SOMMARIO:
1. Il Libro bianco sulla Governance.
2. Segue: i cambiamenti proposti dal Libro bianco: la democrazia regionale e locale.
3. Segue: la partecipazione della società civile.
4. Segue: l’informatica e l’opinione degli esperti.
5. Segue: il metodo, la cultura della consultazione e del dialogo, il miglioramento della normativa comunitaria.
6. Segue: il contributo dell’Unione alla Governance mondiale e la ridefinizione delle politiche e delle Istituzioni.
7. Il ruolo delle collettività regionali e locali nella Governance europea: dalla Landesblindheit alle innovazioni del Trattato di Maastricht.
8. Segue: il Comitato delle Regioni.
9. Segue: gli sviluppi della prassi. Le Associazioni territoriali.
10. Segue: le Associazioni territoriali e il rapporto con le Istituzioni europee.
11. La Governance nella Costituzione europea: il riparto delle competenze e il “dialogo sistematico” con le collettività regionali e locali.
NOTE



1. Il libro bianco sulla Governance

Il processo di integrazione europea non ha avuto solo il significato che molti dei suoi detrattori vorrebbero attribuirgli. Sarebbe riduttivo e superficiale – se non ingiusto – ritenere che esso, nei fatti, sia riuscito unicamente ad unire le economie dei vari Paesi, con risultati spesso discutibili. Molto di più, l’unificazione economica ha consentito che, al di là di ogni ottimistica previsione, l’Europa giungesse alla costruzione di un nuovo equilibrio (1) politico (2), caratterizzato da stabilità, pace e prosperità (3), e consentendo che ciascun Stato, dall’azione comune, potesse trarre vantaggio per il benessere dei propri cittadini (4).
Spesso tutto questo non appare di facile comprensione soprattutto per chi, come il cittadino europeo, sia portato a concludere che l’Unione rappresenti una costruzione artificiale, se non artificiosa, non essendogli del tutto chiaro quale sia la natura giuridica dell’Unione (5) e cosa aspiri a divenire (6), quali siano i suoi limiti geografici (7), gli obiettivi politici e il modo in cui i suoi poteri sono ripartiti con gli Stati membri (8).
Il cittadino europeo non ha una vera e propria coscienza europea (9) anzitutto perché non esiste ancora una reale Öffentlichkeit europea (10). Inoltre, benché i risultati del processo siano stati conseguiti attraverso il metodo democratico, e cioè per il tramite di un “doppio mandato” (il Parlamento europeo che rappresenta i cittadini dell’Unione e il Consiglio che riunisce i governi degli Stati membri), il cittadino continua a percepire tutto questo con un sentimento di estraneità, non essendo direttamente coinvolto nell’azione politica dell’Unione.
Il processo di riforma che il Libro bianco sulla Governance del 2001 intendeva rilanciare aveva ben presente tutto questo perché, nel tentativo di superare la diffidenza del cittadino nei confronti dell’Europa, inaugurava un dibattito “allargato” sul futuro dell’Unione e affacciava contestualmente soluzioni volte a ricollocare al centro della (ri)costruzione la società civile, consentendo che questa – nella prospettiva del cambiamento dell’Unione (allargamento dei compiti e allargamento dei confini) – partecipasse attivamente ad ogni fase dell’azione politica, da quella di definizione delle politiche europee fino a quella relativa alla loro attuazione (11).
Cinque erano i principi che venivano posti a base della buona Governance, e cioè: apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza. Nel tentativo di mitigare la costruzione verticistica delle relazioni in seno all’Unione, tali principi avrebbero dovuto attraversare ogni livello di governo (globale, europeo, nazionale, regionale e locale) ed “interagire” tra loro. In tale “interazione”, un ruolo centrale avrebbero avuto i principi di proporzionalità e di sussidiarietà, dovendosi verificare anzitutto la necessità di esercitare un’azione pubblica, l’opportunità che questa fosse demandata al livello europeo, la proporzionalità dell’azione in ragione degli obiettivi da raggiungere.


2. Segue: i cambiamenti proposti dal Libro bianco: la democrazia regionale e locale

Tra i cambiamenti proposti dal libro bianco vi era quello volto ad accrescere la partecipazione dei cittadini all’Unione, ossia rendere maggiormente democratico il processo di integrazione (12). Il conseguimento di tale obiettivo si sarebbe legato anzitutto alla formazione di un dibattito pubblico. Ciò, a sua volta, avrebbe chiesto che i cittadini fossero informati sugli accadimenti europei e quindi posti in condizione di seguire il processo politico in fieri. Per tutto questo, in particolare, si reputava necessario: ricorrere alla democrazia regionale e locale; prevedere la partecipazione della società civile; ricorrere a due elementi peculiari del mondo moderno, ossia all’informatica e all’opinione degli esperti.
Le relazioni “verticali” in seno all’Unione sono divenute più complesse e connotate da una maggiore interazione. Ad essersi modificate non sono solo le relazioni interne tra lo Stato e gli enti sub-statali, ma persino quelle che tradizionalmente hanno caratterizzato il diritto internazionale classico (13). L’attività dell’Unione ha finito per scavalcare il ruolo intermediario dello Stato ed è giunta progressivamente ad accostarsi agli ulteriori livelli di governo di cui si compone ciascun Stato membro, di modo che le collettività locali sono divenute responsabili della mancata attuazione di molte politiche dell’Unione, come ad esempio nel caso dell’agricoltura, dei fondi strutturali o dell’ambiente (14). Pur quando tale responsabilità non si configuri in modo diretto – ma solo proiettando sullo Stato la responsabilità del cattivo esercizio della propria competenza – è innegabile che ad un crescente intreccio delle relazioni verticali tra tutti i livelli di governo dovrebbe corrispondere un maggior coinvolgimento dei livelli stessi. Benché allo stato attuale i governi nazionali siano ancora restii ad accordare ai livelli locali una piena e diretta partecipazione alla politica dell’Unione, lo sforzo di quest’ultima deve andare in questa direzione. Come si auspica nel libro bianco, la Commissione, nell’elaborare le sue proposte terrà conto delle realtà regionali e locali, organizzando “in forma più sistematica un dialogo con le associazioni europee e nazionali delle amministrazioni regionali e locali” e rispettando “al tempo stesso le disposizioni costituzionali e amministrative di ciascun Stato membro”, in attesa che i tempi siano “naturalmente” più maturi (15). Inoltre, al fine di pervenire ad una maggiore flessibilità degli atti giuridici che l’eterogeneità delle condizioni in cui versano le collettività locali inevitabilmente richiede, la Commissione verificherà la possibilità di “migliorare l’attuazione di determinate politiche comunitarie mediante contratti tripartiti su obiettivi specifici, che verrebbero conclusi tra gli Stati membri, le regioni e le località da essi designate a tale scopo e la Commissione stessa” (16). Infine, la Commissione si prodigherà in favore di una politica globale più coerente, considerando quali politiche dell’Unione incidano sui livelli territoriali interni allo Stato membro e agendo in modo tale da consentire che tali politiche si emancipino da una logica settoriale e si sviluppino entro un quadro politico più unitario e coerente.


3. Segue: la partecipazione della società civile

“La società civile” – come si legge nel libro bianco – “comprende le organizzazioni sindacali e le associazioni padronali (le “parti sociali”), le organizzazioni non governative, le associazioni professionali, le organizzazioni di carità, le organizzazioni di base, le organizzazioni che cointeressano i cittadini nella vita locale e comunale, con un particolare contributo delle chiese e delle comunità religiose”. L’importanza della società civile sta tutta nella elementare considerazione che le “formazioni sociali” di cui essa si compone rappresentano i gangli spontanei (17) in cui trova sviluppo la personalità dell’uomo (18). Come a ragione si sottolinea nel libro bianco, in essa si raccolgono le preoccupazioni dei cittadini e si individuano risposte alle esigenze di tutti. Ciascuna a loro modo. Ciascuna pro parte. Ciascuna in base alla propria parziale ed opposta visione del mondo contribuisce secondo la capacità del proprio apporto alla costruzione della società civile, svolgendo compiti profondamente diversi. Alcune, come le organizzazioni sindacali e le associazioni padronali, persino esercitando un ruolo privilegiato ed un influsso del tutto particolare rispetto alle altre formazioni sociali, in quanto (già) direttamente considerati dal diritto dei trattati, che prevede che in fase di formazione delle proposte la Commissione debba consultare i datori di lavoro e i lavoratori, i quali, a determinate condizioni, possono concludere accordi vincolanti che successivamente entrano a far parte del diritto comunitario (con tutte le garanzie di cui tale diritto si circonda) (19).
La partecipazione della società civile consente, in altri termini, una maggiore partecipazione degli stessi cittadini ed è garanzia di un cambiamento delle idee, degli orientamenti politici, del rinnovo della stessa società (20). In ragione di ciò, ad un crescente coinvolgimento degli attori sociali nel processo di integrazione deve corrispondere anche una maggiore responsabilità di questi per l’azione svolta (21).


4. Segue: l’informatica e l’opinione degli esperti

La garanzia della partecipazione dei cittadini all’Unione si lega, inoltre, anche al ruolo assolto da due “elementi” tipici del mondo contemporaneo, ossia dall’informatica e dall’opinione degli esperti.
Nel primo caso, l’esistenza di una pluralità di reti, dovuta soprattutto ai processi di interdipendenza globale, non solo svilupperebbe il sentimento di appartenenza dei cittadini all’Unione, ma porrebbe in collegamento le imprese, le comunità, i centri di ricerca e le autorità regionali e locali, consentendo la formazione di un pluralismo delle idee e gettando persino “un ponte” – per riprendere le parole del libro bianco – “verso i Paesi interessati all’adesione e verso il mondo intero”. Per tale motivo – ed anche in ragione degli obiettivi perseguiti – alcune di esse già conoscono il sostegno finanziario della Comunità.
Quanto al ruolo determinante giocato dall’opinione degli esperti, occorre anzitutto considerare che, come molte questioni relative al settore della bioetica o a quello alimentare continuamente provano, sempre più l’assunzione della decisione politica non pare poter prescindere dalla previa conoscenza che si ha del parere tecnico-scientifico. Proprio le frequenti crisi che si sono registrate in alcuni settori, però, hanno gettato un’ombra di diffidenza sull’effettivo ruolo assolto dall’esperto, non essendo del tutto chiaro se la decisione sia nei fatti riconducibile all’esperto oppure all’autorità politica. Una maggiore partecipazione dei cittadini ed un miglioramento nell’elaborazione delle politiche comunitarie passa, pertanto, attraverso una maggiore informazione in ordine alle modalità dei lavori eseguiti dagli esperti. E più in generale attraverso la possibilità che le differenti opinioni scientifiche vengano raccolte e divulgate, in modo da costituire un sistema di riferimento scientifico affidabile, pluralistico ed integro a sostegno delle politiche dell’Unione (22).


5. Segue: il metodo, la cultura della consultazione e del dialogo, il miglioramento della normativa comunitaria

La riforma della Governance implica che si rivedano anche le modalità di esercizio dei poteri dell’Unione. In tale contesto un ruolo centrale dovrebbe essere svolto anzitutto dal metodo comunitario in luogo di quello governativo. Una estensione di esso ad un maggior numero di settori assicurerebbe un trattamento più equo tra tutti gli Stati, consentendo di conciliare tanto gli interessi dell’Unione (attraverso la Commissione), quanto gli interessi nazionali (attraverso la rappresentanza in seno al Consiglio e in seno al Parlamento).
In secondo luogo, occorre che le istituzioni europee, ed in particolare il Parlamento attraverso pubbliche audizioni, rafforzino la cultura della consultazione e del dialogo. Tale strada non appare percorribile ricorrendo ad atti normativi, che rischierebbero di conferire eccessiva rigidità al sistema, bensì per il tramite di un “codice di condotta comprendente criteri qualitativi minimi (standard), incentrati su argomenti, tempi, persone e modi della consultazione”. La fissazione di alcuni standard nel codice di condotta dovrebbe ridurre il rischio che l’azione politica prescinda da quelli che sono gli orientamenti della società o che possa corrispondere solo agli interessi di sparuti gruppi o di esigue organizzazioni. Ciò, tuttavia, non precluderà che la Commissione sviluppi accordi di partenariato oltre quanto fissato dal codice di condotta, che consentano di indurre le organizzazioni della società civile a modificare le proprie strutture, rendendole più aperte e maggiormente rappresentative.
In terzo luogo, nel quadro delle riforme dovrà essere ripensato anche il ruolo della normativa comunitaria. In linea con quanto si è detto, l’Unione dovrà migliorare la qualità, l’efficacia e la semplicità degli atti normativi, pensando anzitutto ad una maggiore flessibilità della loro tipologia attraverso una combinazione dei diversi strumenti di intervento pubblico e ponendo ciascun tipo di atto in collegamento con gli obiettivi del Trattato. Tali miglioramenti dipenderebbero da una serie di fattori, e cioè: 1) anzitutto dal fatto che sia necessario intervenire a livello europeo e che l’intervento debba necessariamente darsi attraverso un atto normativo, potendo quest’ultimo essere anche escluso dal ricorso ad altre forme di intervento oppure dalla combinazione con strumenti alternativi alla normazione (es. orientamenti, autoregolamentazioni, ecc.); 2) qualora si concludesse per la necessità dell’adozione di un atto normativo in relazione agli obiettivi dell’Unione, dovrà valutarsi quale sia lo strumento del tipo più adeguato. Così, ad es., l’opportunità di ricorrere al regolamento si presenterà ogni qual volta soccorrerà la necessità dell’uniformità e della certezza giuridica nell’applicazione della disciplina entro il territorio dell’Unione, mentre quella del ricorso alle direttive – che pur presentando il vantaggio della celerità nella adozione si espongono strutturalmente a considerevoli ritardi nel conseguente recepimento – si imporrà ogni qual volta si valuterà come sufficiente il ricorso a norme “meno imperative e più flessibili”; 3) il libro bianco chiede che a determinate condizioni si ricorra a misure di coregolamentazione (coinvolgendo nella relativa elaborazione e nella fase di attuazione i soggetti che siano direttamente coinvolti nella disciplina) e al c. d. metodo aperto di coordinamento, che – diversamente dal metodo comunitario – assumerebbe i tratti della cooperazione e dello scambio “delle pratiche migliori” tra gli Stati membri (23); 4) quanto al miglioramento della normazione dal punto di vista della semplicità – che non può non riflettersi anche sulla qualità e sull’efficacia della stessa –, quel che si auspica è l’avvio di “un ampio programma di semplificazione” delle norme vigenti, soprattutto procedendo alla abrogazione delle “disposizioni ridondanti ed obsolete”; 5) le soluzioni in ordine ai miglioramenti della normazione concernono soprattutto il piano europeo e i compiti di cui dovrà farsi carico l’Unione. A tale impegno dell’Unione dovrà corrispondere, però, anche un analogo dovere da parte degli Stati membri. Non solo procedendo, ad esempio, ad abrogare disposizioni che non siano (o potrebbero non esserlo più) in armonia con il diritto comunitario, ma – più attivamente – procedendo a migliorare l’applicazione della normativa sul piano nazionale. E’ fin troppo evidente che il futuro della normazione europea – meglio detto: dell’Unione stessa – dipenda unicamente dalla volontà e dalla capacità mostrata dalle autorità nazionali di garantire che il diritto europeo sia lasciato entrare integralmente, efficacemente e tempestivamente.


6. Segue: il contributo dell’Unione alla Governance mondiale e la ridefinizione delle politiche e delle istituzioni

Pur elaborati in vista dell’allargamento dell’Unione, i principi della buona Governance potrebbero costituire un punto di riferimento per la Governance mondiale. Ciò rappresenterebbe un passaggio “obbligato”, non solo perché in tal modo si perverrebbe alla costruzione di una Unione più autorevole sulla scena mondiale, ma anche perché l’attuazione di tali principi, conferendo un indubbio impulso alla costruzione della Governance mondiale, sortirebbe effetti anche sul piano europeo (24).
L’apertura alla dimensione mondiale richiederebbe nuovi strumenti di azione e istituzioni più moderne ed efficaci. Richiederebbe che l’Unione si doti di una propria rappresentanza in seno ai fori internazionali e regionali e che, attraverso il miglioramento degli attuali trattati, divenga maggiormente visibile agli occhi del mondo.
Inoltre, al fine di ristabilire i rapporti con i suoi cittadini, occorrerebbe un ripensamento complessivo delle politiche e delle istituzioni.
Sul primo versante ciò significa che l’Unione dovrebbe preventivamente comprendere quali siano gli obiettivi da perseguire nel lungo termine. In tal modo, una volta fissati nei trattati, essi sarebbero perseguibili con maggiore coerenza, in quanto una più chiara precisazione degli obiettivi consentirebbe all’Unione di indirizzare nel migliore dei modi la riforma delle sue politiche, garantendo che, nel processo di allargamento, il livello europeo non si indebolisca (né sul piano interno né sul piano esterno). Più concretamente ciò potrebbe voler dire, ad esempio, attribuire in capo alla Commissione compiti di programmazione strategica e di elaborazione politica da svolgere annualmente in riferimento ad un lasso temporale di due o tre anni.
Imprescindibilmente connesso alla riforma delle politiche si presenta, poi, la questione della ridefinizione delle istituzioni. Secondo quanto si afferma nel libro bianco, l’Unione dovrebbe “rivitalizzare” il metodo comunitario e ricondurre le istituzioni nel loro alveo “naturale”, facendo in modo che ciascuna istituzione svolga i compiti che le sono stati assegnati originariamente. Ciò comporta, pertanto, che la Commissione torni a proporre ed eseguire le politiche dell’Unione, che il Consiglio definisca l’indirizzo politico e che assieme al Parlamento adotti gli atti legislativi, e così via.


7. Il ruolo delle collettività regionali e locali nella Governance europea: dalla “Landesblindheit” alle innovazioni del Trattato di Maastricht

La politica mondiale, europea, nazionale e locale si è sviluppata secondo soluzioni pragmatiche e regole tecnocratiche, senza che il cittadino fosse in qualche modo posto nelle condizioni di partecipare alle decisioni che scandivano la propria esistenza. Tale esclusione – paradossalmente - ha finito per colmare il deficit di democrazia attraverso una legittimazione dei “risultati” anziché del “processo” (25).
Le proposte formulate nel Libro bianco, nel tentativo di rinnovare il processo politico europeo, muovono evidentemente da tale premessa, ed anche dalla consapevolezza – divenuta anch’essa paradosso – che la legittimazione a posteriori della costruzione europea si è già fatta “disincanto”.
La disaffezione del cittadino europeo reclama che si “torni dal cittadino”, riaprendo anzitutto i canali della democrazia regionale e locale.
L’attività dell’Unione – come si è già accennato – ha progressivamente inciso finanche sulla dimensione regionale e locale, consentendo che proprio su tale versante ricadessero gli effetti distorsivi della legittimazione dei risultati. Ciò non deve sorprendere. La sottoscrizione dei trattati istitutivi delle Comunità europee ha comportato che l’apertura dell’ordinamento statuale al processo di integrazione europea avvenisse non solo disattendendo la posizione dei livelli sub–statali – considerati unicamente dal punto di vista economico–geografico (26) – ma soprattutto violando sistematicamente le prerogative che ad essi riconosceva la Carta costituzionale (27). Man mano che si è proceduto nel segno dell’integrazione, il trasferimento dei poteri sovrani in capo al livello europeo ha, infatti, provocato un’erosione delle competenze attribuite sul piano interno senza che alla illegittimità del comportamento dello Stato, per un verso, e a quella (eventualmente) successiva delle istituzioni comunitarie, per altro verso (28), potesse in qualche modo porsi riparo sul versante istituzionale europeo (29).
A partire dal trattato di Maastricht – grazie anche ad una sensibilità sviluppatasi entro altri contesti (30) o comunque affermatasi nella prassi (31) – si è tentato di porre almeno in parte rimedio a tale situazione, recependo nel testo del Trattato alcune innovazioni in favore del livello regionale e locale; e nello specifico: attraverso l’introduzione del principio di prossimità (32) e del principio di sussidiarietà (33); aprendo le sedute del Consiglio dei ministri dell’Unione europea a rappresentanti degli Stati membri dotati di rango ministeriale (34); istituendo un Comitato delle Regioni (35).


8. Segue: il Comitato delle Regioni

L’esperienza decennale del ruolo assolto dal Comitato delle Regioni sul piano istituzionale europeo (36) ha mostrato come il suo specifico rilievo si leghi non tanto all’esercizio delle funzioni ad esso formalmente attribuiti dal trattato, quanto alla sua capacità di porsi, entro il processo di integrazione europea, come interlocutore chiave delle istituzioni comunitarie, in ordine alle problematiche emergenti in sede regionale.
Nel suo disegno originario – e da un punto di vista formale – il Comitato si presenta, infatti, come un mero organo consultivo della Comunità (37); per ciò solo, difficilmente potrebbe ritenersi che esso costituisca la sede istituzionale di rappresentanza (unitaria) degli interessi regionali presenti all’interno degli Stati membri. La conclusione, del resto, appare confortata anche dal dato normativo del trattato, che, in modo del tutto insoddisfacente, prevede: che il Comitato sia (promiscuamente) composto da “rappresentati delle collettività regionali e locali” (38); che i membri siano nominati dal Consiglio (39); che essi non siano vincolati ad alcun mandato imperativo (in quanto le funzioni esercitate devono collegarsi all’interesse generale della Comunità) (40); che il Comitato non sia una vera e propria istituzione comunitaria (41) e, pertanto, neppure un ricorrente privilegiato, in condizione di far valere dinanzi alla Corte di giustizia la lesione delle proprie prerogative (42).
Ed invero, se nel passaggio dalla fase di assoluta cecità delle Comunità a quella di apertura alla dimensione regionale l’impulso ad agire nel segno di una accettazione di quest’ultima sul piano istituzionale è stata dovuta, in ultima analisi, all’operato dello Stato membro (pur se sostenuto dall’iniziativa dei livelli regionali e locali), la prassi ha mostrato come, nel corso di quest’ultimo decennio, il Comitato delle Regioni sia stato, a più riprese, in condizione di influenzare le ulteriori tappe del processo di integrazione europea, attraverso una paziente attività spiegata spesso al di fuori delle previsioni del Trattato (43), ponendo all’attenzione dei suoi interlocutori le ragioni che consigliavano di procedere in un senso anziché in un altro (44).


9. Segue: gli sviluppi della prassi. Le Associazioni territoriali

Nonostante i miglioramenti ottenuti in seguito all’approvazione dei Trattati di Amsterdam e di Nizza (45) il Comitato delle Regioni resta, a tutt’oggi, un organo con evidenti limiti non solo funzionali, ma anche strutturali. L’insoddisfazione, infatti, si manifesta soprattutto in relazione alla composizione del Comitato, in quanto, come si è detto, esso riunisce al suo interno “rappresentanti delle collettività regionali e locali”, senza aver riguardo alla differente posizione goduta entro l’ordinamento nazionale dalle regioni rispetto a quella degli enti locali (46) e senza considerare che in alcune esperienze le regioni sono titolari di vere e proprie competenze legislative distinte da quelle dello Stato di appartenenza (47). Con riferimento a tale ultimo profilo, inoltre, non risulterebbe neppure chiaro a quale tipo di istituzione debba spettare la relativa rappresentanza, essendo questa rivendicata tanto dalle assemblee elettive quanto dagli esecutivi locali (48).
La questione della contestuale presenza dei livelli regionali e locali entro il Comitato ha indotto taluni, in passato, a ritenere che le future riforme dell’Unione dovessero considerare il differente tipo di rappresentanza espresso per il tramite dei suoi membri. Nonostante che i componenti dell’organo comunitario fossero, infatti, chiamati ad assolvere il proprio mandato nell’interesse esclusivo della Comunità, era innegabile che la partecipazione all’organo tendesse a giustificarsi, in ultima analisi, in base al collegamento con la comunità di provenienza (49). Entro tale prospettiva sarebbe stato quindi opportuno procedere ad una separazione dei piani della rappresentanza, attraverso uno sdoppiamento della struttura del Comitato in due differenti rami (50).
Quanto al problema della confluenza, entro un unico modello, di differenti “tipi” di regione, il dibattito politico si è sviluppato in modo parallelo a quello relativo al soggetto legittimato ad esprimere la corrispondente rappresentanza.
Reputando di non essere adeguatamente rappresentate entro l’organo comunitario, nel 1997 alcune regioni dotate di poteri legislativi hanno dato vita ad una Conferenza delle Assemblee Legislative Regionali Europee (Oviedo, 7 ottobre 1997). Si tratta di un’associazione che raggruppa i “Parlamenti” di 74 Regioni di 8 Paesi dell’UE, e cioè i Parlamenti delle Comunità autonome spagnole, i Consigli regionali italiani, le Assemblee delle Regioni e delle Comunità belghe, il Parlamento autonomo di Åland (Finlandia), le Assemblee regionali delle Azzorre e di Madeira (Portogallo), il Parlamento della Scozia, del Galles e dell’Irlanda del Nord (Regno Unito), e si compone di un’Assemblea plenaria e di un Comitato permanente (8 membri). Tra i documenti approvati dalla Conferenza, occorre senz’altro menzionare la Dichiarazione di Madeira (Funchal, 30 ottobre 2001) (51), in cui si è proposto, tra l’altro, che i Trattati includano uno “Statuto delle regioni dotate di potere legislativo”, che procedano ad un rafforzamento della posizione del Comitato delle Regioni, che garantiscano il “diritto di intervento degli Stati federati e delle Regioni dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee” e i diritti di auto-amministrazione dei livelli regionali e locali. In essa, inoltre, dopo essersi ricordato che le Assemblee legislative sono, assieme ai Parlamenti nazionali e al Parlamento europeo, “strumenti indispensabili nel processo di costruzione europea, si è sostenuto che le relazioni tra i tre livelli parlamentari debbano informarsi al “principio di cooperazione interparlamentare”, reputandosi, per conseguenza, opportuno rafforzare il ruolo delle Assemblee legislative regionali all’interno degli Stati membri, aprire a dette Assemblee la COSAC (“Conferenza degli Organi Specializzati negli Affari comunitari”) (52) e riconoscere le stesse, “nei testi e nelle istituzioni dell’Unione”, come interlocutori ufficiali dell’Unione (53).
In modo parallelo all’azione extraistituzionale esercitata da tali “Parlamenti”, però, anche gli esecutivi delle Regioni dotate di potere legislativo hanno dato vita ad una autonoma associazione, adottando, a partire dal 2000 (54), diverse importanti risoluzioni, attraverso le quali si è rivendicata una partecipazione più attiva di tali Regioni al processo di integrazione europea, a cominciare dall’inclusione di propri rappresentanti in seno alle delegazioni nazionali presenti in sede di Convenzione


10. Segue: le Associazioni territoriali e il rapporto con le Istituzioni europee

L’azione esercitata sul piano extraistituzionale dalle suddette Conferenze è stata in un primo momento avversata dal Comitato delle Regioni, in considerazione del fatto che nessuna associazione o altra istituzione sarebbe stata in condizione di rappresentare in modo unitario la componente territoriale dell’Unione (55). In un parere reso il 21 novembre 2001, il Comitato aveva ribadito che esso fosse “un organo politico che rappresenta gli interessi generali degli enti territoriali decentrati dell’Unione” e che, in ragione di ciò, si ponesse “su un piano diverso rispetto a quello della società civile, sede dello spontaneo organizzarsi degli interessi particolari, (ed) anche diverso da quello delle Associazioni europee dei poteri regionali e locali” (56). La progressiva visibilità (e la credibilità, forse, legata alla matrice politica) di tali Conferenze, unitamente al crescente aumento del numero delle collettività locali e regionali (dovuto tanto ai processi di regionalizzazione interni agli Stati membri, quanto all’ingresso nell’Unione di ulteriori dieci Stati) ha, però, capovolto tale situazione, dischiudendo nuove prospettive di carattere istituzionale per le Associazioni regionali (57). A tal proposito occorre menzionare almeno tre novità.
La prima concerne i rapporti della Conferenza delle Assemblee legislative regionali europee con il Comitato delle Regioni. Nell’agosto del 2003, il Segretario Generale del Comitato delle Regioni e il Segretario Generale pro tempore della Conferenza delle Assemblee legislative regionali europee hanno siglato un “Piano d’azione congiunta CdR-CALRE 2003/2004”, con cui si è convenuto di intensificare la cooperazione tra l’organo comunitario e l’associazione attraverso l’individuazione di due distinte priorità: la formulazione di una strategia in comune, tesa ad influenzare i lavori della Conferenza intergovernativa, e lo svolgimento di alcune attività volte a rafforzare la democrazia regionale in Europa.
La seconda investe il piano delle relazioni tra tale Conferenza ed il Parlamento europeo. Sulla base di alcuni accordi intercorsi tra tale associazione e la Presidenza della Commissione per le politiche regionali, per i trasporti e per il turismo del Parlamento europeo, l’istituzione comunitaria si è impegnata a garantire “un ampliamento delle relazioni istituzionali tra il Parlamento europeo e i Parlamenti regionali mediante la presenza di rappresentanti istituzionali dei Parlamenti regionali con diritto a prendere la parola in seno ai dibattiti della Commissione e mediante il riconoscimento dell’iniziativa a presentare alla Commissione stessa proposte di risoluzione approvate dai Parlamenti regionali su questioni che possano essere adottate come proprie dai gruppi parlamentari europei” (58).
La terza, invece, concerne i rapporti tra tutte le associazioni territoriali e la Commissione europea. Il 19 dicembre del 2003, la Commissione, attraverso una Comunicazione intitolata significativamente “Dialogo con le associazioni territoriali sull’elaborazione delle politiche dell’Unione” (59), si è impegnata ufficialmente a garantire il coinvolgimento delle Associazioni territoriali nella fase preliminare del procedimento di elaborazione legislativa e nella discussione del Programma di lavoro annuale (60).


11. La Governance nella Costituzione europea: il riparto delle competenze e il “dialogo sistematico” con le collettività regionali e locali

Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa non sembra tenere in debito conto le proposte elaborate dal Libro bianco sulla Governance, né tradurre sul piano normativo i successi che le collettività regionali e locali hanno conseguito faticosamente in via di prassi. Al contrario: l’obiettivo cui tendeva il Libro bianco risulta essere completamente tradito nello spirito e nella lettera, in quanto la legittimazione del risultato – una nuova Unione, diversa dalla precedente per un maggior ampliamento “orizzontale” (venticinque Stati) e “verticale” (nuovi settori di competenza, che spaziano dalla Politica estera alla criminalità organizzata) della propria struttura – non poggia, come auspicava la Commissione, sulla partecipazione e sul coinvolgimento dei cittadini, della società civile e degli enti territoriali.
Tutto questo, infatti, avrebbe richiesto che ad un modello di imposizione dall’alto delle politiche si sostituisse un modello “partecipato”, ossia “un circolo virtuoso, basato sul feedback, sulle reti e su una partecipazione a tutti i livelli, dalla definizione delle politiche fino alla loro applicazione” (61). E che pertanto, si pervenisse, solo per fare un esempio, anzitutto ad un diversificato utilizzo degli strumenti normativi, disciplinando il ricorso a modelli alternativi a quelli tradizionali. Ma ciò non è stato. Sarebbe sufficiente, al riguardo, analizzare la disciplina delle singole politiche dell’Unione per scorgere come nel disegno del Trattato il ricorso ad atti diversi da quelli tradizionali non sia affatto preso in considerazione espressamente: mentre, infatti, il ricorso ad atti giuridici obbligatori o vincolanti è imposto per ogni politica dell’Unione, quello degli atti “alternativi” è del tutto rimesso alla prassi, per gli ambiti lasciati liberi dal Trattato.
Del resto, nonostante i numerosi riferimenti che il testo effettua al sistema delle autonomie territoriali (62), neppure può dirsi che le novità introdotte in favore delle collettività regionali e locali siano davvero consistenti o del tutto soddisfacenti, come stanno a dimostrare gli esempi che seguono.
1) Lo sviluppo di una reale Governance richiederebbe – come da più parti si auspica – anzitutto una migliore e più chiara delimitazione delle competenze. Ma che questo sia avvenuto con il Trattato è un dato ancora tutto da verificare.
In base al disegno tracciato dagli artt. I-11 ss., la delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda ancora una volta sul principio di attribuzione, mentre ogni competenza non attribuita formalmente all’Unione resta nelle mani degli Stati membri. Accanto a tali due tipi di competenza “esclusiva” si collocano quella “concorrente” e quella di “sostegno, di coordinamento o di complemento”.
Nei settori per i quali si afferma la competenza concorrente dei due livelli, l’effettivo esercizio della stessa soggiace al rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, secondo le regole stabilite dal Protocollo sull’applicazione di detti principi. Il che vuol dire che l’Unione è autorizzata ad intervenire solo se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri, “né a livello centrale, né” – ed è questa la novità – “a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere meglio raggiunti a livello di Unione”.
Non è chi non veda come il riferimento ai livelli regionale e locale non sia di per sé una garanzia per detti livelli, ma semmai un elemento che potrebbe rafforzare lo spostamento della decisione in capo all’Unione, in quanto, se in passato la legittimazione dell’intervento dell’Unione poggiava unicamente su una valutazione che considerava la disciplina di un dato settore in relazione ai livelli Unione–Stato, oggi la valutazione dell’intervento attrae a sé anche la valutazione dell’impossibilità che l’esercizio della competenza possa darsi in modo soddisfacente da parte dei livelli interni allo Stato. Con il rischio, però, che ciò costituisca, in realtà, un titolo di legittimazione in più perché l’Unione rivendichi a sé l’esercizio della competenza. Del resto, anche qualora lo spostamento avvenisse in capo allo Stato e non all’Unione, i livelli interni non sarebbero mai in condizione di reclamarne l’esercizio, poiché la violazione dei principi di sussidiarietà – secondo le regole del Trattato e del Protocollo – può essere fatta valere dai Parlamenti nazionali o dal Comitato delle Regioni, ma non certo dagli enti territoriali interni allo Stato (63).
A ciò si aggiunga che la delimitazione del riparto di competenza si presenta ambiguo anche per altri motivi.
Anzitutto perché la stessa disciplina del modello c.d. “concorrente” sembra, in parte, contraddire la logica della sussidiarietà, poiché, affermandosi che “gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria o ha deciso di cessare di esercitarla” (art. I-12.2), il Trattato pare dimenticare che – secondo tale logica – l’intervento dell’Unione dovrebbe essere residuale.
In secondo luogo, perché ambiguo risulta essere anche il modello della competenza di sostegno, coordinamento o complemento per i settori indicati all’art. I-17. Si tratta di settori che in realtà dovrebbero ricadere nella competenza esclusiva dello Stato, in quanto non espressamente attratti né in quella esclusiva, né in quella concorrente dell’Unione. La previsione dell’esercizio di tale “tipo” di competenza, che nel sistema attuale risulta praticamente attratto nella competenza concorrente dell’Unione e dello Stato, sfugge al rispetto della sussidiarietà, proprio perché l’esercizio della competenza è volta a sostenere, coordinare o completare l’azione dello Stato membro; con la possibilità che, in realtà, ciò finisca per costituire un’occasione in più perché l’Unione attragga a sé l’intero esercizio, trasformando di fatto tale competenza in competenza in “esclusiva” dell’Unione (64).
In terzo luogo, non va dimenticato che il Trattato codifica sotto mentite spoglie la clausola dei c. d. “poteri impliciti”, chiamandola ora “clausola di flessibilità”, che già in passato aveva profondamente diviso la dottrina per la funzione unificante che sarebbe propria delle clausole di questo tipo. L’art. I-18 afferma che se un’azione dell’Unione appare necessaria per realizzare uno degli obiettivi posti dalla Costituzione, senza che si siano previsti poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio dei ministri, deliberando all’unanimità e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le misure appropriate. Che il rischio di un’azione unificante con cui si stravolga il sistema delle competenze sia probabile appare evidente dalla precisazione posta al § 2 dell’articolo, ove si dice che, in tal caso, “la Commissione europea, nel quadro della procedura di controllo del principio di sussidiarietà di cui all’art. I-11, paragrafo 3, richiama l’attenzione dei Parlamenti nazionali sulle proposte fondate sul presente articolo”. Ma si tratta di una precisazione inutile.
In quarto luogo, si deve anche tener conto che il riparto di competenza disegnato in via generale nella parte dedicata ai “principi fondamentali” risulta fortemente condizionato dalla effettiva disciplina delle singole politiche. La quale molto spesso considera già a priori come necessaria l’azione dell’Unione, fissando, per conseguenza, regole tutt’altro che flessibili. Si pensi al settore dell’ambiente (Sezione 5, artt. III-233 ss.). In esso, dopo essersi precisati gli obiettivi della “politica dell’Unione in materia ambientale”, si prevede, ad esempio: che la legge o la legge quadro europea “stabilisce le azioni che devono essere intraprese per realizzare gli obiettivi” (art. III-234, § 1); che in deroga a ciò il Consiglio adotta all’unanimità leggi o leggi quadro europee, con cui si prevedano specifiche misure (art. III-234, §2); che, fatte salve talune misure adottate dall’Unione, siano gli Stati membri a provvedere in ordine al finanziamento e all’esecuzione della politica in materia ambientale (art. III-234, §4).
2) Nel Libro bianco sulla Governance, la Commissione ha sostenuto che la realizzazione della democrazia regionale e locale non può prescindere dalla organizzazione di un dialogo sistematico con le collettività regionali e locali. La qual cosa richiederebbe che il Trattato preveda norme ad hoc, con cui si scandiscano i tempi e le modalità del dialogo e si precisino gli oggetti sui quali dette collettività sarebbero chiamate a “dialogare” con le Istituzioni. Anche in tal caso, però, le proposte tradiscono di gran lunga le aspettative.
Il Titolo VI del Trattato – denominato “Vita democratica dell’Unione” – disciplina due differenti aspetti della democrazia, e cioè la democrazia “rappresentativa” e quella “partecipativa”. Nell’ambito della democrazia rappresentativa (art. I-46) si afferma, sia il diritto di “ogni cittadino” di “partecipare alla vita democratica dell’Unione”, e sia il principio che “le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina al cittadino”. La disposizione sulla democrazia partecipativa (art. I-47), poi, precisa che “le Istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione”, che “mantengono un dialogo aperto trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e con la società civile” e che, “al fine di assicurare la coerenza e la trasparenza delle azioni dell’Unione, la Commissione procede ad ampie consultazioni delle parti interessate” (65).
Come si vede, il tentativo di razionalizzazione del dialogo sistematico appare del tutto insoddisfacente, in quanto non risulta precisato in alcun modo quali siano le parti interessate, gli oggetti sui quali la Commissione sarebbe tenuta a procedere alla consultazione, quali siano le modalità della consultazione e, soprattutto, quali siano i poteri che tali soggetti possano esercitare in fase di audizione (66). Con la conseguenza che la coerenza e la trasparenza delle azioni dell’Unione troveranno una garanzia ancora una volta nella buona volontà dei soggetti che animano la prassi (67).


NOTE

(1) Nella storia d’Europa il principio di equilibrio ha radici antiche, risalendo addirittura al cinquecento, allorquando, cioè, grazie all’elaborazione dei trattatisti e alla consacrazione dei vari governi, esso diviene vera e propria “ideologia politica europea” (così F. CHABOD, Il principio dell’equilibrio nella storia d’Europa, in ID., Idea di Europa e politica dell’equilibrio, Bologna 1995, 3 ss., 6). Se per l’innanzi poteva discorrersi di equilibrio unicamente (ed in linea teorica) con riferimento ai rapporti tra l’Impero e la Chiesa (e non già tra le varie parti dell’Impero stesso) è solo con la dissoluzione dell’Impero che tale principio assurge a “regola” di diritto internazionale, in quanto strettamente connesso al fatto della creazione degli Stati nazionali. Da tale punto di vista, la nascita delle Comunità europee nel dopoguerra assume un significato che trascende il dato meramente economico, poiché nel tentativo di ridisegnare il nuovo ordine europeo finisce per rendere esattamente un nuovo equilibrio politico all’Europa (cfr. anche infra alla nt. successiva), soffocando, con ciò, definitivamente la dottrina degli interessi nazionali. E’ questo del resto il significato sotteso oggi alla previsione contenuta nella disposizione dell’art. I-5 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, ove, proprio contrapponendovi la tutela della identità nazionale, si (ri)afferma la perfetta eguaglianza tra tutti gli Stati facenti parte dell’Unione. Sulla contrapposizione tra principio dell’equilibrio e dottrina degli interessi (che si ricollega all’idea della ragion di Stato) v., ancora, F. CHABOD, I principi dello Staatensystem europeo fra medioevo e modernità. A proposito di un libro di Walter Kienast, in Riv. stor. it., 1936, 86 ss., ora in ID., Idea di Europa, cit., 93 ss., 98 s.; più in generale, tra gli scritti più risalenti dedicati al tema, v. almeno E. NYS, La théorie de l’équlibre européen, in Revue de droit intern. et de législ. comp., 1893, 34 ss.; E. KAEBER, Die Idee des europäischen Gleichgewichts in der publizistischen Literatur vom 16. bis zur Mitte des 18. Jahrunderts, Berlin 1907.
(2) Sul rapporto tra integrazione economica e finalità politica dell’integrazione cfr. U. EVERLING, Überlegungen zur Struktur der Europäischen Union und zum neuen Europa-Artikel des Grundgesetzes, in DVBl., 1993, 936 ss., 937: “die Politische Finalität war von Anfang an in der Gemeinschaft angelegt und kommt seit langem in der Praxis zum Ausdruck”; ma già prima dello stesso v. Von Zweckverband zur Europäischen Union – Überlegungen zur Struktur der Europäischen Gemeinschaft, in R. STÖDTER-W. THIEME, Hamburg-Deutschland-Europa. Beiträge zum deutschen und europäischen Verfassungs-, Verwaltungs- und Wirtschaftsrecht. Festschrift für Hans Peter Ipsen, Tübingen 1977; in tal senso cfr. anche quanto già scriveva K. CARSTENS, Das politische Element in der Europäischen Gemeinschaft, in Festschrift für Walter Hallstein, Frankfurt a. M. 1966, 96 ss., nonché i cenni di R. MONACO, Preambolo, in R. QUADRI-R. MONACO-A. TRABUCCHI, Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell‘acciaio. Commentario, vol. I, Milano 1970, 30 ss., 32.
(3) Cfr. i riferimenti alla “paix mondiale”, alle “relations pacifiques”, alla “solidarité de fait”, al “progrès des oeuvres de paix”, alla “communauté plus large et plus profonde entre les peuples longtemps opposé par les divisions sanglantes”, alle “bases d’institutions capables d’orienter un destin désormais partagé” contenuti nel Preambolo del Trattato CECA del 1951, nonché quelli alla “unione sempre più stretta fra i popoli europei”, al “progresso economico sociale”, al “miglioramento delle condizioni di vita”, alla “solidarietà che lega l’Europa ai Paesi d’oltremare”, alle “difese della pace e della libertà” contenuti nel Preambolo del Trattato CEE del 1957.
(4) Come già sottolineava H. P. IPSEN, Zur Gestalt der Europäischen Gemeinschaft, in AA. VV., Rechtsvergleichung, Europarecht und Staatenintegration, München 1983, 283 ss., l’azione comunitaria aveva ad oggetto solo determinati e limitati settori del Wohlfahrstaat e non incideva, per conseguenza, sul fondamento della Staatlichkeit. Le Comunità erano titolari di interessi particolari e differenti rispetto a quelli dello Stato membro, pur agendo, in ultima analisi, in vista del bene sociale dello stesso Stato; in tal senso cfr. anche ID., Über Supranationalität, in Festschrift für Ulrich Scheuner zum 70. Geburtstag, Berlin 1973, 211 ss.
(5) Sul punto, con posizioni differenti, v. ad es. D. CURTIN, The constitutional strukture of the Union: a Europe of bits and pieces, in CMLRev, 1993, 30, 17 ss.; A. D. PLIAKOS, La nature juridique de l’Union européenne, in RTDE, 1993, 185 ss.; O. DÖRR, Zur Rechtsnatur der Europäischen Union, in EuR, 1995, 334 ss.; D. BUCHWALD, Zur Rechtsstaatlichkeit der Europäischen Union, in Der Staat, 1998, 189 ss.; cfr. anche BVerfGE 89, 155, 181, che com’è noto, accogliendo la definizione resa da P. Kirchhof, qualificava l’Unione quale Staatenverbund; da ultimo, per un interessante tentativo volto a qualificare l’Unione europea quale Bund v. C. SCHÖNBERGER, Die Europäische Union als Bund. Zugleich ein Beitrag zur Verabschiedung des Staatenbund-Bundesstaat-Schemas, in AöR, 2004, 81 ss.
(6) Nonostante il Titolo I della Parte I del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa sia intitolato “Definizione e obiettivi dell’Unione”, il nuovo documento costituzionale non reca alcuna definizione della natura giuridica dell’Unione, limitandosi espressamente a stabilire che l’Unione ha personalità giuridica (art. I-7). Ad un esame più attento delle disposizioni sparse nella stessa Parte I si ricava però la conclusione che il concetto di Unione europea istituita dal Trattato (art. I-1) sia più lato di quello presupposto per l’innanzi, in quanto esso non considera unicamente gli Stati membri: cfr. ad es. l’art. I-1.1., ove l’istituzione dell’Unione viene ricollegata alla “volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa”; l’art. I-3.1., in cui si afferma che “l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”; l’art. I-3.2., ove lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia viene offerta dall’Unione “ai suoi cittadini” (corsivi non testuali).
(7) E’ appena il caso di osservare che il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa sembra in qualche modo tentare di definire i confini dell’Unione, in quanto come si evince dagli artt. I-1.2. e I-58, l’Unione “è aperta a tutti gli Stati europei che rispettano i suoi valori e si impegnano a promuoverli congiuntamente” (corsivo non testuale); la qual cosa, lungi dal costituire un pleonasmo, pare presupporre due condizioni, ossia: 1) che si tratti di Stati che geograficamente appartengano al Continente europeo; 2) che si tratti di Stati che possiedano una medesima tradizione giuridica e politica, ossia che siano accomunati da medesimi “valori” di fondo, richiamati all’art. I-2 del Trattato; cfr. del resto anche l’art. I-3.4., ove non a caso l’Unione (rectius: i suoi valori e i suoi interessi) viene opposta al “resto del mondo”.
(8) Il nesso tra obiettivi e poteri dell’Unione (nel riparto delle competenze con gli Stati membri), così come la natura politica degli obiettivi stessi appare di elementare evidenza nel disegno predisposto dal Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa: cfr. l’art. I-3.
(9) Cfr. J. MAGONE, La costruzione di una società civile europea: legami a più livelli tra comitati economici e sociali, in A. VARSORI, Il Comitato Economico e Sociale, cit., 222 ss., 226: “alla fine del 1995 il 5% degli intervistati si sentivano solamente europei, il 6 % più europei che legati alla realtà nazionale, il 48 % più legati alla realtà nazionale che a quella europea, e il 40 % solo a quella nazionale”.
(10) Muovendo da una concezione “funzionale di opinione pubblica”, sostenuta con vigore da N. LUHMANN, L’opinione pubblica, in Stato di diritto e sistema sociale, trad. it., II ed., Napoli 1990, 81 ss., in base alla quale il problema dell’opinione pubblica consisterebbe, in realtà, in un problema di comunicazione politica, ove quel che conta – in ragione della complessità dei rapporti sociali – non sarebbe tanto il contenuto dell’opinione e quindi la sua giustezza, quanto la scelta dei “temi” (ossia “quei complessi di senso indeterminati o più o meno suscettibili di sviluppo, dei quali si può discutere e avere opinioni uguali, ma anche diverse” e che “costituiscono la struttura di ogni comunicazione”), può forse ritenersi che la formazione di una Öffentlichkeit europea non possa prescindere dalla capacità che un “tema”, in virtù della sua attitudine a “diminuire l’insicurezza” e a “fornire strutture”, acquisti “autoevidenza” in sede europea. Per una differente ricostruzione del concetto di opinione pubblica v. J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it., 8ª ed., Roma–Bari 2001.
(11) Sulle iniziative intraprese a seguito dell’adozione del libro bianco sulla Governance, relativamente alla partecipazione della società civile, cfr. COMMISSIONE EUROPEA, Relazione generale sull’attività dell’Unione europea 2002, Bruxelles–Lussemburgo 2003, 19, e COMMISSIONE EUROPEA, Relazione generale sull’attività dell’Unione europea 2003, Bruxelles–Lussemburgo 2004, 23.
(12) Tale idea – come risulta evidente dalle novità introdotte dal Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa – si ricollega ad una concezione partecipativa della democrazia, in base alla quale il cittadino viene attivamente coinvolto nei processi di governo. Su ciò, nonché sulle due ulteriori distinzioni di tale concezione (“repubblicana” e “comunitaria”), v., da ultimo, S. N. EISENSTADT, Paradossi della democrazia. Verso democrazie illiberali?, trad. it., Bologna 2002, 15 ss.; in argomento più diffusamente C. PATEMAN, Partecipation and Democratic Theory, Cambridge 1970.
(13) La stessa nascita delle Comunità europee, del resto, alimentava un’accesa discussione sulla natura giuridica dei rapporti intercorrenti con gli Stati membri. I quali, producendo effetti del tutto atipici rispetto a quelli conseguenti alle relazioni di diritto internazionale, finivano per disorientare la dottrina giuspubblicistica: per l’opinione volta comunque ad attribuire a tali rapporti natura di diritto internazionale v. ad es., pur se con sfumature diverse, G. BARILE, Diritto internazionale e diritto della CECA, in AA. VV., Atti ufficiali del congresso internazionale di studi sulla CECA, II, Milano 1957-1959, 92; G. BALLADORE PALLIERI, Le Comunità europee e gli ordinamenti interni degli Stati membri, in Dir. intern., 1961, 3 ss.; A. MIGLIAZZA, Le Comunità europee in rapporto al diritto internazionale e al diritto degli Stati membri, Milano 1964, 55 ss., ed ivi letteratura citata; sul punto v. anche H. P. IPSEN, Europäisches Gemeinschaftsrecht, Tübingen 1972, 185, 193 ss., il quale, nel confutare tale prospettiva, parla di “pregiudizio internazionalistico”; ma v. già le critiche di G. MORELLI, Appunti sulla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, in Riv. dir. intern., 1954, 3 ss.
(14) Su ciò v. più oltre al § 11.
(15) Cfr. la Risoluzione del Parlamento europeo del 14 gennaio 2003 con cui si è caldeggiato il recepimento, soprattutto nella Costituzione europea, di nuovi modelli di partecipazione delle collettività regionali e locali, in particolare nella fase di preparazione delle decisioni comunitarie e di attuazione delle politiche dell’Unione (Boll.1/2-2003, punto 1.1.13); cfr. anche la Comunicazione della Commissione del 19 dicembre 2003, Dialogo con le associazioni di enti territoriali sull’elaborazione delle politiche dell’Unione Europea, COM (2003) 811 e Boll. 12-2003, punto 1.3.111; su ciò v., comunque, più oltre, § 10.
(16) Cfr., a tal proposito, la quarta comunicazione dell’11 dicembre 2002, con cui la Commissione chiarisce il quadro per i contratti e le convenzioni tripartite di obiettivi: COM (2002) e Boll. 12-2002, punto 1.1.12; cfr., inoltre, COMMISSIONE EUROPEA, Relazione generale sull’attività dell’Unione europea 2003, cit., 27, ove si riferisce di tre progetti pilota relativi al settore della politica europea di protezione dell’ambiente e riguardanti la stipulazione di convenzioni tripartite di obiettivi, promossi dagli enti locali, con il sostegno di autorità regionali e centrali degli Stati membri rispettivi, ed appoggiati dalla Commissione: sulla mobilità urbana a Birmingham (Regno Unito), sulla mobilità urbana e sulla qualità dell’aria a Pescara (Italia), sulla gestione degli spazi verdi urbani a Lille (Francia).
(17) Cfr. a tal proposito C. FRANTZ, Der Föderalismus als das leitende Prinzip für die soziale, staatliche und internazionale Organisation, unter besondere Bezugnahme auf Deutschland, kritisch nachgewiesen und kostruktiv dargestellt, Mainz 1879, il quale, proprio in virtù del naturale impulso alla federazione da parte del singolo entro ogni livello della società, rifiuta la tradizionale concezione (ottocentesca) della società separata dallo Stato; per l’A. esisterebbe unicamente la Staatsgesellschaft; per una rilettura delle tesi di Constantin Frantz v. E. DI SALVATORE, Constantin Frantz e la dottrina del “Federalismo organico”, in Teoria del diritto e dello Stato, 1-2004, 134 ss.
(18) V. ad es. l’art. 2 Cost. it., il quale non a caso pone in collegamento lo sviluppo della personalità dell’uomo con la partecipazione dello stesso entro le formazioni sociali; sul significato di tale collegamento v., per tutti, C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, 8ª ed. agg., Padova 1969, 146 s.
(19) Il ruolo privilegiato che, in seno alla società civile, molte associazioni o organizzazioni rivestono, è dettato anche dal fatto che alcune di esse costituiscono vere e proprie lobbies, riuscendo, com’è noto, ad inserirsi e ad influenzare in modo informale il processo decisionale; in argomento v. S. S. ANDERSEN–K. A. ELIASSEN, Informal processes: lobbyng, actor strategies, coalitions and dependencies, in ID., Making Policy in Europe, London – Thousand Oaks – New Dehli 2001, 44 ss.; sul punto v. anche E.-W. BÖCKENFÖRDE, Die politische Funktion wirtschaftlich-sozialer Verbände und Interessenträger in der sozialstaatlichen Demokratie. Ein Beitrag zur Problem der »Regierbarkeit«, in ID., Staat, Verfassung, Demokratie. Studien zur verfassungstheorie und zum Verfassungsrecht, 2. Aufl., Frankfurt a. M. 1992, 406 ss., 410 ss., il quale, tra l’altro, sottolinea come a tali associazioni o organizzazioni siano ricollegabili tre differenti funzioni: “die Beeinflussungs- oder Pressionsfunktion, die Vereinheitlichungs- und Informationsfunktion sowie die Integrations- bzw. Entlastungsfunktion”; per tale A., più propriamente, il primo tipo di funzione si indirizzerebbe, al tempo stesso, “all’opinione pubblica” e “ai partiti politici e alle istanze governative e parlamentari”(p. 412); sul punto v. utilmente anche le osservazioni di C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 144 s.
(20) Sul piano istituzionale la partecipazione della società civile trova inveramento nell’istituzione del Comitato economico e sociale di cui all’art. 257 TCE, il quale prevede: “Il Comitato è costituito da rappresentanti delle varie componenti di carattere economico e sociale della società civile organizzata, in particolare dei produttori, agricoltori, vettori, lavoratori, commercianti e artigiani, nonché delle libere professioni, dei consumatori e dell’interesse generale”. Il Comitato – denominato a seguito dell’adozione del regolamento interno del 2002 Comitato economico e sociale europeo – è un organo di consultazione, istituito sin dall’atto di fondazione delle Comunità europee e deputato alla formulazione di pareri obbligatori, facoltativi o di iniziativa propria in relazione all’attività del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europeo. Nonostante il conseguimento di una maggiore autonomia nel corso degli anni (autonomia finanziaria; potere di autoregolamentazione e di nomina dei suoi funzionari), il peso politico del Comitato in seno all’Unione è venuto via via scemando. Tra le cause che hanno determinato tale situazione va senz’altro annoverata quella relativa all’acquisizione di un maggior peso della consulenza tecnico-scientifica dei gruppi di esperti e delle lobbies sul piano dei processi decisionali portati avanti dalla Commissione. Sul punto v. R. CADIN, Art. 257, in A. TIZZANO, Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, Milano 2004, 1206 ss., ed ivi richiami alla normativa e alla giurisprudenza comunitaria relativa all’autonomia finanziaria, organizzativa e strutturale, nonché funzionale del Comitato (p. 1208 s.); sulla nascita del Comitato e sulla sua evoluzione cfr., per tutti, S. SIEBEKE, Institutionalisierte Interessenvertretungen in der Europäische Union, Baden-Baden 1996, 23 ss.; tra gli scritti più risalenti v. almeno G. ZELLENTIN, Der Wirtschafts- und Sozialausschuß der EWG und Euratom. Interessenrepräsentation auf übernationaler Ebene, Leiden 1962, e F. FISCHER, Die institutionalisierte Vertretung der Verbände in der Europäischen Wirtschaftsgemeinschaft, Hamburg 1965; per la letteratura più recente v. invece R. SERRA CRISTOBAL, El Comité Económico y Social de la Comunidades Europeas: su papel en la promociόn de los derechos sociales, Madrid 1996; K. V. JÜRCKE, Der Wirtschafts- und Sozialausschuß der Europäischen Gemeinschaften, Baden-Baden 1998; A. VARSORI, Il Comitato Economico e Sociale nella costruzione europea, Venezia 2000; da ultimo v. anche P. BROMBO, Le formazioni economico-sociali e l’Unione europa, in Teoria del diritto e dello Stato, 1-2/2003, 291 ss., 303 ss.
(21) Sul rapporto tra democrazia partecipativa e responsabilità cfr. ancora S. N. EISENSTADT, Paradossi della democrazia, cit., 17 s.; sul punto, nella prospettiva di riforma della Governance europea, v. anche i cenni di F. MORATA, Come migliorare la governance democratica europea con le Regioni, in Le Istituzioni del Federalismo, 2004, 1, 23 ss.
(22) Cfr. la seconda Comunicazione della Commissione europea relativa ai principi e agli orientamenti sulla raccolta e sull’utilizzazione dei pareri degli esperti dell’11 dicembre 2002 (COM (2002) 713 e Boll. 12-2002, punto 1.1.11): nella Comunicazione si precisa che tali orientamenti, in vigore dal 2003, si applicheranno alla consulenza in senso lato, senza essere circoscritti alla mera consulenza scientifica.
(23) Cfr. ad es. la Comunicazione dell’11 luglio 2001 sul metodo aperto di coordinamento per la politica comunitaria dell’immigrazione (COM (2001) 387).
(24) Sulla Governance mondiale, ed in particolare sul ruolo che a tal fine dovrebbero svolgere le collettività locali e regionali, v. anche il progetto di Parere del Comitato delle Regioni dell’11 novembre 2004, “La dimensione sociale della globalizzazione – Il contributo della politica dell’UE perché tutti possano beneficiare dei vantaggi”, COM (2004) 383 def., spec. p.to 2.
(25) J. H. H. WEILER, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, Milano 2003, 176 s
(26) Cfr., per tutti, T. M. MARGELLOS, L’émergence de la «région» dans l’ordre juridique communautaire, in G. VANDERSEN, L’Europe et les régions, Bruxelles 1997, 19 ss.
(27) Sulla c. d. “Landesblindheit” del diritto comunitario v. H. P. IPSEN, Als Bundesstaat in der Gemeinschaft, in E. V. CAEMMERER – H. J. SCHLOCHAUER – E. STEINDORFF, Probleme des europäischen Rechts. FS Hallstein, Frankfurt a. M. 1966, 248 ss.
(28) E’ noto, infatti, che – se si eccettuano alcune isolate pronunce del giudice comunitario (Corte giust., sent. 8 marzo 1988, cause riunite 62/87 e 72/87, Exécutif regional wallon e S. A. Gaverbel c. Commissione, in Racc., 1988, I-1573 ss.; Trib. I grado, sent. 30 aprile 1998, causa T-214/95, Regione fiamminga c. Commissione, in Racc., 1998, II-717 ss.; Trib. I grado, sent. 15 giugno 1999, causa T-288/97) e nonostante la dottrina più avveduta abbia proposto di estendere ad essi la fattispecie dell’art. 230, c. 4, TCE, relativa al ricorso da parte delle persone giuridiche (A. D’ATENA, Gli assetti territoriali, le regioni e i processi decisionali. Il ruolo del Comitato delle regioni, (resoconto della relazione), in S. PANUNZIO, I costituzionalisti e l’Europa. Riflessioni sui mutamenti costituzionali nel processo di integrazione europea, Milano 2002, 578) – gli enti locali e regionali non hanno una autonoma legittimazione processuale in sede comunitaria: sul punto v. L. CHIEFFI, la nuova dimensione costituzionale del rapporto tra Regioni e Unione europea, in Dem. dir.,2004, 87 ss., 91 s.; più diffusamente R. FATTIBENE, La tutela giurisdizionale degli interessi regionali in sede comunitaria. L’ipotesi problematica della legittimazione attiva delle regioni ai sensi dell’art. 230 del Trattato CE, in L. CHIEFFI, Regioni e dinamiche di integrazione europea, Torino 2003, 211 ss.
(29) E’ appena il caso di osservare come, nonostante il versante europeo non considerasse i livelli di governo regionale e locale dal punto di vista della loro dimensione istituzionale, a partire dalla metà degli anni ’80 si è dato avvio ad una forma di partnership diretta tra la Commissione e le regioni nell’ambito dei c. d. Programmi integrati mediterranei (PIM), che, a differenza dei c. d. Fondi strutturali, eludevano l’intermediazione del livello statale: sul punto, da ultimo, L. CHIEFFI, La nuova dimensione, cit., 88 s.
(30) E’ il caso della creazione, in seno al Consiglio d’Europa, della Conferenza permanente dei poteri locali e regionali d’Europa (1977), che nel 1985 ha adottato la Carta europea dell’autonomia locale; in dottrina v. I. GRASSI, Il ruolo europeo delle autonomie locali, in Le nuove leggi civili commentate, 1992, 6 ss.; F.-L. KNEMEYER, Die Europäische Charta der kommunalen Selbstverwaltung, in DÖV, 1988, 997 ss.; G. C. DE MARTIN, Carta europea dell’autonomia locale e limiti dell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. pubbl., 1988, 386 ss.; da ultimo E. DI SALVATORE, Autonomie locali e Unione europea, in Teoria del diritto e dello Stato, 1-2/2003, 267 ss., 279 ss.; E. GIANFRANCESCO, Le province e le istituzioni europee (in corso di pubblicazione).
(31) A partire dal 1984 – com’è noto – sono stati aperti a Bruxelles circa 200 Uffici regionali di collegamento, che lungi dal costituire “delle semplici appendici esecutive delle amministrazioni regionali e locali”, si inverano in “veri e propri canali di accesso all’elaborazione delle politiche europee”: così L. DOMENICHELLI, Le Regioni nel dibattito sull’avvenire dell’Unione: dalla Dichiarazione di Nizza alla Convenzione europea, in Le Regioni, 2002, 1239 ss., 1264; sul tema v. anche L. BADIELLO, Ruolo e funzionamento degli Uffici regionali europei a Bruxelles, in Le Istituzioni del federalismo, 1/2000, nonché, da ultimo, G. LUCHENA, Gli uffici regionali di collegamento con l’Unione europea nella tutela degli “interessi territoriali”, in M. BUQUICCHIO, Studi sui rapporti internazionali e comunitari delle Regioni, Bari 2004, 215 ss., ed ivi ragguagli in ordine alla esperienza italiana: D.P.R. 31 marzo 1994 (Atto di indirizzo in materia di attività all’estero delle Regioni e delle Province autonome); l. 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria per il 1994); l. 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 1995-1997); ma sul punto v. anche A. ANZON, Federalismo interno e processo di regionalizzazione, in A. PACE, Quale, dei tanti federalismi?, Padova 1997, 265 ss., 278 ss.; v. inoltre Corte cost. 23 dicembre 1997, n. 428; tra le iniziative assunte sul piano istituzionale comunitario deve invece ricordarsi, tra l’altro, l’approvazione della Carta comunitaria della regionalizzazione da parte del Parlamento europeo (1985) e l’istituzione del Consiglio consultivo degli enti regionali e locali (1988); cfr., a tal proposito, A. D’ATENA, Il doppio intreccio federale: le Regioni nell’Unione europea, in Le Regioni, 1998, 1401 ss.; sulla risoluzione del Parlamento europeo v. P. HÄBERLE, Der Regionalismus als werdendes Struktur Prinzip des Verfassungsstaates und als europearechtspolitische Maxime, in AöR, 118, 1993 16 ss.; F. L. KNEMEYER, Die europäische Regionalcharta – ein Meilstein auf dem Weg zu einiem Europa der Regionen, in ID., Europa der Regionen – Europa der Kommunen. Wissenschaftliche und politische Bestandsaufnahme und Perspektive, Baden – Baden 1994, 22 ss.
(32) Art. 1 TUE: “Il presente trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente e il più vicino possibile ai cittadini”.
(33) Art. 5, c. 2, TCE: “Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.
(34) Art. 203, c. 1, TCE: “Il Consiglio è formato da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, abilitato ad impegnare il governo di detto Stato membro”.
(35) Art. 263, c. 1, TCE: “E’ istituito un Comitato a carattere consultivo composto di rappresentanti delle collettività regionali e locali, in appresso designato Comitato delle Regioni”; l’istituzione del Comitato fa seguito ad alcune proposte presentate in seno alla Conferenza intergovernativa apertasi a Roma nel 1990; essa, pur essendo frutto di un compromesso raggiunto nella successiva conferenza intergovernativa del 1991, in realtà muove da una proposta della delegazione tedesca: sul punto v. A. W. PANKIEWICZ, Realtà regionali ed Unione europea, Milano 2001, 75 s.; e, da ultimo, A. M. CECERE, La “dimensione” regionale della comunità europea. Il Comitato delle Regioni, in L. CHIEFFI, Regioni e dinamiche, cit., 175 ss., 180 ss.; in ordine ai precedenti che hanno ispirato la proposta della delegazione tedesca v. R. THEISSEN, Der Ausschuss der Regionen (Art. 198a-c EG- Vertrag). Einstieg der Europäischen Union in einen kooperativen Regionalismus?, Berlin 1996, 74 ss., 80 ss., e, nella dottrina italiana, E. DI SALVATORE, Integrazione europea e regionalismo: l’esempio tedesco, in Dir. pubbl. comp. eur., 2001-II513 ss., 518 s.
(36) Il Comitato delle Regioni ha iniziato ad esercitare le proprie funzioni il 9 marzo del 1994.
(37) In dottrina, ma in via del tutto esemplificativa, v. M. MASCIA, IL Comitato delle Regioni nel sistema dell’Unione europea, Padova 1996; G. SIRIANNI, La partecipazione delle Regioni alle scelte comunitarie. Il Comitato delle regioni: organizzazione, funzioni e attività, Milano 1997; P. A. FÉRAL, Le Comité de regions de l’Union européenne, Paris 1998.
(38) Art. 263, c. 1, TCE.
(39) Art. 263, c. 3, TCE.
(40) Art. 263, c. 4, TCE.
(41) Diversi autori definiscono il Comitato come Hilfsorgan o Nebenorgan della Comunità: cfr. ad es.T. OPPERMAN, Europarecht, 2. Aufl., München 1999, 91; K. HASSELBACH, Auf dem Weg zu einer Föderalisierung Europas, in ZG, 1996, 201; v., invece, M. MASCIA, Il Comitato delle Regioni, cit., 34, che definisce tale organo come “struttura d’autorità”.
(42) Art. 230 TCE.
(43) Cfr., ad es., il “Protocollo sulle modalità di cooperazione fra la Commissione europea e il Comitato delle Regioni” (DI CdR 81/2001); in dottrina v., da ultimo, M. ESPOSITO, Dal libro binaco sulla governance europea alla Convenzione sul futuro dell’Europa: il Comitato delle Regioni e le sue componenti, in Le Istituzioni del Federalismo, 1, 2004, 123 ss., 128 ss..
(44) E’ evidente che il discorso risulta variamente intrecciato con la circostanza che, in ogni caso, relativamente alle modifiche del diritto europeo, gli Stati membri restano pur sempre “Signori dei Trattati” e, pertanto, le modifiche apportate nelle ulteriori fasi del processo di integrazione – che in tutta evidenza hanno migliorato la posizione del CdR sul piano istituzionale – sono pur sempre soggettivamente riconducibili alla loro volontà e alla loro azione; in ciò, però, non va dimenticato che le modifiche introdotte costituiscono spesso il risultato di un procedimento di formalizzazione della prassi affermatasi nel corso degli anni in ambito comunitario, prescindendo, si intende, proprio da ogni assenso prestato dallo Stato membro; in tal caso può forse dirsi che il Comitato abbia ampiamente utilizzato le prerogative attribuitegli dal Trattato, agendo finanche sul piano istituzionale: v. ad es. il Parere dell’11 marzo 1999 sul principio di sussidiarietà, dal titolo “Verso un’autentica cultura della sussidiarietà! Un appello del Comitato delle Regioni” (CdR 302/98 fin); il Parere del 15 settembre 1999 e quello del 13 aprile del 2000 sulle relazioni della Commissione europea al Consiglio “Legiferare meglio 1998” e “Legiferare meglio 1999” (CdR 50/99 fin e CdR 18/2000 fin); la “Relazione sulla prossimità” del 20 settembre 2001 (CdR 436/2000 fin); il Parere del 13 marzo 2001 in merito al “Progetto di relazione del Parlamento europeo sulla delimitazione delle competenze tra l’Unione europea e gli Stati membri” (CdR 466/2001 fin); sui c. d. “limiti strutturali” del Comitato e sulle modifiche apportate dai trattati di Amsterdam e di Nizza v. H.-J BLANKE, Der Ausschuss der Regionen. Normative Ausgestaltung, politische Rolle und verwaltungsorganisatorische Infrastruktur, a cura del Europäisches Zentrum für Föderalismus-Forschung Tübingen, Stuttgart 2002; da ultimo L. DOMENICHELLI, Il contributo del Comitato delle Regioni alla valorizzazione della dimensione regionale nell’Unione europea, in Teoria del diritto e dello Stato, 1-2/2003, 250 ss.
(45) Il Trattato di Nizza eleva a 350 il numero dei rappresentanti in seno al Comitato, collegandoli ad un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale, o rendendoli comunque responsabili dinanzi ad un’Assemblea eletta; a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, invece, il CdR è chiamato ad esercitare le proprie funzioni per un numero maggiore di settori.
(46) Per M. PLUTINO, La partecipazione delle regioni, cit., 60, “la partecipazione commista di livelli regionali e locali (entro il Comitato delle Regioni) non rappresenta un problema ma, anzi, può risultare un arricchimento dei processi di legittimazione”.
(47) Della problematica sembra essersi fatto carico, però, la Dichiarazione di Laeken sul futuro dell’Unione europea del 2001, che, ai fini della composizione della Convenzione, ha previsto che partecipassero ai lavori, in qualità di osservatori e a nome del Comitato delle Regioni, sei rappresentanti designati dal Comitato “nell’ambito delle regioni, città e regioni aventi competenza legislativa”.
(48) M. PLUTINO, La partecipazione delle regioni, cit., 69 ss.
(49) Il raggruppamento dei membri del Comitato avviene in due distinti modi: per “gruppi politici” e per “delegazione nazionale”. Nel primo caso, il parametro di aggregazione è dato dalla collocazione politica del componente, collegata al risultato elettorale conseguito sul piano regionale o locale. Nel secondo caso, il parametro è fornito, invece, dall’appartenenza nazionale del componente stesso. A tal proposito va, comunque, osservato che, mentre l’appartenenza nazionale ha costituito la forma originaria di aggregazione dei membri del Comitato, la forma di aggregazione per “gruppi politici” ha finito per assumere solo successivamente un ruolo predominante (ed è ora rafforzato dal fatto che le modifiche introdotte a Nizza chiedono che i membri siano titolari di un mandato elettorale o responsabili dinanzi ad una Assemblea eletta). Per conseguenza, il criterio dell’appartenenza nazionale viene oggi utilizzato ai fini della designazione dei membri dell’Ufficio di Presidenza e delle Commissioni permanenti, mentre nella formazione dei pareri e degli altri documenti del Comitato diviene decisiva l’appartenenza al gruppo politico del componente (per ulteriori ragguagli sul punto v., da ultimo, A. M. CECERE, La “dimensione” regionale, cit., 189 ss.). E’ evidente come ciò finisca per conferire anche uno specifico assetto al disegno posto dal Trattato, sciogliendo la contraddizione evidenziata nel testo: l’aggregazione per “gruppi politici” – rafforzata dal divieto di mandato imperativo – consentirà all’organo di staccarsi progressivamente dalla base nazionale e di porsi sulla scena istituzionale con un ruolo trasversale rispetto alle specifiche esigenze regionali e locali interne allo Stato membro; è inutile sottolineare come l’aggregazione per gruppi politici sia fortemente caldeggiata dagli stessi gruppi politici: cfr., ad es., la Dichiarazione di Venezia del gruppo PPE del Comitato delle Regioni, dal titolo “L’Europa ha bisogno dei suoi cittadini!Regioni e comuni forti: i pilastri dell’Europa”, del 5 luglio 2002, 5.2: “l’organizzazione del Comitato principalmente in base alle distinzioni nazionali si rivela poco equilibrata e veramente poco agevole. Il gruppo politico dovrà contribuire maggiormente alla formazione delle opinioni politiche del CdR”.
(50) E’ l’idea emersa durante la prima Conferenza dei Presidenti delle Regioni con Poteri legislativi (Barcellona 23-24 novembre 2000); sul punto cfr. S. MANGIAMELI, Il Governo tra Unione europea e autonomie territoriali, in ID., La riforma del regionalismo italiano, Torino 2002, 191 ss., 212 s.; è appena il caso di ricordare come in senso affatto opposto si era mossa, invece, la proposta formulata dall’Assemblea delle Regioni d’Europa nella Risoluzione adottata il 4 dicembre 1996, con cui si chiedeva che il Comitato delle Regioni fosse trasformato “in un organo codecisionale che rappresenti unicamente le Regioni”; di contrario avviso sembra mostrarsi, invece, il Comitato delle Regioni, che – rivendicando la legittimazione esclusiva a rappresentare, in qualità di interlocutore istituzionale, la totalità delle amministrazioni territoriali presenti nell’UE (cfr. anche infra nt. 54 s.) – non pare propenso a caldeggiare l’idea di una separazione, nel suo seno, della rappresentanza regionale da quella locale: cfr. il Parere del 21 novembre 2001, “Il ruolo dei poteri locali e regionali nella costruzione europea” ( CdR 237/2000 fin), p.to 34, con cui si rammenta “che in base al Trattato sull’Unione europea il CdR è stato istituito come l’unico organo in rappresentanza degli “enti regionali e locali” di tutti gli Stati membri. Esso ha pertanto l’obbligo di rispecchiare equamente le varie forme che la governance locale e regionale assume nei singoli Stati membri”.
(51) Le Conferenze tenutosi sino ad oggi sono le seguenti: Oviedo (7 ottobre 1997); Salisburgo (6-7 ottobre 1998); Firenze (17-18 maggio 1999); Santiago de Compostela (28 ottobre 2000); Funchal (Madeira, 28-30 ottobre 2001); Bruxelles (28-29 ottobre 2002); Reggio Calabria (27-28 ottobre 2003).
(52) Il 6-7 ottobre 2003, per la prima volta, tre Presidenti delle Assemblee legislative regionali sono stati invitati, a Roma, ad assistere ai lavori della COSAC; cfr. il p.to 2 della Dichiarazione di Reggio Calabria del 28 ottobre 2003.
(53) Il Protocollo sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’Unione europea, allegato al Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, recepisce il principio della “cooperazione interparlamentare”, ma ne limita l’operatività ai rapporti tra il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali, che “definiscono insieme l’organizzazione e la promozione di una cooperazione interparlamentare efficace e regolare in seno all’Unione” (art. 9).
(54) La Conferenza dei Presidenti delle Regioni a potere legislativo (“Regleg”) si è riunita a Barcellona il 23-24 novembre 2000, a Liegi il 14-15 novembre 2001, a Firenze il 14-15 novembre 2002, a Salisburgo il 12-13 novembre 2003 e ad Edimburgo il 29-30 novembre 2004; occorre precisare che, in realtà, su iniziativa del governo fiammingo, gli esecutivi di sette Regioni dotate di potere legislativo si sono riuniti per la prima volta a Bruxelles il 22 febbraio del 2000. A seguito di tale importante riunione, il 28 maggio del 2001 detti esecutivi hanno approvato la Dichiarazione politica delle 7 Regioni costituzionali. La Risoluzione di Liegi del 15 novembre 2001, intitolata “Verso un ruolo rafforzato delle Regioni con poteri legislativi nell’ambito dell’Unione europea”, ha fatto propria tale Dichiarazione.
(55) Cfr. la “Relazione sulla prossimità”, cit.: “E’ compito precipuo del Comitato rappresentare la componente territoriale dell’Unione europea, compito nel quale nessun’altra istituzione è qualificata a sostituirlo, anche perché il Comitato funge da custode della coesione territoriale dell’Unione”.
(56) “… che, pur essendo composte da enti politici, hanno natura privatistica e non rappresentano quindi che i loro iscritti, e diverso infine da quello dei singoli enti territoriali, che hanno natura politica, ma che sono portatori dei loro singoli e specifici interessi. Inoltre il suo status specifico di organo consultivo ufficiale dell’Unione lo distingue dalle associazioni europee di enti locali e regionali”: parere del 21 novembre 2001, “Il ruolo dei poteri locali e regionali”, cit., p.to 34.
(57) Tra i processi di “regionalizzazione” che stanno progressivamente interessando gli Stati membri dell’UE può ricordarsi quello che ha, ad esempio, interessato recentemente la Francia: cfr. la “Loi constitutionelle n° 2003-276 du 28 mars 2003 relative à l’organisation décentralisée de la Republique”, che si pone come ulteriore tappa di un processo di “regionalizzazione” avviato sin dal 1982; se a ciò si aggiunge, inoltre, che l’adesione all’UE di nuovi dieci Stati ha accresciuto il numero delle collettività locali e regionali, ne viene che, allo stato attuale, il numero complessivo delle collettività presenti sul territorio ammonta a 250 regioni e 100.000 enti locali: cfr. il Parere del Comitato delle Regioni del 21 novembre 2001, “Il ruolo dei poteri locali e regionali”; sul punto v. anche M. PLUTINO, La partecipazione delle regioni alla formazione della decisione politica comunitaria, in L. CHIEFFI, Regioni e dinamiche, cit., 49 ss., 60, nt. 51.
(58) In tal senso testualmente la Dichiarazione di Bruxelles, cit., p.to 3; cfr. anche la Relazione del Parlamento europeo sul ruolo dei poteri regionali e locali nella costruzione europea – Commissione per gli Affari costituzionali, 4 dicembre 2002, (A5-0427/2002), p.to 7, ove si legge che il Parlamento europeo “propone una cooperazione rafforzata fra le Assemblee regionali e il Parlamento europeo, in particolare nell’ambito della sua Commissione per la politica regionale, i trasporti e il turismo”.
(59) COM (2003) 811 (cfr. anche infra, § 2).
(60) Con tale documento, inoltre: 1) si “precisa il carattere integrativo e complementare del dialogo rispetto a qualsiasi altra forma di consultazione delle amministrazioni regionali e locali”; 2) si “presenta con maggiore chiarezza il ruolo assegnato al Comitato delle Regioni nel quadro del dialogo proposto”; 3) si “definisce un quadro di riferimento inteso ad individuare le associazioni che possono partecipare a questo dialogo”. In base a quanto emerge dalla Comunicazione, gli obiettivi del dialogo sarebbero essenzialmente due, e cioè, in primo luogo, quello di riunire, attraverso le associazioni territoriali, i soggetti presenti sul territorio, al fine di accordare loro la possibilità di esprimersi sulle politiche europee prima che la decisione sia assunta, e, in secondo luogo, quello di assicurare una migliore informazione e una più approfondita conoscenza degli orientamenti politici dell’Unione e della normativa europea. In tal modo, l’azione comunitaria diverrebbe più trasparente e maggiormente percepibile dai cittadini. Nel dialogo con le Associazioni territoriali, il Comitato delle Regioni è chiamato a svolgere un ruolo di intermediazione tra le Associazioni stesse e le Istituzioni europee, selezionando anzitutto quelle che siano interessate dalle diverse politiche dell’Unione e proponendo, per ciascuna riunione, gli elenchi delle associazioni europee e nazionali in funzione dei temi considerati. Ciò, peraltro, non preclude la possibilità che la Commissione inviti a partecipare Associazioni diverse da quelle indicate dal Comitato o che proceda essa stessa ad una modifica degli elenchi forniti dal Comitato; è appena il caso di ricordare come la necessità del coinvolgimento nel “processo decisionale, fin dalla fase di definizione delle politiche comunitarie, (di) coloro che saranno chiamati ad attuarle, onde garantirne l’efficacia” fosse già stata posta in luce Parlamento europeo diversi anni addietro: cfr. la Risoluzione del Parlamento europeo del 18 novembre 1993 sulla rappresentanza e la partecipazione delle regioni alla costruzione europea: il Comitato delle regioni, (A3-0325/93), p.to 7.
(61) Cfr. lo Studio dal titolo: “Le dimensioni regionale e locale nella creazione di nuove forme di governance in Europa”, (CdR E-7/2002), 47.
(62) Diverse e frammentarie le disposizioni del Trattato che interessano il sistema delle autonomia territoriali: v., ad es.: l’art. I-3.3.2, che tra gli obiettivi dell’Unione pone quello della promozione della coesione territoriale; l’art. I-5.1, sul rispetto del sistema delle autonomie locali e regionali da parte dell’Unione; il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, inserita nel Trattato, ove si afferma che il rispetto e la salvaguardia dei valori comuni debba avvenire nel rispetto dell’ordinamento dei pubblici poteri degli Stati membri, a livello nazionale, regionale e locale; gli artt. I-10.2, lett. b) e III-126, relativa al diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali; l’art. III-183, che, nell’ambito della Politica economica, dispone che “l’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali (…), fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico”; l’art. III-246, ove si prevede che per “consentire (…) alle collettività regionali e locali di beneficiare pienamente dei vantaggi derivanti dall’instaurazione di uno spazio senza frontiere interne, l’Unione concorre alla costituzione e allo sviluppo di reti transeuropee nei settori delle infrastrutture dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’energia”; l’art. III-284, ove si stabilisce che “l’azione dell’Unione è intesa a (…) sostenere e completare l’azione degli Stati membri a livello nazionale, regionale e locale concernente la prevenzione dei rischi, la preparazione degli attori della protezione civile negli Stati membri e l’intervento in caso di calamità naturali o provocate dall’uomo all’interno dell’Unione”.
(63) Cfr. l’art. 8 del Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, allegato al Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, in base al quale la Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi sui ricorsi per violazione, mediante un atto legislativo europeo, del principio di sussidiarietà, che siano presentati da uno Stato membro “o trasmessi da quest’ultimo in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno a nome del suo parlamento nazionale o di una camera di detto parlamento nazionale” e, perciò, con esclusione – salvo i meccanismi di diritto costituzionale interno – delle Regioni e dei loro parlamenti, che non hanno conquistato ancora alcuna soggettività processuale. Tali ricorsi, inoltre, “possono essere proposti anche dal Comitato delle regioni avverso atti legislativi europei per l’adozione dei quali la Costituzione richiede la sua consultazione”; a tal proposito v. anche la Dichiarazione di Reggio Calabria, cit., p.to 1. Si tenga conto, peraltro, che dall’esame della parte III della Costituzione si evince che per molti campi materiali di tipica competenza regionale risulta esclusa la consultazione del Comitato delle Regioni.
(64) Solo per alcune materie, infatti, è disposto espressamente che “la legge o la legge quadro europea” intervengono “ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri” (art. III-281, par. 2, in materia di turismo; art. III-282, par. 3, lett. a, in materia di istruzione, gioventù e sport, e art. 283, par. 3, lett. a, in materia di formazione professionale; art. III-284, par. 2, in materia di protezione civile).
(65) In ordine alle diverse forme in cui si sarebbe potuta estrinsecare la c.d. “democrazia partecipativa” v. la Relazione del Parlamento europeo sul ruolo dei poteri regionali e locali nella costruzione europea, cit., p.to 4.
(66) Cfr. anche l’art. 2 del Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà, cit., ove si stabilisce: “prima di proporre un atto legislativo europeo, la Commissione effettua ampie consultazioni. Tali consultazioni devono tener conto, se del caso, della dimensione regionale e locale delle azioni previste. Nei casi di straordinaria urgenza, la Commissione non procede a dette consultazioni. Essa motiva la decisione proposta”.
(67) V. la motivazione che accompagna l’emendamento n. 7 apportato al punto 1.17 del Progetto di Parere sul Trattato del Comitato delle Regioni (57ª sessione plenaria del 17-18 novembre 2004): “Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa prevede una consultazione più ampia degli enti regionali e locali nella fase prelegislativa, ma non crea alcuna base giuridica per un “dialogo sistematico” tra la Commissione europea e le Associazioni nazionali ed europee degli enti territoriali. Un tale dialogo esiste già ed è stato istituito in seguito alle proposte formulate dalla Commissione nel Libro bianco sulla governance europea”.

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