unica Regione non articolata al proprio interno in Province, il caso riguarda le Regioni Basilicata, Molise e Umbria, che hanno un numero di abitanti che corrisponde a quello di altre Province italiane e sono a loro volta suddivise in due Province. La Basilicata ha 587 mila abitanti (all’incirca come le Province di Como o Cuneo) e le sue due Province hanno rispettivamente 203 mila abitanti (Matera) e 383 mila (potenza); il Molise ha 319 mila abitanti (come la Provincia di Viterbo o di Pescara) e le sue due Province hanno rispettivamente 88 mila abitanti (Isernia) e 231 mila (Campobasso). L’Umbria ha circa 900 mila abitanti (come la Provincia di Treviso e Caserta) e le sue due Province hanno rispettivamente 671 mila abitanti (Perugia) e 234 mila (Terni).
[52] Per un approfondimento di questi profili si veda S. Mangiameli, Questioni inerenti alle città metropolitane, in Id, La questione locale, op. cit., p. 163 ss.
[53] Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli.
[54] Cfr. legge n. 436 del 1993.
[55] Sui problemi connessi all’istituzione della Città metropolitana alla luce della disciplina prevista dall’articolo 18 del decreto legge n. 95 del 2012 (Spending review) cfr. B. Caravita, Problemi di impostazione nella istituzione delle Città metropolitane e nella disciplina di Roma Capitale, in federalismi.it, n. 19/2012; V. Cerulli Irelli, L’istituzione della Città metropolitana, in www. Astrid-online.it, 17 settembre 2012; C. Deodato, Le Città metropolitane: storia, ordinamento, prospettive, in federalismi.it, n. 19/2012.
[56] L’espressione è di M. Nigro, Gli enti pubblici con dimensione territorialmente definita: problemi vecchi ed esperienze nuove, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2, 1976, p. 531 ss.
[57] Per un catalogo più dettagliato sia consentito rinviare a L. Castelli, Area vasta ed enti operanti a livello regionale, in S. Mangiameli (a cura di), Province e funzioni di area vasta. Dal processo storico di formazione alla ristrutturazione istituzionale, op. cit., p. 481 ss.
[58] Cfr. in questo senso la ricerca dell’Università Bocconi commissionata dall’UPI, concernente “Una proposta per il riassetto delle Province”, presentata all’Assemblea UPI del 6 dicembre 2011 e consultabile in www.upinet.it.
[59] Come invece fa – discutibilmente ad avviso di chi scrive – l’articolo 23 del decreto “Salva Italia”, convertito nella legge n. 214 del 2011.
[60] Sui problemi posti dal territorio sul piano costituzionale cfr. A. D’Atena, Il territorio regionale come problema di diritto costituzionale, in www.issirfa-spoglio.cnr.it.
[61] Corte costituzionale, sentenza n. 453 del 1989.
[62] In questo senso E. Rotelli, Art. 133, in Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1990, p. 211.
[63] Cfr. Corte costituzionale, sentt. nn. 94 del 2000 e 47 del 2003.
[64] Un’ampia disamina delle questioni connesse all’interpretazione e all’attuazione di questa norma è offerta da G. Di Muccio, La modifica dei confini delle Regioni: l’articolo 132 della Costituzione nell’esperienza del legislatore, in federalismi.it, n. 12/2013.
[65] In questo senso Corte costituzionale, sentenza n. 334 del 2004. Sulla nozione di popolazioni direttamente interessate alla variazione cfr. amplius M. Pedrazza Gorlero, Art. 132, in Commentario della Costituzione, op. cit., p. 160 ss.
[66] Sulle implicazioni costituzionali del fenomeno cfr. A. D’Atena, Profili procedurali della migrazione dei Comuni nei territori regionali speciali, in Giurisprudenza costituzionale, 2007.
[67] Fonte: www.comunichecambianoregione.org
[68] Su cui cfr. amplius S. Mangiameli, Il sistema territoriale e la crisi, in Id (a cura di), Le Autonomie della Repubblica: la realizzazione concreta, Giuffrè, Milano, p. 11 ss.; P. Barrera, Gli enti locali nella morsa della crisi: molte preoccupazioni e qualche idea, in Astrid-Rassegna, 26 marzo 2012, n. 155; G. Gardini, Le autonomie ai tempi della crisi, in Le Istituzioni del Federalismo, 3, 2011, p. 457 ss.; S. Staiano, Le autonomie locali in tempi di recessione: emergenza e lacerazione del sistema, in federalismi.it, n. 17/2012; L. Vandelli, Crisi economica e trasformazione del governo locale, in Astrid-Rassegna, 21 settembre 2011, n. 143.
[69] Il decreto legge n. 225 del 2010, cosiddetto “Milleproroghe”, convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, ha poi posticipato la soppressione di tali Autorità al 31 marzo 2011, ma con successivo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri si è previsto che il predetto termine slittasse ulteriormente al 31 dicembre 2011. I legislatori regionali fin qui intervenuti hanno adottato soluzioni diverse. In alcuni casi hanno individuato un unico ambito territoriale coincidente con il territorio regionale, cui è stato preposto un Ente Regionale per il Servizio Idrico Integrato (Abruzzo, legge regionale n. 9/2011), un’Agenzia territoriale per i servizi idrici e rifiuti (Emilia-Romagna, legge regionale n. 23/2011), un’Autorità idrica (Puglia, legge regionale n. 9/2011). La Regione Marche (leggi regionali n. 18/2011 e n. 30/2011) ha previsto che le funzioni già esercitate dalle soppresse Autorità d’Ambito siano svolte dall’Assemblea di Ambito, quale forma associativa tra Comuni e Province ricadenti in ciascun ATO, costituita mediante convenzione obbligatoria e ha ridelimitato il territorio regionale suddividendolo in cinque ambiti ottimali. La Toscana (leggi regionali n. 12/2011 e n. 69/2011) ha dapprima assunto in via transitoria le funzioni delle ATO, esercitandole per il tramite di suoi commissari; successivamente, ha istituito un unico ambito territoriale per il servizio idrico integrato ed ha trasferito le funzioni già esercitate dalle Autorità d’ambito ai Comuni, che le esercitano obbligatoriamente tramite l’Autorità idrica toscana.
[70] Sulla disciplina statale di riordino dell’esercizio associato delle funzioni comunali si veda più diffusamente P. Barrera, Ai blocchi di partenza: con le funzioni associate, finalmente, si fa sul serio, in www.astrid-online.it, settembre 2012; P. Bilancia, L’associazionismo obbligatorio dei Comuni nelle più recenti evoluzioni legislative, in federalismi.it, n. 16/2012; V. Tondi della Mura, La riforma delle Unioni di Comuni fra “ingegneria” e “approssimazione” istituzionali, in federalismi.it, n. 15/2012.
[71] Calabria e Toscana sono le Regioni finora intervenute per esercitare tale facoltà. La Toscana (legge regionale n. 59/2011) ha fissato un limite demografico minimo diverso da quello indicato dalla normativa statale, sia per le forme associative di Comuni di cui all’articolo 14, comma 31, del decreto legge n. 78/2010, convertito dalla legge n. 122/2010, (5000 abitanti), sia per le Unioni di Comuni di cui all’articolo 16 del decreto legge n. 138/2011, convertito dalla legge n. 148/2011 (1000 abitanti). La Calabria (legge regionale n. 43/2011) ha previsto che le Unioni di cui all’articolo 16, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011, siano istituite in modo che la popolazione residente nei rispettivi territori sia di norma superiore a 4.000 abitanti. Per i Comuni di cui all’articolo 14, comma 28, del decreto legge n. 78 del 2010, invece, il limite demografico minimo è fissato in 7.000 abitanti.
[72] Su queste novità cfr. V. Lepore, Il D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Spending review) – Le modifiche in materia di gestioni associate di Comuni e di Unioni di Comuni, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 27 luglio 2012.
[73] Nella seduta dell’8 settembre 2011, infatti, il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge costituzionale recante “Soppressione di enti intermedi”, che disponeva la cancellazione dal testo costituzionale di ogni riferimento alla Provincia e attribuiva alle Regioni, previa intesa con il Consiglio delle autonomie locali, la competenza ad istituire forme associative fra Comuni per l’esercizio delle funzioni di area vasta. Cfr. E. Jorio, Si sopprimono le Province per sostituirle con i succedanei, in Astrid-Rassegna, 21 settembre 2011, n. 143. In precedenza la I Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, il 25 maggio 2011, aveva concluso l’esame delle proposte di legge costituzionale aventi ad oggetto la soppressione delle Province, conferendo al relatore il mandato a riferire in senso contrario sul provvedimento adottato come testo base (l’AC 1900 Donadi e altri). Il 7 luglio 2011 la Camera dei deputati ha poi bocciato a larga maggioranza un ordine del giorno sulla soppressione delle Province.
[74] Per un commento “a caldo” su tale riordino sia consentito rinviare a L. Castelli, La strada per mantenere la Provincia di Terni, in Corriere dell’Umbria, 2 agosto 2012.
[75] Nella camera di consiglio del 3 luglio 2013 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle previsioni contenute in questi decreti legge “in quanto il decreto legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio”. Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 220 del 2013.
[76] Tuttavia il provvedimento che individuava le nuove Province e istituiva le Città metropolitane (decreto legge 5 novembre 2012, n. 188, recante “Disposizioni urgenti in materia di Province e Città metropolitane”), è decaduto per mancata conversione in seguito alla crisi del Governo Monti.
[77] Anche perché l’articolo 1, comma 115, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013), ha rinviato al 31 dicembre 2013 il termine per la riforma organica delle Province.
[78] Prova ne siano, oltre ai ricorsi già decisi dalla Corte costituzionale sul riordino delle Province, quelli ancora pendenti davanti ad essa contro l’obbligatorietà dell’esercizio associato delle funzioni per i Comuni al di sotto dei 1.000 abitanti.
[79] In particolare, ad avviso della Corte, perché una disposizione statale possa costituire un principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica, sono necessarie due condizioni: che si limiti a porre obiettivi di riequilibrio finanziario, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; che non preveda in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi. Cfr. sentenza n. 326 del 2010.
[80] Corte costituzionale, sentenza n. 151 del 2012.