Forme di coordinamento della finanza pubblica e incidenza sulle competenze regionali.  Il coordinamento per principi, di dettaglio e “virtuoso”, ovvero nuove declinazioni dell’unità economica e dell’unità giuridica.
 
Michele Belletti  *
  
(Relazione presentata al Convegno “Il regionalismo italiano tra giurisprudenza costituzionale e involuzioni legislative dopo la revisione del Titolo V”, tenutosi a Roma il 13 giugno 2013)
 

1. Il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario nel vecchio e nel nuovo art. 119 Cost.
 
2. Il carattere prodromico del “coordinamento del sistema tributario” nella prima giurisprudenza costituzionale
2.1. Il primo coordinamento della finanza pubblica limitato al coordinamento nei confronti dell’attività di indebitamento
2.2. Il primo coordinamento volto ad assicurare la tenuta del Patto di stabilità interno
 
3. Coordinamento della finanza pubblica e autonomia di spesa
 
4. Le condizioni dell’intervento di coordinamento secondo la Corte costituzionale
4.1. L’evidente deroga a quelle condizioni, ovvero, quando il “dettaglio” diventa “principio”
4.2. L’inevitabile parametricità delle discipline statali di coordinamento di dettaglio
4.3. La giustificazione del coordinamento di estremo dettaglio
4.3.1. Quando il coordinamento si snatura l’autonomia si restringe
4.4. Quando anche la disciplina di principio del coordinamento della finanza pubblica è comunque limitativa delle istanze autonomiste
4.5. L’incisività del “coordinamento della finanza pubblica” in occasione della sottoposizione a “Piano di rientro”
4.5.1. L’incidenza sul principio di leale collaborazione. La pervasività dei piani di riqualificazione dei sistemi sanitari
4.5.2. L’incidenza sulle competenze regionali in materia di “tutela della salute” e “organizzazione sanitaria”. L’incostituzionalità del registro dei tumori e la compartecipazione degli utenti alla fruizione dei livelli essenziali delle prestazioni
4.5.3. L’unità economica diviene titolo di legittimazione dell’intervento statale volto ad assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica
4.5.4. Dal “coordinamento della finanza pubblica” al “contenimento” della spesa pubblica
4.6. Il valore del contenimento della spesa pubblica, funzionale all’equilibrio di bilancio, come limite all’incidenza del diritto CEDU. L’equilibrio di bilancio a presidio di eguaglianza e solidarietà
 
5. La soluzione auspicabile: il “coordinamento virtuoso” tramite la valorizzazione della libera concorrenza
5.1. Le forme dell’implementazione all’adeguamento da parte degli enti territoriali ai principi di liberalizzazione e razionalizzazione delle attività economiche. Una nuova declinazione del valore dell’unità giuridica
5.2. Il “coordinamento virtuoso” nell’affidamento dei servizi pubblici locali
5.3. Lo “spettro” costante del “coordinamento di dettaglio”

 
 
1. Il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario nel vecchio e nel nuovo art. 119 Cost.
 
Nell’impostazione del testo dell’art. 119 Cost. di cui alla riforma del 2001 il coordinamento della finanza pubblica pareva strettamente correlato, quasi consequenziale, al coordinamento tributario, poiché, con tutta evidenza, il problema di verificare “i saldi di bilancio e i limiti quantitativi sulle spese” [1] avrebbe potuto porsi in maniera significativa con la piena attuazione dell’autonomia di entrata degli enti territoriali, dunque, a seguito della definizione del coordinamento del sistema tributario. Come a dire che nell’impianto della riforma del 2001, forse il coordinamento della finanza pubblica non poteva che avere una valenza servente rispetto al coordinamento tributario.
È superfluo evidenziare che l’attuazione di quel disegno riformatore si è mosso su linee radicalmente opposte, privilegiando progressivamente il coordinamento finanziario, facendolo divenire pervasivo, in funzione del concorso di tutti i soggetti istituzionali “al conseguimento degli obiettivi unitari dell’ordinamento, e in primo luogo alla salvaguardia degli equilibri della finanza pubblica” [2].
È infatti la piena attuazione dell’autonomia di entrata che presuppone, o che legittima, un controllo sulla spesa, poiché, in un contesto di finanza derivata il controllo sulla spesa e dunque sull’equilibrio finanziario del complesso delle amministrazioni potrebbe essere esercitato a monte e non mancherebbero a posteriori strumenti anche pervasivi volti a ricondurre le amministrazioni in equilibrio. Il che vale finanche nelle ipotesi di ripiano selettivo dei deficit di bilancio, in ragione della sottoposizione a “Piani di rientro” [3].
A ciò si aggiunga “il controllo sulla gestione delle risorse collettive, affidato alla Corte dei conti, in veste di organo terzo (sentenza n. 64 del 2005) a servizio dello “Stato-comunità” (sentenze n. 29 del 1995 e n. 470 del 1997)”, con la finalità di garantire “il rispetto dell’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva”. In ragione soprattutto della precisazione della Consulta per cui “la necessità di coordinamento della finanza pubblica, nel cui ambito materiale si colloca il controllo esterno sulla gestione, riguarda pure le Regioni e le Province ad autonomia differenziata, non potendo dubitarsi che anche la loro finanza sia parte della finanza pubblica allargata” [4].
Tale tipologia di controllo di gestione “ha assunto peraltro maggior rilievo a seguito dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, tra cui, in particolare, l’obbligo imposto agli Stati membri di rispettare un determinato equilibrio complessivo del bilancio nazionale”, secondo quanto precisato dalla risoluzione del Consiglio europeo del 17 giugno 1997 relativa al “patto di stabilità e crescita”. A tali vincoli si riconnette essenzialmente la normativa nazionale sul “patto di stabilità interno”, che coinvolge Regioni ed enti locali nella “realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica” scaturenti dalla citata risoluzione, obblighi che sono stati diversamente modulati negli anni “in forza di disposizioni legislative che, (…), sono qualificate come princìpi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione” [5]. Si pensi inoltre all’art. 7, commi da 7 a 9, della legge n. 131 del 2003, che, nel mutato quadro costituzionale, a seguito della riforma del Titolo V, “valorizza, in un’ottica collaborativa, il controllo sulla gestione”, attribuendo alla Corte dei conti, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, “il compito di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio da parte di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, in relazione al patto di stabilità interno ed ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” [6].
Eppure ha progressivamente assunto la netta prevalenza un coordinamento legislativo a monte, che ha imposto un grado elevato di conformazione legislativa regionale, ai limiti della compatibilità costituzionale con il concetto generale di “autonomia” e in maniera più stretta con quello di “autonomia di spesa” [7].
La prima giurisprudenza costituzionale sul coordinamento del sistema tributario e della finanza pubblica pare confermare questa impressione [8]. Impressione che trova del resto conferma nel mutamento delle circostanze evidenziato dal nuovo primo comma dell’art. 119 Cost., ove, all’affermazione dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa degli enti territoriali è accompagnata la precisazione che queste si svolgano “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci” e che detti enti concorrano “ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”. Precisazioni che spostano evidentemente l’attenzione sul coordinamento, se non proprio sulla “conformazione”, dell’autonomia di spesa in luogo di quella di entrata.
  
2. Il carattere prodromico del “coordinamento del sistema tributario” nella prima giurisprudenza costituzionale
 
È con la prima pronuncia sui limiti all’autonomia di entrata e sul coordinamento riferito alla potestà impositiva degli enti territoriali – sentenza n. 37 del 2004 – che si trova conferma del fatto che il coordinamento dovrebbe (avrebbe dovuto) essere prevalentemente orientato, nelle intenzioni del legislatore di riforma costituzionale del 2001, nei riguardi dell’autonomia di entrata e non già di quella di spesa, ma soprattutto che l’attività di coordinamento avrebbe dovuto svolgersi per principi, posto che la disciplina di dettaglio in materia viene considerata come assolutamente transitoria.
La Corte rileva infatti che l’attuazione del disegno costituzionale del 2001 richiede “come necessaria premessa l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali” [9], laddove, con tutta evidenza, l’intervento attuativo del legislatore statale pare essere limitato alla sola potestà impositiva degli enti territoriali, dunque all’autonomia di entrata, non anche all’autonomia di spesa, che pare non necessitare alcuna attuazione.
È noto infatti come, in quella fase, non esistessero ancora, se non in limiti ristrettissimi, tributi che potessero definirsi a pieno titolo “propri” delle Regioni o degli enti locali (cfr. sentenze n. 296 del 2003 e 297 del 2003), nel senso che fossero frutto di una loro autonoma potestà impositiva, e quindi potessero essere disciplinati dalle leggi regionali o dai regolamenti locali, nel rispetto dei soli principi di coordinamento, ancora mancanti, poiché “incorporati, per così dire, in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato”. Gli stessi tributi di cui già la legge dello Stato destinava il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e per i quali la stessa legge riconosceva spazi limitati di autonomia agli enti quanto alla loro disciplina, che dunque la stessa legislazione definiva talora come “tributi propri” delle Regioni, nel senso invalso nella applicazione dell’art. 119 della Costituzione, prima del 2001, erano istituiti dalla legge statale e in essa trovavano “la loro disciplina, salvo che per i soli aspetti espressamente rimessi all’autonomia degli enti territoriali” [10].
Ne deriva che, come chiarito dalla Consulta, poiché non era ammissibile in materia tributaria una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale, rimaneva “preclusa alle Regioni (se non nei limiti ad esse già espressamente riconosciuti dalla legge statale) la potestà di legiferare sui tributi esistenti, istituiti e regolati da leggi statali (cfr. ancora sentenze n. 296 del 2003 e 297 del 2003)”. Il che lasciava dunque al legislatore statale “la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti” [11]; dettaglio giustificato questa volta dal carattere statale di tali tributi e non già dalla specifica conformazione della disciplina di coordinamento.
È interessante evidenziare che la Corte, in quella prima pronuncia, individua inoltre importanti limiti di ordine sostanziale che il legislatore statale avrebbe incontrato nella disciplina di questi tributi, laddove specifica che “in proposito vale ovviamente il limite discendente dal divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto dall’art. 119 della Costituzione, e così di sopprimere semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle Regioni e agli enti locali, o di procedere a configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica i principi del medesimo art. 119” [12]. Divieto che pare invece più di recente essere stato talvolta radicalmente travolto in conseguenza delle politiche di contenimento della spesa pubblica.
Il che conferma che la Corte giudica in quella fase l’intervento di dettaglio del legislatore statale, come assolutamente limitato e circoscritto nel tempo, in attesa dell’attuazione del modello costituzionale. Fino a quel momento, nei confronti della disciplina legislativa statale preesistente, lo Stato conserverebbe invece margini di intervento anche nel dettaglio. Ne deriva, evidentemente, che a regime, l’intervento statale avrebbe dovuto essere di ben altro tenore.
 
2.1. Il primo coordinamento della finanza pubblica limitato al coordinamento nei confronti dell’attività di indebitamento
 
La di poco precedente sentenza n. 376 del 2003 si era limitata, in materia di autonomia di spesa, a legittimare un coordinamento statale, non già della spesa degli enti territoriali, bensì dell’indebitamento di questi [13]. Dalla disciplina contestata si evince la previsione di un coordinamento, abbastanza flebile, limitato alle ipotesi di indebitamento, che, tra l’altro, si svolge con modalità rispettose dell’autonomia organizzativa degli enti territoriali, si sostanzia in semplici obblighi comunicativi e in forme che devono essere stabilite con il coinvolgimento della Conferenza unificata, dove vengono definite le modalità dell’ammortamento [14].
A parte l’evoluzione della giurisprudenza sul coordinamento finanziario, il carattere “flebile” di questa ipotesi di coordinamento dell’indebitamento si evince con nettezza se solo si mette a raffronto questa disciplina con il nuovo parametro costituzionale di riferimento, con l’art. 119 Cost., così come modificato dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1. In quell’articolo resta confermato che gli enti territoriali possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento e comunque resta esclusa ogni garanzia da parte dello Stato, tuttavia, si specifica che all’indebitamento si può ricorrere esclusivamente a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio, ponendo così un limite, prima non previsto, di ordine sostanziale, che comporta inoltre una sorta di “solidarietà” tra enti territoriali nella Regione, poiché il mancato equilibrio di bilancio del complesso degli enti impedisce a tutti di ricorrere all’indebitamento. Oltre a questo limite significativo di carattere sostanziale, che prescinde inoltre dalla diligenza del singolo ente e dal carattere virtuoso dello stesso, ma che, appunto, in una logica “solidale”, fa ricadere su tutti gli enti della Regione le negligenze anche di pochi, viene introdotto un importante limite di ordine procedurale/formale, poiché è sempre necessaria la contestuale definizione di piani di ammortamento, che nella previgente disciplina parevano soltanto eventuali, ma soprattutto ove le modalità di ammortamento venivano stabilite con metodo collaborativo.
Tornando alla pronuncia 376 del 2003, di fronte alle contestazioni di parte regionale, che rilevavano il carattere dettagliato della disciplina di coordinamento e l’attribuzione di un potere di coordinamento sostanzialmente in bianco, la Corte risponde che “La disciplina delle condizioni e dei limiti dell’accesso degli enti territoriali al mercato dei capitali rientra principalmente nell’ambito di quel “coordinamento della finanza pubblica” che l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione attribuisce alla potestà legislativa concorrente delle Regioni, vincolata al rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (…)” [15].
La Corte inizia inoltre a delineare quelli che dovrebbero essere i caratteri dell’attività di coordinamento, precisando che “il coordinamento finanziario può richiedere, per la sua stessa natura, anche l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo: onde, attesa la specificità della materia, non può ritenersi preclusa alla legge statale la possibilità, nella materia medesima, di prevedere e disciplinare tali poteri, anche in forza dell’art. 118, primo comma, della Costituzione”, delineando così le caratteristiche del c.d. “coordinamento tecnico”. Rileva inoltre che il carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento può esigere che a livello centrale si possano collocare “non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia, ma altresì i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento – che di per sé eccede inevitabilmente, in parte, le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali – possa essere concretamente realizzata” [16], evidenziando già una naturale vocazione espansiva dei principi in materia di coordinamento della finanza pubblica.
Ciononostante, la Corte pone dei limiti precisi a quell’attività, onde evitare che incida sull’autonomia organizzativa regionale, laddove precisa che “naturalmente i poteri in questione devono essere configurati in modo consono all’esistenza di sfere di autonomia, costituzionalmente garantite, rispetto a cui l’azione di coordinamento non può mai eccedere i limiti, al di là dei quali si trasformerebbe in attività di direzione o in indebito condizionamento dell’attività degli enti autonomi” [17], limiti che, con tutta evidenza, la più recente conformazione di quell’attività, peraltro legittimata dalla oramai costante giurisprudenza costituzionale, ha largamente superato.
 
2.2.  Il primo coordinamento volto ad assicurare la tenuta del Patto di stabilità interno
 
Con specifico riguardo al “coordinamento della finanza pubblica” volto ad assicurare la tenuta del patto di stabilità interno, con la sentenza n. 36 del 2004, per la prima volta la Corte prende ad esame la problematica del coordinamento in materia di spesa regionale, con riferimento alle misure statali di contenimento della spesa pubblica (legge finanziaria per l’anno 2002), in attuazione di vincoli comunitari, tradotti nel patto di stabilità interno, vale a dire quelle misure necessarie per garantire la compatibilità dei conti pubblici nazionali rispetto alle prescrizioni stabilite dall’ordinamento dell’Unione europea. Patto di stabilità interno che dunque costituisce ad un tempo vincolo derivante dall’ordinamento europeo, di cui al 1° comma dell’art. 117 Cost., e si traduce in specifici vincoli e principi di coordinamento della finanza degli enti territoriali.
La Corte premette che “il cosiddetto patto di stabilità interno, (…) si è tradotto all’inizio in un vincolo alla riduzione o alla stabilità del disavanzo annuo degli enti (…), successivamente in un limite massimo alla crescita del disavanzo (…) o ancora in un vincolo alla riduzione o alla stabilità di esso (…)” [18]. Quanto ai caratteri dell’attività di coordinamento, nonostante la Corte ammetta una tale ipotesi di coordinamento, rileva come debba essere non certo penetrante e pervasiva come quella ora nota alla giurisprudenza costituzionale; considera per lo più questa attività di coordinamento come funzionale ad imporre agli enti territoriali dei meri “vincoli alle politiche di bilancio”, che possano risolversi in “limitazioni indirette all’autonomia di spesa” [19]. Cosicché, la finalità prima del coordinamento non è mai e non può essere la mera limitazione dell’autonomia di spesa, che è casomai una conseguenza, peraltro indiretta.
Il coordinamento in materia di spesa doveva limitarsi a stabilire limiti di ordine generale, comunque perseguibili dagli enti territoriali nel rispetto della loro autonomia organizzativa, poiché, una volta “stabilito il vincolo alla entità del disavanzo di parte corrente, potrebbe apparire superfluo un ulteriore vincolo alla crescita della spesa corrente, potendo il primo obiettivo conseguirsi sia riducendo le spese, sia accrescendo le entrate” [20].
I limiti all’attività di coordinamento venivano rigorosamente definiti dalla Corte, vale a dire, doveva trattarsi di misure di carattere transitorio, preposte al conseguimento di specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica. Il legislatore avrebbe dovuto fare uso non irragionevole della sua discrezionalità, con conseguente verifica ad opera della Corte costituzionale della ragionevolezza dei limiti imposti a fronte degli obiettivi da conseguirsi; la Consulta avrebbe dunque potuto operare una verifica di congruità e di proporzionalità delle misure imposte dal legislatore statale rispetto agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica. Il parametro tramite il quale valutare la ragionevolezza delle scelte legislative veniva individuato nella definizione di un limite complessivo, all’interno del quale avrebbe dovuto essere lasciato agli enti territoriali “ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa” [21].
Con tutta evidenza, si tratta in questa fase di legittimare da parte della Corte costituzionale semplicemente meccanismi che non impongono mai scelte organizzative, ma che incentivano e auspicano l’adozione di tali scelte, o procedono al massimo alla riduzione di finanziamenti, secondo la valutazione di esigenze genericamente apprezzate e sempre rispettose dell’autonomia di spesa costituzionalmente garantita.
 
3. Coordinamento della finanza pubblica e autonomia di spesa
 
Il paradosso che si delinea successivamente è che proprio mentre conosce più ampia valorizzazione l’autonomia di spesa, in un contesto che rimane ancora prevalentemente di finanza derivata, diviene progressivamente sempre più pervasivo il coordinamento della finanza pubblica.
È da ricordare che l’incremento sotto il profilo delle competenze conosciuto dalle Regioni nei primi anni ’80 venne affiancato da un sistema di finanziamento ancora molto squilibrato sul versante dei trasferimenti, peraltro quasi sempre vincolati a specifici settori o interventi [22]. Nel periodo immediatamente successivo alla riforma costituzionale del 2001 si registra invece una valorizzazione dell’autonomia tributaria e dell’autonomia di spesa; alla prima si perviene con il potenziamento dei tributi propri e del fondo perequativo, alla seconda sostituendo le entrate di scopo con entrate libere da vincoli di destinazione. Nel dettaglio si evidenzia nei bilanci regionali una netta inversione tra entrate vincolate e entrate libere; queste, fino al 1995 erano solo il 12% del totale delle entrate, mentre tra il 2005 e il 2009 divengono più dell’80% [23].
È noto, tra l’altro, come la stessa Corte costituzionale abbia avuto in quei primi anni di vigenza della riforma del Titolo V un ruolo determinante nel far venir meno il vincolo di destinazione per una molteplicità di entrate regionali [24]. Tant’è che non può certamente che apparire in buona misura paradossale e contraddittoria la costante implementazione dei vincoli di coordinamento della finanza pubblica intervenuta a seguito della valorizzazione dell’autonomia di spesa nelle forme del divieto di finanziamenti con vincoli di destinazione.
Non v’è dubbio che in quella prima fase l’influenza che il legislatore statale poteva esercitare sull’esercizio delle funzioni conferite alle Regioni e, in particolare, sulla gestione del bilancio, trovava giustificazione in alcune esigenze prioritarie, tra le quali, quella di rendere la gestione della finanza regionale e locale coerente con le politiche di finanza pubblica decise a livello nazionale e quella di assicurare su tutto il territorio nazionale il godimento dei livelli essenziali delle prestazioni, contestualmente all’implementazione dell’autonomia di entrata [25].
Proprio in ragione delle finalità evidenziate, si imponeva un coordinamento, che si svolgesse per principi, della finanza regionale e locale e non già la totale conformazione alla finanza statale, posto che la necessità di rendere i diversi sistemi finanziari tra loro coerenti presuppone una certa autonomia in ordine alla determinazione delle politiche di spesa, che viene naturalmente meno in una condizione di uniformazione dei diversi sistemi finanziari. Uniformazione che potrebbe inoltre comportare, come si avrà cura di evidenziare, il sacrificio proprio delle esigenze di salvaguardia uniforme dei livelli essenziali delle prestazioni, se protesa, come pare, al solo “contenimento della spesa pubblica”.
Le modalità e gli strumenti del coordinamento sono noti e su questi non ci si intende in questa sede soffermare [26]; ciò che rileva è l’intensità del coordinamento.
È così che il “coordinamento della finanza pubblica” diventa materia “finalisticamente orientata”, che può condurre a “limitazioni indirette all’autonomia degli enti territoriali” [27]; il “coordinamento della finanza pubblica” assume dunque la configurazione non già di una materia, ma di “una funzione che, a livello nazionale, e quanto alla finanza pubblica nel suo complesso, spetta allo Stato” [28]. Tale natura finalistica legittima di conseguenza vincoli alle politiche di bilancio, “l’imposizione di vincoli agli enti locali quando lo rendano necessario ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali” [29], a loro volta condizionati da obblighi europei [30].
Natura finalistica del coordinamento che legittima a porre non solo le norme fondamentali della materia, i principi, ma che legittima l’adozione dei poteri puntuali [31] eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento, “per sua natura eccedente le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali, possa essere concretamente realizzata” [32], come nel caso del c.d. “coordinamento tecnico”.
In questo senso, il legislatore statale sarebbe legittimato a prevedere “l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo”, che possono anche assumere carattere puntuale [33]. Ne deriva che i caratteri che avrebbe dovuto assumere il coordinamento, a pena di illegittimità dell’intervento statale, consistente nell’imporre “complessivi obiettivi di riequilibrio finanziario, lasciando alle Regioni sufficienti margini di autonomia circa i mezzi necessari per la realizzazione” degli stessi [34], sono stati sovente non rispettati.
Ne deriva che, come nelle ipotesi del blocco totale o parziale delle assunzioni per gli enti locali e le camere di commercio, laddove le spese di personale avessero superato determinate percentuali [35], oppure con riguardo alle ipotesi di sanzioni per gli enti che contravvengano agli obblighi del Patto di stabilità interno [36], le prescrizioni del coordinamento statale vanno ben oltre il punto di equilibrio “obiettivi/margini di autonomia” [37].
Posta dunque e presupposta la natura finalistica della competenza in questione, vale la pena chiedersi se il fine sia il “coordinamento” o il semplice contenimento della spesa pubblica. Non paiono infatti condivisibili quelle impostazioni stando alle quali il fine e la strumentalità della materia rispetto al conseguimento degli obiettivi di equilibrio finanziario giustificherebbero il mezzo di un coordinamento pervasivo, cosicché, la legislazione statale di coordinamento non incontrerebbe i limiti delle tradizionali materie concorrenti, potendo esondare dai confini della materia e dalla caratterizzazione di principio, ponendo norme puntuali di coordinamento, di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo [38]. Così facendo, infatti, il legislatore statale può incidere su ambiti di competenza concorrente e residuale regionale, prescrivendo, in ipotesi, vincoli al finanziamento della contrattazione integrativa e disciplinando dettagliatamente i controlli sulla sostenibilità finanziaria delle risorse decentrate da erogare a favore del personale [39], andando ben oltre la mera attività di coordinamento.
 
4. Le condizioni dell’intervento di coordinamento secondo la Corte costituzionale
 
Con specifico riguardo alle condizioni di legittimità dell’intervento del legislatore statale nell’occasione di definizione del “coordinamento della finanza pubblica”, la Corte, in occasione della sentenza n. 417 del 2005, pare abbastanza rigorosa, laddove viene chiamata a pronunciarsi su discipline che introducono vincoli puntuali, che riguardano spese per studi e incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all’amministrazione, missioni all’estero, rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni, nonché spese per l’acquisto di beni e servizi [40].
In particolare rileva la Consulta che “va qui ribadito il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, per cui le norme che fissano vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle regioni e degli enti locali non costituiscono princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., e ledono pertanto l’autonomia finanziaria di spesa garantita dall’art. 119 Cost.” [41].
Affinché questi vincoli possano considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali dovranno avere ad oggetto o l’entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo in via transitoria e in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale – la crescita della spesa corrente degli enti autonomi; “in altri termini, la legge statale può stabilire solo un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenza n. 36 del 2004)” [42]. Dunque il coordinamento finanziario non potrebbe mai avere ad oggetto le specifiche spese compiute dall’ente territoriale, ma dovrà al massimo operare una valutazione complessiva sulle stesse. La Corte aveva del resto di recente già affermato il seguente principio, osservando che la previsione da parte della legge statale di limiti all’entità di una singola voce di spesa non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica, perché “pone un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa e si risolve perciò in una indebita invasione, da parte della legge statale, dell’area […] riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri […] ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica) ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi (sent. n. 390 del 2004)” [43].
In questa fase, ad avviso della Corte, il coordinamento finanziario può assumere carattere dettagliato solo nelle forme del c.d. “coordinamento informativo”, volto ad acquisire dati e a superare quello che viene definito il fenomeno dei “dialetti contabili” [44]. Esigenza che oggi giustificherebbe il passaggio della materia “armonizzazione dei bilanci pubblici” dalla competenza concorrente a quella esclusiva statale. Infatti, di fronte a discipline che contemplano puntuali obblighi di comunicazione di dati a carico degli enti locali, la Corte rileva che “un tale obbligo non è di per sé idoneo a pregiudicare l’autonomia delle regioni e degli enti locali, in quanto esso deve essere considerato espressione di un coordinamento meramente informativo”. Si tratta di obblighi di trasmissione di dati finalizzati a consentire il funzionamento del sistema dei controlli sulla finanza di Regioni ed enti locali, riconducibili “ai principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, con funzione regolatrice della cosiddetta “finanza pubblica allargata”, allo scopo di assicurare il rispetto del patto di stabilità” [45].
 
4.1. L’evidente deroga a quelle condizioni, ovvero, quando il “dettaglio” diventa “principio”
 
Non si può tuttavia non evidenziare come basti citare, a mero titolo esemplificativo, le pronunce rese dalla Corte costituzionale con oggetto il d.l. n. 78 del 2010 per rendersi conto come siano progressivamente completamente venute meno quelle condizioni di operatività del “coordinamento” finanziario.
Così, in occasione della sentenza n. 139 del 2012, si riscontra una peculiare tipologia di “principio” di coordinamento della finanza pubblica desumibile dalla disciplina di dettaglio riferita al contenimento della spesa per le amministrazioni dello Stato. Già pare abbastanza singolare che una disciplina di estremo dettaglio in argomento sia ritenuta non contraria a Costituzione unicamente perché si rileva che quella disciplina vale per le Regioni come principio di contenimento della spesa pubblica e non già nello specifico delle sue singole scelte organizzative. Si evidenzia in primo luogo la difficoltà per le Regioni nell’evincere ed enucleare da quella normativa il principio, ma soprattutto, non pare esservi dubbio che nell’eventuale giudizio di legittimità costituzionale di una legge regionale in argomento sarà l’intera disciplina, comprensiva del dettaglio, ad operare come parametro di legittimità costituzionale.
Mentre ad avviso delle ricorrenti il carattere dettagliato e puntuale delle disposizioni impugnate del d.l. 78 del 2010 “precluderebbe qualsiasi possibilità di autonomo adeguamento da parte delle Regioni e delle Province autonome, nonché da parte degli enti locali e degli altri enti e organismi che fanno capo ai rispettivi ordinamenti” [46], la Corte costituzionale rigettava la relativa questione rilevando che “il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti”. Tuttavia, analoghi vincoli “possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa”, cosicché, lo Stato “può agire direttamente sulla spesa delle proprie amministrazioni con norme puntuali e, al contempo, dichiarare che le stesse norme sono efficaci nei confronti delle Regioni a condizione di permettere l’estrapolazione, dalle singole disposizioni statali, di principi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale”, mentre, “in caso contrario, la norma statale non può essere ritenuta di principio (...), a prescindere dall’auto-qualificazione operata dal legislatore” [47]. Non v’è dubbio tuttavia che, con tutta evidenza, qui si è veramente ai limiti dell’autoqualificazione, in ragione della desunzione di un principio da una disciplina di estremo dettaglio, senza indicare quale parte della disciplina costituisca “principio”.
Dunque, la contestata disciplina di cui all’art. 6 del d.l. n. 78 del 2010 soddisfa tale condizione. Infatti, la Corte ammette che “le disposizioni in esame prevedono puntuali misure di riduzione parziale o totale di singole voci di spesa”; il che tuttavia “non esclude che da esse possa desumersi un limite complessivo, nell’ambito del quale le Regioni restano libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa” [48].
Sarebbe dunque errato secondo la Consulta il presupposto interpretativo posto a base di queste censure, in quanto il comma 20 dell’art. 6 autorizza le Regioni, le Province autonome e gli enti del Servizio sanitario nazionale ad operare una valutazione globale dei limiti di spesa che sono comunque individuati puntualmente nell’art. 6, desumendo “l’ammontare complessivo dei risparmi da conseguire” e così “modulare in modo discrezionale, tenendo fermo quel vincolo, le percentuali di riduzione delle singole voci di spesa contemplate nell’art. 6”. Il che deve tuttavia avvenire attraverso un non semplice “processo di induzione che, partendo da un apprezzamento non atomistico, ma globale, dei precetti in gioco, conduce all’isolamento di un principio comune”, cosicché, le Regioni dovranno “ridurre le spese di funzionamento amministrativo di un ammontare complessivo non inferiore a quello disposto dall’art. 6 per lo Stato” [49].
Tuttavia, sono le affermazioni successive della Corte che confermano che non si tratta di disciplina di principio, ma di sostanziale dettaglio anche nei confronti delle Regioni, poiché, laddove le ricorrenti lamentano l’interferenza delle misure impugnate con altre materie di competenza esclusiva o concorrente regionale, la Corte risponde che “secondo una costante giurisprudenza, quando la disposizione impugnata costituisce principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica (art. 117, terzo comma, Cost.), l’eventuale impatto di essa sull’autonomia finanziaria (art. 119 Cost.) ed organizzativa (artt. 117, quarto comma, e 118 Cost.) della ricorrente si traduce in una circostanza di fatto come tale non incidente sul piano della legittimità costituzionale (da ultimo, sentenza n. 40 del 2010, nonché sentenze n. 169 del 2007 e n. 36 del 2004)” [50].
Il che suscita non poche perplessità se si considera che la natura di principio della disciplina, come sopra evidenziato, è il frutto non solo di una autoqualificazione, ma addirittura di una desunzione (a contrario) del principio da una disciplina di estremo dettaglio, ma soprattutto, la natura di principio delle discipline di coordinamento potrebbe, come sempre ammesso dalla Corte, impattare indirettamente sull’autonomia finanziaria, ma non anche sull’autonomia organizzativa, che proprio dalla natura di principio dovrebbe essere salvaguardata, dalla circostanza che, nell’ambito degli obiettivi fissati, le scelte organizzative di contenimento della spesa dovrebbero essere riservate alla Regione. A ben riflettere, la stessa autonomia di spesa potrebbe essere limitata unicamente negli obiettivi, non anche nelle scelte dislocative delle economie riferite ai singoli capitoli di spesa, poiché un’incisiva limitazione dell’autonomia di spesa si riverbera inevitabilmente in limitazione delle scelte organizzative regionali [51].
La Corte ammette dunque l’invasione delle evocate competenze concorrenti o residuali regionali, ma risponde con una non dimostrata petizione di principio in ordine alla natura della disciplina di coordinamento, rilevando che “ne consegue che la lamentata interferenza con l’autonomia organizzativa delle Regioni o con altre competenze loro assegnate in via esclusiva o concorrente non è censurabile, poiché le norme impugnate devono essere complessivamente intese come disposizioni di principio, riconducibili alla potestà legislativa concorrente” [52]. Facendo così operare, con tutta evidenza, quella disciplina di estremo dettaglio come parametro di legittimità delle legislazioni regionali che quella sollecita.
A ciò si aggiunga che, fermo restando che il c.d. “coordinamento tecnico”, come è noto, può, in ragione della sua natura, spingersi fin nel dettaglio, l’ipotesi di coordinamento tecnico contemplata dalla disciplina qui impugnata evidenzia chiaramente il carattere dettagliato della complessiva normativa di coordinamento in contestazione, posto che non è comprensibile perché si debbano disporre modalità, tempi e criteri di attuazione della disciplina se si tratta di normativa di principio da dover essere attuata dalle Regioni [53].
 
4.2. L’inevitabile parametricità delle discipline statali di coordinamento di dettaglio
 
Come evidenziato, risulta tuttavia estremamente difficile per la Consulta non assumere a parametro di legittimità delle singole legislazioni regionali l’intera disciplina statale di coordinamento, ivi compreso il dettaglio, piuttosto che estrapolarne il principio. Principio che a rigore dovrebbe consistere nella razionalizzazione della struttura amministrativa, nella realizzazione di economie di spesa e nel contenimento della spesa pubblica, risultando tuttavia estremamente complicato per la Corte da ciò desumere il quantum delle economie e le modalità organizzative mediante le quali realizzarle, che incidono in maniera significativa sul raggiungimento del risultato, ma che, a rigore, dovrebbero essere lasciate alle singole opzioni regionali.
Tra le pronunce ove questa dettagliata normativa di contenimento della spesa pubblica, di cui alla legislazione sulla crisi 2010/2011 [54], viene invero assunta dalla Corte a parametro interposto nella verifica di legittimità costituzionale delle discipline regionali si segnalano sicuramente, a mero titolo esemplificativo, la sentenza n. 182 del 2011, con riguardo al d.l. 78/2010; la sentenza n. 33 del 2012 sulla legge 191/2009; la sentenza n. 128 del 2011 sul d.l. 2/2010; la sentenza n. 193 del 2012 sul d.l. 138 /2011.
Quest’ultima, in particolare, pare di estremo interesse perché perviene all’incostituzionalità, seppur in maniera non poco tortuosa, di una disciplina di coordinamento che produce effetti a tempo indeterminato.
In particolare, la disciplina contestata viene impugnata in quanto estende agli anni 2014 e seguenti le misure previste di contenimento della spesa pubblica. La Corte sottolinea al riguardo di essersi già espressa, con la pronuncia n. 148 del 2012, sulla non incompatibilità con la Costituzione delle misure di contenimento della spesa pubblica, “sul presupposto ‒ richiesto dalla propria costante giurisprudenza ‒ che possono essere ritenute principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost., le norme che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi”, precisando successivamente che, con riferimento alle norme oggetto di quel giudizio, “deve osservare che l’estensione a tempo indeterminato delle misure restrittive già previste nella precedente normativa (…) fa venir meno una delle due condizioni sopra indicate, quella della temporaneità delle restrizioni” [55].
Pur non potendo la Corte stabilire a sua discrezione l’arco temporale di operatività delle norme al suo esame, per non sostituirsi al legislatore, può comunque “dedurre dalla trama normativa censurata un termine finale che consenta di assicurare la natura transitoria delle misure previste e, allo stesso tempo, di non stravolgere gli equilibri della finanza pubblica, specie in relazione all’anno finanziario in corso”. Il relativo dies ad quem viene così individuato dal Giudice delle leggi nell’anno 2014, in maniera tale, da pervenire alla declaratoria di illegittimità costituzionale della disciplina contestata “nella parte in cui estende anche agli anni successivi al 2014” le misure di contenimento della spesa pubblica [56].
Complessa attività ermeneutica che viene dunque posta in essere dalla Consulta proprio per non stravolgere gli equilibri della finanza pubblica. Esigenza che diviene, con tutta evidenza, un preminente elemento da salvaguardare, considerato che, formalmente si perviene all’incostituzionalità di una disciplina di dettaglio di contenimento della spesa regionale che si protraeva a tempo indeterminato, ma sostanzialmente, il carattere della limitata vigenza temporale di analoghe discipline è stato pensato dalla Corte proprio per salvare quelle discipline di estremo dettaglio che non avrebbero potuto in altra maniera essere salvate. Cosicché, tale attività ermeneutica, volta a individuare il limite massimo di vigenza di questa normativa, con conseguente declaratoria di incostituzionalità per il periodo eccedente quel limite, è solo apparentemente un’opzione interpretativa a favore delle Regioni, poiché salva comunque una disciplina di coordinamento della finanza pubblica derogatoria rispetto ai caratteri costituzionalmente imposti.
 
4.3.  La giustificazione del coordinamento di estremo dettaglio
 
Con ogni probabilità, una delle pronunce più emblematiche al riguardo è la sentenza n. 148 del 2012, ove viene resa evidente la sostanziale trasfigurazione che ha subito il “coordinamento della finanza pubblica” nella più recente legislazione e giurisprudenza costituzionale.
In occasione di quella pronuncia, alcune Regioni impugnano numerose disposizioni del d.l. 78 del 2010, concernenti un drastico taglio delle risorse nei confronti delle Regioni, riduzioni di spesa per il personale, divieto di procedere ad assunzioni in caso di mancato rispetto del patto di stabilità interno, limitazioni in generale all’assunzione di personale a seconda dell’incidenza della relativa tipologia di spesa, misure che prevedono la possibilità che vengano annullati tutti gli atti della Giunta e del Consiglio regionali che abbiano inciso sul mancato rispetto del patto di stabilità interno, qualora tale mancato rispetto sia stato certificato, oltre a prevedere il divieto per i Comuni con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti di costituire società, obbligandoli a mettere in liquidazione le società già costituite e a cedere le partecipazioni.
Tali previsioni che, con tutta evidenza, non si limitano a porre principi orientativi della spesa pubblica, ma si spingono nell’estremo dettaglio, troverebbero, secondo la Corte, giustificazione proprio nel “coordinamento della finanza pubblica”; o perché si pongono obiettivi di riequilibrio della spesa pubblica, o perché, riguardando le spese di personale costituiscono “non già una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente”, o per finire, perché la disciplina risponde all’esigenza di “evitare eccessivi indebitamenti” [57].
Quanto agli specifici contenuti del d.l. 78 del 2010, sindacati nell’occasione dalla Corte costituzionale, laddove veniva operato un drastico taglio delle risorse spettanti alle Regioni, “in misura pari a 4.000 milioni di euro per l’anno 2011 e a 4.500 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2012” [58], la Corte ricorda di avere sempre riconosciuto “natura di principi fondamentali nella materia, di competenza legislativa concorrente, del coordinamento della finanza pubblica alle norme statali che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi”, rilevando che nel caso di specie, sussisterebbero entrambe le condizioni [59].
Con riguardo alla disciplina incidente sulla spesa per il personale, la Corte evidenzia che essendo quella ispirata alla finalità del contenimento della spesa pubblica, costituisce principio fondamentale nella materia del coordinamento della finanza pubblica, in quanto pone obiettivi di riequilibrio, senza, peraltro, prevedere strumenti e modalità per il perseguimento dei medesimi. Precisa inoltre che tale conclusione trova “il suo presupposto nella considerazione che la spesa per il personale, per la sua importanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interna (data la sua rilevante entità), costituisce non già una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente, con la conseguenza che le disposizioni relative al suo contenimento assurgono a principio fondamentale della legislazione statale” [60]. Cosicché, la natura di principio di coordinamento si assume se le norme pongono obiettivi di riequilibrio, o meglio, contenimento, della spesa pubblica, ma soprattutto, analoga natura non dipende dalla conformazione della disciplina stessa, bensì dal settore, più o meno strategico, sul quale quella va ad impattare [61].
Analogamente, per quanto concerne la previsione dell’annullamento degli atti adottati dalla Giunta regionale o dal Consiglio regionale durante i dieci mesi antecedenti la data di svolgimento delle elezioni regionali, con i quali è stata assunta la decisione di violare il patto di stabilità interno, a seguito di certificazione del mancato rispetto del patto di stabilità interno relativamente all’esercizio finanziario 2009, la Corte rileva che “le sanzioni previste nelle norme impugnate, essendo volte ad assicurare il rispetto del patto di stabilità interno, costituiscono principi di coordinamento della finanza pubblica e rientrano pertanto nella competenza legislativa concorrente dello Stato, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.” [62], incorrendo forse in una petizione di principio, che meriterebbe di essere dimostrata.
Per finire, di fronte al dubbio di legittimità costituzionale della disciplina che pone il divieto, per i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti, di costituire società e obbliga gli stessi enti a mettere in liquidazione le società già costituite o a cederne le partecipazioni, la Consulta risponde che il divieto in parola opera nei confronti di tutti gli enti (senza distinzione tra “virtuosi” e non) con popolazione inferiore a 30.000 abitanti, precisando inoltre che “tale divieto risponde all’esigenza di evitare eccessivi indebitamenti da parte di enti le cui piccole dimensioni non consentono un ritorno economico in grado di compensare le eventuali perdite subite”. Sarebbe dunque evidente l’intento di assicurare un contenimento della spesa, non essendo precluso, in linea di principio, “neanche agli enti con popolazione inferiore a 30.000 abitanti la possibilità di mantenere in esercizio le società già costituite”, con una sorta di presunzione iuris et de iure di inconciliabilità dell’esistenza di società nei Comuni fino a 30.000 abitanti, senza verificare se in concreto queste possano produrre perdite o addirittura guadagni.
È da dire che in argomento la Corte risolve la questione sulla base della competenza esclusiva statale in materia di “ordinamento civile”, precisando che “se questa è la finalità, lo strumento utilizzato dal legislatore statale per perseguirla è una norma che incide in modo permanente sul diritto societario, escludendo per determinati soggetti pubblici (i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti) l’idoneità a costituire società partecipate”, facendo confluire la disciplina “nella materia dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato” [63], producendo tuttavia un significativo vulnus all’autonomia organizzativa degli enti locali. Limitazione che se può trovare giustificazione in esigenze di coordinamento finanziario, pare difficilmente riconducibile a poco giustificati limiti soggettivi nella costituzione di società partecipate.
È di tutta evidenza che in questo caso si è ben oltre il mero “coordinamento della finanza pubblica”; il che è reso evidente dalle parole della difesa dello Stato, che, o a fronte dell’indifendibilità delle discipline contestate, oppure con l’intento di affermare il principio tale per cui l’emergenza “rompe” il regime delle competenze, rileva che “tutte le norme impugnate troverebbero giustificazione nella necessità di far fronte a difficoltà economiche del nostro Paese di tale gravità da mettere a repentaglio la stessa salus rei publicae e da consentire, perciò, una deroga temporanea alle regole costituzionali di distribuzione delle competenze fra Stato e Regioni”. A sostegno di questo assunto la parte resistente invoca “i principi fondamentali della solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.), dell’uguaglianza economica e sociale (art. 3, secondo comma, Cost.), dell’unitarietà della Repubblica (art. 5 Cost.), della responsabilità internazionale dello Stato (art. 10 Cost.) dell’appartenenza all’Unione europea (art. 11 Cost.), nonché i principi del concorso di tutti alle spese pubbliche (art. 53 Cost.), di sussidiarietà (art. 118 Cost.), della responsabilità finanziaria (art. 119 Cost.), della tutela dell’unità giuridica ed economica (art. 120 Cost.) e gli altri doveri espressi dalla Costituzione (artt. 41-47, 52, 54)” [64].
È indubbio che sul piano formale la Corte non potesse non rispondere tenendo fermo il riparto costituzionale di competenze, rilevando che “le disposizioni costituzionali evocate non attribuiscono allo Stato il potere di derogare alle competenze delineate dal Titolo V della Parte seconda della Costituzione”. Al contrario, anche nel caso di situazioni eccezionali, “lo Stato è tenuto a rispettare tale riparto di competenze ed a trovare rimedi che siano con esso compatibili (ad esempio, mediante l’esercizio, in via di sussidiarietà, di funzioni legislative di spettanza regionale, nei limiti ed alle condizioni più volte indicate da questa Corte)”. Sottolinea che è la stessa Costituzione ad escludere “che uno stato di necessità possa legittimare lo Stato ad esercitare funzioni legislative in modo da sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali, previste, in particolare, dall’art. 117 Cost.”, ribadendo “l’inderogabilità dell’ordine costituzionale delle competenze legislative, anche nel caso in cui ricorrano le situazioni eccezionali prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato” [65]. Tuttavia, come più sopra evidenziato, sul versante sostanziale la Corte si sforza di rinvenire specifiche e non sempre condivisibili giustificazioni costituzionali di quelle significative ingerenze nell’autonomia regionale.
 
4.3.1.  Quando il coordinamento si snatura l’autonomia si restringe
 
Non v’è dubbio che tale pronuncia, come condivisibilmente è stato osservato, mette in luce “il modo inadeguato in cui il legislatore, e la stessa Corte, concepiscono la potestà di coordinamento della finanza pubblica”. Inadeguatezza che sarebbe imputabile alla mancata considerazione della “duplice caratteristica del coordinamento: per un verso, di orientare il soggetto coordinato verso un certo risultato, (…) di cospirare a fini determinati; per altro verso, di intervenire in un contesto di alterità, non disponibilità di attività e soggetti da parte del coordinatore, di presupporre cioè una posizione di autonomia, di non dipendenza del soggetto coordinato dal coordinatore” [66].
Un’ineliminabile caratteristica del coordinamento, “che generalmente non viene sufficientemente considerata, e che rende inadeguato il modo di intendere questa potestà”, riguarderebbe infatti, la necessità che il soggetto coordinato si trovi in “una posizione di autonomia, di non dipendenza dal coordinatore”. In altri termini, perché possa esserci coordinamento “è necessario che le relative misure intervengano in un contesto di autonomia già pienamente conformata e non invadano tale ambito” [67].
Non è da escludere che il fondamento ultimo di tale decisione sia da ricondurre ad una sorta di efficacia sostanzialmente anticipata della riforma costituzionale sul “pareggio di bilancio”. In quest’ottica, la recente modifica della Costituzione, relativa alla introduzione del c.d. pareggio di bilancio (legge cost. 20 aprile 2012, n. 1), ha creato uno scenario entro cui i risvolti istituzionali e i rapporti tra livelli di governo, relativi al risanamento della finanza pubblica e al rispetto dei vincoli europei, si pongono in termini completamente nuovi [68]. In un contesto del genere non si tratta più soltanto di prescrivere determinati saldi di bilancio a Regioni ed Enti locali, ma è anche necessario un fisiologico travaso di risorse verso lo Stato, tramite misure destinate a ridefinire continuamente l’ambito materiale dell’autonomia, cosicché, è “dalla possibilità di ascrivere queste misure al coordinamento, e non alla conformazione dell’autonomia, (che) dipende in definitiva la sorte del c.d. federalismo fiscale”. Tuttavia resta fermo che la condizione per poter ancora parlare di coordinamento è che “queste misure, a differenza di quanto avviene oggi, siano puntualmente disciplinate dalle norme conformative dell’autonomia” [69].
Non v’è dubbio che sarebbero stati proprio gli spazi lasciati aperti dalla riforma sul c.d. “federalismo fiscale”, e forse la stessa inattuazione di quella disciplina, nella definizione del rapporto tra autonomia e coordinamento ad aver consentito alle varie manovre finanziarie, tutte giustificate da ragioni emergenziali di contenimento della spesa pubblica, di incunearsi in questi spazi e sbilanciare così il rapporto a favore del coordinamento e a scapito dell’autonomia [70].
È da segnalare infine che, se in una prima fase la giurisprudenza costituzionale si è resa in parte “complice” di quello “sbilanciamento” a scapito dell’autonomia, in una seconda fase è pervenuta alla declaratoria di incostituzionalità di buona parte delle previsioni sulla “revisione della spesa pubblica” e forse ad offrire un punto di equilibrio con la pronuncia sul meccanismo sanzionatorio di cui al “federalismo fiscale” [71].
Invero, nonostante alcune valutazioni pessimistiche sulla recente riforma costituzionale sul c.d. “pareggio di bilancio” [72], è da rilevare come i limiti all’autonomia non paiano direttamente a quella riconducibili, ma alla citata legislazione emergenziale. Paradossalmente, potrebbe essere proprio la riforma costituzionale a ricondurre a corretto bilanciamento il rapporto tra autonomia e coordinamento. Presupponendo infatti l’equilibrio di bilancio una valutazione complessiva sull’esercizio finanziario preso a riferimento, potrebbe consentire di tornare alla prima interpretazione del coordinamento, tale per cui si dovrà avere riguardo ad una valutazione complessiva e non già alle singole voci di spesa.
 
4.4. Quando anche la disciplina di principio del coordinamento della finanza pubblica è comunque limitativa delle istanze autonomiste
 
Talvolta, come accaduto in occasione della sentenza n. 237 del 2009, ove era sottoposta a giudizio della Corte la disciplina di riorganizzazione delle Comunità montane, anche la conformazione di principio del coordinamento può comunque incidere su elementi qualificanti l’autonomia regionale, che andrebbero invece meglio valorizzati. In quell’occasione, la Corte premette che è necessario ribadire che “non è di ostacolo all’adozione dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica la circostanza che la normativa contestata verta in un ambito materiale, qual è quello relativo all’ordinamento delle comunità montane, rimesso alla potestà legislativa residuale delle Regioni”, poiché, in proposito, “la giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che una disposizione statale di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica possa incidere sulla materia dell’organizzazione e del funzionamento della Regione (sentenza n. 159 del 2008), riconducibile al quarto comma dell’art. 117 Cost. (citata sentenza n. 159 del 2008 e sentenze n. 188 del 2007; n. 2 del 2004 e n. 274 del 2003)” [73].
La Corte ribadisce inoltre che “la portata di principio fondamentale va riscontrata con riguardo alla peculiarità della materia e, qualora la stessa sia identificata nel coordinamento della finanza pubblica, ciò che viene in particolare evidenza è la finalità cui la disciplina tende, da individuare, nella specie, nel suddetto contenimento complessivo della spesa regionale corrente per il funzionamento delle comunità montane” [74], come a dire che la finalità del contenimento della spesa pubblica è sufficiente ad assicurare la natura di principio della disciplina di coordinamento finanziario.
In altri termini, continua la Corte, “l’ordinamento delle comunità montane non costituisce l’oggetto principale della normativa statale in esame, ma rappresenta il settore in cui devono operare strumenti e modalità per pervenire alla prevista riduzione della spesa pubblica corrente; riduzione cui è strumentalmente ancorato il divisato riordino degli organismi in questione” [75]. è di tutta evidenza tuttavia che, assumendo questa impostazione, si rischia di pervenire costantemente all’invasione della competenza regionale, cosicché, il “contenimento della spesa pubblica” diviene una sorta di super clausola, che consente l’invasione di qualunque competenza regionale.
Vero è che la Corte perviene poi all’annullamento di parte della disciplina contestata, perché giudicata di estremo dettaglio, riguardante in particolare le conseguenze per la mancata attuazione del disegno riformatore, precisando che tale normativa, “contiene una disciplina di dettaglio ed autoapplicativa che non può essere ricondotta all’alveo dei principi fondamentali della materia del coordinamento della finanza pubblica, in quanto non lascia alle Regioni alcuno spazio di autonoma scelta e dispone, in via principale, direttamente la conseguenza, anche molto incisiva, della soppressione delle comunità che si trovino nelle specifiche e puntuali condizioni ivi previste” [76]. Tuttavia, successivamente, con specifico riguardo alle modalità e ai “principi fondamentali” mediante i quali le Regioni dovranno pervenire al citato riordino, che pure evidenziano una caratterizzazione di estremo dettaglio, la Corte rileva che il legislatore statale “in funzione dell’obiettivo di riduzione della spesa corrente per il funzionamento delle comunità montane, e senza incidere in modo particolare sull’autonomia delle Regioni nell’attuazione del previsto riordino, si limita a fornire al legislatore regionale alcuni “indicatori” che si presentano non vincolanti, né dettagliati, né autoapplicativi e che tendono soltanto a dare un orientamento di massima alle modalità con le quali deve essere attuato tale riordino” [77]; indicatori che paiono tuttavia avere natura di estremo dettaglio [78].
Non pare esservi dubbio che in tal modo si perviene non solo ad una limitazione indiretta dell’autonomia di spesa regionale, consentita dalla giurisprudenza costituzionale, ma anche, e forse soprattutto, all’incisione, peraltro diretta, sull’autonomia organizzativa regionale.
Il punto estremo del coordinamento volto a limitare l’autonomia organizzativa e funzionale regionale si è registrato tuttavia, con ogni probabilità, in occasione della sentenza n. 198 del 2012, ove l’obbligo per le Regioni a Statuto ordinario di disporre, entro sei mesi dall’entrata in vigore del d.l. 138 del 2011, con efficacia dalla prima legislatura successiva, la riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori regionali viene giustificato in quanto tale disciplina “detta parametri diretti esplicitamente al conseguimento degli obiettivi stabiliti nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica”, fissando in particolare un limite al numero di consiglieri ed assessori, rapportato al numero di abitanti, lasciando tuttavia alle Regioni l’esatta definizione della composizione dei Consigli e delle Giunte regionali [79].
Nonostante la disciplina possa essere intesa di estremo dettaglio, ad avviso della Corte si tratterebbe di “un limite complessivo, che lascia alle Regioni un autonomo margine di scelta”. Il che non escluderebbe tuttavia l’incidenza sulle prerogative organizzative e funzionali della Regione, posto che è la stessa Corte a rilevare che la materia coinvolta è quella della struttura organizzativa delle Regioni, precisando che la disciplina in contestazione “mira a garantire proprio il principio in base al quale tutti i cittadini hanno il diritto di essere egualmente rappresentati”. Più in particolare, la disciplina in contestazione non violerebbe le competenze regionali di cui agli artt. 117, 122 e 123 Cost., proprio in quanto, “nel quadro della finalità generale del contenimento della spesa pubblica”, che pare oramai essere divenuta una clausola di flessibilizzazione non solo del riparto delle competenze, ma del complessivo testo costituzionale, incidendo finanche sugli aspetti organizzativo/costituzionali, sarebbe tesa a stabilire, “in coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati” [80].
 
4.5.  L’incisività del “coordinamento della finanza pubblica” in occasione della sottoposizione a “Piano di rientro”
 
Non v’è dubbio che in questa fase il livello massimo di incidenza del “coordinamento” si registra nei confronti di quelle Regioni sottoposte a “piano di rientro”. In evenienze del genere, la stessa funzione legislativa del Consiglio regionale perde il suo tradizionale carattere di attività discrezionale, posto che, in occasione della sentenza n. 2 del 2010, la Corte costituzionale rileva che deve essere disattesa la tesi prospettata dalla Regione resistente tale per cui “in pendenza del potere sostitutivo statale, non solo resterebbe ferma la competenza legislativa regionale, ma addirittura si determinerebbe la cessazione del potere sostitutivo, qualora si realizzi (…) l’adempimento, sia pure tardivo, degli obblighi gravanti sulla Regione” [81]. Cosicché, “il preteso tardivo adempimento degli impegni assunti” con il piano di rientro, “lungi dal comportare la cessazione del potere sostitutivo statale”, deve essere vagliato dalla Corte costituzionale “proprio nella prospettiva (…) di stabilire se le funzioni attribuite al commissario ad acta (…) siano state sostanzialmente limitate se non addirittura svuotate” [82].
Ne deriva che, con tutta evidenza, la tradizionale natura discrezionale dell’attività legislativa viene sindacata alla luce della delibera di attivazione del potere sostitutivo che, alla stregua di una norma interposta, integra il parametro di costituzionalità. Parametro costituzionale ultimo che può inoltre assumere molteplici conformazioni, potendo, quasi indifferentemente, essere rinvenuto nel 2° comma dell’art. 120 Cost., per violazione del potere sostitutivo “straordinario” ivi contemplato, nel 3° comma dell’art. 117 Cost., per violazione di un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, o nell’obbligo di copertura finanziaria, per violazione del vecchio disposto di cui al 4° comma dell’art. 81 Cost., interpretato comunque rigorosamente, alla luce della riforma dell’equilibrio di bilancio. Il che dicasi anche in considerazione del fatto che non è del tutto vero che, come sostenuto dalla Consulta, le Regioni siano realmente libere “di aderire alle intese ed agli accordi”, in ragione di un’autonoma determinazione regionale, potendo altrimenti fare fronte al deficit con propri strumenti finanziari ed organizzativi [83].
È da evidenziare inoltre che la totale vincolatività, nei termini più sopra chiariti e che meglio si avrà modo di chiarire, dei Piani di rientro non può che destare qualche preoccupazione se solo si pensa che, a seguito della riforma costituzionale sull’equilibrio di bilancio potrebbero sparire i Piani di rientro in materia sanitaria, ma potrebbe essere generalizzata la sottoposizione, peraltro automatica, a Piani di rientro per le ipotesi di bilanci di Regioni ed enti locali che non siano in equilibrio, ex art. 9, comma 4, legge 243 del 2012 ([84]). A questi, di carattere generale, occorrerà aggiungere i Piani di ammortamento ai quali Regioni ed enti locali dovranno essere sottoposti per le ipotesi di indebitamento, ex art. 119 Cost., ultimo comma [85], con tutte le problematiche che si evidenzieranno in termini di limitazione dell’autonomia costituzionalmente garantita.
È bene precisare infine che la sottoposizione a Piano di rientro in materia sanitaria può esporre la Regione alle conseguenze sanzionatorie di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 149 del 2011, attuativo della delega di cui all’art. 17 della legge n. 42 del 2009, vale a dire, allo scioglimento “sanzionatorio” del Consiglio regionale, ex art. 126 Cost., 1° comma. Tale decreto sul meccanismo sanzionatorio di attuazione del c.d. “federalismo fiscale” è stato in buona parte “ammorbidito” da una recente pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 219 del 2013), che è pervenuta all’incostituzionalità di tutti i commi dell’art. 2 ad eccezione del primo. Permarrebbe così la sola ipotesi dello scioglimento “sanzionatorio” del Consiglio regionale per “grave dissesto finanziario” in materia sanitaria, conseguente alla sottoposizione a relativo Piano di rientro, seppur con maggiori difficoltà di azionabilità, essendo venuta meno la procedura originariamente contemplata e dunque il conseguente automatismo sanzionatorio, con la rimessione ad una valutazione discrezionale, e dunque in parte e soprattutto politica e di opportunità, del Governo e del Presidente della Repubblica [86]. Alla luce delle “figure sintomatiche” dell’avveramento della situazione di “grave dissesto finanziario” in materia sanitaria e soprattutto alla luce della severità della giurisprudenza costituzionale sul punto in ordine al mancato rispetto o al semplice discostarsi dal piano di rientro, è da rilevare che non è affatto difficile per le Regioni trovarsi nelle condizioni per la sottoposizione a scioglimento sanzionatorio, cosicché, forse il citato venir meno dell’automatismo procedimentale e l’aver ricondotto la decisione ad una valutazione politico/discrezionale, in linea con il disposto del 1° comma dell’art. 126 Cost., può aver voluto significare o l’introduzione di elementi di opportuno pragmatismo, oppure, la possibilità di rendere sostanzialmente inoperante detta sanzione, così come del resto è da sempre per il 1° comma dell’art. 126 Cost.
Per finire, sul versante del coordinamento di questa disciplina con quella attuativa dell’art. 81 Cost., 6° comma, pare non potersi escludere la contestuale esistenza di piani di rientro dal disavanzo in materia sanitaria e di piano di rientro per il mancato rispetto dell’equilibrio di bilancio, con l’indubbia irragionevolezza data dal fatto che la citata conseguenza sanzionatoria si produrrebbe unicamente per il mancato rispetto del Piano in materia sanitaria, dal carattere settoriale, e non già per il mancato rispetto delle esigenze di equilibrio di bilancio, di evidente carattere generale. Il che imporrebbe un’armonizzazione tra le due discipline.
Qualora invece il piano di rientro per il mancato equilibrio di bilancio dovesse assorbire anche il piano di rientro dal disavanzo sanitario, ciò comporterebbe la “sostanziale abrogazione”, o comunque la sicura inapplicabilità, della disciplina sanzionatoria per l’ipotesi di “grave dissesto finanziario” in materia sanitaria, non essendo evidentemente configurabile un’estensione analogica in via interpretativa di una disciplina peggiorativa dell’autonomia regionale. Il che confermerebbe inoltre la scarsa attenzione del recente legislatore di riforma costituzionale (legge cost. 1 del 2012) nel coordinare la disciplina sull’equilibrio di bilancio con quella sul federalismo fiscale.
 
4.5.1.  L’incidenza sul principio di leale collaborazione. La pervasività dei piani di riqualificazione dei sistemi sanitari
 
Con specifico riguardo alle conseguenze concrete derivanti dalla sottoposizione a piano di rientro, una chiara limitazione della discrezionalità del legislatore regionale si evince dal principio affermato in occasione della sentenza n. 100 del 2010, laddove si contempla una deroga alla regola seconda la quale “l’esercizio della funzione legislativa sfugge alle procedure di leale collaborazione” [87]. Rileva infatti la Consulta che fanno eccezione a questa regola le ipotesi in cui “una norma statale” abbia “reso vincolanti, per le Regioni che li abbiano sottoscritti, gli interventi individuati negli atti di programmazione necessari per il perseguimento dell’equilibrio economico”, oggetto di specifici accordi [88].
Ne deriva che “la norma dello Stato che assegna a tale Accordo carattere vincolante, per le parti tra le quali è intervenuto, può essere qualificata come espressione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria e, dunque, espressione di un correlato principio di coordinamento della finanza pubblica” [89]. Dove, con tutta evidenza, il principio non è altro che il rispetto dell’Accordo, i cui contenuti, naturalmente vincolanti, sono ancora ignoti al momento della definizione del principio e vengono definiti con modalità che vedono la Regione su posizioni potenzialmente “subalterne”.
Si tratta evidentemente di un principio vincolante, ma senza contenuto, che viene definito e calibrato solo con l’Accordo, ma che la Regione non ha poi alcuna possibilità di contestare nel merito e nel dettaglio. Mentre normalmente la Regione può sempre contestare la natura di principio fondamentale di una data disposizione. Si evidenzia inoltre che la vincolatività dell’Accordo e dunque del Piano di rientro viene giustificata in quanto costituente “principio di coordinamento della finanza pubblica”, pur essendo naturalmente i contenuti dell’Accordo di estremo dettaglio.
Concreta applicazione di tale principio si rinviene nella sentenza n. 91 del 2012, ove è sanzionata di incostituzionalità una legge regionale che derogava alla disciplina in materia di posti letto adottata in forza dell’Accordo che definiva un piano di rientro per la riqualificazione del sistema sanitario regionale, che costituirebbe, in applicazione di quanto stabilito con la sentenza n. 100 del 2010, principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, in quanto “diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria” [90].
La Corte rileva in particolare che “l’autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell’ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa, peraltro in un quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario”. Ne deriva che “il legislatore statale può legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l’equilibrio unitario della finanza complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari” [91].
È da evidenziare tuttavia che la materia potrebbe bene essere fatta rientrare nella “organizzazione sanitaria”, di competenza residuale regionale, mentre la Corte la considera espressione di un principio fondamentale di “coordinamento della finanza pubblica”, che incide tuttavia su altra materia di competenza concorrente, quella della “tutela della salute”. Ciò che tuttavia sorprende è il grado estremamente dettagliato del piano relativo al “livello di assistenza territoriale”, che, è bene ricordare, diviene nella sua interezza e determinatezza parametro di legittimità costituzionale, che si pone come obiettivo la “razionalizzazione della rete ospedaliera”, che potrà portare alla “riduzione dei posti letto, liberando risorse umane preziose, per quantità e per profili, al fine di implementare una rete più articolata e capillare di prestazioni domiciliari a bassa e media intensità assistenziale”. Più specificamente, “il fabbisogno massimo di posti letto viene ridefinito” in maniera per cui “a pieno regime, la Puglia potrà contare su un totale di 5100 posti letto a carattere sociosanitario, pari a circa 6,85 p.l. ogni 100 anziani” [92].
È di tutta evidenza che una tale previsione va ben oltre la semplice natura di norma di principio di “coordinamento della finanza pubblica”; incide sull’organizzazione sanitaria in maniera rigida e senza tenere conto di eventuali necessità ulteriori, non pone un obiettivo da perseguire, ma impone un risultato da assicurare, con l’esclusivo scopo di garantire il contenimento della spesa sanitaria. Si pone dunque un obiettivo rigido e non già la razionalizzazione del servizio sanitario, che presupporrebbe invece il carattere relazionale della previsione, parametrando la prestazione sull’effettiva necessità e non certo su una proporzione calcolata sul numero degli anziani, che non sono peraltro gli unici fruitori dei servizi sanitari, per quanto sono con ogni probabilità coloro che ne fruiscono con maggior frequenza.
 
4.5.2.   L’incidenza sulle competenze regionali in materia di “tutela della salute” e “organizzazione sanitaria”. L’incostituzionalità del registro dei tumori e la compartecipazione degli utenti alla fruizione dei livelli essenziali delle prestazioni
 
Per quanto concerne l’incidenza della competenza del “coordinamento della finanza pubblica” sulle materie “tutela della salute” e “organizzazione sanitaria” si segnala di recente la sentenza n. 79 del 2013, ove la Corte dichiara l’incostituzionalità della legge della Regione Campania sulla “Istituzione del registro tumori di popolazione della Regione Campania”, poiché, istituendo nuove strutture e comportando nuove spese, contrasta con l’attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario e con le competenze del Commissario ad acta, che prevedono il riassetto della rete ospedaliera e la sospensione di nuove iniziative finalizzate a realizzare, aprire, autorizzare ed accreditare nuove strutture sanitarie.
La Corte aveva già in altre occasioni precisato che “l’operato del Commissario ad acta, incaricato dell’attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario previamente concordato tra lo Stato e la Regione interessata, sopraggiunge all’esito di una persistente inerzia degli organi regionali, essendosi questi ultimi sottratti ad un’attività che pure è imposta dalle esigenze della finanza pubblica”. Sarebbe dunque questa circostanza, l’inerzia da parte regionale nel conformarsi alle attività imposte dalle esigenze di finanza pubblica, unitamente alla “constatazione che l’esercizio del potere sostitutivo è, nella specie, imposto dalla necessità di assicurare la tutela dell’unità economica della Repubblica, oltre che dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti un diritto fondamentale (art. 32 Cost.), qual è quello alla salute”, a legittimare la conclusione secondo cui “le funzioni amministrative del Commissario (…) devono essere poste al riparo da ogni interferenza degli organi regionali” [93].
Più specificatamente, ad avviso della Consulta, la semplice interferenza da parte del legislatore regionale con le funzioni del Commissario ad acta, come definite nel mandato commissariale, “determina di per sé la violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2013; nello stesso senso, sentenza n. 2 del 2010)”; cosicché, ogni intervento che possa aggravare il disavanzo sanitario regionale “avrebbe l’effetto di ostacolare l’attuazione del piano di rientro e, quindi, l’esecuzione del mandato commissariale (...) (sentenza n. 18 del 2013; nello stesso senso, sentenza n. 131 del 2012)” [94].
Si può a questo riguardo segnalare che pare singolare che il pervasivo coordinamento che segue all’attuazione di un Piano di rientro sia volto ad assicurare non solo l’unità economica, ma anche, per espressa menzione della Corte [95], la salvaguardia dei “livelli essenziali delle prestazioni”, quando è proprio il pervasivo coordinamento, che prescinda o meno dall’attuazione di Piani di rientro, che rischia di porre in serio pericolo la garanzia dei “livelli essenziali delle prestazioni”, per il venir meno dell’autonomia di spesa regionale sulle scelte allocative in ordine al soddisfacimento dei diritti sociali, che rischia di imporre una compartecipazione degli utenti dei servizi nella concreta fruizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” [96].
Nello specifico, la Corte ricorda, come già del resto evidenziato in numerose altre pronunce, “che l’autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell’ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa, peraltro in un quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario (sentenze n. 91 del 2012 e n. 193 del 2007)”, in ragione dell’accettazione della sottoposizione a Piano di rientro in materia sanitaria. Ne deriva che “il legislatore statale può legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (sentenze n. 91 del 2012, n. 163 del 2011 e n. 52 del 2010)” [97].
 
4.5.3. L’unità economica diviene titolo di legittimazione dell’intervento statale volto ad assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica
 
Tuttavia, non è chiaro quale competenza stia azionando il legislatore statale; parrebbe il “coordinamento della finanza pubblica”, con una conformazione che non è però di principio. Soprattutto, pare delinearsi lo spazio per un’incondizionata e generale legislazione statale volta ad assicurare l’obiettivo dell’equilibrio unitario della finanza pubblica, ove il titolo di legittimazione pare l’unità economica, che subisce la trasfigurazione da limite all’attività legislativa regionale a titolo di legittimazione dell’attività legislativa statale vincolistica, mentre, per converso, il “coordinamento della finanza pubblica” da titolo di competenza legislativa di principio, diviene limite generale nei confronti di qualunque tipologia legislativa esercitata dalla Regione. Il che è reso evidente dal chiarimento della Corte per cui gli obiettivi di contenimento della finanza pubblica limitano le competenze legislative in materia di tutela della salute e servizio sanitario e trova conferma nel fatto che per perseguire l’obiettivo dell’equilibrio unitario della finanza pubblica, come già evidenziato, il parametro che viene azionato può mutare, con una sorta di interscambiabilità tra 2° comma dell’art. 120, 3° comma dell’art. 117 e 4° comma dell’art. 81 Cost., vecchio testo, come ad evidenziare che ciò che rileva è il risultato, non certo il percorso mediante il quale si perviene al medesimo risultato.
Non v’è dubbio che per questa via salta l’intero sistema dei limiti alla legislazione regionale, poiché i titoli di competenza diventano limiti all’esercizio delle competenze e i limiti diventano titoli di competenza, ma soprattutto salta l’inversione del criterio di conferimento delle competenze e scolorisce la forse eccessivamente ottimistica valutazione della Corte svolta in occasione della nota sentenza n. 282 del 2002, stando alla quale, “la risposta al quesito, se la legge impugnata rispetti i limiti della competenza regionale, ovvero ecceda dai medesimi, deve oggi muovere (…) non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale” [98].
Si evidenzia inoltre che la Corte parla in queste evenienze di “vincoli alla spesa corrente per assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva” [99]. C’è da chiedersi se quando andrà a regime la riforma costituzionale sull’equilibrio di bilancio le Regioni possano, paradossalmente riacquistare autonomia organizzativa anche in materia sanitaria, posto che l’equilibrio deve essere assicurato nelle forme e con le modalità di cui alla legge di attuazione dell’art. 81 Cost., 6° comma, sulla base di una valutazione complessiva degli esercizi finanziari presi a riferimento (art. 9 della legge 243 del 2012) e non già in ragione di interventi specifici ed episodici di incostituzionalità di una data legge, che, singolarmente considerata, potrebbe sembrare discostarsi da tale principio, ma che, in ipotesi, in ragione di una visione d’insieme, potrebbe anche apportare delle razionalizzazioni sotto il profilo organizzativo e dunque delle conseguenti economie di spesa, oppure, come nel caso di specie, salvaguardare diritti fondamentali, quale quello alla salute dei malati oncologici.

4.5.4. Dal "coordinamento della finanza pubblica" al "contenimento" della spesa pubblica

Con ogni probabilità, la vera costante di questa giurisprudenza costituzionale è ben espressa laddove la Corte chiarisce che la disciplina assunta a parametro onde contestare normative regionali – in quel caso si trattava della legge finanziaria per l’anno 2007 – sarebbe “espressione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria e, dunque, espressione di un correlato principio di coordinamento della finanza pubblica” [100], così da evidenziare chiaramente di concepire oramai il “coordinamento della finanza pubblica” come “contenimento della spesa pubblica” – nel caso di specie della spesa “sanitaria” – cosicché, la funzionalizzazione di tale competenza, di cui alla sentenza n. 35 del 2005, il fatto che sia finalisticamente orientata, non è funzionalizzazione al coordinamento, ma funzionalizzazione al contenimento della spesa pubblica.
Nel caso al giudizio della Corte, sarebbe in particolare lo stanziamento di risorse ad hoc ad evidenziare “l’incompatibilità con l’obiettivo di contenimento della spesa pubblica sanitaria perseguito con il Piano di rientro”, cosicché, le disposizioni impugnate, “in quanto comportano spese ulteriori rispetto a quelle già stanziate, contrastano anche con il principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria – espressione di un correlato principio di coordinamento della finanza pubblica – e quindi con l’art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis: sentenze n. 260 del 2012, n. 131 del 2012 e n. 91 del 2012)” [101]. Cosicché, la Corte ravvisa nella disposizione contestata l’incompatibilità con “l’obiettivo di contenimento della spesa pubblica sanitaria”, quasi che questo obiettivo sia un valore da doversi perseguire, al perseguimento del quale debba essere orientata la legislazione regionale, posto che la Corte parla chiaramente di “principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria” [102].
 
4.6.  Il valore del contenimento della spesa pubblica, funzionale all’equilibrio di bilancio, come limite all’incidenza del diritto CEDU. L’equilibrio di bilancio a presidio di eguaglianza e solidarietà
 
Non è certo dubitabile che il contenimento della spesa pubblica, dunque il coordinamento finanziario preposto al contenimento, funzionale all’equilibrio di bilancio, anche in ragione della recente riforma costituzionale (legge cost. n. 1 del 2012), sia da tempo divenuto un valore costituzionale da assicurare; riprova ne è la circostanza che costituisce (anche) limite all’incidenza del diritto CEDU nell’ordinamento italiano, limitandone la parametricità, ex art. 117 Cost. 1° comma, quando determina rischi di incisione sul menzionato equilibrio.
Il che è reso evidente in occasione della sentenza della Corte costituzionale n. 264 del 2012, ove la Consulta salva una legge retroattiva, sanzionata dalla Corte EDU perché lo Stato italiano aveva adottato quella legge in costanza di un giudizio per assicurare che l’esito gli fosse favorevole. Di estremo interesse è l’argomentare della Consulta, che ricorda di avere “reiteratamente affermato che, con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno”, ma deve, caso mai, “costituire strumento di ampliamento della tutela stessa”. Tuttavia, questa “massima espansione delle garanzie” ricomprende in sé “il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela” [103]. Cosicché, mentre la Corte EDU può avere una visione parcellizzata dei singoli diritti di volta in volta coinvolti, la Corte costituzionale “opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata” [104]; nella valutazione della Consulta non può sfuggire “che la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” [105].
In questo contesto, è la stessa norma CEDU che “diviene oggetto di bilanciamento”, in un’operazione volta “non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele” [106].
In tale bilanciamento confluiscono dunque quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione retroattiva, che, nel caso di specie contemplano “un sistema previdenziale tendente alla corrispondenza tra le risorse disponibili e le prestazioni erogate, anche in ossequio al vincolo imposto dall’articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ed assicura la razionalità complessiva del sistema stesso (sent. n. 172 del 2008), impedendo alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri, e così garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali” [107]. Ferma dunque restando la ragionevolezza del contestato intervento normativo retroattivo, volto ad “evitare sperequazioni e a rendere sostenibile l’equilibrio del sistema previdenziale a garanzia di coloro che usufruiscono delle sue prestazioni” [108], è interessante evidenziare un’anticipazione dell’applicazione del principio di equilibrio di bilancio, che esce dal giudizio in via principale e dal severo sindacato operato al riguardo dalla Corte sulle leggi regionali [109], laddove si evince che nel bilanciamento tra valori costituzionali, quello della corrispondenza tra risorse disponibili e prestazioni erogate, che impedisce alterazioni della disponibilità economica a danno di alcuni contribuenti, come tale funzionale al perseguimento di esigenze di eguaglianza e solidarietà e dunque, in ultima istanze, il “valore” dell’equilibrio finanziario, non può non occupare “una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali” [110], divenendo quasi il presupposto indispensabile per garantire in un contesto di eguaglianza e solidarietà la fruizione dei diritti costituzionali e la garanzia degli altri valori costituzionali; non già un fattore limitativo degli stessi, ma un fattore che ne garantisce l’equilibrata fruizione [111].
 
5. La soluzione auspicabile: il “coordinamento virtuoso” tramite la valorizzazione della libera concorrenza
 
Si evidenzia da ultimo un’interessante tipologia di “coordinamento”, che si potrebbe definire “virtuoso”, che si muove in correlazione con la massima valorizzazione delle libertà economiche, con particolare riguardo alla libertà di iniziativa economica e alla tutela della concorrenza.
La più recente legislazione statale, avvallata, e in parte incoraggiata, da una condivisibile giurisprudenza costituzionale, pare infatti aver preso atto del fatto che la sostenibilità del debito pubblico viene assicurata non solo mediante il contenimento della spesa pubblica, ma anche, e forse soprattutto, per non innescare o implementare spinte recessive, creando meccanismi virtuosi di concorrenza sul mercato che agevolano la crescita economica, contribuiscono ad innalzare il PIL e le stesse entrate tributarie.
Queste tendenze comportano la massima valorizzazione delle potenzialità della concorrenza e dunque delle libertà economiche, per le quali viene meno ogni elemento di funzionalizzazione originariamente previsto dal Testo costituzionale.
È oramai nota al riguardo la sentenza n. 200 del 2012, ove la Corte si pronuncia sulla conformità a Costituzione del principio per cui nell’ambito delle attività economiche “è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”.
È altrettanto noto come la Corte, riprendendo uno spunto della sentenza n. 270 del 2010, tale per cui le esigenze di utilità sociale devono essere bilanciate con le esigenze della concorrenza, cosicché la relativa individuazione non debba apparire arbitraria, sottolinei che tali istanze devono essere ragionevoli e non realizzare un’ingiustificata disparità di trattamento e, proprio in quanto derogatorie rispetto al principio della libertà d’iniziativa economica, dovranno rappresentare la sola misura in grado di garantire la tutela di interessi parimenti meritevoli di garanzia costituzionale.
Il che comporta che la Corte perviene da ultimo a capovolgere la stessa funzione della clausola dell’utilità sociale, precisando che l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, cosicché, “una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (…) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori” e dunque, in definitiva e significativamente, “reca danno alla stessa utilità sociale”. Mentre “l’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale” [112].
Ne deriva che per la Consulta l’utilità sociale non è più da considerarsi un limite all’esplicazione della libertà d’impresa o alla implementazione della concorrenza, posto che è proprio dal libero svolgimento delle dinamiche economiche e dalla massimizzazione di quelle in forza di spinte di liberalizzazione dei mercati e di implementazione della libera concorrenza che la stessa “utilità sociale” trae giovamento, potendo svolgere in pieno la sua funzione a tutela anche delle componenti deboli del mercato – in primis, i lavoratori e i consumatori – che dall’implementazione di queste dinamiche trarranno indubbi giovamenti, in ipotesi, dall’abbattimento dei prezzi di prodotti prima commercializzati in regime di sostanziale monopolio, dal complessivo miglioramento dei servizi o prodotti offerti in regime di concorrenza e dalla conseguente possibile creazione di nuovi posti di lavoro.
Questa prima giurisprudenza ha avuto un largo e importante seguito. Così, con le medesime argomentazioni, con la sentenza n. 299 del 2012, la Corte ha salvato la disciplina statale che sostanzialmente generalizzava la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi; con la sentenza n. 27 del 2013, ha dichiarato incostituzionale una legge della Regione Toscana che contemplava nuovi limiti agli orari degli esercizi di commercio al dettaglio in sede fissa, reintroducendo inoltre l’obbligo di chiusura domenicale e festiva; con la sentenza n. 38 del 2013, ha dichiarato l’incostituzionalità di una legge della Provincia autonoma di Bolzano che limitava il commercio al dettaglio nelle zone produttive; per finire, con la sentenza n. 41 del 2013, ha giudicato non contraria a Costituzione la disciplina statale di istituzione dell’Autorità di regolazione dei trasporti, proprio in considerazione del fatto che il settore dei trasporti appare tradizionalmente resistente alle dinamiche della concorrenza, all’ingresso di operatori privati, “a causa di alcune peculiari caratteristiche, legate, tra l’altro, agli elevati costi, alla necessità di assicurare il servizio anche in tratte non remunerative e alla consolidata presenza di soggetti pubblici tanto nella gestione delle reti quanto nell’offerta dei servizi” [113], tale da imporre l’istituzione di un’Autorità indipendente di vigilanza del settore.
Non v’è dubbio che già di per sé queste dinamiche incidono positivamente sulla sostenibilità del debito pubblico, in quanto funzionali alla crescita economica per il tramite della massima valorizzazione della concorrenza. Tuttavia, il salto di qualità di questa legislazione e della relativa giurisprudenza costituzionale, per quanto concerne l’aspetto dell’auspicabile mutamento delle forme e dell’incidenza del coordinamento della finanza pubblica, si registra in occasione delle pronunce nn. 8 e 46 del 2013, ove si impone a Regioni ed enti locali di conformarsi al principio generale della liberalizzazione, con la precisazione che tale adeguamento costituirà elemento di valutazione della “virtuosità” dell’ente territoriale, al quale riconnettere conseguenze di ordine finanziario.
 
5.1. Le forme dell’implementazione all’adeguamento da parte degli enti territoriali ai principi di liberalizzazione e razionalizzazione delle attività economiche. Una nuova declinazione del valore dell’unità giuridica
 
In particolare, la Corte costituzionale, in occasione della sentenza n. 8 del 2013, dopo aver richiamato i principali passaggi della sentenza n. 200 del 2012 e la conseguente necessità di estendere all’intero sistema delle autonomie il compito di attuare i citati principi di liberalizzazione e di valorizzazione e implementazione della concorrenza, pervenendo a declinare un risvolto positivo del principio dell’unità giuridica, poiché solo se l’azione di tutte le pubbliche amministrazioni è improntata ai medesimi principi non vi è il rischio che questi vengano poi sostanzialmente vanificati, rileva che “il principale elemento di novità” del caso al suo esame consiste proprio nel “raccordo tra attuazione dei principi di razionalizzazione delle attività economiche e implicazioni di natura finanziaria a carico delle autonomie territoriali” [114], posto che l’adeguamento a quei principi diviene elemento da prendere in considerazione tra i parametri di “virtuosità”.
Nel salvare l’impianto normativo al suo esame, la Corte evidenzia che “non è difficile cogliere la ratio del legame tracciato dal legislatore fra le politiche economiche di liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, e le implicazioni finanziarie delle stesse”. Stando all’impostazione di fondo della normativa, “ispirata a quelle evidenze economiche empiriche che individuano una significativa relazione fra liberalizzazioni e crescita economica, su cui poggiano anche molti interventi delle istituzioni europee”, è ragionevole ritenere che “le politiche economiche volte ad alleggerire la regolazione, liberandola dagli oneri inutili e sproporzionati, perseguano lo scopo di sostenere lo sviluppo dell’economia nazionale” [115].
La relazione tra liberalizzazione e crescita economica appare sicuramente rilevante, poiché, da un lato, “la crescita economica è uno dei fattori che può contribuire all’aumento del gettito tributario, che, a sua volta, concorre alla riduzione del disavanzo della finanza pubblica”; dall’altro, “non si può trascurare il fatto che il Patto europeo di stabilità e crescita – che è alla base del Patto di stabilità interno – esige il rispetto di alcuni indici che mettono in relazione il prodotto interno lordo, solitamente preso a riferimento quale misura della crescita economica di un Paese, con il debito delle amministrazioni pubbliche e con il deficit pubblico” [116].
Il rispetto di tali indici può essere raggiunto, “sia attraverso la crescita del prodotto interno lordo, sia attraverso il contenimento e la riduzione del debito delle amministrazioni pubbliche e del deficit pubblico”. Ne deriva che, in questa prospettiva, “è ragionevole che la norma impugnata consenta di valutare l’adeguamento di ciascun ente territoriale ai principi della razionalizzazione della regolazione, anche al fine di stabilire le modalità con cui questo debba partecipare al risanamento della finanza pubblica”, poiché, l’attuazione di politiche economiche locali e regionali volte alla liberalizzazione ordinata e ragionevole e allo sviluppo dei mercati “produce dei riflessi sul piano nazionale, sia quanto alla crescita, sia quanto alle entrate tributarie, sia, infine, quanto al rispetto delle condizioni dettate dal Patto europeo di stabilità e crescita” [117]. Cosicché, è indubbio che l’esigenza di unità giuridica, sotto questo riguardo, divenga funzionale alle istanze di tenuta finanziaria, tale per cui, da limite negativo all’esercizio della potestà legislativa regionale e dunque presupposto di attivazione del potere sostitutivo “straordinario”, diviene elemento positivo di conformazione, a monte e nel merito, della legislazione regionale.
Pur non richiamando mai la Consulta la competenza concorrente del “coordinamento della finanza pubblica”, ricorrendo invece alla competenza esclusiva statale della “tutela della concorrenza”, non v’è dunque alcun dubbio che nel caso di specie ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di “coordinamento della finanza pubblica”, per una volta non attuata nelle forme del contenimento della spesa pubblica, ma nelle forme dell’implementazione delle discipline territoriali tese alla valorizzazione della concorrenza. Da ciò si evince che il legislatore statale può dunque dare luogo ai risultati di un “coordinamento della finanza pubblica” anche quando esercita altre competenze, orientando finalisticamente la legislazione regionale, operando conseguentemente un coordinamento che non va nel senso della riduzione delle spese, bensì nel senso dell’aumento delle entrate.
A ben vedere, i prodromi di tale attività di coordinamento erano invero già rinvenibili nella primissima giurisprudenza costituzionale in argomento, quando tuttavia, l’intenzione del legislatore statale non era quella di orientare finalisticamente la legislazione regionale, bensì, quella di attivare un coordinamento finanziario che fosse rispettoso dell’autonomia organizzativa regionale. In particolare, già dalla sentenza n. 36 del 2004, la Corte ben si rendeva conto del fatto che il coordinamento in materia di spesa avrebbe dovuto semplicemente stabilire limiti di ordine generale, comunque perseguibili dagli enti territoriali nel rispetto della loro autonomia organizzativa, rilevando che “è ben vero che, stabilito il vincolo alla entità del disavanzo di parte corrente, potrebbe apparire superfluo un ulteriore vincolo alla crescita della spesa corrente, potendo il primo obiettivo conseguirsi sia riducendo le spese, sia accrescendo le entrate” [118].
Cosicché, è certamente singolare evidenziare l’evoluzione conosciuta dall’attività di coordinamento finanziario, che ha invece visto una spiccata, se non addirittura esclusiva, propensione al contenimento del tasso di crescita della spesa corrente [119], talvolta significativamente limitativa dell’autonomia organizzativa, precludendo al sistema delle autonomie le citate valutazioni ed opzioni in ordine all’implementazione delle entrate, pervenendo poi, di recente, a perseguire quei risultati, mediante il “coordinamento virtuoso”, attraverso tuttavia un’ulteriore limitazione delle istanze autonomiste, tramite l’implementazione all’uniformazione delle legislazioni della Repubblica, funzionali alla valorizzazione della concorrenza e, per tale tramite, all’aumento delle entrate, tese tuttavia a creare una sostanziale “unità giuridica”, dopo aver assicurato l’“unità economica” mediante le ipotesi pervasive di coordinamento finanziario.
Le potenzialità per il consolidamento delle dinamiche di valorizzazione del “coordinamento virtuoso” paiono inoltre rinvenibili nella disciplina di attuazione dell’art. 81 Cost., 6° comma, legge n. 243 del 2012, poiché, mentre la valutazione di equilibrio dei bilanci delle amministrazioni pubbliche viene parametrata sull’obiettivo di medio termine, sia in termini di avvicinamento, sia in termini di limitato scostamento (lett. a) e b), 5° comma, art. 3), l’equilibrio di bilancio per gli enti territoriali è invece parametrato sulla contestuale ricorrenza di un saldo non negativo, in termini di competenza e di cassa, tra le entrate finali e le spese finali e di un saldo non negativo, in termini di competenza e di cassa, tra le entrate correnti e le spese correnti (lett. a) e b), 1° comma, art. 9), valorizzando così non solo le istanze di contenimento della spesa, ma anche quelle di implementazione delle entrate.
 
5.2.   Il “coordinamento virtuoso” nell’affidamento dei servizi pubblici locali
 
Questa forma di “coordinamento virtuoso” trova forse la massima esplicazione nella successiva pronuncia n. 46 del 2013, in materia di liberalizzazione nei servizi pubblici locali. In quell’occasione, la Regione Veneto aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 25, comma 1, lettera a), del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), così come convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, che inseriva nel decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, l’articolo 3-bis, relativo agli “Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali”, che ridetermina le modalità di organizzazione e affidamento dei servizi pubblici locali, per meglio garantire l’efficienza e la concorrenzialità degli stessi.
In particolare, il comma 3 del citato art. 3-bis del d.l. n. 138 del 2011 dispone che, a decorrere dal 2013, l’applicazione delle procedure di affidamento ad evidenza pubblica da parte di Regioni, Province e Comuni o degli enti di governo locali o del bacino costituisca elemento di valutazione della “virtuosità” degli stessi enti, ai sensi dell’art. 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111. Dispone inoltre che la Presidenza del Consiglio dei ministri comunichi perentoriamente, a fine gennaio di ogni anno, al Ministero dell’economia gli enti che hanno attuato tale procedura e che, in assenza della comunicazione nel termine stabilito, “si prescinde dal predetto elemento di valutazione della virtuosità”.
Di fronte alle molteplici eccezioni di costituzionalità di parte regionale, la Corte risponde, in relazione alla lamentata violazione degli artt. 117, 2° comma, lettera e), 118 e 119 Cost., che “l’intervento normativo statale, con il d.l. n. 1 del 2012, si prefigge la finalità di operare, attraverso la tutela della concorrenza (liberalizzazione), un contenimento della spesa pubblica” [120], rendendo dunque evidenti le connessioni tra disciplina delle “liberalizzazioni” e “coordinamento della finanza pubblica”, nella forma del “contenimento della spesa pubblica”, perseguite questa volta mediante la definizione delle modalità organizzative dei servizi pubblici locali, idonee a garantire quegli effetti.
La Corte precisa che in questa maniera, il legislatore statale ritiene che il citato scopo si realizzi attraverso l’affidamento dei servizi pubblici locali con il meccanismo delle gare ad evidenza pubblica, individuato come quello che dovrebbe comportare un risparmio dei costi ed una migliore efficienza nella gestione, “da qui l’opzione – in coerenza con la normativa comunitaria – di promuovere l’affidamento dei servizi pubblici locali a terzi e/o a società miste pubblico/private e di contenere il fenomeno delle società in house[121].
È noto, tuttavia, che le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, attengano alla materia “tutela della concorrenza”, “di competenza esclusiva statale, tenuto conto della sua diretta incidenza sul mercato e perché strettamente funzionale alla gestione unitaria del servizio”. Peraltro, continua la Corte, “per pervenire a questo obiettivo, il legislatore si è trovato di fronte al problema di coordinare la competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» con le competenze concorrenti regionali. Da qui l’opzione, già sperimentata in altri contesti, di utilizzare una tecnica «premiale», dividendo gli enti pubblici territoriali in due classi, secondo un giudizio di virtuosità” [122].
Questa tecnica normativa ha dunque il pregio di non privare le Regioni e gli altri enti territoriali delle loro competenze e di limitarsi a valutarne l’esercizio ai fini dell’attribuzione del “premio”, ovvero della coerenza o meno alle indicazioni del legislatore statale. Infatti, grazie a tale tecnica normativa di valorizzazione dei principi di liberalizzazione, si presuppone che le Regioni continuino ad esercitare le loro competenze nella regolazione delle attività economiche. Ne deriva, dunque, che “le Regioni non risultano menomate nelle, né tantomeno private delle, competenze legislative e amministrative loro spettanti, ma sono orientate ad esercitarle in base ai principi indicati dal legislatore statale, che ha agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di concorrenza” [123]. Se tuttavia è indubbio che questa tecnica normativa non privi le Regioni delle loro competenze, ma addirittura le presupponga, non v’è parimenti dubbio che la relativa legislazione regionale non potrà che risultare sicuramente orientata al perseguimento delle finalità e dei principi stabiliti a livello statale, quasi “a rime obbligate”, dovendosi muovere entro i binari definiti, o auspicati, dal legislatore statale.
Ancora più interessante, ma non priva di aspetti problematici, è la parte della pronuncia relativa all’assoggettamento delle società affidatarie in house al Patto di stabilità interno, di cui al comma 5 dell’art. 3-bis, così come inserito nel d.l. n. 138 del 2011.
Sul punto, la Regione ricorrente, anche in ragione di alcuni precedenti (sentenza n. 199 del 2012 e n. 325 del 2010) che inquadravano analoga disciplina nella materia “coordinamento della finanza pubblica”, sosteneva l’illegittimità di una disciplina di dettaglio in argomento e la conseguente impossibilità di fare ricorso allo strumento del decreto ministeriale per stabilire il citato assoggettamento. Solo attraverso un’argomentazione estremamente articolata la Corte perviene all’infondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale.
Premette che se il comma 5 dell’art. 3-bis “si leggesse nel senso che lo Stato avesse previsto l’utilizzazione della sua potestà regolamentare (e non quella legislativa) per assoggettare le società affidatarie in house al Patto di stabilità interno o avesse previsto, come nel precedente giurisprudenziale sopra richiamato, l’uso dello strumento regolamentare per intervenire nella suddetta materia, dovrebbe concludersi per la fondatezza della questione”, tuttavia, rileva che questa non è la corretta interpretazione da attribuire alla disposizione impugnata [124].
In particolare, in occasione della sentenza n. 325 del 2010, avendo la Corte costituzionale inquadrato la materia nel “coordinamento della finanza pubblica”, di pertinenza concorrente, si perveniva all’incostituzionalità della previsione di una potestà regolamentare che avrebbe dovuto disporre la citata soggezione al Patto di stabilità interno, per violazione del 6° comma dell’art. 117 Cost. Ciò che pare singolare e di un certo interesse è che la Consulta avverte la necessità di chiarire, a posteriori, “il percorso motivazionale della sentenza n. 325 del 2010 e la portata della declaratoria di illegittimità costituzionale in essa contenuta”, evidentemente con l’intento di discostarsi da quel precedente, precisando che “con la citata sentenza non si è certo affermato che, in mancanza del previsto regolamento, le società in house non fossero assoggettate al patto di stabilità interno”, presupponendo anzi la natura delle società in house il detto assoggettamento [125].
Ne deriva che “una diversa disciplina che favorisca le società in house rispetto all’aggiudicante Amministrazione pubblica si potrebbe porre in contrasto con la stessa disciplina comunitaria”, poiché verrebbe a scindere le due entità e a determinare un ingiustificato favor nei confronti di questo tipo di gestione dei servizi pubblici, in considerazione del fatto che il bilancio delle citate società non sarebbe soggetto alle regole del patto di stabilità interno. Tali regole devono invece intendersi “estese a tutto l’insieme di spese ed entrate dell’ente locale sia perché non sarebbe funzionale alle finalità di controllo della finanza pubblica e di contenimento delle spese permettere possibili forme di elusione dei criteri su cui detto “Patto” si fonda, sia perché la maggiore ampiezza degli strumenti a disposizione dell’ente locale per svolgere le sue funzioni gli consente di espletarle nel modo migliore, assicurando, nell’ambito complessivo delle proprie spese, il rispetto dei vincoli fissati dallo stesso Patto di stabilità” [126].
Così, con la disciplina contestata si è inteso, secondo la Corte, non già disporre il citato assoggettamento, bensì, semplicemente rendere “legislativamente esplicito un adempimento di origine comunitaria rientrante in quei contenuti minimi non derogabili”, cui fa riferimento la stessa pronuncia 325 del 2010 [127].
 
5.3.   Lo “spettro” costante del “coordinamento di dettaglio”
 
Sarebbe dunque alla natura di tali strumenti che si deve fare riferimento, posto che la materia alla quale attiene questa disciplina è il “coordinamento della finanza pubblica”, ove il legislatore statale può solo esercitare una competenza legislativa di principio. Nel caso di specie tuttavia, la natura dell’atto passa in secondo piano, assumendo invero rilevanza il contenuto dello stesso, non già diretto a disporre l’assoggettamento al Patto di stabilità, ma a stabilirne le modalità. Con tutta evidenza, si è qui di fronte ad un’ipotesi di “coordinamento tecnico”, cosicché, se la prima parte dell’impianto normativo qui all’esame – e dunque la prima parte della pronuncia – pare sicuramente condivisibile, muovendosi nella logica del “coordinamento virtuoso”, la seconda, per quanto dia luogo ad un risultato condivisibile, si muove nell’ottica del coordinamento pervasivo, che incide pesantemente sulle opzioni organizzative regionali e degli enti locali, in forza di una sorta di “gioco di sponda” con la disciplina europea e con le previsioni di carattere tecnico.
Pare evidente che la Corte voglia formalmente assicurare – o dare l’impressione di assicurare – che il coordinamento si svolga nelle forme costituzionalmente previste, anche se poi la sostanza del coordinamento suscita non poche perplessità in ordine all’intervento di dettaglio della disciplina e in ordine allo strumento utilizzato per disporre questa volta, non già l’assoggettamento delle in house al “Patto di stabilità”, bensì, le modalità di questo assoggettamento, posto che viene ammesso in tal caso il ricorso ad un decreto ministeriale, di natura non regolamentare, ritenuto ammissibile dalla Consulta proprio in quanto non avente contenuti normativi, ma in quanto diretto a svolgere unicamente “un compito di coordinamento tecnico, volto ad assicurare l’uniformità degli atti contabili in tutto il territorio nazionale” [128].
Fermo restando che a seguito della legge costituzionale n. 1 del 2012 l’armonizzazione dei bilanci pubblici è divenuta materia di competenza esclusiva statale, entro la quale potrebbero convergere discipline di questo genere, è da dire che nonostante la probabile condivisibilità del risultato dell’assoggettamento delle in house al “Patto di stabilità”, forse qualche perplessità suscita proprio l’uniformazione in ordine alle modalità di assoggettamento, che paiono incidere sulle autonome scelte organizzative dell’ente territoriale, posto che si tratta di disciplina di estremo dettaglio e forse di scarso contenuto tecnico, trattandosi della definizione di “modalità e modulistica” del citato assoggettamento.
Il che dicasi soprattutto in considerazione del fatto che, a seguito della modifica dell’art. 119 Cost., laddove in particolare subordina l’indebitamento per le spese di investimento di Regioni ed enti locali, tra l’altro, al fatto che nel complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio, sarà (o meglio dovrebbe essere) interesse della Regione garantire l’equilibrio di bilancio dei diversi enti ivi presenti, comprese le in house. Si consideri inoltre che, in tal modo, nelle forme del “coordinamento tecnico”, si rischia di legittimare un coordinamento statale di estremo dettaglio, le cui conseguenze, tuttavia, sia in termini di limitazione dell’autonomia organizzativa e finanziaria, sia in termini di limitazione all’indebitamento, potrebbero riverberarsi non già sui singoli enti sottoposti a tale coordinamento tecnico, bensì, nei confronti della stessa Regione o di tutti gli altri enti della Regione.
Nella sostanza, se è la Regione ad avere interesse a garantire l’equilibrio di bilancio del complesso degli enti della Regione stessa (art. 119 Cost., ultimo comma), dovranno essere alla stessa assicurati adeguati strumenti e non già costringerla a conformarsi a discipline statali di estremo dettaglio.
Non si può dunque conclusivamente non rilevare che, se pare sicuramente condivisibile il ricorso a strumenti volti ad attuare meccanismi di “coordinamento virtuoso”, soprattutto perché spingono gli enti territoriali ad adottare date opzioni organizzative, oppure auspicano il ricorso a tali opzioni, facendone derivare diverse tipologie di benefici, e non già le impongono o le precostituiscono, si evidenzia come la previsione di sistemi di coordinamento finanziario maggiormente pervasivi sia tuttora abbastanza frequente, con l’auspicio, già più sopra svolto, che l’analisi dell’equilibrio di bilancio riferito agli esercizi finanziari, e non già alle singole scelte od opzioni di spesa (così, legge n. 243 del 2012), possa contribuire finalmente a imboccare con decisione la strada del “coordinamento virtuoso” e del “coordinamento per obiettivi”, che sola può garantire la salvaguardia dell’autonomia organizzativa regionale.

 
 

* Ricercatore Confermato di Diritto costituzionale, Università di Bologna.
[1] Così, cfr., M. Salerno, Patto di stabilità interno e autonomia finanziaria delle Regioni, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma – Volume II, Raccolta di Papers di Diritto Regionale, Roma 20-21-22 ottobre 2011, Milano, 2012, 579, 580; cfr., inoltre, A. Brancasi, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni, 2003, 66.
[2] Così, cfr., D. Immordino, L’autonomia finanziaria, in R. Bin, G. Falcon (a cura di), Diritto regionale, Bologna, 2012, 285.
[3] In proposito sia consentito rinviare a M. Belletti, Prove (poco gradite) di regionalismo cooperativo, in Le Regioni, n. 4-5 del 2008, 983 ss.
[4] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 267 del 2006, Punto n. 4 del Considerato in diritto.
[5] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 267 del 2006, Punto n. 4 del Considerato in diritto.
[6] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 267 del 2006, Punto n. 4 del Considerato in diritto.
[7] In argomento si rinvia a quanto evidenziato da G. Rivosecchi, Il coordinamento dinamico della finanza pubblica tra patto di stabilità, patto di convergenza e determinazione dei fabbisogni standard degli enti territoriali, in Rivista AIC, n. 1/2012, che rileva come il coordinamento “dinamico” abbia assunto la netta prevalenza su quello “statico”.
[8] In argomento si rinvia a quanto più ampiamente esposto in occasione di M. Belletti, I percorsi evolutivi del coordinamento della finanza pubblica dall’autonomia di spesa all’equilibrio di bilancio. Il finanziamento dei “livelli essenziali”, in R. Nania (a cura di), Atti del Convegno Attuazione e sostenibilità del diritto alla salute, svoltosi presso “La Sapienza”, Roma, 27 febbraio 2013, in corso di pubblicazione.
[9] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 37 del 2004, Punto n. 5 del Considerato in diritto.
[10] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 37 del 2004, Punto n. 5 del Considerato in diritto.
[11] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 37 del 2004, Punto n. 5 del Considerato in diritto.
[12] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 37 del 2004, Punto n. 5 del Considerato in diritto.
[13] In particolare, talune Regioni avevano impugnato una norma della legge finanziaria per l’anno 2002, legge n. 448 del 2001, art. 41, che al primo comma dispone che “al fine di contenere il costo dell’indebitamento e di monitorare gli andamenti di finanza pubblica, il Ministero dell’economia e delle finanze coordina l’accesso al mercato dei capitali” degli enti locali, anche associativi, e dei loro consorzi, nonché delle Regioni; che “a tal fine i predetti enti comunicano periodicamente allo stesso Ministero i dati relativi alla propria situazione finanziaria”; e che “il contenuto e le modalità del coordinamento nonché dell’invio dei dati sono stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da emanare sentita la Conferenza unificata” Stato-Regioni-autonomie locali, con il quale sono altresì “approvate le norme relative all’ammortamento del debito e all’utilizzo degli strumenti derivati da parte dei succitati enti”.
[14] Il secondo comma dell’art. 41 reca norme di coordinamento per l’ipotesi di emissione di titoli obbligazionari o di accensione di mutui, di conversione o rinegoziazione degli stessi da parte di enti territoriali, disponendo che “gli enti di cui al comma 1 possono emettere titoli obbligazionari e contrarre mutui con rimborso del capitale in unica soluzione alla scadenza, previa costituzione, al momento dell’emissione o dell’accensione, di un fondo di ammortamento del debito, o previa conclusione di swap per l’ammortamento del debito”.
[15] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 376 del 2003, Punto n. 3 del Considerato in diritto.
[16] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 376 del 2003, Punto n. 3 del Considerato in diritto.
[17] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 376 del 2003, Punto n. 3 del Considerato in diritto.
[18] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 36 del 2004, Punto n. 5 del Considerato in diritto.
[19] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 36 del 2004, Punto n. 6 del Considerato in diritto.
[20] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 36 del 2004, Punto n. 6 del Considerato in diritto.
[21] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 36 del 2004, Punto n. 6 del Considerato in diritto. Peraltro, basta prendere ad esame la norma impugnata, e fatta salva dalla Corte costituzionale, per rendersi conto come in quella fase il legislatore nazionale pervenisse al coordinamento della finanza pubblica, tra l’altro volto a garantire il rispetto del “patto di stabilità” interno, con grande equilibrio e grande rispetto dell’autonomia, soprattutto organizzativa, di Regioni ed enti locali. La Corte riconduce inoltre alla funzione di coordinamento “la potestà di commisurare i trasferimenti a favore degli enti locali alle effettive necessità finanziarie, ragionevolmente apprezzate” (Punto n. 8); quasi una sorta di anticipazione dei c.d. costi standard, che verranno forse troppo rapidamente abbandonati dal legislatore statale.
[22] Al riguardo, cfr., E. Buglione, La finanza regionale: storia scritta e da scrivere, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di Stato in Italia, Milano, 2012, 384.
[23] Così, cfr., E. Buglione, La finanza regionale: storia scritta e da scrivere, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di Stato in Italia, Milano, 2012, 406.
[24] Basti citare, a mero titolo esemplificativo, la sentenza n. 370 del 2003 in materia di asili nido e la sentenza n. 16 del 2004 riguardante il fondo per la riqualificazione urbana dei Comuni.
[25] Così, cfr., E. Buglione, La finanza regionale: storia scritta e da scrivere, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di Stato in Italia, Milano, 2012, 407, 408.
[26] Sul punto si rinvia a D. Immordino, L’autonomia finanziaria, in R. Bin, G. Falcon (a cura di), Diritto regionale, Bologna, 2012, 285-292.
[27] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 35 del 2005.
[28] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 414 del 2004.
[29] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 399 del 2006.
[30] Così, cfr., L. Ronchetti, Gli anni della riscrittura del Titolo V: la giurisprudenza costituzionale 2002-2005, in N. Viceconte (a cura di), La giustizia costituzionale e il “nuovo” regionalismo – Volume I, Atti del seminario di studi, Roma, 29 maggio 2012, Milano, 2013, 53.
[31] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 35 del 2005.
[32] Così, cfr., L. Ronchetti, Gli anni della riscrittura del Titolo V: la giurisprudenza costituzionale 2002-2005, in N. Viceconte (a cura di), La giustizia costituzionale e il “nuovo” regionalismo – Volume I, Atti del seminario di studi, Roma, 29 maggio 2012, Milano, 2013, 54.
[33] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 229 del 2011.
[34] Affermazione che si ritrova nelle sentenze nn. 341 del 2009 e 187 del 2012, in materia di ticket sanitari, ove la Corte salva una disciplina statale che “lascia alle Regioni la possibilità di scegliere in un ventaglio di strumenti concreti da utilizzare per raggiungere [gli] obiettivi [di riequilibrio finanziario]”, condizione in presenza della quale la Corte “ha escluso l’illegittimità di misure statali in materia di contenimento della spesa pubblica”, pur individuando già una significativa connessione di ambiti di competenza in questa materia, laddove evidenzia che “la disciplina in materia di ticket, determinando il costo per gli assistiti dei relativi servizi sanitari, non costituisce solo un principio di coordinamento della finanza pubblica diretto al contenimento della spesa sanitaria, ma incide anche sulla quantità e sulla qualità delle prestazioni garantite, e, quindi, sui livelli essenziali di assistenza”.
[35] Cfr., Corte costituzionale, sentenze nn. 108 del 2011, 148, 161 e 217 del 2012.
[36] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 155 del 2011.
[37] Così, cfr., E. Gianfrancesco, Undici anni dopo: le Regioni, la Corte, la crisi, in N. Viceconte (a cura di), La giustizia costituzionale e il “nuovo” regionalismo – Volume I, Atti del seminario di studi, Roma, 29 maggio 2012, Milano, 2013, 130 e 131.
[38] Di questo avviso è D. Immordino, L’autonomia finanziaria, in R. Bin–G. Falcon (a cura di), Diritto regionale, Bologna, 2012, 286 e 287.
[39] Cfr., Corte costituzionale, sentenze nn. 417 del 2005 e 237 del 2009.
[40] Vincoli contemplati dai commi 9, 10, 11 dell’art. 1 del decreto-legge n. 168 del 2004, sottoposto al giudizio della Corte.
[41] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 417 del 2005, Punto n. 6.3. del Considerato in diritto. Più specificamente, “secondo tale giurisprudenza, il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio (ancorché si traducano, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti), ma solo, con «disciplina di principio», «per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari» (sentenza n. 36 del 2004; v. anche le sentenze n. 376 del 2003 e nn. 4 e 390 del 2004)”.
[42] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 417 del 2005, Punto n. 6.3. del Considerato in diritto.
[43] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 417 del 2005, Punto n. 6.3. del Considerato in diritto. Nella specie, le disposizioni censurate non fissavano limiti generali al disavanzo o alla spesa corrente, ma stabilivano “limiti alle spese per studi e incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all’amministrazione, alle spese per missioni all’estero, rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni, nonché alle spese per l’acquisto di beni e servizi; vincoli che, riguardando singole voci di spesa, non costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ma comportano una inammissibile ingerenza nell’autonomia degli enti quanto alla gestione della spesa”.
[44] In argomento, cfr., D. Immordino, L’autonomia finanziaria, in R. Bin, G. Falcon (a cura di), Diritto regionale, Bologna, 2012, 282.
[45] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 417 del 2005, Punto n. 5.3. del Considerato in diritto. A tale finalità dell’azione di coordinamento finanziario consegue che “a livello centrale si possano collocare non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia, ma altresì la determinazione di norme puntuali, quali quelle relative alla disciplina degli obblighi di invio di informazioni sulla situazione finanziaria dalle regioni e dagli enti locali alla Corte dei conti”. La fissazione di tali norme da parte del legislatore statale sarebbe infatti diretta a realizzare in concreto “la finalità del coordinamento finanziario – che per sua natura eccede le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali – (v. sentenze n. 376 del 2003 e n. 35 del 2005) e, proprio perché viene incontro alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di rispetto del patto di stabilità interno, è idonea a realizzare l’ulteriore finalità del buon andamento delle pubbliche amministrazioni (sentenza n. 64 del 2005)”.
[46] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 139 del 2012, Punto n. 6.1. del Considerato in diritto.
[47] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 139 del 2012, Punto n. 6.1. del Considerato in diritto.
[48] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 139 del 2012, Punto n. 6.1. del Considerato in diritto, possibilità che verrebbe del resto “espressamente prevista dal comma 20 dell’art. 6, che precisa che le disposizioni di tale articolo non si applicano in via diretta alle regioni, alle province autonome e agli enti del Servizio sanitario nazionale, per i quali costituiscono disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica”.
[49] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 139 del 2012, Punto n. 6.1. del Considerato in diritto.
[50] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 139 del 2012, Punto n. 6.2. del Considerato in diritto.
[51] Nello specifico, infatti, la disciplina contestata, dettando disposizioni che attengono all’organizzazione e al personale, lederebbe “la potestà legislativa esclusiva delle Regioni in materia di ordinamento degli uffici e degli enti regionali e locali e di statuto giuridico ed economico del personale”; cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 139 del 2012, Punto n. 6.2. del Considerato in diritto.
[52] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 139 del 2012, Punto n. 6.2. del Considerato in diritto.
[53] In particolare, il comma 20, quarto periodo, dell’art. 6, prevede che “modalità, tempi e criteri per l’attuazione del presente comma” e, in particolare, per l’attuazione degli incentivi statali a favore delle Regioni che abbiano applicato volontariamente le riduzioni di spesa previste dal medesimo art. 6, sono stabiliti “con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-Regioni”. Le ricorrenti giudicano tale norma illegittima in quanto prevederebbe un atto sostanzialmente regolamentare in materia di legislazione concorrente, oltre a denunciare la violazione del principio di leale collaborazione, “in quanto, qualora il decreto ministeriale non avesse natura regolamentare, il legislatore statale avrebbe dovuto disporre l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, in luogo del parere”. Tuttavia, la Corte rileva al riguardo che “in primo luogo, si deve escludere che il decreto ministeriale previsto dalla disposizione impugnata abbia natura regolamentare. Esso, infatti, dovendo disciplinare l’erogazione degli incentivi statali, non comporta la produzione di norme generali ed astratte, con cui si disciplinino i rapporti giuridici, conformi alla previsione normativa, che possano sorgere nel corso del tempo, limitandosi, invece, a esprimere una scelta di carattere essenzialmente tecnico (sentenza n. 278 del 2010)”, cosicché, “la censura dedotta in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost. va, perciò, respinta”; cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 139 del 2012, Punto n. 8 del Considerato in diritto. Tuttavia, anche a voler prescindere dalle contestazioni regionali per cui mediante il ricorso agli atti non regolamentari si potrebbe aggirare il divieto di atti regolamentari statali in materia di competenza concorrente, si evidenzia che l’atto contestato non si limita a disciplinare l’erogazione degli incentivi statali, ma che le modalità, i tempi e i criteri per l’attuazione di tale disciplina potrebbero, con tutta evidenza, riguardare proprio scelte organizzative che dovrebbero essere rimesse all’autonomia regionale.
[54] La definizione è di S. Mangiameli, Le Regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, Milano, 2013, al quale si rinvia per una più compiuta disamina di quella legislazione e dei riflessi prodotti sugli assetti competenziali regionali. Interessanti spunti, soprattutto con riguardo al rapporto Regioni enti locali e alla regionalizzazione del Patto di stabilità, si rinvengono inoltre in S. Mangiameli, (a cura di), Le Autonomie della Repubblica: la realizzazione concreta, Atti del Seminario svoltosi a Roma l’11 giugno 2012, Milano, 2013.
[55] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 193 del 2012, Punto n. 4.2. del Considerato in diritto.
[56] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 193 del 2012, Punto n. 4.2. del Considerato in diritto.
[57] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punto n. 9.2. del Considerato in diritto.
[58] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punto n. 4 del Considerato in diritto. La relativa questione veniva sollevata dalla Regione Liguria, che impugnava i commi 1 e 2 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui si riferivano alle Regioni a statuto ordinario.
[59] “Si tratta infatti di un contenimento complessivo della spesa corrente, avente carattere transitorio (le norme impugnate riguardano il triennio 2011-2013), anche se l’art. 20, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, ha esteso «anche agli anni 2014 e successivi» le misure previste dalle norme censurate nel presente giudizio, che devono tuttavia essere scrutinate nel loro specifico contenuto prescrittivo, a prescindere quindi da ogni valutazione sulla legittimità costituzionale della norma di proroga” e poiché “le norme impugnate non prevedono, per altro verso, strumenti o modalità per la concreta realizzazione degli obiettivi di riduzione di spesa”; così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punto n. 4.1. del Considerato in diritto.
[60] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punto n. 5.1. del Considerato in diritto.
[61] Identiche considerazioni sono servite alla Corte per giustificare la norma che poneva il divieto di procedere ad assunzioni di qualsiasi tipo per gli enti nei quali l’incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 40 per cento (oggi elevato al 50 per cento) delle spese correnti e la norma che limitava la possibilità di assunzioni per i restanti enti, che obbedisce alla medesima ratio di contenimento della spesa pubblica per il personale; così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punto n. 6.2. del Considerato in diritto.
[62] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punti nn. 7 e 7.1. del Considerato in diritto. Così è per la disciplina che prevede la revoca di diritto dei conferimenti di incarichi dirigenziali a personale esterno all’amministrazione regionale e dei contratti di lavoro a tempo determinato, di consulenza, di collaborazione coordinata e continuativa ed assimilati, nonché dei contratti di cui all’art. 76, comma 4, secondo periodo, del d.l. n. 112 del 2008, deliberati, stipulati o prorogati dalla Regione nonché da enti, agenzie, aziende, società e consorzi, anche interregionali, comunque dipendenti o partecipati in forma maggioritaria dalla stessa. A ciò aggiungasi che il titolare dell’incarico o del contratto non ha diritto ad alcun indennizzo in relazione alle prestazioni non ancora effettuate.
[63] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punti nn. 9 e 9.2. del Considerato in diritto.
[64] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punto n. 3 del Considerato in diritto.
[65] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2012, Punto n. 3 del Considerato in diritto.
[66] Di questo avviso è A. Brancasi, Il coordinamento finanziario in attesa della legge sul concorso delle autonomie “alla sostenibilità del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni”, in Forum dei Quaderni Costituzionali, 2012.
[67] Cfr., A. Brancasi, Il coordinamento finanziario in attesa della legge sul concorso delle autonomie “alla sostenibilità del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni”, in Forum dei Quaderni Costituzionali, 2012.
[68] La riforma ha infatti preteso costituzionalizzare i vincoli europei, riferiti all’intero comparto delle amministrazioni pubbliche (composto dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali, oltre che dagli altri enti pubblici non territoriali); ma, per fare ciò, ha dovuto riferirli ai singoli enti, per cui, siccome il debito pubblico è essenzialmente dello Stato e siccome è lo Stato che deve sostenerne gli elevati oneri e deve farsi carico delle politiche di rientro del suo ingente ammontare, può ben accadere che i vincoli europei siano rispettati per merito della compensazione (resa possibile dal Patto di stabilità interno) tra settori in disavanzo e settori in avanzo del comparto, ma ciò nonostante non sia possibile allo Stato rispettare le nuove regole costituzionali. Così, cfr., A. Brancasi, Il coordinamento finanziario in attesa della legge sul concorso delle autonomie “alla sostenibilità del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni”, in Forum dei Quaderni Costituzionali, 2012.
[69] Cfr., A. Brancasi, Il coordinamento finanziario in attesa della legge sul concorso delle autonomie “alla sostenibilità del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni”, in Forum dei Quaderni Costituzionali, 2012, che sottolinea come non resti che augurarsi che a ciò provveda “la legge che la richiamata riforma costituzionale prevede sia approvata entro febbraio 2013 a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera; legge che dovrebbe stabilire, appunto, le modalità con cui Regioni ed EE.LL “concorrono alla sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni” [comma 2 lett. c) dell’art 5]”.
[70] Ne deriva che molti dei limiti, effettivi o potenziali, nei confronti dell’autonomia che paiono derivare dalla recente riforma costituzionale sarebbero invero già riconducibili a quell’insieme delle misure “riconducibili al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, così come emergente dalla legislazione venutasi a stratificare dopo la riforma del 2001 e così come sagomata “dall’attività ermeneutica della Corte costituzionale”. Cosicché pare esserci sicuramente continuità tra i due disegni costituzionali (del 2001 e del 2012) nell’attività di coordinamento, ma non anche per quanto concerne il versante dell’autonomia; continuità che, a ben riflettere, deve rinvenirsi tra il nuovo impianto e quello precedente, così come concretizzato dalla giurisprudenza costituzionale; di questo avviso è C. Tucciarelli, Pareggio di bilancio e federalismo fiscale, in Quaderni costituzionali, 4/2012.
[71] Cfr., a mero titolo esemplificativo, Corte costituzionale, sentenze nn. 186, 221, 229, 230 e 236 del 2013; per quanto concerne i meccanismo sanzionatori di cui alla riforma sul “federalismo fiscale”, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 219 del 2013.
[72] In questo senso, cfr., M. Luciani, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in Astrid, Relazione conclusiva al 58° Convegno di studi amministrativi Dalla crisi economica al pareggio di bilancio: prospettive, percorsi e responsabilità, Varenna, Villa Monastero, 20-22 settembre 2012; meno critico pare invece N. Lupo, Costituzione europea, pareggio di bilancio ed equità tra le generazioni. Notazioni sparse, in Amministrazione in cammino; così come G. Rivosecchi, Il c.d. pareggio di bilancio tra Corte e legislatore, anche nei suoi riflessi sulle Regioni: quando la paura prevale sulla ragione, in Rivista AIC, n. 3/2012. Per quanto specificamente concerne l’incidenza della riforma e delle sue anticipazioni giurisprudenziali sulle politiche regionali, cfr., N. Lupo – G. Rivosecchi, Quando l’equilibrio di bilancio prevale sulle politiche sanitarie regionali, in Forum di Quaderni Costituzionali e Le Regioni, 2012.
[73] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 237 del 2009, Punto n. 23.5. del Considerato in diritto.
[74] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 237 del 2009, Punto n. 23.7. del Considerato in diritto.
[75] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 237 del 2009, Punto n. 23.8. del Considerato in diritto.
[76] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 237 del 2009, Punti nn. 26.2. e 26.3. del Considerato in diritto. In particolare, la disciplina contestata prescriveva che “in caso di mancata attuazione delle disposizioni di cui al comma 17 entro il termine ivi previsto, si producono i seguenti effetti:
a) cessano di appartenere alle comunità montane i comuni capoluogo di provincia, i comuni costieri e quelli con popolazione superiore a 20.000 abitanti;
b) sono soppresse le comunità montane nelle quali più della metà dei comuni non sono situati per almeno l’80 per cento della loro superficie al di sopra di 500 metri di altitudine sopra il livello del mare ovvero non sono comuni situati per almeno il 50 per cento della loro superficie al di sopra di 500 metri di altitudine sul livello del mare e nei quali il dislivello tra la quota altimetrica inferiore e la superiore non è minore di 500 metri; nelle regioni alpine il limite minimo di altitudine e il dislivello della quota altimetrica, di cui al periodo precedente, sono di 600 metri;
c) sono altresì soppresse le comunità montane che, anche in conseguenza di quanto disposto nella lettera a), risultano costituite da meno di cinque comuni, fatti salvi i casi in cui per la conformazione e le caratteristiche del territorio non sia possibile procedere alla costituzione delle stesse con almeno cinque comuni, fermi restando gli obiettivi di risparmio;
d) nelle rimanenti comunità montane, gli organi consiliari sono composti in modo da garantire la presenza delle minoranze, fermo restando che ciascun comune non può indicare più di un membro. A tal fine la base elettiva è costituita dall’assemblea di tutti i consiglieri dei comuni, che elegge i componenti dell’organo consiliare con voto limitato. Gli organi esecutivi sono composti al massimo da un terzo dei componenti l’organo consiliare”.
[77] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 237 del 2009, Punto n. 24.2. del Considerato in diritto.
[78] Vengono infatti indicati i seguenti indicatori: “a) riduzione del numero complessivo delle comunità montane, sulla base di indicatori fisico-geografici, demografici e socioeconomici e in particolare: della dimensione territoriale, della dimensione demografica, dell’indice di vecchiaia, del reddito medio pro capite, dell’acclività dei terreni, dell’altimetria del territorio comunale con riferimento all’arco alpino e alla dorsale appenninica, del livello dei servizi, della distanza dal capoluogo di provincia e delle attività produttive extra-agricole;
b) riduzione del numero dei componenti degli organi rappresentativi delle comunità montane;
c) riduzione delle indennità spettanti ai componenti degli organi delle comunità montane, (…)”; cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 237 del 2009, Punto n. 24.1. del Considerato in diritto.
[79] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 198 del 2012, Punto n. 6.1. del Considerato in diritto.
[80] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 198 del 2012, Punto n. 6.1. del Considerato in diritto.
[81] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 2 del 2010, Punto n. 4 del Considerato in diritto.
[82] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 2 del 2010, Punto n. 4 del Considerato in diritto.
[83] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 2 del 2010, Punto n. 6.1. del Considerato in diritto.
[84] Tale comma dispone che “Con legge dello Stato sono definite le sanzioni da applicare agli enti di cui al comma 1 nel caso di mancato conseguimento dell’equilibrio gestionale sino al ripristino delle condizioni di equilibrio di cui al medesimo comma 1, lettere a) e b), da promuovere anche attraverso la previsione di specifici piani di rientro”. Sul punto si veda anche M. Belletti, I percorsi evolutivi del coordinamento della finanza pubblica dall’autonomia di spesa all’equilibrio di bilancio. Il finanziamento dei “livelli essenziali”, in R. Nania (a cura di), Atti del Convegno Attuazione e sostenibilità del diritto alla salute, svoltosi presso “La Sapienza”, Roma, 27 febbraio 2013, in corso di pubblicazione.
[85] A tenore del quale, gli enti territoriali “possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di ammortamento (…)”.
[86] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 219 del 2013, Punto n. 14 del Considerato in diritto. Stando al 1° comma del citato art. 2, perché si verifichi l’ipotesi di “grave dissesto finanziario” in materia sanitaria devono congiuntamente verificarsi i seguenti tre presupposti: “a) in una Regione tenuta a presentare il piano di rientro (…), Il Presidente della Giunta, già nominato commissario ad acta dal Consiglio dei ministri, non adempie all’obbligo di redazione del piano, o agli obblighi da esso derivanti, anche sotto l’aspetto temporale; b) si riscontra in sede di verifica annuale il mancato raggiungimento degli obiettivi di piano e il conseguente perdurare, o l’aggravamento, del disavanzo; c) si adotta per due esercizi consecutivi, stante l’omesso raggiungimento degli obiettivi del piano, un ulteriore incremento dell’aliquota dell’addizionale regionale IRPEF al livello massimo consentito”.
[87] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 100 del 2010, Punto n. 3.1. del Considerato in diritto.
[88] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 100 del 2010, Punto n. 3.2.1. del Considerato in diritto.
[89] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 100 del 2010, Punto n. 3.2.1. del Considerato in diritto.
[90] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 91 del 2012, Punto n. 1.1.1. del Considerato in diritto.
[91] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 91 del 2012, Punto n. 1.1.1. del Considerato in diritto.
[92] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 91 del 2012, Punto n. 1.1.1. del Considerato in diritto.
[93] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 79 del 2013, Punto n. 4.1. del Considerato in diritto; cfr., inoltre, le sentenze nn. 28 del 2013 e 78 del 2011.
[94] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 79 del 2013, Punto n. 4.1. del Considerato in diritto.
[95] Di questo avviso è la Corte costituzionale nella recente e importante pronuncia n. 219 del 2013, Punto n. 14.10. del Considerato in diritto, sul sistema sanzionatorio di cui al c.d. “federalismo fiscale”, che non si può diffusamente trattare in questa sede, perché, per la sua complessità, merita ben più ampia e compiuta attenzione.
[96] A tale riguardo basterà citare alcuni casi emblematici, quale quello di cui alla sentenza n. 296 del 2012 sulle certificazioni ISEE e sulla valutazione della situazione patrimoniale anche dei prossimi congiunti di disabili gravi e di ultrasessantacinquenni non autosufficienti per l’accoglienza in strutture socio-sanitarie, oppure, quello di cui alle sentenze nn. 341 del 2009 e 187 del 2012, sulla compartecipazione ai costi del sistema sanitario mediante la reintroduzione dei ticket. In argomento sia consentito rinviare a M. Belletti, I percorsi evolutivi del coordinamento della finanza pubblica dall’autonomia di spesa all’equilibrio di bilancio. Il finanziamento dei “livelli essenziali”, in R. Nania (a cura di), Atti del Convegno Attuazione e sostenibilità del diritto alla salute, svoltosi presso “La Sapienza”, Roma, 27 febbraio 2013, in corso di pubblicazione.
[97] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 79 del 2013, Punto n. 4.4.1. del Considerato in diritto.
[98] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 282 del 2002, Punto n. 3 del Considerato in diritto.
[99] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 79 del 2013, Punto n. 4.4.1. del Considerato in diritto.
[100] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 79 del 2013, Punto n. 4.4.1. del Considerato in diritto.
[101] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 79 del 2013, Punto n. 4.4.1. del Considerato in diritto.
[102] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 79 del 2013, Punti nn. 4.4.1. e 4.4.2. del Considerato in diritto. Conclusivamente, la Corte rileva che non è dunque “l’istituzione in sé dei registri tumori, del centro di coordinamento e del comitato tecnico-scientifico, che merita di essere contestata”, ma la relativa spesa prevista, poiché, lo stesso Commissario ad acta “con delibera del 14 settembre 2012 ha ritenuto di dover adottare un’analoga iniziativa, utilizzando però le strutture amministrative esistenti ed il personale in servizio”, avendo avuto inoltre cura “di indicare l’esistenza di una pregressa e vigente copertura finanziaria per il funzionamento degli uffici in questione”, precisando che non sarebbero stati previsti oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale. Ne deriva che, quanto meno, la finalità di cura e prevenzione dei tumori resta ferma, venendo perseguita nel rispetto di esigenze di bilancio. Ciò che invece non risulta salvaguardata è proprio l’autonomia organizzativa e di spesa regionale.
[103] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2012, Punto n. 4.1. del Considerato in diritto.
[104] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2012, Punto n. 5.4. del Considerato in diritto.
[105] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2012, Punto n. 4.1. del Considerato in diritto.
[106] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2012, Punto n. 4.2. del Considerato in diritto.
[107] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2012, Punto n. 5.3. del Considerato in diritto.
[108] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2012, Punto n. 5.3. del Considerato in diritto. La Corte rileva al riguardo che “È ispirata, invero, ai principi di uguaglianza e di proporzionalità una legge che tenga conto della circostanza che i contributi versati in Svizzera siano quattro volte inferiori a quelli versati in Italia e operi, quindi, una riparametrazione diretta a rendere i contributi proporzionati alle prestazioni, a livellare i trattamenti”.
[109] Cfr., a mero titolo esemplificativo, la nota pronuncia della Corte costituzionale n. 115 del 2012, ove viene dalla Consulta sanzionata di incostituzionalità una mancata copertura di bilancio solo eventuale e ipotetica, a commento della quale, cfr., N. Lupo – G. Rivosecchi, Quando l’equilibrio di bilancio prevale sulle politiche sanitarie regionali, in Forum di Quaderni Costituzionali e Le Regioni, 2012.
[110] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2012, Punto n. 5.3. del Considerato in diritto.
[111] Infatti, la esclusione della violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 è motivata dai giudici europei rilevando che la disciplina contestata “persegue un interesse pubblico, quello di fornire un metodo di calcolo della pensione armonizzato, al fine di garantire un sistema previdenziale sostenibile e bilanciato, evitando che i ricorrenti possano beneficiare di vantaggi ingiustificati, e che il sacrificio subito da costoro non è tale da pregiudicarne i diritti pensionistici nella loro essenza, avendo essi perso solo un ammontare parziale della pensione”. Ne deriva, ad avviso della Corte costituzionale che “una declaratoria che non fosse di infondatezza della questione, e che espungesse, quindi, la norma censurata dall’ordinamento, inciderebbe necessariamente sul regime pensionistico in esame, così contraddicendo non solo il sistema nazionale di valori nella loro interazione, ma anche la sostanza della decisione della Corte EDU di cui si tratta, che ha negato accoglimento alla domanda dei ricorrenti di riconoscimento del criterio di calcolo della contribuzione ad essi più favorevole”; cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2012, Punto n. 5.4. del Considerato in diritto.
[112] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 200 del 2012, Punto n. 7.4. del Considerato in diritto.
[113] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 41 del 2013, Punto n. 5 del Considerato in diritto.
[114] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 8 del 2013, Punto n. 5 del Considerato in diritto.
[115] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 8 del 2013, Punto n. 5.2. del Considerato in diritto.
[116] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 8 del 2013, Punto n. 5.2. del Considerato in diritto.
[117] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 8 del 2013, Punto n. 5.2. del Considerato in diritto.
[118] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 36 del 2004, Punto n. 6 del Considerato in diritto.
[119] In questo senso era già la stessa sentenza n. 36 del 2004, ove era la stessa Corte costituzionale a rilevare che “il contenimento del tasso di crescita della spesa corrente rispetto agli anni precedenti costituisce pur sempre uno degli strumenti principali per la realizzazione degli obiettivi di riequilibrio finanziario, ed infatti esso è indicato fin dall’inizio fra le azioni attraverso le quali deve perseguirsi la riduzione del disavanzo annuo”; Punto n. 6 del Considerato in diritto.
[120] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 3.2. del Considerato in diritto.
[121] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 3.2. del Considerato in diritto.
[122] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 3.2. del Considerato in diritto. Nello stesso senso era la sentenza n. 8 del 2013, sopra citata.
[123] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 3.2. del Considerato in diritto. Analoghe considerazioni valgono per la previsione di cui al comma 4, a tenore del quale, “Fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi europei, i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su risorse pubbliche statali ai sensi dell’art. 119, comma quinto, della Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui comunque l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall’Autorità stessa”. Anche in tal caso il legislatore statale ha “fatto ricorso ai principi propri della «tecnica premiale», la quale, appunto, (…), non comporta l’assorbimento delle competenze regionali. Gli enti territoriali, infatti, conservano le loro competenze che esercitano in conformità ai principi di liberalizzazione dettati dallo Stato, il quale, nell’erogare i finanziamenti di sua competenza, privilegia le amministrazioni più virtuose”; Punto n. 4.2.1. del Considerato in diritto.
[124] Così, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 5.3.1. del Considerato in diritto.
[125] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 5.3.1. del Considerato in diritto. Precisa la Corte che nella sentenza, infatti, si afferma chiaramente che “secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto (capitale totalmente pubblico; controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo”.
[126] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 5.3.1. del Considerato in diritto.
[127] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 5.3.1. del Considerato in diritto. La Corte rileva dunque che “il punto di partenza della ricorrente (cioè che con tale disposizione si è prevista la sottoposizione delle società in house al patto di stabilità interno) è esatto”, tuttavia, sarebbero “errate le conclusioni”. Il che dimostrerebbe che la Corte “ha ben differenziato tra l’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno, che era fuori dal giudizio, e gli strumenti per renderlo normativamente o amministrativamente più facilmente gestibile che costituivano, invece, l’oggetto della pronuncia”.
[128] Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 2013, Punto n. 5.3.1. del Considerato in diritto. Mentre, infatti, precisa la Corte, “nel comma 10 dell’art. 23-bis si precisava che il regolamento avrebbe avuto come oggetto quello di «prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari così detti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno», con possibilità, quindi, di dettare regole che disciplinassero anche nel merito questo assoggettamento o che, in ogni caso, potessero, nel limite del rispetto di quanto contenuto nella legge che lo prevedeva, determinare innovazioni normative, nella disposizione legislativa cui rinvia il censurato comma 5 dell’art. 3-bis è previsto che il decreto ministeriale definisca esclusivamente le «modalità e la modulistica» dell’assoggettamento al patto di stabilità”.

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