(Contributo, rivisto e integrato delle note, al Seminario “L'impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni. La prospettiva italiana, spagnola ed europea”, organizzato dall’ISSiRFA-CNR, dalla LUMSA e dall’Università di Macerata e svoltosi a Roma, presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA, il 13 novembre 2014).

 

1. Introduzione: la centralità dell’istruzione e della formazione professionale, tanto più in un quadro di crisi economica e occupazionale

2. Dall'"istruzione artigiana e professionale" alla "istruzione e … formazione professionale"

3. Gli ambiti che rientrano nella competenza residuale "istruzione e formazione professionale": gli interventi della giurisprudenza costituzionale

4. La legislazione e le politiche regionali

5. Spunti conclusivi
 
 
 

1. Introduzione: la centralità dell’istruzione e della formazione professionale, tanto più in un quadro di crisi economica e occupazionale
Il processo riformatore che ha investito il sistema scolastico e formativo (oltre che l’intero sistema amministrativo), che si è avviato negli anni Ottanta e ha vissuto diverse fasi, aveva tra le sue parole chiave “decentramento”, “autonomia scolastica” ma anche – per l’ambito che più da vicino interessa il nostro scritto –, l’idea di un diverso rapporto tra scuola e mercato del lavoro. Si tratta di un processo riformatore lungo, che ha registrato alti e bassi e che, invero, a oggi non è ancora arrivato del tutto a compimento[1].
Se ci soffermiamo soltanto sull’ultimo quindicennio, con riferimento al sistema di istruzione e formazione professionale, gli obiettivi alla base delle riforme costituzionali e legislative sembrano essere principalmente due: valorizzare specifiche peculiarità metodologiche e organizzative, soprattutto nel senso di sviluppare il rapporto con il territorio e facilitare l’inserimento degli studenti in contesti operativi reali; e, d’altro canto, delineare un sistema di istruzione e formazione professionale organico, integrato dentro il sistema educativo più ampio[2].
Come si cercherà di evidenziare, anche sotto questo profilo, il quadro è ancora in movimento e i risultati ancora lontani dagli obiettivi che il legislatore sembrava avere[3]. Del resto, lo scarso valore che le politiche italiane hanno attribuito alla formazione tecnica e professionale trova le sue cause indietro nel tempo[4]. E benché già nella Costituzione del 1948 la formazione artigiana e professionale fosse stata inserita tra le materie di competenza regionale, nemmeno l’attuazione delle Regioni, negli anni Settanta, è riuscita a determinare di fatto il passaggio di questa “materia” alle amministrazioni regionali.

2. Dall' "istruzione artigiana e professionale" alla "istruzione e formazione professionale"
Diversi ci sembrano i profili di interesse per la materia “istruzione e formazione professionale”. Oltre alle motivazioni di ordine generale richiamate nel paragrafo precedente, va anzitutto ricordato che si tratta di un titolo competenziale non del tutto “nuovo”: nel senso che, il testo originario della Costituzione menzionava già (naturalmente tra le materie di competenza ripartita) l’istruzione artigiana e professionale. In secondo luogo, si tratta dell’unico caso[5] in cui una materia risulta afferente all’articolo ex 117, quarto comma, della Costituzione non in quanto ricavata in via “residuale”, ma perché espressamente definita come tale[6].
Gli elementi appena ricordati potrebbero, dunque, portare a pensare che si tratti di una materia di facile definizione, nel senso che, rispetto a quanto emerso con riferimento alla maggior parte di materie elencate dall’articolo 117 Cost., in questo caso il legislatore di revisione costituzionale è stato “chiaro” e, dunque, non c’è motivo per ritenere che il riparto tra ciò che spetta alla competenza statale e ciò che, viceversa, è da ritenere di competenza delle Regioni sia discutibile. Tuttavia, così non è. E prova ne è la giurisprudenza costituzionale in materia, non solo presente (e, dunque, di per sé sintomatica della presenza di un conflitto competenziale tra Stato e Regioni) ma anche di un certo interesse, nel senso che anche in questo caso è toccato alla Corte costituzionale ritagliare lo spazio del legislatore regionale e, soprattutto, segnare i “limiti” del legislatore statale.  
Del resto, in realtà, non c’è certo da stupirsi di tale complessità, da un lato, se solo si pensa all’intarsio creato sulla materia istruzione (nel suo complesso)[7], dall’altro alla scelta di aver “accostato” i due termini “istruzione” e “formazione” professionale; e non ultimo ai diversi titoli competenziali distribuiti tra il secondo e il terzo comma dell’articolo 117 che “interferiscono” con la materia alla nostra attenzione e che, dunque, possono lasciare spazio al legislatore statale per intervenire.
Provando a spostarci dal piano del riparto di competenza a quello dei “contenuti” della materia in oggetto, va detto che, nonostante il riparto di competenze, ex art. 117 Cost., non abbia inciso direttamente sulle competenze regionali in materia, tuttavia la riforma costituzionale (nel complesso), e successivamente la legge n. 53 del 2003, hanno provato a modificare il precedente quadro, soprattutto nell’ottica di superare la distinzione tradizionale che nel precedente assetto costituzionale si era venuta a creare tra “scuola” e “istruzione artigiana e professionale”[8].
Vigente l’originario Titolo V della Costituzione, l’istruzione artigiana e professionale, di fatto, veniva fatta coincidere solo con l’area extrascolastica del sistema formativo professionale. Per il vero, dopo il trasferimento delle funzioni in materia da parte dello Stato alle Regioni[9], in adempimento del precetto costituzionale, la giurisprudenza costituzionale si è soffermata sulla portata della materia in oggetto, precisando che l'istruzione professionale supera “l’ambito del concetto comunemente accolto in precedenza, in quanto ora si caratterizza per la diretta finalizzazione all’acquisizione di nozioni necessarie sul piano operativo per l’immediato esercizio di attività tecnico-pratiche, anche se non riconducibili ai concetti tradizionali di arti e mestieri”. La Corte costituzionale specifica, poi, che tale tipologia di istruzione si distingue dalla istruzione in senso lato, attinente all’ordinamento scolastico, di competenza statale, “la quale, pur se impartisce conoscenze tecniche utili per l’esercizio di una o più professioni, ha come scopo la complessiva formazione della personalità”[10].
Nella stessa pronuncia, i giudici costituzionali chiarivano inoltre che dai decreti di trasferimento delle funzioni non si può ricavare una nozione restrittiva della "istruzione professionale", nel senso di riferirla ai soli lavoratori dipendenti, perché una tale lettura é smentita dalle disposizioni della normativa in vigore che testualmente attribuisce alle Regioni “ogni altra funzione in ordine alla formazione ed addestramento professionale” (art. 1, lett. h)[11].
In questa fase storica, dunque, la formazione professionale viene intesa come strumento attraverso il quale garantire pari dignità sociale e diritto di “cittadinanza sociale” nell’ordinamento. E la Costituzione (a partire dall’articolo 35) evidenzia lo stretto collegamento tra formazione professionale e realtà locali, collegamento sottolineato dalla competenza che già l’originario articolo 117 della Costituzione attribuiva alle Regioni[12].
Successivamente alla novella costituzionale, come si accennava in apertura, per il vero, i problemi legati alla “portata” della materia (istruzione e formazione professionale) non svaniscono del tutto.
Al di là della “etichetta” da attribuirle alla materia in questione[13], va anzitutto ricordato che, a breve distanza dall’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, il legislatore statale ha approvato la legge 28 marzo 2003, n. 53 (alla quale negli anni successivi sono seguiti una serie di decreti legislativi di attuazione), con la quale ha delegato al Governo la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale, delega che prevede anche la riforma dei cicli scolastici, fondata sull’integrazione tra istruzione e formazione professionale.
Senza entrare approfonditamente nella disamina della legge n. 53 del 2003, quello che ci preme qui mettere in evidenza è che l’impostazione della legge (e, soprattutto, del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226, che detta le norme generali e livelli essenziali delle prestazioni relativi al secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, a norma dell'articolo 2 della legge 28 marzo 2003, n. 53) sembra quella di “sganciare” il sistema di istruzione e formazione professionale dalle norme generali in materia di istruzione, prevedendo che le Regioni “nell’esercizio delle loro competenze legislative esclusive in materia di istruzione e formazione professionale e nella organizzazione del relativo servizio … assicurano i livelli essenziali delle prestazioni definiti” dal decreto legislativo citato[14].
D’altro canto, però, va detto che (quasi in controtendenza rispetto alla considerazione appena formulata) nella stessa legge n. 53 del 2003, e nel successivo decreto legislativo n. 226 del 2005, non si fa esplicita menzione della differenziazione tra i due percorsi del sistema dell’istruzione secondaria superiore e del sistema dell’istruzione e formazione professionale, che insieme compongono il sistema educativo di istruzione e formazione. Al contrario, sembra invece che si vogliano mettere in evidenza gli aspetti (e le finalità) comuni[15], evidentemente al fine di  favorire percorsi di mobilità dall’uno all’altro (elemento quest’ultimo che, in effetti, – come si dirà a breve – costituisce l’asse del sistema di istruzione e formazione professionale).  
Ecco allora che, nell’intreccio di titoli competenziali e in assenza di una chiara definizione da parte del legislatore statale (in occasione della fissazione dei livelli essenziali), è toccato ancora una volta alla Corte costituzionale – di fronte alle questioni a essa sollevate – definire i contorni della materia e delimitare lo spazio del legislatore statale.

3. Gli ambiti che rientrano nella competenza residuale "istruzione e formazione professionale": le pronunce della giurisprudenza costituzionale
L’impressione generale che si ricava dalle decisioni giurisprudenziali in materia (benché certamente la Corte costituzionale si sia mostrata più determinata a valorizzare il ruolo delle Regioni, rispetto ad altri ambiti, e anzitutto a quello dell’istruzione tout court) è di una materia aggrovigliata, in cui è difficile trovare ampi spazi per il legislatore regionale, se non per alcuni profili, i quali devono comunque tenere conto di una serie di interferenze.
Un primo aspetto che viene in evidenza riguarda proprio una questione di tipo “terminologico”: siamo di fronte a un’endiadi o si tratta di due oggetti (istruzione e formazione professionale) differenti?
L’impressione di chi scrive, per il vero, è che non sia facile dare una risposta univoca. Specie se ci si pone nell’ottica di studiare le politiche regionali, ci pare che l’espressione vada intesa come un’endiadi[16].
Questa sembra peraltro anche l’impostazione della giurisprudenza costituzionale, almeno leggendo una delle prime (e più significative) pronunce giurisprudenziali in materia, laddove la Corte costituzionale prova a dare una prima definizione di tale titolo competenziale. In tale occasione, chiarisce la Corte che la competenza delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale «riguarda la istruzione e formazione professionale pubblica, che può essere impartita sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possono approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengono stipulati accordi». Il passo successivo che la Corte compie, nella medesima sentenza, è poi quello di tenere distinta dalla formazione pubblica, appena richiamata, la disciplina della istruzione e della formazione professionale che i privati datori di lavoro somministrano in ambito aziendale ai loro dipendenti, la quale “rientra invece nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile”.
Ci sono altre decisioni, successive, nelle quali la Corte pare intendere l’espressione “istruzione e … formazione professionale”, nel senso che il “nucleo” della disciplina è rappresentato dalla seconda (la formazione professionale), e che il termine che la precede è da intendere non come “istruzione” tout court (cui nell’articolo 117 sono ascrivibili diversi titoli di competenza), ma come istruzione finalizzata a realizzare la formazione professionale[17].
Non mancano, poi, decisioni in cui la Corte costituzionale fa riferimento alla materia “formazione professionale” (lasciando sullo sfondo l’istruzione) chiarendo che si tratta dell’“attività di addestramento del lavoratore, per iniziativa di un soggetto pubblico e finalizzato precipuamente all’acquisizione delle cognizioni necessarie all’esercizio di una particolare attività lavorativa[18] (competenza, peraltro, conferita alle autonomie territoriali anche nella vigenza dell’originario Titolo V). Ovvero che – specie con espresso riferimento al quadro di competenze disegnato dalla novella dell’articolo 117 della Costituzione – “il nucleo” della competenza in materia di formazione professionale “cade sull’addestramento teorico e pratico offerto o prescritto obbligatoriamente (sentenza n. 372 del 1989) al lavoratore o comunque a chi aspiri al lavoro”, dovendo distinguere questa sfera dalle competenze, entrambe di tipo concorrente, in materia di istruzione e in materia di professioni[19].

4. La legislazione e le politiche regionali
Nel quadro delle competenze appena tracciato, le Regioni vengono dunque considerate come l’ente meglio in grado di programmare l’offerta formativa professionalizzante, coerentemente con le caratteristiche locali e assecondando la caratterizzazione territoriale del mercato del lavoro. Alle Regioni è dunque affidato il compito di realizzare un modello che dia credibilità ai percorsi di istruzione professionale e che li presenti quale reale alternativa ai percorsi liceali.
Da quanto fin qui detto, però, rimane evidente che alle Regioni si impongono una serie di “limiti”. Anzitutto, quelli – già messi in evidenza – dei livelli essenziali delle prestazioni, individuati con il decreto-legislativo n. 226 del 2005, che costituiscono requisiti per l’accreditamento delle istituzioni che realizzano i percorsi di istruzione professionale da parte delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano (benché la stessa giurisprudenza costituzionale, come si è cercato di richiamare, abbia “valorizzato” la competenza regionale in materia, ponendo una serie di “paletti” al legislatore statale).
Con un successivo provvedimento normativo statale (il decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, in particolare l’articolo 13) si è nuovamente intervenuti sull’istruzione “tecnico-professionale”, prevedendo un riordino degli istituti che fanno parte di tali percorsi[20], nonché disponendo la realizzazione di organici raccordi tra i percorsi degli istituti tecnico-professionali e i percorsi di istruzione e formazione professionale, finalizzati al conseguimento di qualifiche e diplomi professionali di competenza delle Regioni compresi in un apposito repertorio nazionale (raccordo da realizzarsi concretamente attraverso l’adozione di linee guida, predisposte dal Ministro della pubblica istruzione, d’intesa con la Conferenza unificata).
Tali linee guida, in effetti, sono state adottate con il decreto del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, del 18 gennaio 2011, e mirano appunto a realizzare raccordi tra i percorsi quinquennali degli istituti professionali e i percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFP), con molteplici obiettivi, tra cui: sostenere e garantire l’organicità sul territorio dell’offerta dei percorsi a carattere professionale del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, nel rispetto dei diversi ordinamenti e della programmazione regionale dell’offerta, in rapporto ai fabbisogni professionali ed alle specifiche connotazioni del mercato del lavoro; facilitare i passaggi tra i sistemi formativi; facilitare e sostenere forme di organizzazione territoriale dell’offerta del secondo ciclo di istruzione e formazione.
Al di là delle finalità appena richiamate, quello che ci pare interessante da sottolineare – anche poi al fine di analizzare le politiche regionali – è la costruzione di un regime “sussidiario” degli istituti professionali (statali), rispetto al sistema dell’istruzione e formazione professionale (regionale)[21]. Detto altrimenti, si prevede che gli studenti iscritti ai percorsi quinquennali degli istituti professionali, finalizzati all’acquisizione dei diplomi di istruzione professionale, possono conseguire al termine del terzo anno anche i titoli di qualifica professionale, validi per l’assolvimento del diritto dovere all’istruzione e alla formazione. In tal caso, gli istituti professionali dovranno in particolare caratterizzare l’offerta sul territorio, in rapporto alle esigenze formative del mondo del lavoro; nonché arricchire i percorsi dell’istruzione professionale in rapporto all’ordinamento regionale, sulla base di specifiche previsioni e interventi a carico delle Regioni; e, ancora, prevedere un raccordo con la specifica disciplina regionale del sistema di IeFP. Il modello appena richiamato viene definito “offerta sussidiaria integrativa”, e si differenzia dall’“offerta sussidiaria complementare”, nella quale gli studenti possono conseguire i titoli di qualifica e diploma professionale presso gli istituti professionali, i quali attivano classi che assumono gli standard formativi e la regolamentazione dell’ordinamento dei percorsi di IeFP, determinati da ciascuna Regione nel rispetto dei livelli essenziali previsti dal decreto legislativo n. 226 del 2005.
Se vogliamo provare a verificare come (e se) le Regioni si sono fatte carico di questa politica[22], va detto, anzitutto, che si tratta di un ambito in cui non ci si può fermare al dato legislativo. Se ci fermassimo soltanto a quest’ultimo, infatti, certamente potremmo evidenziare quali Regioni hanno dato attuazione[23], sul punto, all’articolo 117 della Costituzione e alla normativa statale fin qui richiamata, ma non saremmo comunque in grado di mettere in evidenza cosa le Regioni stanno concretamente facendo.
Benché ad oggi molte Regioni, in effetti, abbiano adottato leggi regionali che in varia misura disciplinano il sistema di istruzione e formazione professionale, è possibile registrare una forte differenziazione territoriale[24], dovuta anzitutto all’utilizzo del sistema sussidiario degli istituti professionali. Detto altrimenti, al di là dell’approvazione di leggi regionali in materia, vi sono Regioni in cui l’istruzione e formazione professionale è assicurata pressoché interamente (o, comunque, prevalentemente) dagli istituti professionali[25].
Il sistema di istruzione e formazione professionale (inteso come disciplina regionale dei percorsi di istruzione e formazione professionale e come iscrizione del finanziamento delle strutture di istruzione e formazione professionale nei bilanci regionali), dunque, a tutt’oggi non è assicurato da tutte le Regioni.
Vi sono Regioni in cui il diritto-dovere di istruzione e formazione professionale è assicurato non da un sistema regionale di strutture accreditate, ma quasi esclusivamente ricorrendo alle ore di flessibilità concesse agli istituti professionali. Al di là dei vincoli posti dal legislatore statale e dalla giurisprudenza costituzionale, dunque, molti legislatori regionali non hanno utilizzato lo spazio loro concesso, e la possibilità di sviluppare sistemi formativi differenziati e calati sulle realtà territoriali, e per questo maggiormente in grado di rispondere alle esigenze occupazionali e lavorative[26]. Insomma, il legislatore regionale non è riuscito, in questo ambito, a fare un salto di qualità, superando le ridotte competenze che aveva in materia di istruzione artigiana e professionale, e cogliendo ad esempio l’importanza di disciplinare un ambito in cui realizzare importanti collegamenti tra riconoscimento del titolo di studio e conseguimento di quello per l’avviamento al lavoro.
Dall’analisi delle discipline legislative regionali in materia si evince che anche le Regioni che hanno avviato percorsi di istruzione e formazione professionale, erogati tramite strutture accreditate, chiedono comunque un “aiuto” agli istituti professionali, per lo più attraverso la sussidiarietà integrativa e, in alcuni casi, anche attraverso quella complementare, creando quindi una commistione tra i due percorsi[27].
Se, dunque, l’idea originaria era quella di affidare alle Regioni una competenza “esclusiva” sui percorsi di istruzione a carattere professionalizzante, nella convinzione che si trattasse dell’ente di governo meglio in grado di programmare l’offerta formativa in tale ambito, in modo coerente con le caratteristiche locali e assecondando la caratterizzazione territoriale del mercato del lavoro, le Regioni si sono mostrate (almeno alcune) restie a svolgere in autonomia questo compito.
Al di là delle generalizzazioni, non mancano, però, esperienze regionali interessanti. Tra queste, ad esempio, il modello disegnato dalla regione Emilia-Romagna, la quale ha optato – in linea con la disciplina statale – per un modello integrato, di “alternanza  scuola-lavoro”[28]. La Regione ha così stabilito che al termine dell’ultimo anno di scuola superiore di primo grado gli studenti proseguano il percorso di studio frequentando un percorso “tradizionale” o, in alternativa, percorsi integrati con la formazione professionale, caratterizzati per l’appunto dall’alternanza di attività teoriche e pratiche realizzate dalla scuola superiore in collaborazione con la formazione professionale[29].
L’idea alla base di tale disciplina è quella di permettere allo studente, al termine del primo anno di frequenza del percorso integrato, di ripensare alla propria scelta, ad esempio, decidendo di iscriversi per il secondo anno ad un corso di istruzione “tradizionale”, ovvero di proseguire con il percorso integrato, o ancora di dedicarsi esclusivamente alla formazione professionale.
L’istituto dell’“alternanza scuola-lavoro” è definito dalla disciplina emiliano-romagnola come una «modalità didattica, non costituente rapporto di lavoro, realizzata nell’ambito dei percorsi di istruzione o di formazione professionale, anche integrati, quale efficace strumento di orientamento, preparazione professionale e inserimento nel mondo del lavoro»[30]. Ovvero, ancora, si sottolinea come la formazione professionale sia un «servizio pubblico che predispone e attua sul territorio regionale un’offerta diversificata di opportunità formative professionalizzanti, al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro e lo sviluppo professionale». Un servizio «ispirato ai criteri dell'occupabilità, intesa come concreta possibilità di inserimento lavorativo in esito alla formazione; dell'adattabilità, intesa come capacità delle imprese e dei lavoratori di adeguarsi a nuovi processi produttivi o a nuove attività lavorative; dell'imprenditorialità, intesa come capacità di attivazione e gestione autonoma di iniziative imprenditoriali». L’idea, dunque, è quella di creare uno stabile (e non sporadico, affidato a tirocini) rapporto tra scuola territorio e organizzazioni economiche (locali), che renda più efficace e stabile il collegamento tra la formazione in aula e l’esperienza.
Sull’alternanza scuola-lavoro ha puntato anche la Regione Toscana la quale però pare, in particolare, aver investito sullo strumento del “tirocinio”, inteso come un mezzo per «agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro», ovvero come una esperienza formativa, orientativa o professionalizzante da realizzare presso soggetti pubblici e privati nel territorio regionale, e per questo dunque possibile veicolo di immissione nella realtà lavorativa locale[31].
Infine, benché si tratti di una esperienza ancora da verificare, vale la pena segnalare una recente modifica introdotta in Lombardia, dove nell’ambito della disciplina sull’istruzione  e formazione professionale si è inserito un nuovo Capo, dedicato a quello che viene definito “sistema duale lombardo”, un percorso di istruzione e formazione professionale, che si caratterizza per un «raccordo sistematico, organico e continuo tra formazione e lavoro, riconoscendo il valore e il ruolo delle micro-imprese». L’idea alla base della disciplina legislativa (e in coerenza con il tessuto economico regionale) pare, dunque, quella sviluppare una integrazione tra scuola e lavoro, caratterizzata da periodi di formazione in aula e di apprendimento attraverso il lavoro, in modo da assicurare l'acquisizione di competenze generali e tecnico-professionali, spendibili nel mercato del lavoro[32].

5. Spunti conclusivi
Volendo provare a tirare le fila dell’analisi fin qui svolta e a tracciare alcune linee di tendenza, ci pare anzitutto di poter evidenziare che siamo di fronte a una politica ancora incompiuta[33].
A fronte di un ambito competenziale “residuale” regionale (e al netto della legislazione prodotta a livello regionale), ci troviamo in un ambito in cui persiste una normazione statale imponente, varia (nonché, talvolta, confusa) e affastellata, nella quale non sempre è facile districarsi: e certamente questo vale per i soggetti (gli studenti e le loro famiglie) cui il diritto-dovere di istruzione e formazione professionale è principalmente rivolto[34]. Questo ci pare sia, ad esempio, molto evidente nella commistione che si è creata tra percorsi di istruzione professionale, offerto dalle Regioni tramite strutture accreditate, e quelli offerti attraverso l’intervento sussidiario o complementare degli istituti professionali. L’impressione è che sia difficile cogliere le differenze, a partire ad esempio dalla “specializzazione” e dal “reclutamento” degli insegnamenti, ma anche dagli aspetti che riguardano il collegamento con il territorio e, di conseguenza, con il tessuto produttivo.
Sul piano della legislazione regionale, poi, quello che ci pare emergere più chiaramente è la difficoltà di costruire una politica che davvero metta insieme l’istruzione e la formazione professionale con il mondo produttivo, naturale sbocco del percorso formativo intrapreso. Salvo alcune esperienze (richiamate nel paragrafo precedente), in molte discipline regionali vi è la pressoché totale assenza del collegamento con quella che ci pare dovrebbe essere uno degli elementi fondamentali del percorso di istruzione e formazione professionale, ovvero l’alternanza scuola-lavoro[35].
Sotto questo profilo – e spostandoci quindi sul piano di quello che potrà essere l’evoluzione della materia che abbiamo trattato – vale la pena in chiusura evidenziare due punti. Da un lato, che la recente legge 13 luglio 2015, n. 107, Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti, la quale per il vero non interviene direttamente sul sistema di istruzione e formazione professionale, introduce alcune misure che vanno nel senso di valorizzare e incrementare l’alternanza scuola-lavoro[36].
Dall’altro, e infine, non possiamo non richiamare brevemente il “posto” che il disegno di legge di riforma costituzionale, in discussione, assegna alla materia “istruzione e formazione professionale”[37]. L’impressione è che – come del resto per altre materie – si voglia “cristallizzare” l’assetto venutosi a creare: così, viene affidata alla competenza esclusiva statale la definizione delle «disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale»[38], lasciando alle Regioni (oltre a quanto non specificamente individuato) l’«organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale».
 
 

[1]  A. Pajno, Federalismo scolastico, in il Mulino, 2002, p. 490 e ss., dove l’A. – che scrive di una attuazione al di sotto delle aspettative – ripercorre le tappe delle riforme che hanno interessato il sistema scolastico, fino alla novella del Titolo V della Costituzione.
[2] Sul punto, D. Nicoli, Il sistema di istruzione e formazione professionale in Italia. Una risorsa non ancora valorizzata, in Scuola democratica, 2013, 195 e ss., l’A. evidenzia che la crisi economica ha portato ad una maggiore inquietudine circa la preoccupazione per il lavoro, che ha fatto registrare il calo delle iscrizioni all’università e ai licei a favore di tecnici e professionali. Nello stesso scritto si mette, poi, in evidenza che «in piena recessione, oltre 100.000 richieste di lavoro rimangono inevase per mancanza di persone con qualifiche e diplomi professionali». Collegato alla problematica da ultimo segnalata, vi è quella ulteriore della c.d. overeducation: la discrasia tra competenze richieste, specie dalle imprese, e dunque per lo più di tipo tecnico e quelle acquisite dai giovani nel percorso di studi (per lo più di tipo teorico), sulla quale si sofferma F. Pastore, Le difficili transizioni scuola-lavoro in Italia. Una chiave di interpretazione, in Economia dei servizi, 2012, p. 117 ss.   
[3] Per un raffronto con alcuni sistemi di istruzione e formazione professionale di Paesi europei, G. Gola – G. Tacconi, Osservatorio sulle politiche della IeFP nelle Regioni italiane. Il sistema formativo IeFP italiano di tipo “sussidiario”: quale curvatura verso una “VET europea”?, in Rassegna CNOS, n. 3, 2014, p. 171 e ss.
[4] E. Pattarin, Carenze e limiti dell’istruzione e formazione professionale, in Scuola democratica, 2013, p. 691 e ss., dove l’A. ripercorre gli antefatti storici che, a partire dalla riforma Casati del 1859, sono sintomatici di una “trascuratezza verso l’istruzione tecnica e professionale”. 
[5] Invero, anche all’articolo 117, comma secondo, viene espressamente esclusa, dalla materia “ordine pubblico e sicurezza”, la “polizia amministrativa locale” (lett. h)).
[6] Sulla tecnica utilizzata dalla Corte costituzionale per individuare le materie di competenza residuale, R. Bin, I criteri di individuazioni delle materie, in Le Regioni, 2006, spec. p. 899 e ss., il quale parla di “tecnica del carciofo”, ossia di individuazione delle materie di competenza residuale attraverso la “progressiva  eliminazione delle «foglie» su ci si appuntano interessi ascrivibili allo Stato”. Sul riparto di competenze, per tutti, S. Mangiameli, Il riparto di competenze normative nella riforma regionale, in La riforma del regionalismo italiano, Giappichelli, 2002, p. 107 e ss.
[7] Nel nostro scritto non ci occuperemo della materia “istruzione” in senso lato, essendo oggetto specifico del saggio di E. Longo, in questo Volume. Per una ricostruzione dei diversi titoli competenziali in materia, sia consentito rinviare a E. Gianfrancesco, G. Perniciaro, Le Regioni e la materia dell’istruzione tra uniformità e differenziazione. Una breve analisi di ciò che (non) poteva essere e non è stato, in Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle regioni, a cura di Luciano Vandelli e Franco Bassanini, il Mulino, 2012, p. 95 e ss., dove si mette in evidenza  che vi è la “coesistenza di una competenza legislativa statale che è allo stesso tempo esclusiva (norme generali sull’istruzione ex art. 117, comma 2, lett. n)) e limitata ai principi fondamentali (materia dell’istruzione ex art. 117, comma 3)”. Si ricorda, poi, che va “poi considerato che la competenza legislativa esclusiva appena menzionata è derogabile (cioè, deve poter essere derogata) a favore di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia a favore delle Regioni che intendano avvalersi della clausola di differenziazione di cui al terzo comma dell’art. 116 Cost.”. E, ancora, che “la competenza legislativa esclusiva statale, così come quella ripartita dello Stato e delle Regioni, devono far salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, mentre resta esclusa dall’area della competenza ripartita l’istruzione e formazione professionale, da ricondurre nell’alveo della competenza esclusivo-residuale delle Regioni ex art. 117, comma 4, Cost.”. Senza infine “sottovalutare le «incursioni» che negli ambiti, a vario titolo, di competenza regionale possono operare le materie trasversali di esclusiva competenza statale della determinazione dei livelli delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
[8] Nella Carta costituzionale vigente si fa riferimento all’“istruzione”, in relazione all’istruzione inferiore ed alla componente non professionalizzante dell’istruzione superiore, e all’“istruzione e formazione professionale”, con riguardo agli istituti tecnici, a quelli professionali e ai centri di formazione.
[9] Si pensi al decreto ministeriale 14 gennaio 1972, di esecuzione della legge 1971, n. 426.
[10] Corte costituzionale, sentenza n. 89 del 1977, la quale aveva a oggetto un conflitto di attribuzione sollevato da alcune regioni rispetto all’approvazione del decreto del Ministro per l'industria, 26 maggio 1975, il quale viene annullato dalla decisione citata. Alla base della decisione, il fatto che i corsi previsti “non risultano rivolti ad una formazione culturale di tipo generale, sibbene a fornire precisamente quelle cognizioni tecnico-pratiche (come le conoscenze merceologiche) necessarie per l'esercizio dell'attività di commerciante”.
[11] In successive pronunce, la Corte costituzionale è tornata più volte a chiarire che “in materia di istruzione professionale, la definizione dei programmi e l'organizzazione dei corsi spetti alla sfera delle attribuzioni regionali, salva la presenza di possibili forme di coordinamento e controllo centrale dirette a garantire standards minimi quantitativi e qualitativi, relativi ai corsi, nonchè verifiche relative alla fase della valutazione finale del risultato della frequenza ai corsi, ove questa comporti il rilascio di titoli abilitanti su scala nazionale”. In questo senso, Corte costituzionale, sentenza n. 372 del 1989, dove vengono anche richiamate le  sentenze n. 216 del 1976, n. 89 del 1977 e n. 165 del 1989. Aggiunge, inoltre, la Corte che “questo non conduce, peraltro, a escludere la possibilità che, ai fini dell'organizzazione dei diversi corsi professionali e della definizione dei criteri didattici e dei programmi, sia dato spazio adeguato anche all'apporto collaborativo degli organismi rappresentativi della categoria professionale (…): tale apporto-ben giustificato in relazione al peculiare contenuto tecnico e di esperienza proprio delle materie oggetto dei corsi professionali di cui é causa-potrà essere definito, in forme appropriate, tanto in sede di eventuale formulazione di nuovi principi da parte della legge statale quanto in sede di legislazione regionale”.
[12] Sul punto, si veda, G. Laneve, Regioni e istruzione e formazione professionale. Profili costituzionali, Cacucci, 2008.
[13] Come fa notare M. Benvenuti, Un “problema nazionale”. Spunti ricostruttivi in tema di “istruzione” e “istruzione e… formazione professionale”, tra Stato e Regioni, a partire dalla giurisprudenza costituzionale, in federalismi.it, 14 gennaio 2015, p. 40, nella stessa giurisprudenza costituzionale la materia istruzione e formazione professionale viene, talvolta, definita di competenza “residuale”, talaltra di competenza “esclusiva” regionale, o ancora “primaria”. Ma come si proverà a dire nel testo, probabilmente nessuna di queste “categorie” descrive bene la tipologia (e l’assetto) che di fatto si è venuto a creare.
[14] Sul quadro tracciato dalla legge n. 53 del 2003 e dai successivi decreti legislativi di attuazione, in chiave critica, A. Poggi, Un altro pezzo del “mosaico”: una sentenza importante per la definizione del contenuto della competenza legislativa concorrente delle regioni in materia di istruzione, in federalismi.it, n. 3 del 2004. Sui livelli essenziali delle prestazioni come limite alla legislazione regionale, si vedano le interessanti osservazioni di A. Poggi, Istruzione, formazione professionale e Titolo V: alla ricerca di un (indispensabile) equilibrio tra cittadinanza sociale, decentramento regionale e autonomia funzionale delle Istituzioni scolastiche, in Le Regioni, 2002, p. 771 e ss., dove l’A., dopo aver ricordato che il “diritto alla istruzione-formazione in quanto diritto sociale è costitutivo del diritto di «cittadinanza», inteso quale diritto all’eguaglianza sostanziale, cioè alla rimozione, da parte dei pubblici poteri, delle situazioni di impedimento all’esercizio dei diritti”, evidenzia che le norme generali sull’istruzione e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni “vanno ricostruite e riempite di contenuto in relazione alla finalità di garantire, in ciò che è essenziale e generale, l’eguaglianza sostanziale su tutto il territorio nazionale”. E che, dunque, la competenza dello Stato in ordine alla fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni, “in quanto indirizzata a garantire l’eguaglianza sostanziale all’interno della comunità nazionale vincola qualunque competenza legislativa regionale in materia di istruzione-formazione (anche quelle attribuite alle Regioni in modo esclusivo) al raggiungimento di determinati obiettivi di giustizia distributiva”.
[15] Se, infatti, nel quadro normativo (e giurisprudenziale) che aveva come riferimento l’originario Titolo V della Costituzione, si differenziava l’istruzione intesa in senso lato, finalizzata alla “formazione della personalità”, dall’istruzione professionale diretta all’acquisizione di nozioni necessarie sul piano operativo per l’immediato esercizio di attività tecnico-pratiche, nel decreto legislativo n. 226 del 2005 si mette invece in evidenza che “nel secondo ciclo del sistema educativo si persegue la formazione intellettuale, spirituale e morale, anche ispirata ai princìpi della Costituzione, lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla collettività nazionale ed alla civiltà europea” (art. 1, comma 3).
[16] Di diverso avviso, M. Benvenuti, Un “problema nazionale”. Spunti ricostruttivi in tema di “istruzione” e “istruzione e… formazione professionale”, tra Stato e Regioni, a partire dalla giurisprudenza costituzionale, cit., p. 40, dove l’A. si sofferma ampiamente e puntualmente sul complesso della giurisprudenza costituzionale in materia di istruzione e formazione professionale.
[17] Diversamente inteso non si capirebbe, nel complesso dei titoli che ruotano intorno alla materia “istruzione”, perché l’istruzione verrebbe nuovamente richiamata. In questa direzione sembra andare anche una decisione della Corte costituzionale (sentenza n. 213 del 2009), su una legge della Provincia di Bolzano, nella quale si evidenzia che la disciplina del passaggio tra sistemi rientra tra i principi fondamentali della materia dell’istruzione, tenuto conto che “il sistema della formazione professionale e quello dell’istruzione costituiscono parti distinte del sistema nazionale di istruzione” e che per “connetterle, vanno adottate forme di raccordo necessariamente poste dallo Stato, dal momento che non possono variare a seconda dell’area territoriale di riferimento”. Per un commento sulla decisione, M. Troisi, La Corte tra “norme generali sull’istruzione” e “principi fondamentali”. Ancora alla ricerca di un difficile equilibrio tra (indispensabili) esigenze di uniformità e (legittime) aspirazioni regionali, in forumcostituzionale.it.
[18] Corte costituzionale, sentenza n. 250 del 2009.
[19] Corte costituzionale, sentenza n. 108 del 2012, sulla quale si veda il commento di C. Bertolino, Nuovi spazi di intervento per le Regioni in materia di “professioni” e “formazione professionale”?, in Le Regioni, 2012, p. 1044 e ss.
[20] Per quanto riguarda il riordino degli istituti professionali si veda anche il decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 87, Regolamento recante norme per il riordino degli istituti professionali, a norma dell'articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
[21] La previsione era già stata inserita nel decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 87, laddove si legge che «3. Gli istituti professionali possono svolgere, in regime di sussidiarietà e nel rispetto delle competenze esclusive delle Regioni in materia, un ruolo integrativo e complementare rispetto al sistema di istruzione e formazione professionale di cui al Capo III del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226, ai fini del conseguimento, anche nell'esercizio dell'apprendistato, di qualifiche e diplomi professionali previsti all'articolo 17, comma 1, lettere a) e b), inclusi nel repertorio nazionale previsto all'articolo 13, comma 1-quinquies del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 2 aprile 2007, n. 40, secondo le linee guida adottate ai sensi del comma 1-quinquies dell'articolo medesimo.» (art. 2, comma 3).
[22] Alla base contributo è, infatti, l’obiettivo –puntualmente colto, con riferimento all’occasione di studio intesa nel suo complesso, da R. Bin, e segnalato nel suo intervento alla Tavola rotonda del seminario (R. Bin, L’impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni, in questo Volume, e già pubblicato in www.issirfa-spoglio.cnr.it, aprile 2015) – di provare a “valutare”, attraverso i dati, se “sistematicamente, la tutela dei diritti viene a mancare in una Regione”.
[23] Calabria, Campania, Emilia-Romagana, Liguria, Lombardia, Piemonte, Puglia e, da ultimo, Lazio, nonché le Province autonome di Trento e Bolzano, hanno approvato leggi regionali in materia.
[24] Segnala una sistema fortemente diseguale sul territorio, D. Nicoli, Il sistema di istruzione e formazione professionale in Italia. Una risorsa non ancora valorizzata, cit., p. 201: in particolare, nel contributo citato si evidenziano le differenze che caratterizzano le tre diverse aree territoriali (Nord Italia e parte del Centro, dove si registra una offerta professionalizzante abbastanza ampia; l’area intermedia, che vede attivi specie gli Istituti professionali; l’area del Centro e del Sud, dove le istituzioni formative di fatto non sono presenti).
[25] ISFOL, Istruzione e formazione professionale: una chance vocazionale. Rapporto di monitoraggio delle azioni formative realizzate nell’ambito del diritto-dovere, febbraio 2015, Roma, nel Rapporto (dove sono puntualmente riportati i dati aggregati e per ciascuna Regione), si evidenzia che, “piuttosto che il principio di sussidiarietà, che prevedeva il supporto delle istituzioni scolastiche nei territori dove l’offerta IeFP delle Istituzioni formative non fosse riuscita a coprire la domanda di formazione, si sia di fatto affermato un principio di progressiva sostituzione dei percorsi svolti presso gli Istituti Professionali di Stato rispetto a quelli realizzati presso i Centri accreditati”. E si segnala la “perplessità che i percorsi IeFP possano essere realizzati, in molti territori, unicamente dagli Istituti Professionali, che non sono sempre apparsi in grado di condurre a successo formativo gli allievi con maggiori difficoltà ed i cui esiti occupazionali continuano a risultare inferiori a quelli usciti dalle Istituzioni Formative”.
[26] È certo da considerare che sull’attuazione delle politiche in materia di istruzione e formazione professionale abbia giocato un ruolo importante anche  l’elemento economico-finanziario: “appoggiandosi” sugli istituti professionali, infatti, le Regioni “scaricano” (almeno in buona parte) sul bilancio statale il finanziamento della istruzione e formazione professionale (nel senso che costi di docenti e strutture sono a carico del ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca).
[27] Nel Rapporto ISFOL sull’anno scolastico 2013-2014 (l’ultimo al momento disponibile), si mette in evidenza anzitutto che nel “corso degli ultimi anni il valore complessivo degli iscritti alla IeFP continua ad aumentare, con un ritmo assai consistente per quanto riguarda i percorsi scolastici, mentre, a partire dall’annualità 2010-11, l’offerta dei percorsi svolti presso i Centri accreditati (Istituzioni Formative) sembra aver quasi arrestato il trend di crescita che aveva caratterizzato gli anni precedenti, fenomeno da mettere in relazione più alla scarsità di risorse finanziarie dedicate (ed alla complessità dei processi decisionali che determinano tempi lunghi per l’erogazione delle risorse) che alla mancanza di domanda da parte dei giovani e delle famiglie”. In particolare, nel corso del 2013-14, gli iscritti al triennio presso i Centri di formazione superano le 130 mila unità, con un aumento del 2,2% rispetto all’annualità precedente, mentre gli iscritti ai percorsi IeFP svolti a scuola superano i 185 mila giovani, con una crescita del 13,9%. Se si guardano, poi, i dati relativi alle singole Regioni e Province autonome, si vede che – a fronte delle Province autonome di Trento e Bolzano la cui offerta formativa è soddisfatta interamente tramite le istituzioni formative – vi sono Regioni in cui, viceversa, l’istruzione e formazione professionale è garantita soltanto per il tramite della sussidiarietà degli istituti professionali (così è in Campania, Puglia, Molise, Abruzzo, Basilicata, Marche). Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Direzione generale per le politiche attive, i servizi per il lavoro e la formazione, ISFOL, Istruzione e formazione professionale: una chance vocazionale, a.f. 2013-14,  XIII Rapporto di monitoraggio delle azioni formative realizzate nell’ambito del diritto-dovere, marzo 2015, disponibile on line: http://www.formafp.it/sites/default/files/documenti/ricerche/2098.pdf.
[28] Per avere un quadro completo della disciplina del sistema di istruzione e formazione professionale in Emilia-Romagna, si vedano, la legge 30 giugno 2003, n. 12, Norme per l’uguaglianza delle opportunità di accesso al sapere, per ognuno e per tutto l’arco della vita, attraverso il rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale, anche in integrazione tra loro, e la legge regionale 30 giugno 2011, n. 5, Disciplina del sistema regionale dell'istruzione e formazione professionale. Entrambe le discipline hanno subito negli anni successivi numerose novelle.
Il modello adottato dalla Regione Emilia-Romagna, in effetti, ha rappresentato per alcune Regioni una sorta di “modello”: così sembra, ad esempio, per la legge regionale Umbria, 23 dicembre 2013, n. 30, Disciplina del sistema regionale di istruzione e formazione professionale (soprattutto per quanto riguarda la scelta di far frequentare a tutti gli studenti del primo anno gli istituti professionali, lasciando poi la scelta, dal secondo anno, di proseguire presso lo stesso istituto o di optare per una centro di formazione professionale).
[29] Ai sensi della disciplina regionale, «gli interventi integrati nel primo biennio della scuola secondaria superiore hanno lo scopo di rafforzare la capacità di orientamento e di scelta degli studenti, di presentare loro le tematiche del lavoro e delle professioni, di arricchire le competenze di base dei diversi indirizzi e piani di studio; nel successivo triennio hanno lo scopo di arricchire e specializzare i piani di studio, di consentire percorsi differenziati e personalizzati e di realizzare il collegamento tra offerta formativa e caratteristiche produttive, professionali, occupazionali dei territori, ivi compreso il contesto europeo».
[30] Legge regionale Emilia-Romagna n. 12 del 2003, articolo 9.
[31] Si tratta della legge regionale 26 luglio 2002 n. 32 (articoli 17 e ss.), Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro, come modificato da successivi interventi legislativi regionali. Invero, va evidenziato che, più in generale, sotto il profilo dell’alternanza scuola-lavoro, la Regione Toscana pare aver seguito il modello emiliano (si vedano, in particolare gli articoli 14 e 14-bis, come da ultimo novellati).
[32] Si veda la legge regione Lombardia, 6 agosto 2007, n. 19, Norme sul sistema educativo di istruzione e formazione della Regione Lombardia, come novellata dalla legge regionale 5 ottobre 2015, n. 30, Qualità, innovazione ed internazionalizzazione nei sistemi di istruzione, formazione e lavoro in Lombardia. Modifiche alle ll.rr. 19/2007 sul sistema di istruzione e formazione e 22/2006 sul mercato del lavoro, che ha in particolare aggiunto il Capo II-bis.
[33] La riforma complessiva del secondo ciclo di istruzione e formazione, che si articola in percorsi di istruzione di durata quinquennale (licei, istituti tecnici, istituti professionali) e percorsi di istruzione e formazione professionale, di competenza regionale è entrata in vigore dall’anno scolastico 2010/2011. A decorrere da tale data,  si può, al termine del 1° ciclo, assolvere l’obbligo di istruzione ed esercitare il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione sia nei percorsi di istruzione quinquennale, sia nei percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali (IeFP). Come si è evidenziato nello scritto, alcune leggi regionali sono addirittura successive a tale data.
Avanza alcuni suggerimenti per l’affermarsi di un compiuto e efficace sistema di istruzione e formazione professionale, G.M. Salerno, Contributi per la “Buona Formazione Professionale” per i giovani: l’ordinamento, in Rassegna CNOS, n. 1, 2015, spec. p. 147 e ss.
[34] Senza voler enfatizzare troppo il dato numerico (che, però, ci appare significativo), si segnala che nel rapporto Isfol (ISFOL, Istruzione e formazione professionale: una chance vocazionale. Rapporto di monitoraggio delle azioni formative realizzate nell’ambito del diritto-dovere, cit.), viene riportato un quadro riepilogativo della normativa e dei documenti di riferimento sul II ciclo e i percorsi di IeFP dal 2003 al 2014, nel quale si indicano 48 provvedimenti (tra legislazione primaria, secondaria, atti amministrativi, accordi e intese). Il rapporto è consultabile on line: http://sbnlo2.cilea.it/bw5ne2/opac.aspx?web=ISFL&opac=Default&ids=20252.
[35] Non a caso, la disciplina dell’“alternanza scuola-lavoro”, secondo l’ispirazione della legge di delegazione n. 53 del 2003, che peraltro riprende in parte principi già presenti nella precedente legislazione (la legge n. 196 del 1997, l’art. 68 della legge del 17 maggio 1999, n. 144 e la legge del 10 febbraio 2000, n. 30, poi abrogata dalla stessa legge di delegazione) costituisce uno degli elementi centrali del sistema integrato istruzione/formazione professionale, in armonia con orientamenti invalsi in ambito comunitario, nel quale si è andata rafforzando sempre più una politica indirizzata alla riqualificazione dell’istruzione e della formazione professionale quale fattore di sviluppo e di coesione sociale ed economica.
[36] Si veda, in particolare, l’articolo 1, commi 33-41, della legge 13 luglio 2015, n. 107.
[37] Si tratta del disegno di legge costituzionale 2613-B, Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione, approvato il 11 gennaio 2016 dalla Camera dei deputati, e che dovrà ora essere nuovamente approvato (senza ulteriori modifiche) in seconda deliberazione da entrambe le Assemblee legislative.
[38] Sembra peraltro interessante notare che tale previsione è contenuta nel comma 2, lett. o), insieme alle materie “o) previdenza sociale, ivi compresa la previdenza complementare e integrativa; tutela e sicurezza del lavoro; politiche attive del lavoro”.

Menu

Contenuti