Relazione al Seminario di studio organizzato dall'Istituto di Studi sulle Regioni "Massimo Severo Giannini" (ora ISSiRFA), su “Le fonti regionali dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001” (Roma 19 marzo 2002)



Sommario: 1. La legge regionale nel sistema delle fonti: dalla prospettiva (irrisolta) della competenza a quella della funzionalità.1.1 Excursus.1.2 Prospettiva.2. Virtualità teorica della legge regionale nel nuovo Titolo V.2.1 Un colpo di penna cancella l’antico dibattito.2.2. La virtualità teorica della legge regionale nel nuovo Titolo V.2.3. I nodi irrisolti del quadro teorico.3. La legge regionale nel nuovo sistema delle fonti: dalla virtualità teorica al difficile avvio del processo di attuazione.3.1 Premessa.3.2. Regime di separazione o solo preferenza della legge regionale?3.3 La fase attuativa del nuovo Titolo V.


1. La legge regionale nel sistema delle fonti: dalla prospettiva (irrisolta) della competenza a quella della funzionalità.

1.1 Excursus.

Nel suo celebre saggio “La legge regionale nel sistema delle fonti”, Vezio Crisafulli entrava nel merito di un dibattito molto sentito nell’ambiente dottrinale d’allora. I dubbi sulla reale collocazione della legge regionale erano d’altronde legittimi. Questa era sottoposta ad un controllo preventivo di legittimità, al punto che, come puntualmente notava Crisufulli, i principi posti della legge statale condizionavano la stessa immissione nell’ordinamento delle norme di fonte regionale. Con voluta disattenzione, inoltre, l’art. 117 consentiva alla Regione di “adottare norme legislative”, ma non parlava affatto di funzione legislativa (come invece l’art. 70), quasi a voler sottolineare che una cosa era quella funzione esercitata collettivamente dalle due Camere e un’altra era questa mera attività di produzione normativa, pur situata sul gradino della legislazione (1). Nell’art. 121, infine, i regolamenti regionali erano emblematicamente posti sullo stesso piano della legge regionale dalla comune attribuzione alla competenza del Consiglio regionale.
E’ interessante ripercorrere in estrema sintesi l’iter logico percorso da Crisafulli: dopo una breve digressione sulla opportunità di inquadrare il tema in termini di rapporto tra ordinamenti (2), assume come ipotesi di partenza l’equiparazione tra legge regionale e legge statale, sulla base dell’argomento “probante” del sindacato di legittimità costituzionale, nel cui ambito anche la legge regionale, al pari di ogni altra fonte primaria, ricadeva. Alla fine di un articolato percorso di verifica non sconfessa l’ipotesi assunta ma la ridefinisce, giungendo alla conclusione della necessaria considerazione del criterio della competenza, inteso però nella sua larga accezione (relativa sia alla materia che al tipo di normazione) (3). Risolto in questi termini, il problema dell’equiparazione o meno conservava, secondo Crisafulli, “un interesse prevalentemente teorico”. In realtà, la questione è rimasta viva (4), anche se nell’ultimo ventennio il dibattito si è stemperato, trovando un certo denominatore comune nell’impostazione diretta a sottolineare il reciproco carattere condizionante che ognuna delle due fonti esercita verso l’altra. Si è così parlato di “separazione nella equiparazione” (5), oppure della legge regionale come “fonte intermedia” tra la legge statale e il regolamento comunale o provinciale, sempre però mantenendo viva, pur nelle diverse sfumature delle definizioni, la necessità di considerare “una certa riserva di competenza” nel definire il rapporto fra fonti condizionanti e condizionate (6).
Nel contesto della concreta prassi storica, tuttavia, non si è potuta evitare la deriva della legge regionale verso la sua “amministrativizzazione”, né l’estensione a macchia d’olio della legislazione statale, ottenuta sia con la prassi delle norme cedevoli sia con l’abuso dei principi, né l’intersezione della funzione d’indirizzo e coordinamento che, sebbene sul presupposto del rispetto del principio di legalità, ha finito, in realtà, per alterare, dal punto di vista sostanziale, il rapporto tra fonti primarie regionali e atti amministrativi statali (7).
Da qui l’icastica conclusione di Paladin: “certo è che il quadro dei limiti della potestà legislativa regionali, nella prospettiva del diritto costituzionale vivente, rende patetica la stessa idea che le leggi locali vadano parificate o pariordinate alle leggi statali. Chi ancora lo afferma, nella letteratura giuridica, dimostra di ignorare o trascurare – deliberatamente – quarant’anni di legislazione e di giurisprudenza” (8).


1.2 Prospettiva.

Il venir meno di un chiaro regime di separazione di competenza ha quindi condotto a rimettere in discussione l’intera impalcatura teorica ereditata dal passato e in alcune ricostruzioni, anziché rimarcare la distanza dal modello formale, si è cercato di leggere in positivo le deformazioni del quadro originario, per poi dedurne il superamento dell’assetto “euclideo” ingenuamente disegnato dai costituenti. Più precisamente, secondo queste letture, la giurisprudenza costituzionale, sia attraverso la legittimazione della tecnica delle normative cedevoli (dirette, da un certo punto di vista, a premiare le Regioni più attive e nello stesso tempo a consentire una riduzione altrimenti inevitabile del tasso di uniformità), sia attraverso formule come il “variabile livello degli interessi”, avrebbe spinto il sistema verso un assetto del rapporto tra i due ordinamenti, quello regionale e quello statale, basato su una “versione casereccia” della sussidiarietà (9).
In effetti, la potenzialità del principio di sussidiarietà nel ridefinire l’assetto del sistema delle fonti è notevole, in quanto potrebbe preludere all’introduzione come “determinante nella qualificazione giuridica dell’ordinamento non tanto, e comunque non solo, il criterio formalistico della competenza ma il criterio sostanziale della funzionalità” (10).
Tuttavia, la discussione sulla possibilità di essere sulla soglia del superamento della virtualità del sistema legale di stampo modernamente geometrico (11), non può in questa sede essere approfondita (12) e solo si è ritenuto utile accennarla. Quello che appare più urgente è iniziare ad entrare nel merito della nuova configurazione costituzionale della legge regionale dopo la riforma del Titolo V, senza però nascondere che una tale prospettiva non sembra facilmente superabile: diversi elementi concorrono, infatti, a mantenere alto il livello d’attenzione su questo problema. Il nuovo titolo V, infatti, configura un quadro virtuale di difficile applicazione, al punto che già in questa sede non si potrà omettere di considerare la sua probabilità di effettività, così da avvertire sull’imprevedibilità delle argomentazioni dell’organo che si troverà a dover risolvere in via autoritativa lo iato tra la virtualità teorica del nuovo Titolo V e la realtà concreta del sistema. E’ molto probabile, infatti, che le motivazioni della prima giurisprudenza costituzionale relativa al riformato Titolo V non potranno rimanere immuni da valutazioni inspirate alla prospettiva di funzionalità-sussidiarietà prima accennata. La stessa dimensione sovra-regionale di alcune materie “innaturalmente” assegnate alla potestà concorrente spinge in questa direzione, dove sembra difficile escludere la necessità di analisi differenziate sulla consistenza e qualità degli interessi in gioco.


2. Virtualità teorica della legge regionale nel nuovo Titolo V.

2.1 Un colpo di penna cancella l’antico dibattito.

Sul piano teorico, il nuovo Titolo V, con un “colpo di penna del legislatore”, sembra risolvere con chiarezza l’antico dibattito sulla parificazione o meno della legge regionale a quella statale.
La norma alla quale occorre fare immediato riferimento è, infatti, l’art. 117, I comma, che, dettata in termini unitari sia per lo Stato che per le Regioni, afferma la piena equiparazione quanto alla titolarità della funzione legislativa: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Con l’affermazione dell’esistenza di limiti comuni ad entrambe le categorie di leggi si è voluto quindi sottolineare, superando qualsiasi discussione dogmatica, la piena equiparazione tra legge statale e legge regionale. L’art. 117, I comma, è pertanto norma “emblematica” (13) (e problematica) (14) in cui si riflette la nuova posizione che, entro l’ordinamento della Repubblica, risulta assegnata sia all’ordinamento regionale sia a quello statale, così come risulta dall’altrettanto emblematico art. 114, Cost., I comma (15).
Non di poco momento, inoltre, appaiono l’eliminazione del controllo preventivo sulle leggi regionali e la stessa abrogazione della norma che attribuiva ai Consigli regionali la potestà regolamentare, che, insieme, concorrono a rafforzare la tesi dell’equiparazione.
Se la discussione teorica sull’equiordinazione sembra risolta una volta per tutte, più delicata appare, invece, la definizione dei condizionamenti reciproci fra fonti statali e fonti regionali: tale problema, peraltro, costituisce ancora, come già ai tempi di Crisafulli, uno dei nodi fondamentali da sciogliere ai fini dell’effettiva collocazione della legge regionale nel sistema delle fonti.
Da questo punto di vista, appare opportuno sviluppare l’argomentazione su due piani diversi, quello della virtualità e quello della realtà effettiva, rinviando poi ad un secondo momento l’approfondimento sulla modalità e sui tempi d’una loro possibile reductio ad unum.


2.2. La virtualità teorica della legge regionale nel nuovo Titolo V.

Sul piano della virtualità, è opportuno osservare subito come il nuovo testo costituzionale al IV comma dell’art. 117 disponga l’inversione del criterio tradizionale della residualità, poiché definendo quella che potremmo chiamare la potestà legislativa regionale primaria, afferma: “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Il limite delle materie, quindi, non risulta più applicabile, com’era nel quadro precedente, alla potestà legislativa regionale, bensì a quella statale.
Si tratta di un capovolgimento dei rapporti tra le due legislazioni, che attribuisce alla competenza legislativa regionale, destinata ad estendersi su tutte le materie “innominate”, una capacità espansiva massima (16).
Da questo rovesciamento appare legittimo dedurre che l’elenco delle materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato costituisca “una deroga al principio generale della competenza regionale”, e perciò vada soggetto “a stretta interpretazione” (17).
La stessa argomentazione dovrebbe poi essere estesa alla nuova competenza concorrente, dove, nell’ottica di un sistema improntato alla separazione delle competenze, allo Stato risulta riservata la sola determinazione dei principi fondamentali. In questo modo si potrebbe ritenere che, proprio per il diverso presupposto di fondamento del sistema, nel caso lo Stato non esercitasse la sua funzione di stabilire i principi fondamentali, le Regioni potrebbero comunque legiferare (18). In altre, parole, quindi, lo Stato potrebbe porre i principi fondamentali, ma il fatto di non porli, non pregiudicherebbe la possibilità per le Regioni di legiferare per prime.
Per lo stesso motivo (limite delle materie imputato allo Stato e competenza residuale regionale) si potrebbe escludere la possibilità per lo Stato di legiferare nelle materie di competenza regionale, sia primaria che concorrente, attraverso la tecnica delle normative cedevoli (19).
Seguendo quest’impostazione, parrebbe esclusa la possibilità di configurare la legislazione in base ad una piena assimilazione alla Konkurrierende Gesetzebung tedesca, perché lo Stato non potrebbe mai arrivare per primo, con norme di principio e di dettaglio, su una materia della competenza concorrente.
Un ulteriore aspetto delicato dei possibili condizionamenti tra legge statale e legge regionale riguarda, poi, la questione della permanenza o meno, nell’assetto del nuovo Titolo V, dei tradizionali limiti alla potestà legislativa regionale primaria.
A questo riguardo è stato avanzato un ampio ventaglio di ipotesi (20), dove quelle tendenti a valorizzare maggiormente il dato letterale del primo comma dell’art. 117, cost., escludono la possibilità di fare risorgere limiti come quello dei principi generali dell’ordinamento giuridico o quello delle norme fondamentali delle riforme economiche e sociali. La discussione, peraltro, si è aperta soprattutto in relazione all’interesse generale, prima citato negli art. 117 e 127 Cost. e ora scomparso (almeno con tale formulazione) nel nuovo testo.
E’ stato sostenuto, infatti, che la mancata menzione testuale dell’interesse nazionale abbia fatto venire meno nell’ordinamento il presupposto di un generico e generale potere d’indirizzo e coordinamento, non più deducibile, come in passato, dall’art. 5 Cost., dal quale sarebbe ora solo possibile fondare un coordinamento cooperativo (21). Per altri, invece, l’interesse nazionale, sebbene ridimensionato, continuerebbe ad esistere, essendo stato solo esemplificato, ma non esaurito, nelle fattispecie nominate in cui si traducono le esigenze unitarie di cui all’art. 120 Cost. In altre parole, nel nuovo testo, sia le materie di competenza esclusiva statale (22) che i presupposti di esercizio del potere sostitutivo segnerebbero solo la positivizzazione di alcune forme dell’interesse nazionale; anche fuori dall’elenco dell’art. 120 Cost., pertanto, l’interesse nazionale continuerebbe a vivere, sebbene, rispetto al passato, con un più limitato margine di discrezionalità nelle sue possibilità di configurazione (23) o nella sua allocazione in via esclusiva in capo allo Stato.
Il rapporto tra interesse nazionale e autonomia generale dovrebbe quindi configurarsi sulla base di disposizioni costituzionali generali (come quella dell’art. 5), di disposizioni costituzionali specifiche (come quelle relative al riparto di potestà legislativa) e di disposizioni costituzionali di chiusura (come quelle relative ai poteri sostitutivi) (24). Il ruolo dello Stato come garante ultimo contro la frammentazione e l’entropia, ne uscirebbe quindi fortemente ridimensionato e riferito prevalentemente a situazioni di ultima istanza e non all’ordinario funzionamento del sistema nel suo complesso (25).
Peraltro, per quanto riguarda il potere sostitutivo di cui all’art. 120 Cost. (la cui formulazione è stata giustamente definita da Falcon un vero e proprio “rebus giuridico”), questo non risulterebbe applicabile alle inadempienze del legislatore regionale, ma avrebbe come unico destinatario l’attività amministrativa regionale (26).
Se questo è uno dei quadri virtualmente ricavabili dal nuovo titolo V, la sintesi potrebbe essere intravista, oltre che nella equiparazione, anche nella collocazione della legge regionale in regime privilegiato di separazione rispetto alla legge statale. La fonte regionale, infatti, potrebbe intervenire anche in prima battuta a fronte delle inerzie del legislatore statale sui principi, mentre quest’ultimo non potrebbe intervenire con normative cedevoli di dettaglio per prevenire il mancato adeguamento regionale ai principi.
La probabilità di effettività di questa ricostruzione è però destinata a misurarsi sia con ulteriori problemi, che si pongono sullo stesso quadro teorico.


2.3. I nodi irrisolti del quadro teorico.

Il primo problema riguarda la cd. legislazione concorrente, rispetto alla quale appare discutibile (sullo stesso piano della virtualità teorica) la possibilità di configurare come solo eventuale e quindi facoltativa la definizione dei principi fondamentali, posto che il nuovo art. 117, a differenza della formulazione “più leggera” del testo precedente, prevede un’esplicita riserva a favore del legislatore nazionale. Laddove, infatti, è previsto un regime di riserva non sembra sostenibile la tesi che, attingendo alla prassi precedente, si potrebbe definire della “cedevolezza rovesciata”: cioè che i principi potrebbe comunque porli la legge regionale nelle materie per le quali ancora manchi una legge cornice statale. Non credo che si possa ragionare in questi termini ogni volta che una riserva di competenza interviene esplicitamente a regolare un regime di concorrenza di fonti: generalizzando quest’ipotesi si giungerebbe, infatti, a risultati inaccettabili dal punto di vista sistematico.
L’interpretazione più corretta, anche sul piano della virtualità teorica, credo che non lasci spazio all’affermazione di una semplice “preferenza” per la legge statale, ma rimanga quella che i principi devono essere necessariamente fissati dalla legislazione dello Stato (27). Quest’interpretazione porterebbe a distinguere, nell’ambito della nuova competenza concorrente, tra materie nuove e materie vecchie, dove per le prime sarebbe necessario attendere le leggi cornice, mentre per le seconde le Regioni potrebbero continuare a legiferare sulla base delle già emanate leggi cornice o, in assenza, ricavando i principi fondamentali dalla legislazione statale previgente sulla base dell’art17 della l. n. 281 del 1970 (28).
Non appare invece corretto estendere l’effetto di quest’ultima disposizione anche alle nuove materie della potestà concorrente: la legge n. 281 del 1970 venne emanata in riferimento preciso al vecchio art. 117 Cost., dove non solo l’elenco delle materie era “ridicolo” rispetto a quello nuovo, ma dove anche l’espressione in esso utilizzata (“nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”) aveva una minore rigidità rispetto alla “riserva” posta dal nuovo testo costituzionale. Altrimenti, ritenendo applicabile il disposto dell’art. 17 della l. n. 281 del 1970, si arriverebbe al risultato di assegnare ad una fonte primaria la definizione della portata di una norma costituzionale sopravvenuta, quasi che il principio fissato dalla prima (sebbene con l’avallo della Corte costituzionale) (29) possa avere una portata maggiore del chiaro disposto della seconda.
Da ultimo, sempre sul piano della virtualità teorica, non può non essere comunque rilevata una grave mancanza del nuovo testo costituzionale, che dopo aver abolito (e giustamente data la cattiva prova in azione da questo fornita) il controllo preventivo di costituzionalità, non ha poi disposto strumenti idonei a superare le inadempienze del legislatore regionale derivanti dal mancato adeguamento ai principi fondamentali posti dalla legislazione statale.
Si tratta di una lacuna grave, anche in considerazione delle numerose clausole trasversali presenti nella competenza esclusiva statale (prima fra tutte quella relativa alla definizione dei livelli essenziali).
Nel II comma dell’art. 117 Cost., infatti, è facile notare la presenza di molti elementi dinamici che mantengono allo Stato un ruolo importante, dato il loro carattere trasversale. Basti pensare alla competenza a determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m) (30), soprattutto considerando che la nostra Costituzione, nella sua Parte prima, prevede una forte ed avanzata connotazione sociale, ad esempio più intensa e strutturata di quella tedesca.
Esistono, inoltre, materie riservate alla competenza statale esclusiva dal carattere trasversale ed ampio, come quella “ordinamento civile” (31) e quella “tutela della concorrenza” (art. 117, comma 2, lett. e), destinate ad interessare molte delle materie di competenza concorrente o primaria regionale.
Nel regime di interferenza tra fonti che s’instaura sia per la presenza delle materie trasversali della competenza esclusiva statale, sia per la struttura della competenza concorrente, era assolutamente necessario prevedere soluzioni, come quella introdotta per il Trentino-Alto Adige, basate sulla possibilità del riscorso successivo statale per il mancato adeguamento entro un certo termine. Solo in questo modo, in quell’ordinamento si è potuto realizzare e mantenere un regime d’effettiva separazione fra le diverse fonti (32).
Posto, infatti, che la lettera dell’art. 120 Cost. sembra non consentire la sostituzione agli organi legislativi regionali (33), l’unico rimedio contro il mancato adeguamento della legislazione regionale che sembra rimasto nel Titolo V è quello eventuale del controllo in via incidentale, senza che nel diretto rapporto tra enti, allo Stato possano configurarsi strumenti adeguati sul piano del contenzioso costituzionale (34). Anche l’ipotesi di un conflitto costituzionale tra Stato e Regione per mancato adeguamento, oltre a richiedere un superamento dell’attuale giurisprudenza in relazione all’ambito oggettivo del conflitto, potrebbe non risultare un rimedio efficace: come farebbe la Corte costituzionale a giudicare sui tempi occorrenti all’adeguamento (dopo quale decorso temporale la Regione potrebbe ritenersi inadempiente: sei mesi, un anno o altro termine?). Nel sistema di micro-giustizia costituzionale del T.A.A. il meccanismo che ha determinato il successo della nuova forma di ricorso è stato proprio quello della fissazione del termine di sei mesi per l’adeguamento, al punto che quasi sempre, nelle more del giudizio di costituzionalità instaurato, la Regione effettua l’adeguamento e la Corte dichiara la cessazione della materia del contendere.
In mancanza di un termine positivamente fissato per l’adeguamento, l’utilizzabilità del tradizionale conflitto tra Stato e Regioni appare, invece, nell’attuale assetto del Titolo V, assai incerta.
Peraltro, poiché l’introduzione di un sistema sul tipo T.A.A. non potrebbe avvenire con legge ordinaria ma richiede necessariamente un intervento a livello costituzionale (35), si deve concludere che già sul piano della stessa virtualità teorica questa lacuna rappresenta un difetto molto grave (non certo l’unico) del nuovo Titolo V.


3. La legge regionale nel nuovo sistema delle fonti: dalla virtualità teorica al difficile avvio del processo di attuazione.

3.1 Premessa.

Dopo quest’analisi votata a inquadrare teoricamente la legge regionale sulla base del nuovo testo del Titolo V, è opportuno cercare di spostare il piano dell’analisi sulla fase che si aperta dopo l’entrata in vigore della riforma e cercare di proporne un quadro connotato da un maggiore tasso di realismo.
Da questo punto di vista, per “realismo” s’intende il riferimento al processo di attuazione in corso, all’interno del quale è evidente il riproporsi di uno scenario politico e costituzionale del passato, dove, come già nella prima fase regionalista del nostro Paese, si susseguono dichiarazioni di buone intenzioni del Governo, accuse delle opposizioni e rivendicazioni delle Regioni. Rispetto al film dei decenni trascorsi, tuttavia il copione attuale è alterato da un marcato “sindacalismo delle competenze” dei vari attori in causa, che rispetto a quanto in scena in passato, sembrano aver dimenticato quel “senso del tutto” che invece appare indispensabile per garantire un processo armonico e responsabile allo sviluppo del federalizing process italiano. Emblematiche, ad esempio, appaiono in questa fase le istanze rivendicative dei Comuni, che sembrano dimenticare la diversa responsabilità (anche impositiva) che grava sui soggetti con potestà legislativa (Stato e Regioni). Accogliendo quelle istanze, infatti, si rischierebbe di reintrodurre nell’ordinamento italiano quella dissociazione tra chi “spende e chi paga” (la cd. accountability) (36) che con tanta fatica si è cercato di arginare nell’ultimo decennio per rimediare alla cd. “finanza allegra”.
In questa seconda parte dell’analisi si cercherà quindi di privilegiare il contesto attuale, per valutare come e in che misura quell’impianto virtuale sopra descritto abbia chances di affermazione, e come mai, ad oggi, la prospettiva della nuova legge regionale possa apparire alquanto depotenziata.


3.2 Regime di separazione o solo preferenza della legge regionale?

Il primo problema che può essere affrontato è quello relativo alla possibilità, per la legislazione statale, di continuare ad intervenire nelle materie di competenza regionale con normative caratterizzate dalla cd. clausola di cedevolezza, con una tecnica che di fatto è stata spesso utilizzata dalla normazione statale di questi ultimi mesi.
Secondo alcuni, come già si è accennato, la nuova collocazione della legge regionale nel sistema delle fonti e la configurazione di un regime di separazione conducono ad escludere la legittimità, nel contesto del nuovo Titolo V, della soluzione della normativa statale cedevole. Il rovesciamento del criterio della residualità con l’affermazione della competenza generale regionale escluderebbero, cioè, la possibilità di continuare a ragionare in termini di “preferenza” anziché di “riserva” degli ambiti di competenza assegnati alle fonti statali e regionali (37).
A questo riguardo, tuttavia, occorre notare che il nuovo testo utilizza espressamente il riferimento al regime tecnico della “riserva” solo per definire la competenza statale: si dice infatti che è “riservata allo Stato” (art. 117, III comma) la determinazione dei principi fondamentali e si afferma la “spettanza” alla competenza generale regionale di ogni materia “non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117 Cost., IV comma). In altre parole, ad un’attenta analisi, il termine “riserva” viene utilizzato solo in riferimento alla legislazione statale, mentre non viene mai utilizzato in relazione alla legislazione regionale. Questa differenza terminologica potrebbe quindi legittimare la prassi della normativa statale cedevole? In realtà, a favore di quest’ipotesi potrebbe concorrere, oltre all’immediato rischio dell’inerzia regionale, anche (in base ad una preoccupazione più rivolta al futuro che all’assetto immediato) la mancanza di un controllo di costituzionalità sul mancato adeguamento della normativa statale ai principi fondamentali. Non occorre dimenticare, peraltro, che proprio il pericolo del mancato adeguamento è stata la motivazione principale utilizzata dalla Corte costituzionale nella famosa sent. n. 214 del 1985 che legittimò la prassi della normativa statale cedevole, affermando che se questo meccanismo non potesse operare “si perverrebbe all’assurdo risultato che la preesistente legislazione regionale, in difetto del necessario adeguamento a quella statale successiva, vanificherebbe in realtà quest’ultima, i cui (nuovi) principi resterebbero senza effettiva applicazione, sicché risulterebbe compromessa l’intera regolamentazione della materia alla quale si riferiscono”.
Nel nuovo assetto di competenze, dove l’ambito materiale della competenza regionale concorrente è enormemente aumentato rispetto a prima, quest’argomentazione sembra destinata a diventare fondamentale, anche se non si può evitare, a questo punto, di notare il rischio che la prassi della cedevolezza (nonostante si possa ritenere che in passato abbia rivestito una certa utilità (38) comporta nei confronti sia delle possibilità di sviluppo dell’autonomia regionale (39), sia della concreta definizione della legge regionale nel sistema delle fonti.
Tuttavia, la problematica dell’assenza di un controllo di costituzionalità per mancato adeguamento non è secondaria, dal momento che si estende a tutte quelle materie della competenza esclusiva statale che interessano trasversalmente la competenza regionale: in questo caso si tratta di una legislazione statale estremamente importante (basti pensare ai livelli essenziali o alla tutela della concorrenza). Se si ritiene che il potere sostitutivo dell’art. 120 non possa riguardare l’attività degli organi legislativi regionali, quid iuris se la legislazione regionale non si adegua? E in che tempi essa è tenuta ad adeguarsi? E’ chiaro, infatti, che il problema del mancato adeguamento, nell’assetto del nuovo Titolo V è diventato molto più delicato che in passato, a causa della presenza di materie trasversali statali assai rilevanti e dell’aumento degli ambiti materiali della competenza regionale. Oggi, quindi, a differenza del passato, il problema del mancato adeguamento non attiene più solo alla potestà concorrente e quindi alla legislazione di principio, ma riguarda anche a tutte le materie di carattere trasversale della competenza esclusiva statale, trovandosi, per questo particolare aspetto, paradossalmente rovesciato rispetto a prima. Le norme prodotte dallo Stato nell’ambito delle materie trasversali della competenza esclusiva, infatti, non sempre si configureranno come norme di principio cui applicare l’art. 10 della l. n. 62 del 1953, così come chiarito dall’applicazione giurisprudenziale della Corte costituzionale. Si tratterà, infatti, spesso di norme di dettaglio (ad esempio nel caso dei livelli essenziali), oppure, in altri casi (come le norme relative alla materia tutela della concorrenza) sia di norme di principio che di dettaglio. Ed entrambi gli ordini di norme, dato il carattere trasversale, potranno interessare sia la competenza concorrente che quella primaria regionale.
La concreta posizione della legge regionale nel sistema delle fonti dipenderà, in buona parte, dalla soluzione che verrà fornita a questo problema. Se si estende, infatti, l’ipotesi dell’abrogazione immediata che è stata seguita in relazione ai nuovi principi della (vecchia) potestà ripartita anche alle norme trasversali della competenza esclusiva statale si potrebbe tornare a mettere in dubbio l’effettiva esistenza di un reale regime di separazione tra i due ordini di fonti, statali e regionali.
Nel quadro di una realistica definizione della posizione della legge regionale nel sistema delle fonti, quindi, occorre tenere conto di questa lacuna, rilevata già prima nel quadro della virtualità teorica, dove l’unica soluzione, de iure condendo, per difendere un regime di separazione sembra quella dell’obbligo d’adeguamento e della relativa possibilità di ricorso statale in caso d’inerzia, mentre l’unica possibilità, de iure condito, è quella di continuare a legittimare la prassi delle normative statali cedevoli.


3.3 La fase attuativa del nuovo Titolo V.

Lasciando aperta la risposta a questo problema, è poi possibile cercare di entrare nel merito della fase attuativa del nuovo Titolo V, nella quale si sono susseguiti alcune proposte di disegni di legge governativi e puntuali prese di posizioni della Conferenza dei Presidenti delle Regioni.
In un primo momento, peraltro, il confronto tra Governo e Regioni è sembrato concentrarsi sulla competenza concorrente, probabilmente anche a causa dell’elevato numero di materie nuove e dai confini non chiaramente definibili.
A questo riguardo, è utile ricordare che la Conferenza dei Presidenti ha presentato un documento nel quale si rivendica la possibilità per le Regioni di legiferare da subito nelle materie della competenza concorrente, applicando il criterio dell’art. 17 della l. n. 281 del 1970 e ricavando quindi i principi dalla legislazione statale previgente.
Nello stesso tempo, il Ministero per gli Affari regionali ha presentato una bozza di d.d.l. di attuazione della l. cost. n. 3 del 2001 dove da un lato è egualmente affermata questa possibilità, ma dall’altro, “in fase di prima applicazione” si delega il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi “diretti alla ricognizione dei principi fondamentali vigenti nell’ordinamento nelle materie previste dall’art. 117, terzo comma” (40). Sulla legittimità costituzionale (41) e sulla coerenza (42) di un simile procedimento d’attuazione sono stati manifestati seri dubbi. A prescindere da questa specifica soluzione, tuttavia, quello che appare più importante, in questa sede, è soffermarsi sull’ulteriore problema della condizioni necessarie all’esercizio delle nuove funzioni legislative regionali.
La potestà legislativa regionale, infatti, non può essere considerata in astratto, a prescindere cioè dal problema delle risorse, delle funzioni amministrative e dell’assetto del federalismo fiscale.
Realisticamente Hamilton affermava: “il denaro è considerato, a torto o a ragione, il principio vitale di ogni corpo politico, quello che ne sostiene la vita e che gli consente di adempiere alle proprie più essenziali funzioni” (43).
Abbandonando, quindi, il quadro della virtualità a favore di una reale considerazione delle possibilità legislative regionali, non dovrebbe essere difficile comprendere come l’avvio dell’esercizio delle nuove competenze legislative non possa avvenire senza il completamento del processo di trasferimento delle risorse destinate a fornire a queste stesse competenze un’adeguata “copertura”.
Dal momento che il nuovo art. 118 Cost. non può ritenersi autoapplicativo, quella indicata si configura come la prima urgenza per “animare” di vita reale la nuova potestà legislativa regionale. Se è pur vero, infatti, che le Regioni potrebbero comunque legiferare (almeno nell’esercizio della potestà primaria), appare assai improbabile che prima dei trasferimenti queste siano disposte a sopportare l’onere e l’impatto politico di una duplicazione dei costi.
E’ quindi urgente che nelle future versioni del d.d.l. di attuazione del Titolo V venga stabilito un termine adeguato entro cui garantire il trasferimento delle risorse, evitando così che il divario tra virtualità e realtà della legge regionale si prolunghi troppo a lungo, a danno della reale posizione della legge regionale nel sistema delle fonti (44).

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Note

(1) Così LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni a Statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
(2) “Con questi ultimi accenni, sono venuto a sfiorare, quasi involontariamente, un problema sul quale non mi pare che la dottrina regionalistica, pur così ricca e spesso approfondita, si sia soffermata con la dovuta attenzione… giacché applicando i presupposti delineati dal Romano, non dovrebbe essere dubbio, a mio avviso, che le Regioni (come altresì i Comuni e le Province) siano suscettibili di configurarsi, oltre che come “semplici enti in senso all’ordinamento statale”, anche come altrettanti ordinamenti giuridici”. Così CRISAFULLI, La legge regionale nel sistema delle fonti, in R.T.D.P.1960, 282.
(3) CRISAFULLI, La legge regionale nel sistema delle fonti, cit., 289, nonché IDEM, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, ivi, 1960, 806 e 807.
(4) Si rimanda, al riguardo, all’ampia riflessione di TOSI, “Principi fondamentali” e leggi statali nelle materie di competenza concorrente, Padova, 1987, 28, ss.
(5) MARTINES-RUGGERI, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 1992, 254, ss.
(6) Cfr. PALADIN, Diritto regionale, Padova, 2000, 72 e 73 per il quale “per individuare in tutta la sua complessità la posizione peculiare che la legge regionale occupa rispetto alle altre fonti con essa concorrenti nei medesimi settori, occorre infatti usare un criterio composito di sistemazione: in vista del quale la superiorità gerarchica delle fonti condizionanti (statali o regionali) è sempre circoscritta da una certa riserva di competenza, costituzionalmente voluta a favore delle fonti condizionate (regionali o provinciali o comunali, secondo le diverse ipotesi).
(7) Cfr. TRIMARCHI, Questioni formali in tema di indirizzo e coordinamento, in Le Regioni, 1990, 1711, ss. Per ulteriori considerazioni e rimandi bibliografici, cfr. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000, II parte.
(8) PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 336, ss.
(9) Cfr. BIN, La legge regionale, in Saggi e materiali di diritto regionale, Rimini, 1997, 127, nonché ID., Le potestà legislative regionali dalla Bassanini ad oggi, in Le Regioni, 2001, 615, ss.
(10) Così GENTILE; Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2001, 165.
(11) Ibid.
(12) Sul quale, peraltro, cfr. BIN, Cinque interrogativi (e cinque risposte) su sussidiarietà e funzioni amministrative, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, e, di diverso avviso, ANZON, Un passo indietro verso il regionalismo duale, Ivi.
(13) Cfr PANUNZIO, Audizione alla Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica, in www.parlamento.it
(14) Cfr. PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001, 199, ss.
(15) Secondo alcuni, cfr. ANZON, op. cit. , nell’art. 114, II comma Cost., la mancata menzione dello Stato tra gli enti autonomi starebbe a rimarcare la distinzione tra questi e l’ente sovrano: lo Stato. In realtà, anche a voler accettare questa distinzione non si può fare a meno di ridimensionare, rispetto al passato, lo spessore della sovranità statale, sia alla luce dei condizionamenti sovranazionali, sia in base al rovesciamento di competenze legislative e all’allocazione delle funzioni regolamentari e amministrative degli articoli. successivi del nuovo Titolo V. Così come la stessa argomentazione rimarrebbe valida se si ritenesse di fondare, sulla base dell’esclusione dello Stato dal II comma, la definizione di Stato come soggetto unitario distinguendolo rispetto agli enti autonomi.
(16) GALLO, Le fonti del diritto nel nuovo ordinamento regionale, Torino, 2001, 92.
(17) PANUNZIO, Audizione alla Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica, cit..
(18) Ibid., nonché ELIA, Audizione alla Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica, in www.parlamento.it.
(19) PANUNZIO, Audizione … cit.; PIZZETTI, Risposte dei soci dell’A.I.C. ai quesiti, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, D’ATENA, Legislazione concorrente, principi impliciti e delega per la formulazione dei principi fondamentali, ivi.
(20) Secondo alcuni, ad esempio CAVALERI, La nuova autonomia delle regioni, in Foro.it., 2001, V, 202, questa potestà legislativa sarebbe ancora più ampia di quella primaria delle Regioni a Statuto speciale, essendo subordinata - come la potestà legislativa statale ai sensi dell’art. 117, I comma - alla sola Costituzione, ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed agli obblighi internazionali. Secondo altri, invece, (GALLO, Le fonti del diritto nel nuovo ordinamento regionale, cit., 86, ss.) limiti come quello dei principi generali dell’ordinamento giuridico o delle norme fondamentali delle grandi riforme economiche e sociali, (applicati dalla Corte costituzionale alla potestà primaria delle Regioni a Statuto speciale anche se non testualmente previsti in alcuni Statuti – come quello dei principi generali che non è contenuto nello statuto della Regione Sicilia), essendo espressione di esigenze di unitarietà giuridica, rimarrebbero validi anche per la competenza primaria regionale.
(21) PANUNZIO, Audizione … cit., per il quale l’interesse nazionale si deve ritenere ormai incarnato in formule specifiche come quella del potere sostitutivo dell’art. 120, quella della determinazione dei livelli essenziali dei diritti civili e sociali e quella del’art. 126. Invece, secondo BARBERA, Scompare l’interesse nazionale?, in Forum di Quad. cost., in www.unife.it/forumcostituzionale/contributi.it, il il limite dell’interesse nazionale non può considerarsi travolto dalla riforma: “esso permane quale espressione dell’unità stessa della Repubblica. E’ un limite che appartiene alla categoria dei limiti "impliciti " che trova un aggancio testuale nell’art. 5 della Costituzione e di cui peraltro v’è traccia indiretta nel nuovo art. 120 laddove prevede i poteri sostitutivi del Governo a tutela della "unità giuridica o dell’unità economica".”
Su questa conclusione cfr. anche BALDASSARRE, Audizione alla Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica, www.parlamento.it, per il quale l'interesse nazionale non solo resiste, radicandosi nell’art. 5 Cost., ma non può non esserci, come in qualsiasi ordinamento, anche in quello federalista più estremo. Baldassare, inoltre, ricorda come l'interesse nazionale abbia una sua variabilità sostanziale, di cui può essere interprete soltanto lo Stato, come rappresentate degli interessi unitari della Repubblica. Peraltro, Baldassarre ricorda anche come la supremacy clause, negli ordinamenti federali, possa spostare la linea delle competenze.
Analogamente secondo ELIA, Audizione alla Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica, cit., per la tutela dell’interesse nazionale si potrà fare ricorso al comma 2 dell'articolo 120, che raccoglie due criteri propri dell'articolo 72 della Legge fondamentale tedesca: la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica. Elia rileva, tuttavia, come sia stato improprio riferire questo potere sostitutivo al “Governo” e non allo“Stato”.
Cfr., però, PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, cit., 200, ss..
(22) Cfr TOSI, A proposito dell’interesse nazionale, in www.unife.it/forumcostituzionale/contributi.it). per la quale le materie riservate allo Stato dall’art. 117 Cost. sono “punti di vista” che consentono di attrarre al centro, anche nelle materie di competenza regionale, la disciplina di taluni rapporti.
(23) LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni a Statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, cit. ,16. “Non solo ciò che è espressamente elencato come connesso ad esigenze unitarie, pertanto, è interesse nazionale, ma, allo stesso tempo, non può essere di interesse nazionale ciò che non ha nulla a vedere con la logica di quell’elenco”.
Peraltro, funzioni come quella dell’indirizzo e coordinamento potrebbero continuare a trovare una giustificazione costituzionale se debitamente alleggerite in considerazione del nuovo quadro (qui potrebbe essere interessante ancora il richiamo a come è stata ridefinita questa funzione, assegnandole carattere solo teleologico, con il d. lgs. n. 266 del 1992, relativamente al Trentino-Alto Adige).
(24) FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Le Regioni, 2001.
(25) TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in www.associazionedeicostituzionalisti.it .
(26) Ibid.
(27) Occorre rilevare come quest’interpretazione trovi piena corrispondenza nella previsione del terzo comma del nuovo art. 117 Cost., che dispone una esplicita riserva allo Stato della determinazione dei principi fondamentali (“ nelle materie di egislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”). Il nuovo art. 117 Cost., infatti, definisce una esplicita “riserva” alla legislazione dello Stato, superando quindi la più debole espressione del precedente art. 117, Cost. (“stabiliti” dalle leggi dello Stato). Il nuovo testo sembra quindi precludere la possibilità che l’operazione di definizione dei principi fondamentali possa essere effettuata in via interpretativa dal legislatore regionale attraverso la “deduzione implicita” dalla legislazione statale vigente.
(28) Ad esempio, seguendo questa interpretazione le Regioni potrebbero legiferare da subito in materie come tutela della salute o istruzione, perché già esistono principi fondamentali, espressamente definiti come tali, nella legislazione statale vigente, mentre debbano attendere le leggi cornice in materie come le grandi reti di trasporto, le comunicazioni, ecc. perché non esistono nella legislazione statale espresse previsioni di cosa costituisce, in queste materie, un principio fondamentale.
E’ chiaro che in questo modo si corre il rischio di non sfruttare adeguatamente fin da subito le potenzialità della potestà legislativa concorrente regionale, perché per le vecchie materie continuerebbero a valere i principi fondamentali definiti dalla legislazione statale (e che essendo venuti alla luce sotto il vecchio titolo V spesso sono anche molto incisivi, si pensi alla sanità e alle ultime riforme), mentre per le nuove occorrerebbe attendere l’emanazione delle leggi cornice.
(29) Cfr., peraltro, LOMBARDI, Legislazione concorrente e limite dei principi: spunti e contrappunti a proposito di una sentenza esemplare, in Giur. cost., 1982, 39, ss., dove si acutamente si evidenzia come attraverso il meccanismo della ritraibilità dei principi dall’ordinamento previgente il sistema della competenza ripartita sia evoluto verso una forma di regionalismo competitivo con alcuni elementi tipici della Konkurrierende Gesetzegebung tedesca.
(30) Vi è poi il ruolo di perequazione assegnato allo Stato con la legislazione (art. 117, comma 2, lett. e) e con la finanza (art. 119 e art. 117, comma 3 relativo alla competenza statale sui principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica). Occorre notare, peraltro, che il V comma dell’art. 119 legittima non solo la destinazione di risorse aggiuntive, ma anche “interventi” statali speciali per una serie molto ampia di casi (“rimuovere gli squilibri economici e sociali”, “coesione e solidarietà sociale”, ecc.)
(31) Va osservato che da tempo la dottrina ha abbandonato la identificazione tra l’ordinamento civile e il codice, poiché negli anni c’è stata una grande espansione dell’ordinamento civile attuata con leggi speciali, che se in alcuni casi ha modificato il codice e si è inserita in esso (ad esempio in materia di diritto di famiglia e di tutela del consumatore), in molti altri è rimasta fuori dal codice (ad esempio, la legislazione sulle locazioni degli immobili urbani, ecc.). Il codice civile, quindi, non ha più una funzione centrale nel sistema, per cui sembra difficile poter prescindere dalla legislazione speciale per identificare la materia “ordinamento civile”.
(32) Nel microsistema di giustizia costituzionale introdotto nel 1992 per il Trentino-Alto Adige, a fronte dell’abolizione del controllo preventivo è stato previsto un obbligo di adeguamento per il legislatore regionale, che se non viene rispettato nel termine di sei mesi, consente al Governo di impugnare, nei novanta giorni successivi, la normativa regionale non adeguata. In questo modo è stato posto un efficace rimedio al rischio dell’inerzia regionale, che in genere ha spinto le Province autonome di Trento e Bolzano e la Regione T.A.A. a provvedere all’adeguamento subito dopo l’impugnativa statale e prima della pronuncia della Corte costituzionale.
(33) Tale potere appare assai diverso dai poteri sostitutivi oggi previsti dall’ordinamento. Si tratta, infatti, di una disposizione destinata probabilmente ad assumere una valenza cardinale nel nuovo assetto dei rapporti fra potere centrale ed autonomie locali, vista la sua natura di clausola generale di potenziale recupero di funzioni e competenze in favore dello Stato centrale. A ciò tuttavia si accompagna la considerazione che la formulazione assai generica di tale articolo lo rende, come lucidamente affermato da FALCON, , Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, cit. ,“più che una soluzione, un problema interpretativo”.
Ed in effetti, sono così numerose e rilevanti le questioni esegetiche sollevate dal “rebus giuridico” contenuto nel nuovo art. 120 Cost., che è lecito ipotizzare che proprio dalla definizione in via interpretativa dei suoi contenuti, potrebbe dipendere il reale grado di autonomia costituzionalmente garantito a Regioni ed Enti locali.
(34) Dal momento che è stata abolita la possibilità del controllo preventivo di costituzionalità (ed opportunamente perché questo controllo, nella sua vigenza, ha fornito una cattiva prova), il solo ricorso a disposizione del Governo è quello successivo, che può essere instaurato solo entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge regionale. Non esiste quindi rimedio rispetto alla legislazione regionale che non si adegua. Essendo decorso il termine per l’impugnazione in via principale (60 gg. dalla pubblicazione della legge regionale) l’unico modo, infatti, con cui la legge regionale che non si adegua potrà essere sindacata dalla Corte costituzionale potrà essere il ricorso in via incidentale. Il ricorso cioè sollevato da un privato nel corso di un processo di fonte ad un’autorità giudiziaria che si trovi a dover applicare la legge regionale ad una controversia concreta. Potrebbe anche accadere che nessuna questione venga mai sollevata in relazione ad una legge regionale, anche perché il contrasto con i principi fondamentali potrebbe risultare difficile da individuare, anche per i giudici a quibus.
(35) Nel sistema del T.A.A., infatti, l’introduzione del ricorso per mancato adeguamento è stata legittimamente disposta con un decreto legislativo di attuazione dello Statuto speciale che forniva un espresso fondamento. Cfr., a questo proposito e anche sulla buona prova fornita dal modello trentino, ANTONINI, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000,
(36) Cfr. su questo rischio, GIARDA, Le regole del federalismo fiscale nll’art. 119: un economista di fronte alla nuova costituzione, Milano, 2001.
(37) PANUNZIO, Audizione alla Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica, cit.; PIZZETTI, Risposte dei soci dell’A.I.C. ai quesiti, cit.
(38) Cfr. BIN, La legge regionale, cit., 123, ss. che ragiona in termini di assetto post-euclideo del rapporto tra fonti regionali e fonti statali, intravedendo nel principio della cedevolezza solo una apparente deformazione del quadro originario e in realtà le “bozze di un disegno nuovo, più adeguato alle esigenze attuali dei sistemi di relazione centro-periferia”. La tesi è poi ribadita in BIN, Le potestà legislative regionali dalla Bassanini ad oggi, in Le Regioni, 2001, 616, ss.
(39) Cfr., a questo riguardo, ANTONINI, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000, 45,ss.. La presenza di una legislazione statale che investe a macchia d’olio la materia, infatti, potrebbe facilmente deresponsabilizzare l’attività di produzione normativa regionale.
(40) Si fa riferimento alla versione del 27 febbraio 2002.
(41) Cfr. D’ATENA, Legislazione concorrente, principi impliciti e delega per la formulazione dei principi fondamentali, in www.unife.it/forumcostituzionale/contributi.it, che ritiene “aberrante” la soluzione di questa delega, che, oltre a configurarsi come una delega in bianco, senza oggetto definito, risulterebbe in contrasto con la riserva d’assemblea deducibile dall’art. 11 della l. cost. n. 3 del 2001.
(42) L’intento del Ministro per gli affari regionali di partire, nel processo di attuazione del Titolo V, dalle competenze concorrenti, infatti, appare contraddittorio con le stesse dichiarazioni più volte esternate dallo stesso sull’intenzione di proporre una “riforma della riforma” del Titolo V, diretta proprio a limitare l’area delle competenze concorrenti. Appare quindi contraddittorio che si privilegi l’attuazione di una parte della riforma che si afferma essere la prima che sarà necessario riformare.
(43) HAMILTON, Lo Stato federale, Bologna, 1987, 121.
(44) Mentre si ultimava il lavoro di sistemazione del testo di questo saggio, si è avuta notizia del nuovo testo del d.d.l. di attuazione della l. cost. n. 3 del 2001, approvato in data 19 aprile 2002, dal Consiglio dei Ministri, che propone una nuova soluzione al problema dell’allocazione delle funzioni amministrative di cui all’art. 118 della Costituzione.
Rispetto alle versioni precedenti, infatti, il d.d.l. predisposto dal Ministero per gli affari regionali presenta due novità: la prima è la fissazione del termine di un anno per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, finanziarie umane e organizzative, la seconda è la scomparsa della delega al Governo (prima contenuta nell’art. 2 della bozza di d.d.l.) per la determinazione, entro nove mesi, delle funzioni amministrative fondamentali di Province, Comuni e Città metropolitane, di cui all’art. 117, II comma, lett. p, della Costituzione (la cui attuazione sarà ora gestita dal Ministero dell’Interno).
Si tratta di due novità molto importanti, probabilmente destinate a assumere un valore decisivo rispetto alla possibilità di sbloccare la fase di stallo in cui il processo di attuazione del Titolo V si è arenato.
Il punto maggiormente critico delle precedenti versioni del d.d.l. di attuazione, infatti, era costituito dalla mancanza di un termine per il processo di trasferimento delle risorse, che trasformava la norma sulle funzioni amministrative in una mera norma “manifesto” e rischiava di favorire un gap tra Regioni e altri Enti locali (avvantaggiati, invece, dallo strumento più “forte” della delega che l’art. 2 dello stesso d.d.l. conferiva al Governo per la determinazione delle funzioni amministrative fondamentali di Province, Comuni e Città metropolitane, ai sensi dell’art. 117, II comma, lett. p, della Costituzione, e che avrebbe garantito loro, nel breve periodo di nove mesi, l’immediata titolarità delle nuove funzioni riallocate). Lo scenario rischiava quindi di evolversi in maniera particolarmente sfavorevole per le Regioni, mancando a favore di queste la garanzia di un termine certo (v. a questo riguardo, amplius, Antonini, Intorno alle cause del mancato “decollo” del nuovo Titolo V, in www.federalismi.it) per la conclusione dell’accordo e il correlativo trasferimento di risorse.
Al fine di riequilibrare il quadro le soluzioni possibili erano quindi due: quella di prevedere una delega anche per il trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni nelle nuove materie della competenza regionale, oppure quella (seguita dal nuovo d.d.l.) di fissare un termine per il trasferimento delle funzioni.
A prescindere dal diverso aspetto formale in base al quale ognuna delle due interpretazioni avrebbe potuto essere giustificata (v. Antonini, Un passo in avanti sul nodo delle funzioni amministrative: un commento “a botta calda” sull’art. 4 del nuovo d.d.l. di attuazione del Titolo V, in www.federalismi.it, dove si prospetta la possibilità di un riferimento alla VIII disp. Trans. Fin. della Cost.), restava tuttavia fuori discussione che senza “copertura” nessuna funzione amministrativa avrebbe potuto essere svolta (così D’Atena, op. cit.). La previsione di un termine per il trasferimento delle risorse, invece, sembra ora garantire la concreta operatività della copertura finanziaria, strumentale e di personale, necessaria per il concreto esercizio delle nuove funzioni amministrative.
Mentre l’ipotesi della delega avrebbe portato a ripercorrere il processo seguito con la riforma Bassanini, nel modello di attuazione dell’art. 118 Cost., ora proposto dal nuovo d.d.l., la scansione temporale del processo prevede, a monte, la conclusione di un accordo tra Governo, Regioni e autonomie locali. A seguito di questo accordo, che svolgerà l’indispensabile funzione di definire con certezza gli ambiti delle rispettive funzioni amministrative, dovranno essere emanati, entro un anno dalla entrata in vigore della legge di attuazione del nuovo Titolo V, i d.P.C.M. di trasferimento delle risorse.
La dinamica attuativa definita dall’art. 4 del d.d.l. implicherà quindi l’emanazione, da parte di ciascuna Regione, di leggi regionali dirette a disciplinare l’esercizio delle funzioni amministrative relative alle nuove risorse trasferite, dalla cui entrata in vigore deriverà la base legale dell’esercizio delle stesse funzioni riallocate. In questo modo il processo si esaurirà nella sequenza accordo-d.P.C.M.-legge regionale, sul presupposto di una diretta efficacia del nuovo art. 118 Cost., già peraltro seguita in relazione ad altri aspetti del nuovo Titolo V (ad esempio in relazione ai controlli), senza ritenere necessaria l’abrogazione delle leggi statali preesistenti che articolano diversamente le funzioni amministrative (ad esempio, in diverse materie della nuova competenza regionale primaria, le funzioni amministrative mantenute allo Stato dal d.lgs. n. 112 del 1998 dovranno subire una diversa allocazione senza che la normativa in esso contenuta risulti direttamente modificata da altra legge statale).
Peraltro, l’accordo e la emanazione dei d.P.C.M. di cui all’art. 4 del d.d.l. di attuazione del Titolo V, non è limitata alle sole funzioni amministrative relative alla competenza regionale primaria, ma sembra riguardare l’intero campo delle funzioni amministrative che non dovrebbero essere più esercitate dallo Stato. I settori di funzioni amministrative interessati sono quindi anche quelli relativi alla potestà legislativa di tipo concorrente, per la quale l’art. 1, comma 4, del d.d.l. di attuazione prevede l’esercizio di una delega diretta ad effettuare, in fase di prima applicazione, entro un anno, la ricognizione dei principi fondamentali della legislazione statale.
L’accordo di cui all’art. 4 viene quindi ad acquistare una grande importanza sotto il profilo istituzionale, essendo destinato a rendere operativo gran parte dell’impianto del nuovo art. 118 della Costituzione. Si tratterà di un momento di concertazione forte, analogo per certi profili agli Accordi autonomici del federalizing process spagnolo (cfr. Antonini, Il regionalismo differenziato, cit., 104, ss..), all’interno del quale dovrà essere considerato il parallelo processo di definizione delle funzioni fondamentali di Province, Comuni e Città metropolitane (gestito ora dal Ministero dell’interno). Dovrà, inoltre, essere considerata la fase di ricognizione dei principi fondamentali della legislazione statale, dal momento che la definizione del concreto ambito della potestà legislativa concorrente avrà comunque una ricaduta nella allocazione delle funzioni amministrative. Da questo punto di vista occorrerà prestare attenzione alla circostanza che il termine di un anno previsto per l’emanazione dei d.P.C.M. coincide con lo stesso termine previsto per l’esercizio della delega rivolta alla ricognizione dei principi fondamentali. I due processi dovranno quindi svilupparsi in modo armonico e coordinato per evitare discrasie di diverso tipo.
All’interno dell’accordo, inoltre, dovrà essere considerata anche la sussidiarietà orizzontale, di cui al III comma dell’art. 118, Cost. Si possono quindi ipotizzare le tre fasi che probabilmente dovranno scandire dal punto di vista operativo la dinamica dell’accordo. In primo luogo, occorrerà identificare il complesso delle funzioni amministrative esistenti per valutare quali di queste possono essere svolte dalla società civile, al fine di effettuare uno scorporo; secondariamente, si dovrà verificare quali funzioni tra quelle rimaste sia opportuno vengano svolte dai Comuni; infine, laddove ciò non sia possibile per ragioni di inadeguatezza, i compiti andrebbero rimessi alla competenza del livello territoriale superiore. Un processo del genere dovrebbe quindi svolgersi muovendo dal privato verso il pubblico e poi dal basso verso l’alto (cfr. Piraino, Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V, in www.amministrazioneincammino.luis.it/convegni).
In ogni caso, la previsione di un termine al processo di trasferimento delle risorse, che avverrà secondo il principio del “congelamento dei costi” (si dovrà tenere conto “delle quantificazioni di spesa risultanti dal bilancio dello Stato per l’anno 2002”), è destinata a garantire una scadenza temporale a questa complessa operazione e ad accelerare la definizione di un nuovo sistema di federalismo fiscale. Come evidenziato dal Ministro Tremonti nel corso della sua audizione alla Commissione Affari costituzionali del Senato, un nuovo sistema di federalismo fiscale potrà essere definito solo una volta assestato il quadro delle competenze. Il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali finanziarie e umane porrà quindi i presupposti per una messa a regime dei flussi finanziari attraverso la definizione di un nuovo sistema di federalismo fiscale.

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