Stelio Mangiameli
Professore ordinario di Diritto costituzionale
Direttore dell’Issirfa-CNR, Roma.
 
Audizione davanti alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle questioni connesse al regionalismo ad autonomia differenziata.
(26 marzo 2014, Roma - Palazzo San Macuto, Via del Seminario 76)
 
I quattro disegni di legge costituzionale (due presentati al Senato e due alla Camera dei Deputati) hanno contenuto diverso e in parte si contraddicono.
In breve, per alcuni (AS/574 — AC/582) dovrebbe essere cancellata la disposizione dell’art. 116 Cost., nel suo complesso, e abrogati gli Statuti delle Regioni ad autonomia differenziata e la X Disposizione trans. fin.
Il disegno di legge cost. del Senato prevede la soppressione delle parole “e le province autonome di Trento e Bolzano” nel quinto comma dell’art. 117.
Il disegno di legge cost. della Camera, invece, affida ad una futura legge costituzionale presentata dal Governo alle Camere, con una disciplina in deroga dell’art. 132 della Cost., il “riordino dell’organizzazione territoriale della Repubblica mediante l’unificazione delle regioni esistenti in tre regioni, con la determinazione delle loro circoscrizioni territoriali e con l’adozione delle necessarie disposizioni transitorie”.
Gli altri due disegni di legge costituzionale (AS/7 — AC/758) presentati nei due rami del Parlamento da componenti della stessa forza politica prevedono: a) la conservazione dell’autonomia speciale; b) l’integrazione degli articoli 116, 117 e 119; c) la promozione di una revisione delle funzioni amministrative ex art. 118 ad opera della legge dello Stato.
Di particolare rilievo, in questo contesto appaiono le modifiche dei tre articoli della Costituzione: - all’art. 116 si aggiunge un comma che prevede la “ratifica” di forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni che abbiano istituito una Macroregione ai sensi dell’art. 117; - all’art. 117 si prevede il procedimento di formazione della Macroregione che richiede sempre il referendum, senza quorum strutturale, ma con due quorum specifici di approvazione: il primo riguarda l’esito complessivo e prevede l’approvazione con maggioranza dei voti validi; il secondo, invece, richiede che si raggiunga una specifica maggioranza dei voti validi in ciascuna regione. In particolare, si dispone che “Ciascuna regione, ivi comprese quelle a statuto speciale, può, con propria legge e senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, deliberare intese federative con altre Regioni che prevedano la costituzione di una Macroregione, l’individuazione dei relativi organi comuni, la definizione del loro ordinamento e l’individuazione delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia che esse intendano assumere ai sensi dell’articolo 116”; - infine, all’art. 119 si aggiungerebbe una disposizione, al comma 4, per il quale, “nelle Macroregioni (…) le risorse di cui al presente comma non possono essere inferiori al 75 per cento del gettito tributario complessivo degli enti di cui all’articolo 114 prodotto nei relativi territori”.
 
È di tutta evidenza che le linee di tendenza sono diverse e si contraddicono tra di loro e se consideriamo anche il ddlc del Governo del 12 marzo 2014 si possono registrare ulteriori tendenze divaricanti: da un lato, si conserva la specialità; per l’altro, si abrogherebbe l’art. 116, comma 3, Cost., la c.d. “clausola di asimmetria”. Il ddlc del Governo, inoltre, muove dalla premessa che gli unici inconvenienti del sistema regionale italiano siano legati solo al riparto delle competenze legislative (materie di rango statale attribuite alle Regioni, confronto tra le zone grigie della legislazione statale e di quella regionale, contenzioso davanti alla Corte costituzionale, ecc.) e non al sistema amministrativo e finanziario della Repubblica; mentre – almeno a mio avviso – oggi le questioni legislative sono abbastanza controllate, anche se possono essere sempre migliorate (soprattutto se si dà vita ad un Senato delle Regioni adeguato), mentre le problematiche più urgenti del regionalismo riguardano più l’assetto amministrativo e finanziario, atteso il fallimento ultradecennale della Carta delle autonomie e del Federalismo fiscale. In ogni caso il ddlc del Governo sembra ignorare la questione del dimensionamento regionale.
 
Su quest’ultimo profilo, peraltro, i disegni di legge costituzionali qui esaminati, che prevedono la formazione, spontanea o per riforma costituzionale, delle Macroregioni interferiscono con quanto potrebbe accadere nell’ordinamento con l’approvazione definitiva del ddl Delrio sulle province e le città metropolitane, in combinato disposto con il citato ddlc del Governo del 12 marzo, nella parte in cui cancella, anche in senso letterale, le province dalla Carta costituzionale; mentre i ddlc della Lega sembrano conservarle e utilizzarle anche ai fini di una compiuta realizzazione delle Macroregioni.
 
Specialità, Differenziazione asimmetrica e Macroregioni, i temi toccati dai disegni di legge costituzionali sono, comunque, argomenti differenti che richiedono riflessioni adeguate per ogni punto, nonostante abbiano come comune denominatore l’espressione “forme e condizioni particolari di autonomia”, che nei tre ambiti considerati assumono comunque un significato diverso.
 
Specialità.
L’esigenza di attribuire particolari forme e condizioni di autonomia a determinate parti del territorio nazionale emerge all’indomani della fine della seconda guerra mondiale. Le ragioni che portarono alla formazione delle regioni a statuto speciale nell’esperienza costituzionale italiana sono eminentemente storico-politiche e, in particolare, dovute alla marcata differenziazione etnica, geografica ed economica delle isole maggiori e delle province a evidente carattere di confine, con la presenza di minoranze linguistiche.
Le regioni speciali, da questo punto di vista, sono fortemente identitarie, e questo dato prescinde dalla regolamentazione costituzionale.
Si può considerare questo dato superato?
Solo chi non conosce queste realtà può pronunciare una simile affermazione. In realtà, nonostante nel tempo il regionalismo italiano differenziato abbia conosciuto momenti diversi in cui la sua presenza è stata sopravvalutata o svalutata oltre misura, la questione identitaria non è stata scalfita, anzi se possibile ancor più rafforzata nel corso del tempo. Anche il diritto europeo ha preso atto di tale questione, non solo per via del superamento della “cecità” regionale, ma anche in ragione del fatto che la dimensione europea in quanto tale non può non proteggere e promuovere le minoranze e le condizioni di particolare disagio all’interno dell’Unione europea: l’attualità dell’esigenza di assicurare idonee tutele alle minoranze appare evidente da alcune disposizioni dei Trattati e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che fanno riferimento proprio al rispetto dei diritti delle persone appartenenti a minoranze e al rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica, così come alla promozione della coesione economica, sociale e territoriale.
Questo, peraltro, non vuol dire che il regionalismo speciale sia rimasto quello del 1946/48. Notevoli cambiamenti si sono avuti e hanno condotto, se si vuole essere precisi, a ulteriori differenziazioni al suo interno.
Oggi possiamo parlare tranquillamente di due tipologie di Regioni speciali: la prima, che potremmo definire “meridionale”, è quella delle isole Sicilia e Sardegna, le quali patiscono ormai visibilmente la mancanza di una politica nazionale sul divario territoriale e l’assenza di una seria proiezione dell’Italia nel Mediterraneo; la seconda è quella delle regioni alpine (Valle d’Aosta, Provincia di Bolzano, Provincia di Trento e Friuli Venezia-Giulia) che ritrovano, anche con il dialogo transfrontaliero, punti di crescita e differenziazione cospicui che toccano anche l’assetto della democrazia locale, rafforzata dall’introduzione di forme di referendum legislativo che estende l’approvazione delle leggi anche direttamente al corpo elettorale.
Quali sono le caratteristiche del regionalismo speciale?
La risposta a questa domanda è complessa perché, al di là della questione identitaria e affrontando il tema dal punto di vista costituzionale, dobbiamo necessariamente tenere conto dell’evoluzione determinata dai diversi statuti speciali, dal confronto con le regioni ordinarie nel primo regionalismo, dall’art. 116, compresa la clausola di asimmetria, dalle previsioni della legge costituzionale n. 2 del 2001, da quelle della legge costituzionale n. 3 del 2001 e, in particolar modo, dal suo art. 10.
 
Alla luce di tutti questi elementi, che richiederebbero approfondimenti significativi, l’individuazione di un contenuto tipico della specialità diventa arduo, ma non impossibile, anche se il regime autonomistico differenziato non può più essere considerato un’eccezione del sistema regionale italiano, essendo divenuto un elemento stabile del modello che non si esprime più solo nel nucleo di “autonomia maggiore” rispetto a quello delle Regioni di diritto comune.
La causa di un simile effetto deve sicuramente ritrovarsi nei caratteri costituzionali del regionalismo della riforma, nel quale sembra superato anche il precedente processo di omologazione di tutte le regioni ordinarie. Inoltre, si recupera, attraverso le disposizioni riguardanti il riparto delle competenze e la salvaguardia della specialità, un nuovo ampliamento di poteri che, diversamente dall’origine, fanno coincidere questa non tanto con la titolarità di un quantum di autonomia maggiore o più ampia rispetto a quella ordinaria, quanto con una qualità diversa dell’autonomia speciale.
In ogni caso, se si vogliono indicare ancora oggi le coordinate essenziali caratterizzanti il modello di autonomia speciale, queste devono individuarsi in quattro elementi:
1) nella presenza di uno Statuto elaborato con un procedimento particolare e approvato con legge costituzionale, che possa garantire, nei confronti dello Stato, una tipologia di potestà legislativa diversa da quella delle Regioni ordinarie e la previsione di uno speciale regime finanziario (sul quale vedi, oltre, punto 3);
2) nella titolarità della potestà legislativa c.d. primaria, piena o esclusiva, di cui dispongono le sole regioni a Statuto speciale (assieme alle Province autonome di Trento e Bolzano) [1], la quale ha segnato il vero tratto distintivo fra il modello di autonomia regionale speciale e quello ordinario, in quanto nelle materie enumerate dallo Statuto, le Regioni speciali dispongono di una potestà legislativa qualitativamente diversa da quella delle altre Regioni, essendo rimessa alla legge regionale, non solo l’intera disciplina della materia, ma anche una posizione particolare nel sistema delle fonti, rispetto alla legge statale;
3) nella peculiare autonomia finanziaria. Sin dalla loro costituzione, infatti, le Regioni speciali hanno avuto nel loro sistema di finanza pubblica una diversità di principio. L’art. 119 v.f. cost., per le regioni ordinarie, si basava sulla previsione di una capacità finanziaria commisurata «ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali», mentre le disposizioni degli Statuti costituzionali indicavano la regola della capacità finanziaria collegata al reddito prodotto nella regione; ciò ha comportato anche dopo la revisione del 2001 il permanere dell’effetto derogatorio della finanza delle regioni speciali, rispetto all’art. 119 n.f. e alle regioni ordinarie. La legge n. 42 del 2009 ha lasciato aperto questo spazio di differenziazione, anche se alcuni avrebbero preteso una omologazione delle regioni speciali sul regime dell’art. 119;
4) nella peculiare competenza delle regioni speciali in materia di ordinamento degli enti locali, la quale si estende alle relazioni finanziarie e tributarie tra gli enti locali della regione speciale e questa stessa (qui l’attuazione si è compiuta per le regioni alpine, ma non per la Sardegna e la Sicilia). Nella sentenza n. 48 del 2003, la Corte costituzionale ha precisato che la competenza in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni … non (sarebbe) intaccata dalla riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, ma (sopravvivrebbe), quanto meno, nello stesso ambito e negli stessi limiti definiti dagli statuti».
 
 
Differenziazione asimmetrica.
Differentemente dal principio di specialità, la clausola di asimmetria non consente di negoziare qualsiasi aspetto costituzionale dell’autonomia regionale, ma solamente alcune competenze attribuite allo Stato dal secondo comma dell’art. 117 (organizzazione del giudice di pace, norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) e le materie del terzo comma, attinenti alla legislazione concorrente [2].
L’attivazione del procedimento di asimmetria è rimesso (singolarmente) alle Regioni medesime, che, sentiti gli enti locali e nel rispetto dei principi dell’art. 119, contrattano con lo Stato (rectius: il Governo), sino al raggiungimento di una intesa, il complesso delle competenze che intendono assumere in via esclusiva e nominata, di modo che, per questa parte, il riparto di competenza risulterebbe caratterizzato da un sistema a doppia enumerazione [3].
L’intesa tra lo Stato e la Regione deve essere portata in Parlamento (dal Governo, o dalla Regione) con un atto di iniziativa legislativa, affinché possa essere rivestita della forma della legge “approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti”, e, nonostante il silenzio dell’art. 116, comma 3, n.f. Cost., previo parere della Commissione per le questioni regionali integrata con la rappresentanza delle Regioni e degli enti locali (art. 11 legge costituzionale n. 3 del 2001).
Come si vede l’intera clausola ruota attorno al modello di autonomia regionale ordinaria, per cui appare evidente la sua alternatività rispetto alla specialità delle regioni differenziate e, anche se su questa disposizione si possono fare tante considerazioni, occorre prendere atto che le regioni ordinarie non hanno sviluppato una vocazione alla differenziazione asimmetrica. Le uniche proposte avanzate (Lombardia e Veneto) sono state presentate come forma di opposizione alla maggioranza di Governo nazionale e sono rientrate non appena il Governo delle Regioni si è trovato allineato con quello nazionale.
È questo un motivo sufficiente per l’abrogazione dell’art. 116, comma 3, Cost.?
Il tema non va posto in astratto e neppure in concreto in modo basso (non ha nuociuto a nessuno, perché non lasciarla [la disposizione]?).
Proprio perché la differenziazione asimmetrica è diversa dalla specialità, anche se potrebbe rappresentare un avvicinamento a questa, bisogna inquadrarla nel modello di regionalismo che si vuole realizzare per la nostra Repubblica. La differenziazione asimmetrica non ha, in via di principio, alcuna valenza identitaria, ma semplicemente funzionale. Semmai è nel tempo che si può configurare l’asimmetria come un fatto identitario.
 
Il disegno che tende a eliminare la clausola di asimmetria (in questo similmente ai ddlc che vogliono eliminare la specialità), ovviamente ritiene la certezza dell’uniformità regionale un bene più appetibile rispetto alle possibilità di differenziazione. Se questo giudizio di merito politico, possa dirsi fondato è difficile dire; quello che è certo, invece, è che non costituisce un ripristino della precedente legalità costituzionale, ma semmai una diversa nuova disciplina costituzionale.
 
 
Macroregioni.
Quanto alle Macroregioni e al dimensionamento territoriale che implicano, la scelta dei due ddlc della Lega appare strutturale e opposta a quella del ddlc del Governo e al ddl Delrio e non solo per la presenza, o meno, delle Province. Infatti, è la logica del regionalismo italiano che verrebbe capovolta; e rispetto a questo rivolgimento anche le previsioni sulle risorse finanziarie e sulle funzioni amministrative hanno un carattere servente.
 
Il ddl Delrio e il ddlc del Governo lascerebbero il dimensionamento delle Regioni inalterato, ma con la scomparsa delle Province, la creazione delle Città metropolitane e la ricentralizzazione delle competenze legislative, le Regioni verrebbero depauperate sotto due versanti: dal punto di vista della legislazione, che sarebbe ormai più che residuale; e da quello dell’amministrazione, in quanto dovrebbero condividere la distribuzione dei poteri amministrativi sul territorio di loro competenza con le Città metropolitane.
Lo scenario istituzionale del governo del territorio dovrebbe essere composto tra tre entità: le Città Metropolitane; le parti delle Regioni non coperte dalle Città Metropolitane (e amministrate dalle Regioni), le Province autonome di Trento e Bolzano e le piccole Regioni, come la Basilicata, l’Abruzzo, l’Umbria e il Molise. Il totale sarebbe dato da 36 entità eterogenee e non facilmente coordinabili, senza un soggetto – a parte lo Stato – che possa esercitare funzioni statali, con una forma di autonomia regionale totalmente diversa da quella sin qui conosciuta. L’intero sistema, infatti, avrebbe una connotazione meramente amministrativa e, dal punto di vista funzionale, si avrebbe una frantumazione del territorio che renderebbe poco competitivi i territori, a meno di non credere che lo Stato possa riuscire, attraverso una impostazione fortemente centralistica, a fronteggiare: da un lato, tutti i problemi delle politiche pubbliche all’interno e persino nei dettagli; e, dall’altro, i compiti propri dello Stato che gli derivano dall’appartenenza all’Unione europea e quelli determinati dalla competizione internazionale della globalizzazione.
 
Per contro l’ipotesi delle Macroregioni si muove in una logica opposta ed ha un preciso obiettivo politico di cui si dirà.
A tal riguardo, bisogna osservare che, per certi versi, il processo di aggregazione di Macroregioni è stato avviato in modo spontaneo e non dovrebbe essere sottovalutato, anche perché non è detto che necessiti effettivamente di una disciplina costituzionale ad hoc. La collaborazione orizzontale tra le Regioni non ha nessun elemento di opposizione nel testo costituzionale; anzi, esso può vantare un punto di forza nell’art. 117, comma 8, Cost., che prevede: “La legge regionale ratifica le intese della Regione per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni”.
Da tempo le regioni del Nord, agevolate da una comune guida politica, hanno intrapreso un dialogo, al quale in origine erano aggregate anche la regione Emilia-Romagna e la Liguria (che si sono sganciate non appena compresa la valenza politica dell’intero progetto), volto a considerare «Le interdipendenze naturali, economiche e infrastrutturali tra le Regioni del Nord Italia», per una «Valutazione complessiva e spunti per una riflessione su possibili politiche interregionali». Questi sono il titolo e il sottotitolo di un seminario che si è tenuto già il 10 dicembre 2013 a Milano presso la Regione Lombardia e che ha alla base l’ipotesi di una pianificazione strategica delle Regioni del Nord.
 
Quale sarebbe la carica innovativa delle disposizioni contenute nei ddlc AS/7 e AC/758?
Diversamente dall’ipotesi dirigista e a futura memoria della proposta dell’On.le Palmizio (FI), che riguarderebbe tutte le regioni italiane riaggregate in tre Macroregioni, l’ipotesi avanzata di una formazione volontaria (e progressiva) di Macroregione consentirebbe alla parte più avanzata del Paese di operare un allentamento del vincolo unitario che pure caratterizza la teoria dello Stato federale, lasciando cadere i vincoli di solidarietà che di un Paese costituiscono obbligazione politica, oltre che della Storia.
Si tratterebbe, peraltro, di un egoismo che non aprirebbe a una crescita di quei territori, in quanto proprio le Regioni del divario possono oggi offrire all’intero Paese e alle Regioni del Nord delle possibilità reali di sviluppo.
 
Questo non vuol dire che si debba bocciare l’ipotesi delle Macroregioni. Dal punto di vista sistemico e costituzionale sono perfettamente possibili due tipi di regionalismo: quello attuale basato su una forte differenziazione nel dimensionamento territoriale e quelle delle Macroregioni che attenua questa differenziazione.

 
L’unico limite che si deve frapporre è il principio di unità e indivisibilità della Repubblica che non può essere ridotto a un mero simulacro come accadrebbe se le Macroregioni avessero dimensioni molto estese per popolazione, oltre che per territorio, e se in modo generalizzato si attribuissero il 75% delle risorse finanziarie al territorio, anche con l’assunzione di tutte le funzioni amministrative  statali, regionali e locali (secondo l’egida del federalismo di esecuzione).
 




Una ipotesi intermedia, politicamente accettabile, potrebbe essere praticata ed essere funzionale, ma – ripeto – l’intero modello di Repubblica e di regionalismo andrebbe rivisto e condiviso con uno spirito che al momento sembra mancare nel sistema politico italiano.
I punti da considerare sarebbero, infatti, alcuni aspetti negletti, come il divario territoriale e forme di “federalismo fiduciario”, da introdurre per fare fronte a questa condizione limitativa della crescita italiana, e una politica fiscale diversa, per il Sud come per il Nord.



Le regioni sono state ordinate per il PIL prodotto nel 2011; la voce extra considera le attività economiche non attribuibili a specifiche regioni, come ad esempio le ambasciate italiane all'estero o le piattaforme marine per l'estrazione di petrolio.


 

[1] Ad essa si assommano la potestà legislativa concorrente (che manca solo nel caso della Valle d’Aosta) e quella integrativo-attuativa, secondo quanto previsto dai singoli Statuti.
[2] Nonostante il disposto dell’art. 116, comma 3, Cost., peraltro, la materia relativa al “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, enumerata nel terzo comma dell’art. 117, non pare realmente contrattabile con le Regioni, in quanto collegata alla competenza esclusiva dello Stato “perequazione delle risorse finanziarie” e ai precetti dell’art. 119 Cost., in tema di finanza, tributi, fondo perequativo, risorse aggiuntive e intervento speciale.
[3] Per queste ragioni un uso generalizzato a tutte le Regioni e per tutte le competenze indicate dall’art. art. 116, comma 3, toccando tutto il campo della legislazione concorrente (trasformandolo in esclusivo delle Regioni), avrebbe l’effetto di imprimere al riparto di competenza costituzionale caratteristiche diverse da quelle originarie.

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