Gian Candido DE MARTIN, La funzione amministrativa tra Regioni ed enti locali (Ottobre 2005)
Relazione al Convegno organizzato dall’ISSiRFA su I nuovi statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, Roma, Sala del Cenacolo, 4 luglio 2005
SOMMARIO
1. Premessa
2. Quali le principali aspettative, dopo la riforma costituzionale del 2001, in ordine alla ridefinizione negli statuti delle Regioni ordinarie del ruolo amministrativo regionale e del rapporto con le autonomie locali
3. Il persistente centralismo regionale nelle scelte statutarie concernenti il riparto delle funzioni amministrative
4. La tendenza a consolidare il tradizionale modello amministrativistico dell’organizzazione regionale (diretta e indiretta)
5. I rilevanti limiti nella configurazione di relazioni procedimentali e strutturali “paritarie” tra Regione e autonomie locali
6. Considerazioni di sintesi sugli squilibri regionocentrici e sulla limitata portata innovativa degli statuti in ordine al decentramento amministrativo e agli strumenti di raccordo Regioni-Enti locali.
NOTA BIBLIOGRAFICA
1. Premessa
1. A voler considerare le previsioni dei nuovi statuti delle Regioni ordinarie finora disponibili in ordine all’assetto della funzione amministrativa, va subito precisato che in effetti – come suggerisce la traccia – il baricentro dell’analisi da sviluppare, in chiave essenzialmente valutativa (rinviando per i dati puntuali alle relazioni fornite dall’Osservatorio legislativo interregionale), va colto proprio nella dinamica del rapporto tra Regione ed Enti locali, poiché è intorno al rispettivo ruolo amministrativo e alle conseguenti forme di relazione che da tempo è aperta una questione di fondo, destinata ora ad evolversi e ad essere traguardata alla luce del nuovo quadro costituzionale fissato con la recente riforma del titolo V della parte II della Costituzione.
Circoscrivendo quindi l’attenzione al nodo della definizione del ruolo amministrativo regionale in rapporto alle funzioni amministrative di spettanza degli Enti locali in base alle indicazioni statutarie, che rappresentano (o dovrebbero rappresentare) una fase significativa nel processo di costruzione della nuova statualità policentrica, fondata anzitutto sul principio di sussidiarietà (qui assunto nella sua valenza verticale-istituzionale, più che orizzontale), va subito sottolineato che i ritardi attuativi della riforma costituzionale del 2001 - e in particolare sia delle deleghe previste dalla legge n. 131/03 per la riallocazione delle funzioni amministrative del sistema, sia del riassetto della finanza pubblica in chiave autonomistica, come prefigurato nel nuovo art. 119 Cost.-, cui si sommano le incertezze legate alla riforma costituzionale in itinere, hanno verosimilmente pesato non poco sulla nuova “fase costituente” regionale, di massima assai poco innovativa, specie sui punti qui in esame, come si potrà constatare nella disamina che segue.
Va chiarito, altresì, che fuoriesce dalla presente analisi quanto riguarda le Regioni speciali, il cui adeguamento statutario successivo alla riforma del Titolo V è necessariamente più lento, essendo per un verso legato a procedure più complesse e per altro verso reso meno impellente per via (anche) della “comoda” clausola di salvaguardia prevista dall’art. 10 della l.c. n. 3/01 (la cui portata viene peraltro spesso interpretata in funzione di garanzia della sola autonomia regionale, lasciando quindi irrisolta proprio la questione del rapporto Regioni-Enti Locali in tali contesti speciali, in cui vi è un forte rischio di subordinazione delle autonomie locali alle determinazioni ordinamentali regionali).
In sostanza, dunque, si intende qui verificare se persista o meno, nei nuovi statuti, il modello regionocentrico - e non policentrico - consolidatosi dopo la riforma regionale degli anni ’70, che ha condotto tra l’altro ad una progressiva “amministrativizzazione” delle Regioni ordinarie, riluttanti a decentrare agli Enti locali, anche a solo titolo di delega, almeno una parte significativa delle consistenti funzioni amministrative spesso attribuite o pervenute in via provvisoria alle Regioni medesime in virtù di un malinteso parallelismo tra competenze legislative e amministrative. Tale presunto parallelismo – riproposto, talora in modo acritico anche da autori non disattenti alle questioni dei rapporti tra le autonomie territoriali di diverso livello – non teneva conto né di quanto previsto dal I comma del precedente art. 118 Cost. in ordine alla diretta allocazione a comuni e province di funzioni di carattere locale, né delle modalità di normale esercizio decentrato delle funzioni amministrative regionali prefigurato dal III comma dello stesso articolo.
D'altra parte, proprio la fuorviante impostazione regionocentrica, favorita dalla tardiva attuazione statale di quanto previsto dall’art. 128 Cost. in ordine alla autonomia e alle funzioni di comuni e province, ha determinato via via un sistema di relazioni con gli Enti locali basato sulla (sostanziale) supremazia dei poteri legislativi, finanziari e di controllo delle Regioni nei confronti degli Enti minori, che finisce per molti versi per condizionare tuttora, nonostante le riforme successive (a partire dalla l. 142/90), il rapporto tra le istituzioni regionali e quelle locali.
2. Quali le principali aspettative, dopo la riforma costituzionale del 2001, in ordine alla ridefinizione negli statuti delle Regioni ordinarie del ruolo amministrativo regionale e del rapporto con le autonomie locali
Rispetto a questa situazione sfasata, che ha tra l’altro consistentemente frenato anche la possibilità di decentramento regionale e di valorizzazione del ruolo amministrativo di comuni e province prefigurati nella riforma generale della amministrazione pubblica avviata con la legge n. 59/97, si tratta ora di vedere se e come il subentro della riforma del titolo V della Costituzione – in cui sono sanciti alcuni nuovi elementi essenziali nell’assetto della Repubblica delle autonomie, destinati a mutare anche il rapporto tra Regioni ed Enti locali – abbia trovato riscontro nella nuova stagione statutaria regionale, correggendo in modo significativo anzitutto le propensioni regionocentriche già largamente presenti nei primi statuti delle Regioni ordinarie, approvati agli inizi degli anni Settanta.
In effetti, la nuova stagione statutaria, prevista originariamente dalla l.c. n. 1/99 in una prospettiva circoscritta essenzialmente alla valorizzazione dell’autonomia delle Regioni ordinarie nella definizione della rispettiva forma di governo, ha successivamente avuto un forte ampliamento di orizzonte dal nuovo quadro costituzionale, che ha legittimato specifiche aspettative di riequilibrio istituzionale, in particolare in ordine al ruolo e alle garanzie delle autonomie locali nel contesto regionale (ben al di là della pur rilevante prefigurazione di un nuovo organo di raccordo permanente, quale il Consiglio delle autonomie, reso obbligatorio dalla riforma del 2001 per tutte le Regioni a seguito di un emendamento integrativo dell’art. 123 Cost., già per altri versi oggetto della revisione del 1999).
Per chiarire tali aspettative, è necessario anzitutto richiamare, sia pure in estrema sintesi, i tratti salienti della nuova statualità policentrica – che per certi versi potrebbe essere considerata una sorta di “via italiana al federalismo” -, fondata su una più compiuta (e avanzata) lettura del principio autonomistico dell’art. 5 Cost., ferma restando ovviamente l’unità del sistema.
In tal senso assumono significato preminente, da un lato, le previsioni sulla pari dignità costituzionale delle istituzioni costitutive della Repubblica, che non consentono di configurare alcuna forma di gerarchia o supremazia né tra Stato e Regioni, né tra Regioni e enti locali, essendo tra l’altro state espressamente abrogate le forme di controllo amministrativo in precedenza previste dagli articoli 125 e 130 Cost., dall’altro, quelle che rafforzano l’autonomia (normativa e organizzativa) di ciascun soggetto, in una prospettiva di sostanziale autoordinamento e ancorano (in primo luogo) sul principio di sussidiarietà l’assetto delle funzioni amministrative, partendo dall’ente più vicino ai cittadini, nell’ambito di un sistema comunque ispirato non alla separazione ma alla collaborazione / integrazione tra i vari soggetti, (pur) dotati di autonomia anche sul piano finanziario.
Ciò determina il superamento definitivo (almeno sulla carta) delle sfasature “piramidali” del vecchio titolo V, che avevano determinato il rischio di una frattura o gerarchia tra autonomie regionali e locali, accentuate da ricorrenti ambiguità interpretative (talora anche nella giurisprudenza costituzionale): pur non essendo da tempo mancati, come noto, vari autori che avevano offerto letture più penetranti (e appaganti) delle virtualità e potenzialità del principio autonomistico dell’art. 5 Cost. nella configurazione delle garanzie e delle forme di relazione interistituzionale tra governi territoriali espressivi di autonomie comunitarie (Esposito, Benvenuti, Berti, ecc.).
Si può aggiungere che, per quello che qui interessa, il quadro istituzionale di fondo offerto dal titolo V novellato non viene messo in discussione dalla riforma costituzionale in corso di approvazione in Parlamento, la quale anzi (assai discutibile per molti altri aspetti) potrebbe non solo consolidare, ma anche rafforzare specificamente le autonomie locali, con nuove forme di garanzia (v. accesso alla Corte costituzionale), oltre che con un’esplicita attenzione a nuove modalità di (leale) collaborazione interistituzionale.
Si apre dunque la possibilità - anzi si dovrebbe dire la necessità - di correggere (finalmente) quell’assetto istituzionale squilibrato che si era consolidato, specie dopo il decreto 616/77, col vizio di origine del centralismo regionale rispetto agli enti locali e con la (conseguente) amministrativizzazione delle Regioni, sostanzialmente impermeabili – come già ricordato - anche rispetto alle prospettive di riequilibrio aperte prima dalla l. 142 (il cui art. 3, che prefigurava una forte riallocazione delle funzioni a comuni e province, non ha pressocché avuto seguito proprio per le inerzie regionali) e poi dalla l. 59 e dal connesso decreto 112, finora attuati in modo parziale e assai reticente proprio (o soprattutto) sul versante regionale.
A tal fine, i nuovi statuti regionali sono (o possono essere) la prima cartina di tornasole per verificare se e come siano state effettivamente percepite le innovazioni rispetto al precedente titolo V in grado di influire maggiormente sui due passaggi chiave concernenti, per un verso, il criterio di riparto e riallocazione delle funzioni amministrative tra Regioni e Enti locali, nonché, per altro verso, le modalità di relazioni equiordinate tra le varie autonomie territoriali. In questa prospettiva vanno sottolineate soprattutto tre novità essenziali, che dovrebbero in vario modo “condizionare” e “orientare” gli statuti regionali.
a) In primo luogo, va messo in evidenza il superamento (definitivo) del parallelismo tra funzioni legislative e amministrative delle Regioni (peraltro in precedenza interpretato e attuato in modo fuorviante, come già osservato), con il baricentro dell’amministrazione ora spostato sugli Enti locali. Ciò comporta una configurazione dell’amministrazione locale come amministrazione generale (v. Meloni, 2005), con un forte potenziamento funzionale anche della “nuova provincia”, alla quale dovrebbero essere riallocate molte funzioni ora regionali, mentre il ruolo amministrativo delle Regioni dovrebbe essere circoscritto a funzioni tassative effettivamente giustificate in ragione di una gestione unitaria indivisibile e prevalentemente caratterizzate da funzioni “generali” di alta amministrazione (indirizzo, coordinamento e programmazione).
In tale prospettiva c’è poi anche da chiedersi se possa residuare un qualche spazio per ipotesi di delega di funzioni amministrative regionali ad Enti locali – come è orientato a sostenere qualche interprete (v. Merloni, 2005), partendo dalla potenziale ambivalenza del termine “conferite”, utilizzato nel nuovo art. 118 Cost. (che potrebbe richiamare quanto sul punto previsto dall’art. 1 della l. 59/97) – oppure se l’istituzione della delega debba ritenersi sostanzialmente superato nel rapporto tra Regioni ed Enti locali, a fronte di un criterio costituzionale rovesciato di allocazione delle funzioni amministrative ai vari livelli del sistema, che implica la identificazione delle funzioni proprie e di quelle ulteriormente considerate di competenza di un determinato livello istituzionale, a partire dal comune, in applicazione (anzitutto) del principio di sussidiarietà. Il che non esclude, ovviamente, che – una volta chiarificate le funzioni di spettanza di Enti locali e Regione – si possano immaginare, per quelle di competenza regionale, forme (più o meno flessibili) di coinvolgimento/partecipazione di Enti locali nell’esercizio di funzioni regionali, se non forme di amministrazione consensuale, senza con ciò riproporre la ratio della delega, frutto di un’impostazione in certo modo legata alla supremazia dell’autonomia regionale rispetto a quella locale.
b) In secondo luogo, va anche considerata la carenza – almeno per quanto riguarda le Regioni ordinarie – di un potere regionale di ordinamento degli enti locali, il quale non può certo essere configurato partendo dall’assunto (da taluno prospettato) che si tratterebbe di una materia spettante al potere legislativo residuale delle Regioni (ex art. 117, IV): lo impedisce, in modo inequivocabile, l’espresso riconoscimento (negli artt. 114 e 117, VI) del potere di autoordinamento degli enti locali, non a caso dotati di propri statuti e di specifica potestà regolamentare per la disciplina della propria organizzazione (cui fa eccezione solo quanto esplicitamente riservato alla legge statale dalla lett. p. dell’art. 117, II). Ciò non significa (ovviamente) che qualche condizionamento e vincolo all’assetto organizzativo degli enti locali non possa derivare dalle scelte legislative regionali nelle materie di competenza (ad esempio in ordine all’esercizio associato di funzioni riguardanti i piccoli comuni, che può essere certo prefigurato e fors’anche, a talune condizioni e con le opportune garanzie, reso obbligatorio in concomitanza con la allocazione o la previsione di esercizio di una funzione da parte degli enti locali di base), ma la ratio di fondo successiva alla riforma costituzionale del 2001 è, fuor di dubbio, la carenza di un generale potere regionale di ordinamento degli Enti locali, che sarebbe sintomo evidente di una supremazia istituzionale inconciliabile col nuovo 114 Cost.
D’altra parte, questa (nuova) impostazione, unita alla percezione della necessità di ripensare funditus lo stesso testo unico sull’ordinamento degli enti locali da poco entrato in vigore (ossia il TUEL n. 267 del 2000), è significativamente stata riconosciuta sia coll’intesa interistituzionale “metodologica” tra Stato, Regioni ed Enti locali, sottoscritta il 20 giugno 2002, pur restata in larga misura (per ora) sulla carta, sia soprattutto con l’art. 2 della legge n. 131/03, che contiene la delega al Governo a rivedere l’intero TUEL per uniformarlo (e ridimensionarlo) in sintonia con i nuovi principi e garanzie costituzionali concernenti comuni e province.
c) In terzo luogo, va parimenti sottolineata la nuova prospettiva delle forme di raccordo procedimentali e strutturali (paritarie), nell’ambito di un sistema di autonomie tripolari non separate, ma integrate, e in larga misura interdipendenti: prospettiva da sviluppare e rafforzare organicamente, ben al di là degli specifici riferimenti costituzionali (circoscritti essenzialmente alla previsione del Consiglio delle autonomie nell’art. 123 e alla menzione della leale collaborazione nell’art. 120), sia per un migliore esercizio delle funzioni amministrative proprie della Regione, sia per lo sviluppo e valorizzazione di quelle di competenza delle autonomie locali. Lo scenario è, quindi, quello di un sistematico ricorso ad intese e accordi, procedure di concertazione, forme di amministrazione partecipativa e negoziata, e via dicendo, che debbono intercorrere tra “governi”, secondo un modello che è stato chiamato di nuova governance (Merloni).
D’altra parte, è questa una prospettiva che era stata aperta ben prima della riforma del titolo V, specie a partire dalla l. 142/90, come si poteva ricavare, ad esempio, dalla ben nota pronuncia della Corte costituzionale n. 343/91, in cui si faceva riferimento esplicito ad un sistema di autonomie non più separate, ma integrate e coordinate. Va anche sottolineato che si tratta di un’impostazione che ha ben note ascendenze teoriche, le cui radici si ritrovano, ad esempio, in quelle posizioni dottrinali che hanno sostenuto come il coordinamento sia sostanzialmente figura tipica di relazioni tra istituzioni equiordinate (Giannini, Bachelet, Berti) e rappresenti “una tecnica propria del governo di una società pluralista”, ossia “il modo di procedere di un ordinamento democratico e pluralista sia nel governo che nell’amministrazione, tipico dei rapporti tra enti autonomi” (Pastori).
3. Il persistente centralismo regionale nelle scelte statutarie concernenti il riparto delle funzioni amministrative
A fronte di questa serie di rilevanti innovazioni costituzionali e alle conseguenti aspettative di riassetto degli ordinamenti istituzionali vigenti, si deve dunque ora verificare quali risposte sono state delineate dagli statuti finora varati dalle Regioni ordinarie, prendendo in considerazione sia le modalità procedurali seguite sia le scelte normative di maggior rilievo ai fini che qui interessano.
Per quanto riguarda i profili procedurali, ci si limita ad osservare che – secondo quanto evidenziato anche dall’Osservatorio legislativo interregionale (specie da Chellini) – nell’ambito delle vicende che hanno contrassegnato, nei diversi contesti regionali, le fasi di elaborazione dello statuto non si è certo realizzata quella prospettiva di dibattito e di concertazione tra Regioni ed Enti locali che ci si sarebbe potuti attendere per segnare una svolta nel sistema di relazioni, soprattutto ai fini della definizione delle scelte statutarie riguardanti il riparto delle funzioni amministrative e il sistema dei rapporti interistituzionali. In quasi tutte le realtà regionali ci si è, infatti, limitati a mere forme di consultazione delle rappresentanze di comuni e province, quasi in adempimento di un rituale procedurale, senza dar vita ad alcune più penetrante e specifica forma di approfondimento congiunto per far crescere il grado di effettiva partecipazione e condivisione, in chiave paritaria, delle scelte destinate a regolare i reciproci rapporti.
Più articolata deve essere invece l’analisi a proposito delle soluzioni di merito riscontrabili negli statuti, che si possono suddividere su tre piani: riparto delle funzioni, modalità organizzative dell’amministrazione regionale e sistema di relazioni Regioni / Enti locali.
In ordine ai criteri di definizione e riparto delle funzioni amministrative (con relativi poteri normativi e risorse), può subito rilevarsi, che le soluzioni adottate appaiono per lo più generiche e complessivamente assai deludenti, visto che è ricorrente il mero richiamo – con formule per certi versi analoghe a quelle contenute negli statuti del 1971 - della necessità di attribuire o trasferire (talora si preferisce genericamente “conferire”, mentre solo la Toscana utilizza il ben più pregnante “riconoscere”) agli enti locali le funzioni in applicazione dei principi costituzionali su sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. L’Abruzzo appare più puntuale perché esplicita il riferimento all’art. 118 Cost., aggiungendo qualche elemento per caratterizzare il ruolo dei comuni, anche associati, delle province e delle comunità montane, riservando alla Regione le sole funzioni che richiedono un esercizio unitario: ma, in sostanza, si tratta anche in questo caso di un rinvio al futuro legislatore regionale, senza alcuna garanzia per gli Enti locali, neppure di salvaguardia delle funzioni fondamentali (che non sono menzionate né in questo né in alcun altro statuto). Talora si prefigurano espressamente anche funzioni amministrative regionali “delegate” agli Enti locali (Abruzzo, Lazio, Liguria), senza peraltro alcun tentativo di differenziare e far intendere la ratio e la portata di tale previsione.
Solo in alcuni casi si adottano formule volte a circoscrivere più chiaramente il ruolo amministrativo regionale (v. Abruzzo-Toscana-Umbria-Lazio). Lo statuto laziale è comunque l’unico ad utilizzare formule volte ad attribuire le funzioni “di norma” ai comuni o alle province, prevedendo per converso la “indicazione tassativa” delle funzioni riservate alle regioni in quanto attinenti ad esigenze di carattere unitario, mentre quello umbro prevede che siano di competenza dei comuni tutte le funzioni non riservate ai livelli superiori, adottando quindi esplicitamente il criterio della residualità. Va poi osservato che mai emerge una caratterizzazione del ruolo amministrativo regionale legato a prevalenti funzioni “alte” di indirizzo/coordinamento/programmazione.
Quanto al nesso tra funzioni da riallocare e risorse, vi è in genere una menzione generica di tale esigenza (che manca comunque in Marche-Piemonte-Puglia), con rinvio totale alla legge futura in ordine ai criteri e alle modalità con cui la ipotizzata connessione dovrebbe essere in concreto realizzata e garantita. Talora viene aggiunto un riferimento esplicito (ma generico) anche al necessario personale da trasferire. Comunque solo l’Umbria prevede un (non meglio precisato) coordinamento dell’autonomia finanziaria e tributaria regionale con quella di comuni e province, mentre la Toscana (“in attesa dell’attuazione 119 Cost.”) prefigura un “fondo unico regionale”, con riparto ex lege e verifica di funzionalità della spesa, da effettuarsi d’intesa con gli Enti locali (e si può aggiungere che tale norma è stata impugnata dal Governo ma non censurata dalla Corte costituzionale).
In ordine alle garanzie del potere normativo locale volto a disciplinare l’organizzazione e l’esercizio delle funzioni attribuite, che è stato significativamente riconosciuto – come già ricordato – dall’art. 117, VI (e poi invero per certi versi interpretato riduttivamente dall’art. 4 della l. 131), vi è stato qualche tentativo di salvaguardare tale ambito di autonomia. Ad esempio, il Lazio ha previsto che “la Regione esercita la potestà regolamentare (e quella legislativa?) nel rispetto di quella degli Enti locali”; in Calabria “la Regione garantisce pieno esercizio al potere organizzativo e regolamentare degli Enti locali”, enunciando a tal fine espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile all’autonomia normativa degli Enti locali; il Molise “ispira la propria legislazione al rispetto dell’autonomia normativa degli enti locali”; l’Emilia Romagna ha prefigurato regolamenti regionali “cedevoli” in materie di competenza degli Enti locali (anche se va rilevato che la stessa Regione nella l.r. n. 6/04 ha utilizzato in materia di autonomia normativa locale una formulazione potenzialmente riduttiva, analoga a quella contenuta nell’art. 4 della l. 131/03). Una soluzione per certi versi analoga a quest’ultima è quella della Toscana, la quale peraltro ha stabilito esplicitamente anche possibili limitazioni per legge dell’organizzazione e svolgimento funzioni locali per “assicurare requisiti minimi di uniformità” (soluzione certamente opinabile, data la possibile ampia latitudine di tale limite, ma che è stata convalidata dalla Corte costituzionale, sia pure a condizione che sussistano “effettive e specifiche esigenze unitarie”).
4. La tendenza a consolidare il tradizionale modello amministrativistico dell’organizzazione regionale (diretta e indiretta)
Passando a considerare quanto previsto dagli statuti in ordine al modello organizzativo per la gestione dei compiti amministrativi regionali - modello che gli statuti possono ora essere definito solo a livello di “principi fondamentali”, stante la formulazione dell’art. 123, che circoscrive l’ambito delle scelte statutarie aprendo maggiori spazi alle norme ordinarie -, si può rilevare una generale tendenza alla prefigurazione di apparati operativi assai consistenti, sia diretti che indiretti, a fronte di una pressoché totale disattenzione per forme di gestione “tramite” enti locali (sia nella versione pre che post riforma dell’art. 118 Cost.).
Si può poi aggiungere che, per quanto riguarda gli uffici e gli apparati amministrativi diretti della Regione, la sensazione complessiva è di un (quasi) automatico appiattimento – come già in passato - sul modello organizzativo burocratico tipico dell’amministrazione statale, con un ricorrente richiamo anche ai principi generali sul procedimento amministrativo, nonché alla separazione tra compiti e responsabilità di indirizzo e controllo (politico) e di gestione (amministrativa), peraltro con due casi espliciti di spoil system (Calabria-Lazio). D’altra parte, va rilevato che non emerge alcuna soluzione “originale” in ordine alle soluzioni organizzative correlate alle funzioni “alte” di amministrazione regionale già ricordate.
Se è deludente la capacità innovativa degli statuti in ordine alle strutture amministrative interne, appare altrettanto insoddisfacente la generalizzata (e spesso ripetitiva) previsione di una serie (potenzialmente) assai numerosa di enti e strutture soggettive in vario modo legate da un rapporto di dipendenza o strumentalità con la Regione. In tal senso vanno menzionate le molteplici figure di natura tecnica, con compiti gestionali, settoriali, prefigurate prevalentemente in forma di agenzie e aziende, talora anche di imprese regionali (v. Calabria), cui si aggiunge frequentemente la previsione di possibili di partecipazioni societarie. In tutti questi casi la tendenza nettamente prevalente è quella del rinvio alla legge di ogni elemento di concreta disciplina, per lo più senza neppure qualche previsione statutaria sulla configurazione del rapporto istituzionale con la Regione, in ordine ad esempio alla regolare gestione finanziaria e al controllo dei risultati (elementi adombrati soltanto negli statuti di Abruzzo-Emilia Romagna-Lazio-Piemonte).
A fronte di questo ulteriore consolidamento del tradizionale (e ridondante) modello organizzativo (diretto e indiretto) dell’amministrazione regionale, originariamente in gran parte frutto del trasferimento di uffici statali alle Regioni (nelle due fasi della regionalizzazione del 1972 e 1977) e poi di un forte e persistente accentramento nella gestione amministrativa, non emerge – come già rilevato - alcuna previsione di “utilizzo” delle amministrazioni locali quale alternativa alla creazione di apparati regionali (fermo restando che tale ipotesi di valorizzazione degli Enti locali non potrebbe riguardare ovviamente le funzioni amministrative regionali “alte”, ma soltanto quelle operative). Vi sono solo due eccezioni, sia pure parziali, che meritano di essere segnalate (salvo poi verificarne la concreta attuazione): da un lato, la Puglia prevede uno “sportello unico comunale” per qualsiasi pratica, a prescindere dall’amministrazione competente, con intese ad hoc da perfezionare tra Regioni e Comuni; dall’altro lo statuto delle Marche, con una previsione di per sé di rilevante significato, subordina la istituzione di enti, aziende e agenzie regionali alla verifica che le funzioni amministrative della Regione non possano essere svolte direttamente dagli uffici regionali “o conferite agli enti locali”.
5. I rilevanti limiti nella configurazione di relazioni procedimentali e strutturali “paritarie” tra Regione e autonomie locali
Traguardando, infine, le norme statutarie concernenti (a vario titolo) modalità di relazione tra Regioni e Enti locali fondate su pari dignità (e non su una esplicita o strisciante supremazia regionale), è opportuno distinguere tra forme di collaborazione / coordinamento procedimentali e strutturali.
In ordine a quelle procedimentali, si possono formulare, semplificando al massimo, tre tipi di considerazioni. In primo luogo si può osservare, in via generale, che, se è ricorrente un generico riferimento alla necessità di raccordi tra la programmazione regionale e locale e alla prospettiva di partecipazione degli enti locali alla programmazione regionale, meno frequente è la previsione di un raccordo in ordine alla definizione degli obiettivi e alla attuazione delle politiche regionali (previsto solo negli statuti in Marche, Lazio, Toscana); d’altra parte, solo quattro statuti prevedono la “concertazione istituzionale” per le determinazioni delle politiche regionali, al di là della programmazione socio-economica: tra questi più esplicita appare la Calabria (“La Regione utilizza la concertazione e programmazione negoziale come strumento essenziale di governo, regolando con legge le modalità di accordi e intese”), mentre originale appare il Piemonte (“La Regione promuove e favorisce con leale collaborazione rapporti di sistema con gli Enti locali”).
In secondo luogo, va detto che, per le forme di relazione basate su interventi regionali in aree di competenza dell’amministrazione locale, frequenti sono soprattutto le forme di “sostituzione” regionale (fondate sostanzialmente sull’art. 120 Cost., ripetutamente oggetto di pronunce costituzionali, a partire dalla sent. n. 313/03) previste in caso di inerzie o inadempimenti locali (v. gli statuti di Abruzzo, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Umbria). Talora gli interventi sostitutivi sono subordinati a varie clausole (ad esempio, il Lazio li circoscrive a casi prestabiliti per legge o ad atti obbligatori, in funzione di tutela di un interesse superiore), mentre in altri casi ci si preoccupa di riservare tali interventi ad organi regionali di governo oppure di stabilire, come in Umbria, meccanismi improntati alla leale collaborazione (con un parere obbligatorio del Consiglio delle autonomie). Da menzionare sono anche i casi, invero assai limitati, in cui si fa riferimento a talune forme specifiche di sostegno regionale agli Enti locali, come avviene per il Piemonte, che prefigura interventi correlati alla politica transfrontaliera di comuni e province.
In terzo luogo, verificando le previsioni statutarie che prefigurano significative forme di relazione legate a poteri di iniziativa locale rispetto a compiti amministrativi regionali, si possono menzionare, al di là dei consueti strumenti di carattere ispettivo (interrogazioni, ecc.) prefigurati in alcuni statuti (ma senza garanzie particolari), solo talune (peraltro sporadiche) previsioni di sollecitazioni qualificate, come nel caso interessante previsto dalla Toscana, i cui enti locali possono concorrere a “orientare la regione per quanto di loro interesse nella formazione di atti comunitari”.
Passando a considerare le relazioni di carattere strutturale, le previsioni statutarie da esaminare in questa sede sono essenzialmente quelle riguardanti i Consigli delle autonomie (CAL), che sono prefigurati in effetti in tutti gli statuti, in attuazione – ma anche al di là – di quanto stabilito nell’art. 123 Cost.
D’altra parte, va subito rilevato che in ordine ai CAL vi erano già state delle “anticipazioni” e sperimentazioni in alcune Regioni (anche se talora con qualche ambiguità tra il modello del “Consiglio” e quello della “Conferenza”). Inoltre, vi sono ipotesi pendenti di rafforzamento del loro ruolo prefigurate nella riforma costituzionale in itinere (che qualificata espressamente i CAL “organi di consultazione, di concertazione e di raccordo fra le Regioni e gli Enti locali”), con formulazioni per certi versi coincidenti con quelle profilate fin dal 1996 in una proposta della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e Province Autonome: materiali che in vario modo hanno verosimilmente indotto gli statuti ad allargare l’orizzonte al di là di quanto previsto dall’u.c. del vigente art. 123.
Ciò precisato, va tuttavia subito sottolineato che quasi tutti gli statuti si limitano, in ordine ai CAL, a talune (circoscritte) scelte sulle modalità di costituzione e sul loro ruolo, rinviando largamente per tutto il resto ad una futura legge di specifica e puntuale disciplina. Questa scelta di metodo finisce, in sostanza, per lasciare al di fuori delle previsioni statutarie una serie di profili importanti e delicati per la fisionomia rappresentativa e per la tutela dell’indipendenza dell’organo. In effetti, come è stato puntualmente sottolineato da qualche autore (v. Rescigno, 2004), il ruolo strategico del CAL per la configurazione dei rapporti tra Regione ed Enti locali dopo la riforma del titolo V richiederebbe senza dubbio una specifica attenzione diretta dello statuto per questo organo, con una riserva statutaria della disciplina di una serie di profili importanti per la configurazione e l’assetto istituzionale del Consiglio, specialmente in ordine ai criteri di composizione, durata ed eventuale scioglimento, presidenza e ufficio presidenziale, regolamenti organizzativi interni e autonomia amministrativa e contabile, nonché funzioni ed effetti giuridici degli atti.
A parte questa osservazione di carattere generale, si può comunque rilevare, dal complesso delle previsioni statutarie, un quadro in chiaroscuro in cui, per un verso, appaiono risolti (in una prospettiva accettabile) alcuni significativi profili istituzionali, mentre sussistono, per altro verso vari punti problematici, con soluzioni statutarie meno univoche o comunque troppo aperte o lacunose.
Due sono soprattutto gli aspetti di fondo su cui gli orientamenti offerti dagli statuti appaiono più maturi, con opzioni ricorrenti ed inequivoche, che sembrano portare a compimento in una direzione utile il vivace dibattito dottrinale e la fase sperimentale che negli ultimi anni ha contrassegnato, specie in alcune regioni, le vicende legate alla prefigurazione e costituzione dei CAL.
Da un lato, appare definitivamente acquisita la fisionomia del CAL come organo di rappresentanza (soltanto) degli Enti locali in sede regionale, con esclusione quindi sia del modello “conferenza” (presieduta dal Presidente della Regione), sia della partecipazione di altre istituzioni pubbliche operanti nell’ambito del territorio regionale (solo il Lazio prevede la possibilità di includere, ma senza diritto di voto, rappresentanti delle autonomie funzionali: camere di commercio, università e scuole). Fisionomia rafforzata in genere dal riconoscimento al CAL di una specifica autonomia organizzativa (non prevista solo negli statuti di Piemonte e Puglia), con un presidente eletto tra i componenti, nonché con una specifica dotazione di mezzi finanziari e di personale previsto per legge.
Dall’altro, emerge una sostanziale e univoca tendenza – già rilevata in alcune recenti analisi dottrinali (Violini, 2002; Carli, 2005) – a non considerare il CAL come una sorta di seconda camera della Regione, in diretto rapporto col solo Consiglio regionale, ma un organo consultivo della Regione nel suo complesso, in grado di interagire con tutti gli organi regionali di governo. Va comunque notata una evidente propensione degli statuti a marcare maggiormente il nesso del CAL col Consiglio regionale, facendo coincidere ad esempio sede e durata (e talora numero dei componenti), in un caso prevedendo addirittura una seduta annuale congiunta (Toscana), oppure un rapporto annuale al Consiglio (Marche), mentre l’Emilia Romagna ha preferito sottolineare il rapporto costante del CAL con l’Assemblea regionale.
Quanto invece ai profili dove emerge una maggiore variabilità e problematicità o dove gli statuti appaiono più sfuggenti o generici, lasciando aperte questioni delicate, si possono evidenziare soprattutto tre punti.
Vi sono anzitutto tre statuti (Calabria, Lazio, Umbria) in cui, in ordine ai criteri di composizione del CAL, si fa riferimento all’esigenza di rappresentare, oltre al pluralismo istituzionale e territoriale, anche quello politico, aprendo una prospettiva che può complicare non poco la formazione dell’organo e che finisce comunque per coinvolgere necessariamente tutti gli eletti nei Consigli degli Enti locali nelle designazioni dei rappresentanti in senso al CAL medesimo.
Inoltre, si riscontrano non marginali differenze in ordine al ruolo e alle funzioni del CAL, che oscillano tra soluzioni prevalentemente di tipo consultivo e previsioni volte invece a rafforzare in vario modo la posizione dell’organo, sia con vincoli in ordine alla obbligatorietà di taluni pareri, sia col riconoscimento di spazi di iniziativa e proposta qualificata (ad es. per la riallocazione delle funzioni agli enti locali), sia soprattutto stabilendo talune forme di concertazione finalizzate a realizzare vere e proprie determinazioni regionali d’intesa col CAL.
Si deve, infine, accennare – in questo contesto – anche alla questione specifica relativa alle garanzie e agli effetti giuridici delle deliberazioni del CAL, per le quali solo in taluni statuti è prevista espressamente qualche forma di vincolo o di aggravamento procedurale per le decisioni regionali che intendessero discostarsi dal parere formulato dal CAL (con necessità di maggioranza assoluta o qualificata oppure di esplicita motivazione).
Ciò precisato, si può ulteriormente osservare che talora emergono – peraltro in specifiche previsioni statutarie, più che nell’ambito di un disegno organico – spunti interessanti (ed originali) se, traguardati dal punto di vista di una maggiore valorizzazione del CAL nel contesto regionale (sia legislativo che amministrativo). In tal senso meritano di essere segnalati, ad esempio, i casi in cui il CAL è coinvolto nella composizione dell’organo regionale di garanzia statutaria, al quale comunque in qualche caso si prevede che il CAL possa rivolgere specifici ricorsi a tutela delle prerogative degli enti locali (v. Abruzzo, Emilia Romagna e Toscana). Talora invece si riconosce al CAL un ruolo consultivo obbligatorio per la determinazione delle funzioni locali o nell’ambito delle procedure di esercizio del potere sostitutivo regionale (v. Calabria e Umbria); oppure per la definizione dei rapporti con la Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti (v. Emilia Romagna). Talaltra si riconoscono al CAL significativi poteri di iniziativa a garanzia delle competenze degli Enti locali (v. proposte di impugnazione di leggi statali, nonché, come nel caso della Calabria, attivazione di procedure di verifica sul rispetto delle competenze locali da parte del legislatore regionale). Meritano una menzione anche i casi in cui il CAL è coinvolto nella valutazione delle politiche regionali (v. Marche e Umbria) oppure nelle procedure riguardanti interventi col sostegno comunitario (l’Abruzzo prevede che il CAL possa formulare proposte specifiche sul ruolo degli enti locali in materia e sulle connesse implicazioni organizzative).
Comunque, è evidente che – a voler tirare le fila su questi profili (in chiaroscuro) di relazione strutturale tra Regione ed Enti locali - per poter valutare compiutamente quale concreta influenza potrà derivare dalla configurazione del CAL per un nuovo assetto dei rapporti e per la conformazione della stessa amministrazione regionale, si dovrà attendere di verificare soprattutto a livello empirico quali reali dinamiche si produrranno nei rapporti tra Regioni e Enti locali: se di fatto resteranno prevalentemente nell’ottica di una mera attività di consultazione / proposta oppure se sapranno evolversi verso sistematiche forme di concertazione, in una prospettiva di “normale” interazione tra istituzioni territoriali (a vario titolo) interdipendenti, a maggior ragione tenendo conto del carattere eminentemente programmatorio e di coordinamento che dovrebbe (ri)qualificare il ruolo dell’amministrazione regionale.
6. Considerazioni di sintesi sugli squilibri regionocentrici e sulla limitata portata innovativa degli statuti in ordine al decentramento amministrativo e agli strumenti di raccordo Regioni-Enti locali
A voler aggiungere qualche sintetica battuta conclusiva su quanto si è finora considerato, si può anzitutto ribadire quanto già accennato, ossia che nel complesso, in ordine alla configurazione dei rapporti tra Regioni ed Enti locali in chiave coerente con i principi di sussidiarietà istituzionale e di cooperazione / integrazione, gli statuti delle Regioni ordinarie appaiono certamente, poco innovativi e assai spesso evasivi, se non deludenti. Si può, addirittura, arrivare ad affermare che in larga misura – e con le dovute eccezioni - le scelte statutarie non sono molto dissimili da quelle del 1971, visto che sui punti qui trattati appaiono sostanzialmente disattente non solo al nuovo quadro costituzionale, ma anche ai principi della Carta europea dell’autonomia locale (che solo il Lazio richiama e fa propri). Anche quando i principi autonomistici sono formalmente ripresi, talora in modo inutilmente ripetitivo (lo statuto della Calabria, ad esempio, riproduce quasi letteralmente parti degli artt. 5 e 118 della Costituzione, richiamando altresì i principi della l. 59/97 e del connesso decreto 112/98), la sensazione è che si tratti essenzialmente di un’autonomia proclamata, più che praticata, ossia di “formule di stile” disgiunte da un’effettiva percezione delle implicazioni sottese al nuovo asse istituzionale (in tal senso, il fenomeno è per molti versi analogo a quanto è dato osservare, in questi ultimi anni, a proposito dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, ripetutamente menzionata e fatta salva ad esempio nella legge n. 53/03 e nei conseguenti decreti legislativi, ma poi sostanzialmente disattesa nell’impianto e nei contenuti degli interventi di riforma concernenti il sistema pubblico di istruzione).
In ogni caso, va sottolineato che è in larga misura carente una visione sistemica (tripolare) e integrata delle autonomie territoriali, basata effettivamente sull’applicazione della ratio “rivoluzionaria” della sussidiarietà, nonché dei principi di adeguatezza e differenziazione, sia nel riassetto delle funzioni amministrative, a partire da quelle fondamentali degli Enti locali, sia in ordine alla distinzione di ruolo tra le amministrazioni locali e quella regionale. Manca, insomma, una decisa correzione di rotta, cosicché a distanza di quindici anni - e pure essendo sopravvenuta una serie di riforme volte a dar vita ad un effettivo e coordinato riassetto dei poteri regionali e locali, appare tuttora attuale la considerazione di Umberto Pototschnig, quando nel 1990 rilevava, in sede di bilancio di quattro legislature regionali, che “continuano a restare incerti i confini tra amministrazione regionale e locale”.
Certo, come si è potuto constatare, non mancano alcune significative e innovative previsioni statutarie e talora qualche abbozzo di nuovo disegno nei rapporti tra Regioni e Enti locali, ma nel complesso appare pressoché impossibile individuare uno statuto regionale maturo e appagante rispetto alle aspettative di riequilibrio in chiave coerente col policentrismo e il sistema di integrazione e cooperazione di autonomie territoriali prefigurate dal nuovo titolo V della Costituzione.
Anche quando alcune formulazioni statutarie di nuovo conio appaiono maggiormente in sintonia coi recenti principi costituzionali, aprendo prospettive inedite e potenzialmente utili, riemerge quasi sempre nel medesimo statuto, su altri punti essenziali, una propensione regionocentrica, legata in certo modo ad una visione di accentramento o di primazia regionale, senza comunque riconoscere mai al Consiglio delle autonomie quel ruolo strategico che potrebbe avere (sia nella fase transitoria di riequilibrio che a regime) per assicurare una reale integrazione (pur nella distinzione di ruoli) tra Regione e Enti locali .
La visione statutaria resta per lo più ancorata ad un ruolo amministrativo operato diretto della Regione, senza imboccare decisamente la strada, da un lato, del decentramento amministrativo agli enti locali, con idonee garanzie di risorse finanziarie e strumentali (a fronte di una riserva alle Regioni delle sole funzioni alte di programmazione, indirizzo e coordinamento, nonché di quelle assolutamente non conferibili), dall’altro del coinvolgimento effettivo degli enti locali nelle determinazioni politiche regionali, in regime di leale collaborazione e in un’ottica di sostegno anche alla promozione e sviluppo delle comunità locali.
In altre parole, è generalmente mancata una corretta percezione e distinzione della dicotomia “governo regionale – amministrazione locale”, che avrebbe dovuto indurre a strutturare l’organizzazione amministrativa regionale in conformità a funzioni eminentemente programmatorie e di coordinamento, spostando sull’amministrazione locale gran parte della gestione di funzioni operative e di servizio. Si è così anche vanificata l’occasione di una modernizzazione e riqualificazione delle strutture amministrative regionali (con organizzazioni agili, in regime di staff e di supporto tecnico agli organi di governo), mantenendo invece quasi sempre la previsione di una forte amministrazione burocratica diretta, integrata da una molteplicità di enti dipendenti e strumentali.
Queste osservazioni critiche sarebbero (ovviamente) assai più marcate a voler considerare i (limitati) processi di adeguamento statutario in corso per le Regioni speciali, laddove il regionocentrismo è in certo modo legittimato dal potere regionale di ordinamento degli enti locali, generalizzato con la l.c. n. 2/93, che la stessa Corte costituzionale ha finora in certo modo avvalorato, anche in pronunce recenti, sia pure non entrando nel merito delle implicazioni connesse e, quindi, senza cercare un raccordo tra i poteri particolari riconosciuti dallo statuto di autonomia a ciascuna Regione speciale e il sistema complessivo di principi e garanzie riguardanti le autonomie locali a seguito della recente riforma costituzionale. Se questo tipo di orientamento dovesse consolidarsi, si potrebbe, in sostanza, delineare un (del tutto opinabile) indirizzo interpretativo basato su una sorta di doppio regime dell’autonomia locale, pur nell’unitario sistema della Repubblica, con una consistente deminutio della condizione di autonomia dei comuni e delle province nell’ambito delle Regioni speciali.
A prescindere da tali considerazioni, si può comunque concludere che, al di là delle scelte statutarie, si può aprire per molti versi una possibile nuova dinamica nelle relazioni tra Regioni ed Enti locali, una volta che si saranno (finalmente) esercitate le deleghe previste dall’art. 2 della l. 131/03 (anzitutto in ordine alla determinazione delle funzioni fondamentali degli Enti locali) e si sarà avviata la concreta attuazione anche di quanto previsto dall’art. 7 della stessa legge in vista di un riassetto delle funzioni amministrative coerente con i principi dell’art. 118 Cost. In tal senso, si può solo aggiungere che la prospettiva di realizzazione del nuovo quadro costituzionale dipenderà in larga misura anche dalle capacità di partecipazione e proposizione che sapranno esprimere le stesse autonomie locali, specie su base regionale, per “costringere” le Regioni a cambiare registro (in attesa che vengano sancite in Costituzione forme specifiche di garanzia in caso di scelte regionali incoerenti o contraddittorie, riconoscendo qualche forma di accesso diretto di comuni e province al giudice delle leggi).
NOTA BIBLIOGRAFICA
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