Se il Senato delle Autonomie non «rappresenta la Nazione» *
 
Vincenzo Tondi della Mura
Ordinario di Diritto costituzionale - Facoltà di Giurisprudenza
Università del Salento
 
 
 
1.  Ringrazio dell’onore che mi è stato concesso, invitandomi a questa audizione davanti alla Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica.
I tempi strettissimi mi hanno impedito di stendere una relazione ampia e tale da considerare i molteplici problemi riguardanti l’audizione.
Mi limiterò, dunque, a poche considerazioni riguardanti il disegno governativo di riforma costituzionale, incentrando l’attenzione verso quei punti di sofferenza logica e sistemica, che ne pregiudicano la coerenza e la funzionalità e che, tuttavia, possono essere risolti senza necessariamente inficiare le conclusioni del c.d. Patto del Nazareno (allegato dal Segretario del PD, Matteo Renzi, nella propria relazione alla Direzione del 20.1.2014).
Aggiungo che si tratta di rilievi critici, per così dire, trasversali. Essi interessano anzitutto l’oggetto della rappresentanza, parimenti delimitato in senso territoriale dall’ordine del giorno Calderoli e dal testo base di discussione; di rimando, concernono il problema del riconoscimento ai senatori delle garanzie dell’art. 68 Cost., come pure della composizione del Senato e della relativa organizzazione dei lavori. Dagli stessi sono desumibili ragioni di più ampia perplessità – sulle quali, però, non potrò soffermarmi – verso un testo capace di assicurare alla maggioranza governativa rilevanti poteri di trasformazione costituzionale (art. 138), istituzionale (artt. 83 e 135) e legislativa (art. 70), in assenza dei necessari e adeguati contropoteri.
 
 
2.   Il testo governativo di riforma riserva al Senato delle Autonomie un ruolo di difficile classificazione. Questo appare definibile più in negativo (per ciò che non è), che non in positivo (per ciò che invece è).
Il rilievo è argomentabile muovendo da più profili. Fra gli altri, esso è desumibile dall’incoerenza logica e sistemica rinvenibile nel testo medesimo e in quello di risulta (derivante dalla combinazione fra gli articoli riformati e quelli originari). Si tratta di un’incoerenza, che evidenzia uno squilibrio delle forme di rappresentanza e di garanzia a danno della tenuta democratica e dell’efficienza del sistema.
Il Senato delle Autonomie esprime un modello di Camera alta doppiamente ambiguo e contraddittorio. Per un verso, esso presenta alcuni dei profili che caratterizzano le seconde camere negli ordinamenti di tipo federale, nonostante l’inversione di orientamento del nuovo indirizzo riformatore; quest’ultimo è proiettato in una prospettiva che non è più federalista, come quella del trascorso ventennio, bensì sostanzialmente neocentralista, avendo provveduto a una riduzione delle materie regionali e ad una ridefinizione degli ambiti autonomistici. Per altro verso, tuttavia, detto modello si discosta dall’impianto organizzativo e di garanzie che contraddistingue il bicameralismo dei sistemi federali, a discapito dell’effettivo esercizio delle molteplici funzioni parimenti riconosciute allo stesso.
Emblematico è il riferimento al combinato disposto degli artt. 67-55, commi 2 e 3, oltreché all’art. 68, commi 2 e 3.
Quanto alle prime due disposizioni, non è a tema ovviamente la disomogeneità lessicale impiegata per designare i soggetti della rappresentanza. Questi sono indicati facendo riferimento, indistintamente, tanto all’organo, quanto ai relativi componenti: “Ciascun membro della Camera […]” (art. 55, comma 1); “il Senato delle Autonomie […]” (art. 55, comma 2); “i membri del Parlamento […]” (art. 67).
Piuttosto, è in discussione il diverso oggetto della rappresentanza, che dimostra una scissione della portata dell’art. 67 Cost. dalle notevoli implicazioni costituzionali. Se per quest’ultimo “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, con la nuova formula la “Nazione” è rappresentata solamente dalla Camera dei deputati (art. 55, comma 2), nel mentre il Senato delle Autonomie rappresenta le Istituzioni territoriali” (art. 55, comma 4). In pari modo, per inciso, dispongono l’o.d.g. Calderoli e quello, sia pure non votato, Finocchiaro: “Il Senato è la camera che rappresenta le Regioni e le Autonomie”.
I componenti di entrambe le camere, in ogni caso, esercitano le proprie funzioni “senza vincolo di mandato” (art. 67), al pari di quanto già previsto dalla Costituzione del ‘48. Al contempo, essi godono di differenti guarentigie, posto che l’immunità penale (art. 68, commi 2 e 3) è riservata solamente ai deputati e non più anche ai senatori.
Di qui, per l’appunto, l’esigenza di verificare se le innovazioni introdotte siano coerenti con la funzionalità del nuovo modello bicamerale e con i principi costituzionali coinvolti, ovvero se non costituiscano, piuttosto, motivo di complicazione del primo e di lesione dei secondi; conclusione, quest’ultima, cui sembra doversi propendere.
 
 
3.  Preliminarmente è opportuno richiamare il tipo di funzioni riconosciute al nuovo Senato.
Quanto alla legislazione ordinaria, dette funzioni riguardano sia l’iniziativa legislativa in qualsiasi materia, anche non regionale (art. 71, commi 1 e 2), sia la proposta di modifica di ogni disegno di legge già approvato dalla Camera (art. 70). In tale seconda evenienza la Camera si pronuncerà in via definitiva con distinte deliberazioni, a seconda della materia coinvolta: mentre per la generalità dei casi sarà sufficiente la maggioranza semplice dei componenti (art. 70, comma 3), per alcuni casi tassativamente enumerati sarà necessaria la maggioranza assoluta (art. 70, comma 4). La diversità di trattamento è verosimilmente posta a garanzia dell’unità dell’ordinamento e della democraticità del sistema, con riguardo ad alcuni casi particolarmente rilevanti; questi riguardano, fra l’altro: la complessiva disciplina degli enti locali (art. 117, comma 2, lett. p), la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica (art. 117, comma 4), l’attuazione degli atti normativi dell’Unione europea e la ratifica dei trattati riguardanti la relativa appartenenza (artt. 55, comma 3, e 70, comma 4), la disciplina dell’autonomia finanziaria regionale e locale (art. 119), il complessivo sistema di elezione degli organi regionali (art. 122).
Quanto alla revisione costituzionale, il Senato conserva la pienezza delle funzioni già attribuite dall’attuale art. 138 Cost.
Quanto alle funzioni non legislative, infine, esse riguardano la composizione di alcuni organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, che la Costituzione del ’48 aveva riconosciuto al Parlamento in seduta comune. Si tratta sia dell’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83), del quale è pure mantenuta la partecipazione alla relativa messa in stato d’accusa (art. 90, comma 2), sia dell’elezione dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104, comma 4), sia della nomina esclusiva di due giudici della Corte costituzionale (art. 135).
E’ sufficiente il breve riepilogo richiamato, per evidenziare la natura essenzialmente politica delle funzioni del nuovo Senato. Esse perseguono un interesse generale e non settoriale; intervengono in tema di rappresentanza democratica e di stato sociale; consentono a detta Assemblea di concorrere a definire in sede legislativa l’unità dell’ordinamento (art. 117) e a comporre gli organi che garantiscono “l’unità nazionale” (art. 87) e la rigidità della Costituzione (art. 135).
Eppure, la riscontrata politicità delle funzioni senatoriali non è considerata dalla lettera del nuovo art. 55, che invece delimita l’oggetto della rappresentanza del Senato alle sole “Istituzioni territoriali”.
Di qui, per l’appunto, i richiamati problemi di coerenza logica e sistemica del testo di riforma e di quello di risulta.
 
 
4.  Essenziale, anzitutto, è la ricostruzione del significato attribuito dall’art. 67 Cost. al termine “Nazione”. La formula costituzionale riprende quanto già sancito dallo Statuto albertino e, prima ancora, dalla Costituzione francese del 1791. In tutti e tre i casi vi è uno stretto collegamento fra l’oggetto della rappresentanza (la “Nazione”) e il divieto del vincolo di mandato imperativo. Se la disposizione francese stabiliva che “I rappresentanti nominati nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma dell’intera nazione, e non potrà esser dato loro alcun mandato” (art. 7, Sez. III), analogamente faceva la norma statutaria; questa disponeva che “I Deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori”(art. 41).
Ferma restando la diversità storica delle problematiche coinvolte, esiste dunque una continuità lessicale e teleologica fra le disposizioni, che è connessa al tipo di rappresentanza presa in considerazione e che, invece, è negata dall’art. 55 della riforma.
Com’è noto, merito della Rivoluzione francese è stato quello di avere svincolato il rapporto rappresentativo dagli interessi corporativi e settoriali coinvolti, proiettandolo nella prospettiva degli interessi generali. Si tratta di un’innovazione che ha comportato una trasposizione del piano di riferimento, dai singoli collegi elettorali alla Nazione nel suo insieme. Essa è stata riassunta nel passaggio di formule dogmatiche, dalla rappresentanza degli interessi alla rappresentanza politica. La prima figura, di provenienza privatistica, vincola il rappresentante al compimento delle specifiche istruzioni ricevute dal rappresentato, da rispettare rigidamente, pena la revoca del mandato. La seconda figura, per contro, presenta un tipo di collegamento fra i due soggetti non più rigido e prefissato, ma elastico ed eventuale, in quanto destinato al perseguimento di un interesse non sempre definibile in anticipo, ma rimesso alla valutazione, per l’appunto, politica del rappresentante; di qui l’impossibilità logica, prima ancora che giuridica, di un vincolo di mandato e la necessità di ricorrere a una verifica della responsabilità del rappresentante attraverso elezioni politiche periodiche, sia pure con il solo fine di non confermare l’eletto.
Proprio una tale evoluzione costituzionale è rinvenibile nell’art. 67 Cost., che non a caso disciplina congiuntamente l’oggetto e il tipo di rappresentanza presa in considerazione. Trattandosi di rappresentanza politica, il termine “Nazione” non è solo riducibile al significato di popolo, tanto più che entrambi i vocaboli presentano la medesima astrazione concettuale. Piuttosto, esso riecheggia l’idea liberale di una rappresentanza generale, interprete dell’interesse comune e non degli interessi particolaristici dei singoli collegi elettorali; una rappresentanza generale che sintetizza le diverse istanze nel modo più adeguato all’interesse pubblico.
Orbene, oltre a contrastare con l’interpretazione letterale dell’art. 67 Cost., la delimitazione dell’oggetto della rappresentanza del Senato non trova giustificazione nemmeno nell’interpretazione sistematica del nuovo art. 55, comma 4. Le “Istituzioni territoriali”, infatti, non perseguono un interesse ontologicamente differente o disgiunto da quello della “Nazione”. Al pari dello Stato, esse fanno parte della Repubblica (art. 114), “una e indivisibile” (art. 5 Cost.), e sono titolari di un’autonomia politica, che trova legittimazione e limiti nella medesima Repubblica. Nel nuovo testo, del resto, gli atti politici del Parlamento (tanto legislativi, quanto di nomina) sono sempre espressione della partecipazione di entrambe le Camere, sia pure secondo le diverse modalità indicate.
Infine, la delimitazione della rappresentanza sancita dall’art. 55 nemmeno trova giustificazione nella comparazione dei modelli bicamerali. Il Senato delle Autonomie presenta alcuni tratti caratterizzanti il modello senatoriale proprio degli altri sistemi federali, parimenti impostati al perseguimento dell’interesse nazionale. Esso è composto da rappresentanti politicamente autonomi (ancorché di secondo grado) e partecipa ad alcune delle funzioni tipicamente federali, quali quelle di revisione della Costituzione, di formazione degli organi di garanzia e di partecipazione al parlamento nazionale. In tal senso, esso si discosta dal diverso modello di tipo consiliare (presente ad esempio nella Costituzione tedesca), che invece è composto da delegati dei governi delle istituzioni di appartenenza, vincolati al compimento delle relative direttive politiche.
Anche da tale punto di vista, di conseguenza, la delimitazione territoriale della rappresentanza è priva di fondamento. Non si vuole certamente contestare l’esigenza di adeguare la rappresentanza di ciascuna camera al rafforzamento delle diverse istanze coinvolte; un tale collegamento, tuttavia, è in re ipsa, derivando dal tipo di composizione della camera e non dall’oggetto preso in considerazione. Quest’ultimo è unitario e generale, anche se è perseguito secondo diverse modalità organizzative e sulla scorta delle differenti istanze, di cui le camere sono portatrici attraverso il rispettivo sistema di nomina.
Di qui la conclusione dell’opportunità di eliminare i commi 2 e 4 dell’art. 55, giacché contradditori con le innovazioni apportate dal testo di riforma, e di mantenere invece inalterato il vecchio art. 67 Cost.

 
5.  Privati della rappresentanza nazionale, i senatori sono parimenti spogliati della pienezza delle garanzie parlamentari già riconosciute dall’art. 68 Cost. Il nuovo articolo, infatti, mantiene agli stessi la sola insindacabilità, nel mentre riconosce l’immunità penale esclusivamente ai deputati.
Si tratta di una privazione dalla difficile comprensione costituzionale e dalle gravi ripercussioni sul sistema parlamentare.
L’impianto delle guarentigie parlamentari, infatti, è preordinato ad assicurare l’indipendenza del Parlamento. Esso è finalizzato a salvaguardare il libero e ordinato svolgimento delle funzioni parlamentari, prevenendo possibili condizionamenti da parte degli altri poteri dello Stato. Nel caso dell’immunità penale, per giunta, una tale guarentigia è volta a tutelare il parlamentare da eventuali azioni pretestuose della magistratura, tali da condizionare e pregiudicare il relativo operato politico.
In tale prospettiva, per contro, la mancata previsione dell’immunità pone a repentaglio sia il pieno esercizio delle funzioni senatoriali, sia, di rimando, il perseguimento dell’interesse nazionale da parte dell’intero Parlamento, operando per giunta una discriminazione fra le due Camere.
Né si comprende la ratio di una simile restrizione. Probabilmente essa deriva dall’esigenza di non dotare i sindaci-senatori dello scudo dell’immunità penale; scudo che renderebbe giudizialmente invincibile il ruolo amministrativo di provenienza, a discapito della tutela dell’interesse pubblico eventualmente leso nel relativo operato. Nondimeno, il rimedio è certamente peggiore del male, riversandosi, per l’appunto, a pregiudizio dell’indipendenza dell’intero Parlamento.
Sicché, in conclusione, appare condivisibile la linea d’indirizzo perseguita da entrambi gli ordini del giorno Calderoli e Finocchiaro, di prevedere anche per i membri del Senato delle Autonomie le garanzie dell’art. 68 della Costituzione.
 
 
6.  Il rilievo apre la via a un’ultima considerazione, riguardante la composizione del Senato delle autonomie. La presenza dei sindaci, infatti, per molti versi rende nuovamente attuali le obiezioni avanzate all’epoca della Costituente nei riguardi della proposta Perassi. Questa presentava un’istanza territoriale come fondamento della rappresentanza del Senato, prevedendo che un terzo dei senatori per ciascuna regione dovesse essere eletto dall’assemblea regionale e i restanti due terzi da delegati dei consigli comunali.
L’ipotesi fu oggetto di svariate critiche, poiché rimetteva la composizione della Camera alta a enti diversi per funzioni e grandezza territoriale. Fra queste, resta di attualità quella concernente la preoccupazione di determinare una trasformazione della fisionomia delle elezioni comunali da amministrative in politiche, stante il carattere certamente politico dei componenti del Senato; come pure quella di provocare un’omologazione fittizia dei comuni grandi con quelli piccoli.
A tali rilievi critici potrebbero aggiungersene degli altri, fra i quali quello di alterare il rapporto fra consiglieri comunali e senatori, attribuendo ai secondi un peso politico preponderante sui primi; alterazione che diverrebbe insuperabile una volta estesa ai sindaci l’immunità penale dell’art. 68 Cost. Inoltre, quello di assicurare ai 21 capoluoghi di regione una rilevanza politica parimenti esorbitante. Infine, quello di valorizzare il ruolo dei sindaci secondo una prospettiva in controtendenza con l’orientamento legislativo in corso, considerata la valorizzazione delle forme associative dei comuni (art. 117, comma 2, lett. p), che svuotano questi ultimi dell’esercizio delle principali funzioni locali.
 
 
7.  Oltre a squilibrare il rapporto fra politica nazionale e amministrazione locale, la composizione disomogenea del Senato delle Autonomie pregiudica pure la relativa funzionalità, inficiandone l’organizzazione dei lavori e, in definitiva, l’autonomia organizzativa.
Il rilievo concerne il problema del c.d. Senato dei dopolavoristi, così come definito in senso critico da alcuni commentatori. Esso interessa il tema della funzionalità di una seconda camera composta da un personale in tutt’altre faccende affaccendato, attesa la relativa provenienza politico-amministrativa. Proprio la gravosità degli impegni derivanti dalla guida delle giunte regionali, o dei capoluoghi di regione, o degli altri comuni minori, infatti, inibisce ai titolari dei relativi mandati di dedicare il necessario approfondimento critico alle mansioni senatoriali, a discapito della congruità del relativo operato.
Il problema è essenziale, solo a considerare gli stretti margini temporali assegnati al Senato delle Autonomie nel procedimento legislativo: 10 giorni per richiedere l’esame del disegno di legge approvato dalla Camera e 30 giorni per presentare proposte di modifica (art. 70, comma 3); quest’ultimo termine, per giunta, si riduce ulteriormente a 15 giorni nel caso della legge di bilancio (comma 5) e, addirittura, a 10 giorni nel caso di conversione del decreto legge (art. 77, comma 6). Orbene, per far fronte adeguatamente a una tempistica così ridotta, occorrerebbe un corpo senatoriale pienamente capace del proprio tempo e non, invece, ingolfato dalla gestione di un tempo frazionato e cadenzato dalle incombenze e dalle responsabilità regionali o locali. Ciò a meno di non affidare il coordinamento del complessivo indirizzo legislativo alle segreterie dei partiti nazionali; tale evenienza, tuttavia, se necessaria al fine di assicurare funzionalità a un sistema diversamente paralizzato, costituirebbe la pietra tombale del complessivo disegno riformatore, vanificando ogni ambizione di rappresentanza territoriale.
Il rilievo diviene ancor più esiziale, in ragione di quanto recentemente dichiarato dal Ministro per le Riforme costituzionali, Maria Elena Boschi. Alla domanda su quanto lavoreranno i senatori, il Ministro ha risposto: “Tanto, ma nella loro regione. Non staranno cinque giorni alla settimana a Roma, un giorno o due. Non voglio mettere un limite… Però non siederanno a Palazzo Madama a tempo pieno, perché hanno il loro lavoro sul territorio” (Corriere della Sera, 29 aprile, 2014, pag. 5). Sicché, pallottoliere alla mano, vien da pensare che i termini ristrettissimi riservati al Senato delle Autonomie nel procedimento legislativo, siano destinati a subire in via di fatto una riduzione ancora più drastica, vanificando ogni possibilità di apporto da parte delle istanze territoriali e svuotando di contenuto il ruolo della seconda camera.
Il rilievo, infine, è ancor più paradossale se rapportato alla diversa durata in carica delle due camere: mentre quella dei deputati resta un organo intermittente sotto il profilo della piena funzionalità, durando 5 anni salvo prorogatio (artt. 60 e 61), quella delle Autonomie diventa invece un organo continuativo, posto che “La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle Istituzioni territoriali nelle quali sono stati eletti” (art. 57, comma 2). Nel Senato delle Autonomie, di conseguenza, a una durata sempiterna corrisponde una perdurante mancanza di funzionalità, provocata dalla dispersione dei relativi componenti in impegni incompatibili con la speditezza del procedimento legislativo.
Di qui, per l’appunto, il paradosso di un organo ininterrotto quanto a durata, ma inadeguato quanto a funzionalità; una sorta di monstrum istituzionale, destinato a durare ma non a funzionare, originato dalla composizione di elementi derivanti da altri organi e, tuttavia, materialmente incapace di una propria autonoma capacità di giudizio. In definitiva, la parodia istituzionale di Frankenstein: un organo condannato a esistere, senza sapere perché.
 
 
8.  Quelli richiamati sono solo alcuni dei rilievi critici ricavabili dal disegno governativo di riforma costituzionale. Come si è premesso, l’attenzione è stata principalmente incentrata su questioni di tecnica costituzionale, il cui accoglimento non pregiudica necessariamente le conclusioni del c.d. Patto del Nazareno; restano salve, tuttavia, le più diffuse perplessità nei riguardi di una riforma capace di assicurare alla maggioranza governativa rilevanti poteri di trasformazione costituzionale (art. 138), istituzionale (artt. 83 e 135) e legislativa (art. 70) in assenza dei necessari e adeguati contropoteri.
 
 
 

* Audizione nell’ambito dell'indagine conoscitiva per l’istruttoria legislativa sull’esame in sede referente dei disegni di legge di revisione costituzionale del Titolo I e del Titolo V della Parte II della Costituzione, nonché della disposizione riguardante il CNEL. Senato della Repubblica. Commissione affari costituzionali. 8 maggio 2014.

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