Negli ultimi tempi sul federalismo fiscale e sul relativo processo di attuazione, in sedi diverse e di varia natura (politiche, mediatiche, accademiche) si è detto e scritto molto, facendo scorrere fiumi di parole e torrenti di inchiostro. Il federalismo fiscale si inquadra del resto come una delle più importanti riforme della legislatura e interseca tanto la risalente “questione meridionale” quanto la più recente “questione settentrionale”, messa in evidenza ormai da parecchi autori: basti citare Il sacco del Nord, di Luca Ricolfi, Separati in casa di Giovanni Floris, Né uniti né divisi di Marcello Fedele. Era quindi prevedibile che una riforma di queste dimensioni, in un contesto di questa complessità, si potesse prestare alle più diverse interpretazioni e strumentalizzazioni. E’ quindi opportuno cercare una sintesi nella babele delle opinioni, proponendo una chiave di lettura fondata su elementi di esperienza e di credibilità.  Quello che vale la pena di precisare è che spesso a parlarne o scrivere non è stato chi aveva la competenza necessaria ad affrontare la complessità dell’argomento (la chiamo, per comodità, “posizione a”) e così - anche perché è mancata la volontà di approfondire e capire (nb: si potrebbero fare nomi e cognomi, ma non è il caso)  - ci si è fermati ad alcuni banali luoghi comuni, asseriti quasi totalmente a prescindere dal processo che effettivamente si stava concretizzando. Altre volte (posizione b) c’è stata tutta la competenza, ma su questa ha vinto la volontà di strumentalizzazione politica di quanto veniva attuato (anche qui si potrebbero citare nomi e cognomi). Nello stesso tempo, per fortuna, non è mancato  (posizione c) chi ha guardato e analizzato il processo con competenza e oggettività, mettendo semmai in luce alcune criticità ma mantenendo un giudizio di serio apprezzamento per processo di attuazione del federalismo fiscale che si è realizzato. Tra questi ultimi si sono potute notare figure (faccio in tal caso nomi e cognomi) come Alberto Quadrio Curzio, Franco Bassanini, Luca Ricolfi. E’ singolare notare come nelle posizioni assunte da personalità scientifiche di questa caratura non si ritrovino mai quei luoghi comuni verso cui, invece, i sostenitori (politici, accademici e mediatici)  delle posizioni sub a) e sub b) hanno sempre tenacemente tentato di far convergere le loro sintesi. La cosa suona davvero singolare, se si pensa che si tratta di luoghi comuni che spesso - e alcune volte con successo - si è tentato di fare entrare nella testa della gente. Si tratta in particolare degli assunti riconducibili a questa retorica: il federalismo fiscale fa aumentare i costi; il federalismo fiscale farà aumentare le tasse; il federalismo fiscale divide Nord e Sud; il federalismo fiscale mette in pericolo la solidarietà e il finanziamento della sanità; il federalismo fiscale è una scatola vuota; mancano i  numeri del federalismo fiscale; il federalismo fiscale mette in pericolo la garanzia del debito pubblico. La circostanza che i migliori esperti economici, giuridici e sociologici del Paese non abbiano mai centrato le loro posizioni su questi luoghi comuni è molto significativa e va valutata con il debito peso. Essa concorre a mettere in luce la vera portata del processo.  Quanto è stato realizzato all’interno del processo di attuazione del federalismo fiscale a partire dalla approvazione della legge n. 42 del 2009 rappresenta oggettivamente tutt’altra cosa rispetto ai citati luoghi comuni – come dimostrano gli approfondimenti contenuti in questa Rivista. La relazione che il Governo, su iniziativa del Ministro Tremonti, ha presentato al Parlamento il 30 giugno scorso, con allegate oltre 120 pagine di dati e tabelle (la relazione è disponibile sul sito www.mef.it), fornisce un’analisi documentata sull’origine dei problemi e sulle prospettive di sviluppo del nostro sistema istituzionale di cui, a memoria, non esiste l’analogo nella storia del nostro regionalismo/federalismo. Forse bisogna tornare ai lavori della Commissione economica al tempo dei lavori dell’Assemblea costituente per  trovare qualcosa di simile. La relazione è stata, infatti, svolta sulla base del lavoro di analisi e valutazione/elaborazione delle basi informative compiuto dalla Copaff (Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale) che ha coinvolto nei suoi lavori oltre duecento  tecnici per una mole di lavoro che conta, sino ad oggi, più di sessanta riunioni. Il risultato di quell’imponente lavoro, dopo la relazione presentata alle Camere, si è trasfuso nei decreti di attuazione che ormai sono giunti sostanzialmente a completare il percorso previsto dalla legge delega. Al momento in cui si licenzia questo scritto (novembre 2010) sono già stati approvati dal Governo cinque decreti legislativi. Quello sul federalismo demaniale e quello su Roma Capitale sono ormai definitivi; gli altri tre hanno iniziato l’iter dei pareri in Conferenza Unificata e in Parlamento presso la Commissione bicamerale sul federalismo fiscale.  Sono i decreti su: fabbisogni standard di Comuni e Province; fisco municipale; fisco regionale, provinciale e costi standard in sanità. Sono inoltre in fase di avanzata elaborazione altri due decreti: quello sull’armonizzazione dei bilanci pubblici degli enti territoriali e quello su meccanismi di governace, premi e sanzioni (ad es. il fallimento politico degli amministratori che provocano il dissesto finanziario di un ente territoriale). In totale si tratta di sette decreti legislativi, a cui si aggiunge quello relativo alla perequazione infrastrutturale destinato a convergere verso un nuovo piano Sud realizzato attraverso lo sbocco di quei fondi Fas di cui sino ad oggi è stata impegnata solo una parte irrisoria.  Compreso in questi suoi reali termini, il federalismo fiscale può essere definito il più imponente processo di razionalizzazione della finanza pubblica sub statale realizzato nella nostra storia repubblicana. Non è esagerazione. Si è trattato di un processo diretto a raddrizzare quello che il ministro Tremonti ha giustamente definito come “l’albero storto” della finanza decentrata. Un’operazione davvero complessa perché diretta a raddrizzare storture ereditate, accumulate e stratificate (si pensi al perverso criterio del finanziamento in base alla spesa storica, che ha sistematicamente premiato e favorito l’inefficienza) all’interno di un trentennio tutto sostanzialmente caratterizzato dalla cultura della cosiddetta finanza allegra. Una cultura e una prassi politica che oggi - prima ancora che per una volontà politica nazionale - occorre radicalmente superare per rispetto di obblighi comunitari e per mantenere quella credibilità internazionale che è condizione di affidabilità sui mercati finanziari.  Il lavoro svolto dalla Copaff ha quindi permesso di prendere coscienza e di affrontare alcune gravi lacune che erano latenti del nostro sistema. Ad esempio, è una situazione di grave irrazionalità quella dell’attuale assetto istituzionale italiano, che si compone in un sistema dove il comparto di Regioni ed Enti locali è finanziato in gran parte con trasferimenti per decine di miliardi di euro erogati sul criterio della stratificazione della spesa storica e dove il sistema tributario regionale e locale risulta costituito da ben quarantacinque fonti di gettito che alimentano enormi contenziosi,  senza garantire quella tracciabilità dei tributi che è condizione indispensabile per attivare i processi di responsabilità nei confronti degli elettori. Inoltre, l’occasione dell’attuazione del federalismo fiscale ha permesso - per così dire - di “alzare il coperchio della pentola” e constatare la grave carenza di basi informative, se non la confusione, che affliggeva il sistema. Un disordine di cui non si avrebbe avuto piena cognizione se non fosse iniziata la fase dell’attuazione del federalismo fiscale. In alcune Regioni si sono verificate gravi effettive carenze cognitive sui dati reali di spesa e di bilancio. In Calabria è stato ad esempio necessario incaricare una società di revisione esterna per cercare di ricostruire la contabilità, tanto questa era inattendibile. Alla fine, per ottenere un minimo di chiarezza, si sono dovuti chiudere i tavoli di monitoraggio della spesa sanitaria sulla base incredibile di “dichiarazioni verbali certificate” dei Direttori delle Asl! Di fatto i bilanci regionali, prima del lavoro svolto dalla Copaff, presentavano un tasso di indecifrabilità pari al 30% a causa di un distorto  “federalismo contabile”, introdotto a partire dalla imperfetta riforma costituzionale del 2001, che permette di allocare in modo difforme le stesse poste. Solo a seguito della codifica unitaria imposta dalla Copaff è stato possibile confrontare alcune voci di spesa regionali, scoprendo, ad esempio, che ci sono regioni come la Campania dove la spesa per l’amministrazione generale ed organi istituzionali è gli apparti burocratici regionali è quasi venti volte quello della Lombardia. La situazione a cui si  è posto rimedio è stata quindi quella di un federalismo che era rimasto gravemente incompiuto. Si trattava di un disordine che veniva poi pagato da tutti gli italiani attraverso i ripiani a piè di lista a carico della fiscalità generale, come quello, emblematico, di ben dodici miliardi di euro attuato dall’ultimo Governo Prodi a favore di cinque Regioni del Centro e del Sud in extra deficit sanitario che, nonostante tutto, continuano ancora oggi in disavanzo. Con quei dodici miliardi si sarebbe potuta ridurre di oltre un terzo l’Irap.  Lo scorso anno le Regioni hanno prodotto un disavanzo di 4,6 ml di euro, attribuibile in massima parte a Lazio, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. Ad oggi ancora non è ben definibile l’ammontare dei debiti pregressi accumulati negli anni da alcune regioni (in Molise i tempi di pagamento dei fornitori sono 851 gg): si parla di decine di miliardi. In Calabria dove alcuni ospedali hanno anche 20 dipendenti per posto letto, la gente scappa e la Regione spende 280 ml di ogni anno per migrazioni sanitarie. Non è una situazione sostenibile e soprattutto non è una situazione a favore della maggioranza della popolazione meridionale. Ivano Lo Bello (Confindustria Sicilia) ha recentemente parlato di un vero e proprio conflitto di interessi ormai in atto tra un Sud che vuole continuare a vivere di clientele e rendite parassitarie e un Sud che accetta la responsabilità derivante dal federalismo fiscale e vuole sviluppo e innovazione. Il federalismo fiscale che è stato attuato attraverso i decreti legislativi rappresenta una sintesi altamente equilibrata dei valori di solidarietà, gradualità e responsabilità, e mette l’elettore nelle condizioni di esercitare effettivamente, attraverso una nuova trasparenza sulle voci di entrata e di spesa, il controllo democratico della sequenza “vedo, pago, voto”. Da questo punto di vista il federalismo fiscale va pienamente nella direzione del modello di Big Society  recentemente proposto da Cameron. Se non si deve sprecare e se i costi/fabbisogni standard metteranno in evidenza gli sprechi, non ci può permettere il lusso di una ideologia statalista. Si apre la sfida di ricostruire i modelli sociali sul presupposto di un’antropologia positiva. E’ la rivincita in chiave moderna di una tradizione di sussidiarietà scritta nel DNA della nostra storia, al punto da costituirne il segreto del suo sviluppo. Una tradizione che è stata combattuta in nome di un lusso ideologico che oggi, in tempi di crisi, non possiamo più permetterci. Il federalismo fiscale apre un nuovo spazio alla valorizzazione della sussidiarietà orizzontale e alle realtà sociali efficienti attive sui territori. La logica del federalismo fiscale è, infatti, quella di spingere alla valorizzazione delle risorse di cittadinanza attiva presenti sul luogo, piuttosto che far pagare ai cittadini i costi di un’ideologia che mortifica la libertà di scelta degli utenti e gonfia gli apparati delle burocrazie. Nel federalismo sussidiarietà orizzontale e sussidiarietà verticale sono facce di una stessa medaglia. Si tratta, in conclusione, di un processo che porta a scommettere e a puntare sulla valorizzazione della cittadinanza attiva, che porta a mettere il potere delle persone (people power) al centro del governo.

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