Intervento alla tavola rotonda su “La riforma della riforma”, svoltasi nel quadro del Convegno-ISSiRFA dal titolo “Regionalismo in bilico, tra attuazione e riforma della riforma” (Camera dei Deputati, Sala del Cenacolo, 30.6.2004)

SOMMARIO:
1. La riforma del Senato
1.1. Un Senato non "federale"
1.2. … dotato di funzioni non "federali"
1.3. … ma trattato come un Senato "federale"
1.4. L’alternativa possibile: la “Bicameralina”
2. La modifica dell’art. 117, comma 4
2.1. L’ esclusività della competenza da esso contemplata
2.2. Il suo oggetto
3. L’interesse nazionale
4. Considerazioni conclusive.


1. La riforma del Senato

Affrontando il tema della riforma della riforma, mi soffermerò sui tre punti – a mio modo di vedere – cruciali: il Senato “federale”, la nuova disciplina delle competenze legislative e l’interesse nazionale. Svolgerò, poi, alcune riflessioni conclusive.
Quanto al Senato, premetto che resto convinto della necessità di una Camera rappresentativa delle Regioni. La quale dovrebbe dotare di una solida sponda istituzionale la cooperazione tra centro e periferia. Mantengo, tuttavia, un forte scetticismo sulla sua concreta realizzabilità. Se non altro, per il noto paradosso, secondo cui gli organi chiamati a decidere le riforme sono in genere restii a riformare radicalmente se stessi.
Lo scetticismo è confermato dal testo di cui oggi ci occupiamo. Del quale la disciplina del Senato da esso qualificato “federale” costituisce una delle pagine peggiori.
Le ragioni di un giudizio così severo possono essere sintetizzate nel modo che segue:
• il Senato previsto dal progetto non è federale
• sul piano della forma di governo è trattato come se lo fosse
• le funzioni assegnategli
a) per lo più, non sono quelle di un Senato federale,
b) ma, a causa del trattamento ad esso riservato, rischiano di avere un effetto dirompente sulla funzionalità del sistema.

1.1. Un Senato non "federale"
Che il Senato contemplato dal progetto non sia “federale” – non corrisponda, cioè, agli standard normalmente in uso nei sistemi di tipo federale – sembra difficilmente contestabile.
Due sono gli elementi al riguardo decisivi.
Anzitutto, il notevole squilibrio tra le rappresentanze regionali. Per rendersene conto, è sufficiente comparare la soluzione da esso adottata a quelle che si riscontrano negli ordinamenti autenticamente federali. In base al progetto, l’escursione tra la rappresentanza minima e la rappresentanza massima è da uno a venti (a tali valori corrispondendo il numero di senatori, rispettivamente, assegnati alla Valle d’Aosta e alla Lombardia). Negli ordinamenti federali, invece, la rappresentanza delle istituzioni sub-statali, o è paritaria (prescindendo del tutto della consistenza demografica di ciascuna), o è differenziata in termini molto più contenuti. Basti pensare che in Germania l’escursione è da tre a sei, mentre in Austria è da tre a dodici.
L’altro elemento non agevolmente conciliabile con la pretesa natura federale dell’organo è rappresentato dalla tecnica d’investitura dei suoi titolari: l’elezione diretta. E, cioè, la stessa tecnica usata per le camere politiche.
È vero che, nel panorama comparato, non mancano casi di elezione diretta dei membri della Camera rappresentativa delle entità federate. Ciò vale – ad esempio – per il Senato USA e per il Consiglio degli Stati svizzero. È, tuttavia, da dire che, in tali esperienze, la tecnica predetta trova un robusto contrappeso nella rappresentanza paritaria garantita a ciascuna entità sub-statale. È, infatti, noto che, tanto nel Senato nordamericano quanto nel Consiglio degli Stati svizzero, la rappresentanza assicurata ad ogni entità è di due seggi. La sola eccezione è costituita dai sei Cantoni svizzeri meno popolosi (prima della riforma del 1999, significativamente denominati “mezzi Cantoni”), cui è assicurata una rappresentanza dimezzata.
I due elementi appena ricordati – squilibrio rappresentativo ed elezione diretta – non sono in alcun modo compensati dai correttivi introdotti dalla riforma.
Ciò vale anzitutto per il curriculum. Mi riferisco all’inclusione, tra i requisiti di eleggibilità, della titolarità passata o attuale di una carica elettiva in un qualunque livello territoriale di governo, con elezione nel territorio della Regione (art. 58). Tale requisito non assicura un rapporto tra l’eletto e l’istituzione regionale. Esso, inoltre, per effetto di un emendamento proposto dalla commissione e approvato dall’aula, è venuto ad assumere un carattere assolutamente simbolico: risultando, ormai sostituibile dalla residenza nella Regione, alla data dell’indizione delle elezioni.
Analogo è il discorso per il secondo correttivo, la cui invenzione risale al c.d. accordo sul federalismo della primavera del 1998. Mi riferisco alla contestualità dell’elezione dei senatori e dei consiglieri regionali.
Personalmente resto dell’idea che un meccanismo del genere non significhi molto: venendo a stabilire una connessione di tipo cronologico e non istituzionale.
È, peraltro, da rilevare che, nella versione accolta dal progetto, la stessa connessione cronologica risulta molto debole. Per la ragione che, dopo l’eventuale scioglimento anticipato del Consiglio regionale, esso non prevede la decadenza dei senatori eletti nella Regione. Con il che il, pur tenue, collegamento rappresentato dalla contestualità viene completamente a recidersi.
Ma non è tutto. Infatti – per effetto di un emendamento approvato dall’aula – si è previsto che, nel caso di scioglimento anticipato del Consiglio regionale, sia ridotta la legislatura del Consiglio successivamente eletto, per farla coincidere con la residua legislatura del Senato (art. 60, comma 3). Una previsione, che – come sottolineiamo in molti – lungi dal federalizzare il Senato, nazionalizza i Consigli regionali.


1.2. … dotato di funzioni non "federali"
Ma le anomalie con si fermano qui. Infatti, a quanto ho avuto occasione di accennare in apertura, al Senato (detto) federale vengono prevalentemente assegnate funzioni più adatte ad una Camera politica che ad un’istituzione rappresentativa delle entità sub-statali.
Mi riferisco, in particolare, alla deliberazione delle leggi-cornice nelle materie di competenza concorrente. Il progetto, infatti, con soluzione inedita nel panorama comparato, prevede la categoria delle leggi monocamerali del Senato “federale” e riserva a tali atti la materia dei principi fondamentali negli ambiti elencati dall’art. 117, comma 3.
Le incongruenze della soluzione sono evidenti.
Anzitutto, non può non segnalarsi la bizzarria di leggi statali adottate, in via esclusiva, dalla Camera (che si vuole) rappresentativa delle entità sub-statali: una soluzione – come si è detto – eccentrica (i Senati “federali” non sostituendo le Camere politiche nell’esercizio della funzione legislativa, ma, al massimo, codecidendo con esse).
È inoltre altrettanto singolare che alla legge monocamerale del Senato sia affidata proprio la determinazione dei principi fondamentali che devono guidare l’esercizio della competenza concorrente da parte delle Regioni. Non deve, infatti, dimenticarsi che la funzione dei principi predetti è quella di far valere le ragioni dell’unità: di garantire, cioè, che, nelle materie assoggettate a tale competenza, le legislazioni regionali operino all’interno di un quadro di riferimento comune. Ed è evidente che dalla determinazione di un tale quadro di riferimento non può essere tagliata fuori la Camera politica: cui istituzionalmente compete la rappresentanza dell’intera collettività nazionale.

1.3. … ma trattato come un Senato "federale"
A questo punto, è il caso di avvertire che le due anomalie appena passate in rassegna non si compensano. Non può, in particolare, sostenersi che il carattere non autenticamente federale del Senato renda accettabile l’affidamento ad esso di funzioni che dovrebbero spettare alla Camera politica (o anche alla Camera politica).
A quanto si è anticipato, infatti, il Senato, pur non essendo federale, per certi aspetti, è trattato dal progetto come se lo fosse: essendo sganciato dal rapporto fiduciario e sottratto allo scioglimento anticipato.
Di qui, un cortocircuito dalla portata dirompente.
È, infatti, palese che, se in tale organo si afferma una maggioranza diversa dalla maggioranza di Governo, la sua competenza esclusiva in materia di leggi-cornice rischia di compromettere irreparabilmente la politica governativa: tra le materie di competenza concorrente figurando – come ha posto recentemente in luce Stelio Mangiameli – materie di rilevanza strategica ai fini dell’indirizzo politico del Governo (si pensi – per fare pochissimi esempi – alla tutela della salute, all’ordinamento della comunicazione, al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario).
È vero che di tale difficoltà gli artefici della riforma si sono dati, in qualche modo, carico. Ciò è confermato dalla previsione – aggiunta dall’aula – che, su iniziativa del Governo, le modifiche al testo senatoriale proposte dalla Camera dei Deputati in sede di richiesta di riesame (ai sensi dell’art. 70, comma 2) siano sottoposte alla procedura dettata dall’art. 70, comma 3, per l’ipotesi che sulle leggi bicamerali non si raggiunga l’accordo tra i due rami del Parlamento. In conseguenza di ciò, su esse è chiamata a pronunziarsi la Commissione mista paritetica contemplata da quest’ultima disposizione, sul testo proposto dalla quale le due Assemblee sono tenute ad esprimersi senza possibilità di emendamento.
Si tratta, però, di un correttivo inadeguato. Nulla, infatti, garantisce che il conflitto politico di cui il disaccordo tra le Camere sia espressione trovi composizione nella Commissione paritetica. Come nulla, del pari, garantisce che l’accordo nella stessa eventualmente raggiunto venga confermato dal plenum delle Assemblee, chiamato a dire l’ultima parola.

1.4. L’alternativa possibile: la “Bicameralina”
Se si dà il giusto peso a quanto precede – e se si considera che tutti i pregressi tentativi di riforma in senso federale della seconda camera si sono conclusi in un fallimento – c’è seriamente da chiedersi se sia ragionevole perseverare nel disegno di federalizzare il Senato, o se non sia, invece, preferibile rinunziare ad esso, puntando sulle risorse della “Bicameralina” di cui all’art. 11 l. cost. 3/2001. Per l’attuazione della quale – tra l’altro – non c’è bisogno di scomodare il procedimento di revisione della Costituzione.
Personalmente – e ho avuto occasione di scriverlo – sono convinto che la Bicameralina non sia il massimo. È, però, probabilmente il massimo possibile. Senza contare che, se fosse questa la soluzione coltivata, il legislatore costituzionale potrebbe migliorare l’attuale disciplina, potenziando il ruolo dell’organo, mediante il riconoscimento ad esso – in certi casi, almeno – se non di un potere di codecisione, di una maggiore capacità di condizionamento del contenuto della decisione finale (prevedendo una maggioranza qualificata per lo scostamento dai pareri da esso resi). Sarebbe poi possibile estenderne l’intervento ad ambiti ulteriori, rispetto a quelli attualmente previsti. In particolare, per ridurre la carica eteronoma dei poteri statali suscettibili di incidere sul riparto delle competenze, potrebbe prevedersene il coinvolgimento, sia nell’esercizio delle competenze finalistiche dello Stato, sia – nelle ipotesi in cui venisse in considerazione nel campo della legislazione (e con conseguente modifica dell’infelice disciplina vigente) – in quello del potere sostitutivo. Un altro ambito nel quale l’organo potrebbe dare un prezioso contributo è quello dell’allocazione delle funzioni amministrative a livello statale. La sua partecipazione potrebbe dotare di un supporto istituzionale la procedimentalizzazione del principio di sussidiarietà: assolvendo ad un ruolo analogo a quello che parte della dottrina (Caretti) auspica per i Consigli delle autonomie locali, quando l’allocazione delle funzioni predette avvenga ad opera della legge regionale.

2. La modifica dell’art. 117, comma 4
Passando ad esaminare le modifiche che il progetto intende apportare alla disciplina del riparto delle competenze legislative, può, molto sinteticamente, osservarsi che esse si sostanziano in due novità. Il progetto, in particolare, riformulando il quarto comma dell’art. 117:
a) sostituisce la clausola residuale con un elenco di materie di cui la clausola predetta diviene la voce finale;
b) qualifica espressamente “esclusiva” la competenza legislativa delle Regioni negli ambiti da esso contemplati.

2.1. L’ esclusività della competenza da esso contemplata
Iniziando da questo secondo punto, è da chiedersi se, per effetto della qualificazione prescelta, nei campi materiali presi in considerazione dal nuovo art. 117, comma 4, sia inibita l’incidenza delle competenze finalistiche dello Stato. Se – ad esempio – alla disciplina dettata dal legislatore centrale in funzione di tutela della concorrenza sarebbe preclusa la possibilità di condizionare l’esercizio delle competenze regionali in materie come l’industria ed il commercio, comprese nel campo d’azione della clausola residuale.
Al quesito non è agevole rispondere con assoluta sicurezza.
A favore dell’affermativa depone l’aggettivo usato. Qualificare “esclusiva” una competenza assolve appunto a questa funzione: ad escludere, dalle materie alla medesima assoggettate, l’incidenza di soggetti diversi da quello che ne è esclusivo titolare.
A favore della negativa potrebbe, tuttavia, invocarsi l’ambito materiale della previsione. La quale – a differenza della disposizione sul cui calco è stata costruita (l’art. 1 del d.d.l.cost. sulla devolution) – non aggiunge al vigente quarto comma dell’art. 117 un comma ulteriore, avente ad oggetto i quattro ambiti aggiuntivi che aprono l’elenco da essa contemplato, ma, riscrivendo ex novo il comma predetto, pone sotto l’ombrello dell’esclusività anche la competenza residuale.
Ebbene, se con riferimento a materie puntualmente enumerate è sostenibile che la qualificazione della competenza come esclusiva valga ad precludere l’incidenza di competenze aliene (e, in particolare, delle competenze finalistiche dello Stato), diverso potrebbe essere il discorso, quando – come nella specie – la qualificazione venga riferita anche alla competenza residuale. Per la ragione che, se le competenze finalistiche del legislatore centrale fossero destinate ad arrestarsi di fronte ad essa, finirebbero per risultare prive di un’apprezzabile ragion d’essere: le loro possibilità di incidenza risultando circoscritte ai settori di competenza concorrente. E, cioè, a settori in cui le esigenze ad esse sottostanti sono fondamentalmente soddisfatte dalle leggi-cornice.
In presenza di indicazioni così contraddittorie, il meno che si può dire è che il nuovo quarto comma sia lungi dal costituire un modello di chiarezza. Di qui, l’opportunità di specificare che le competenze “esclusive” da esso contemplate vadano esercitate “nel rispetto delle leggi adottate dallo Stato ai sensi del secondo comma” (o, più semplicemente: nel rispetto della legislazione esclusiva dello Stato).

2.2. Il suo oggetto
Quanto alla tecnica che il comma predetto usa per individuare l’oggetto della competenza legislativa da esso regolata, può preliminarmente rilevarsi che, nonostante il mantenimento della clausola residuale, la previsione di una elencazione in positivo non si risolve in una semplice ridondanza. Per la ragione che le materie scritte presentano una maggiore tenuta delle materie non scritte. Esse, da un lato, oppongono una maggiore resistenza all’incidenza delle competenze trasversali dello Stato, d’altro lato, sono assistite da una polizza assicurativa contro la dissoluzione. È, ad esempio, incontestabile che, se i lavori pubblici avessero trovato menzione in un elenco, l’ambito da essi evocato non si sarebbe dissolto, per assumere carattere accessorio rispetto ai settori, cui, di volta in volta, le singole opere accedano.
Ciò detto, è da aggiungere che l’elencazione positiva contenuta nel quarto comma pone problemi di varia natura.
Si tratta, anzitutto, di problemi di ordine interpretativo. I quali nascono dal fatto che il nuovo elenco si aggiunge ai due precedenti, senza alcun tentativo di coordinamento. Di qui, una serie di domande alle quali non è agevole rispondere. Se la riforma entrasse in vigore, ci sarebbe – ad esempio – da chiedersi come vadano coordinate la competenza concorrente relativa alla tutela della salute e la competenza regionale esclusiva in materia di assistenza ed organizzazione sanitaria. E problemi non meno complicati si porrebbero per le due nuove competenze in materie di istruzione, le quali si inserirebbero in un quadro già molto confuso, grazie alla compresenza di una potestà esclusiva statale, avente ad oggetto le “norme generali sull’istruzione” ed una competenza concorrente in materia di istruzione tout-court.
Non può, inoltre, tacersi che la nuova elencazione pone problemi anche sul terreno del merito.
Taluni problemi nascono dalle incertezze – su cui mi sono soffermato nel paragrafo precedente – circa il valore da dare alla qualificazione della relativa competenza come competenza esclusiva. Se l’esclusività fosse intesa in senso forte, potrebbe – ad esempio – revocarsi in dubbio la sopravvivenza di un servizio sanitario di carattere nazionale.
Altri problemi discendono dalle reazioni sistematiche tra le nuove e le vecchie materie. Si consideri – ad esempio – che, in presenza di una norma che riserva già alle Regioni la polizia amministrativa locale (art. 117, comma 2, lett. h), l’attribuzione alle stesse della “polizia locale” (effettuata dal nuovo quarto comma), potrebbe considerarsi riferita alla polizia di sicurezza.
È fuori discussione che scelte del genere sono riservate all’apprezzamento politico degli organi legislativi. I quali possono ovviamente scegliere di regionalizzare l’organizzazione sanitaria e parte della polizia di sicurezza (secondo quanto, peraltro, accade in ordinamenti federali). È essenziale, però, una cosa: che, nel momento della decisione, vi sia chiarezza sugli scenari che si dischiudono (o sulle incertezze che dalla decisione stessa possano derivare).

3. L’interesse nazionale
Con riferimento alla disciplina dedicata all’interesse nazionale, non mi dilungherò su quanto ho avuto occasione di dire in altra sede (in particolare, nel parere reso, su incarico dell’associazione dei costituzionalisti, alla prima Commissione del Senato). Mi limito a ricordare che lo strumento, non solo, è estremamente rozzo (incidendo sui singoli atti d’esercizio e non sulla competenza di cui sono espressione), ma è anche malamente disciplinato dal progetto: che – in una materia ad alta valenza politica – riserva il primo intervento alla Camera (detta) federale e la decisione finale ad un organo super partes, quale il Presidente della Repubblica.
Quello che può essere il caso di aggiungere è che la salvaguardia dell’unità non può essere affidata alle risorse del sindacato di merito sugli atti legislativi (che già nella pregressa esperienza italiana non ha dato buona prova), poiché richiede una strumentazione più raffinata.
Se ci si intendesse muovere in questa direzione – e qualora si ritenesse che le esigenze unitarie non siano sufficientemente salvaguardate dalle competenze finalistiche dello Stato – occorrerebbe prendere seriamente in considerazione il modello tedesco della konkurrierende Gesetzgebung, con correttivi procedimentali che valgano ad attenuarne la carica eteronoma. In tal modo – tra l’altro – potrebbe darsi finalmente un’idonea collocazione alle esigenze di unità del diritto e dell’economia, le quali oggi sono prese in considerazione nel luogo sbagliato (essendosi previsto, per soddisfarle, uno strumento tecnicamente inadeguato: l’intervento sostitutivo del Governo).

4. Considerazioni conclusive
Prima di chiudere, vorrei sottolineare la discutibilità di un argomento polemico ricorrente. Mi riferisco all’osservazione che i problemi che oggi ci troviamo ad affrontare non nascerebbero tanto dalla riforma della riforma, quanto dalla riforma che essa intende riformare: quella del 2001.
Ebbene, non contesto la parziale fondatezza della premessa. Non possono, infatti, negarsi i non pochi limiti della riforma già realizzata. La quale non ha sciolto alcuni nodi cruciali (in tema – ad esempio – di poteri sostitutivi) e, in certe parti, denuncia una notevole sciatteria (si pensi – ad esempio – alle incongruenze rilevabili negli elenchi di materie legislative). Occorre, però, evitare che questa constatazione diventi un alibi. Sarebbe veramente imperdonabile non usare l’occasione della nuova riforma per correggere le parti della disciplina vigente bisognose di interventi migliorativi.
Se ci si colloca su questo terreno, deve constatarsi che qualche intervento del genere è stato messo a punto dall’aula del Senato.
Mi riferisco a tre emendamenti:
a) all’esplicitazione del carattere “amministrativo” delle intese e degli organi interregionali di cui all’art. 117, comma 8;
b) all’introduzione di un espresso riferimento alle autonomie funzionali nel quarto comma dell’art. 118 (rendendo inoppugnabile l’interpretazione del testo vigente, a mio giudizio, preferibile);
c) all’esclusione dell’effetto dismissivo a carico della Giunta e dell’effetto dissolutorio a carico del Consiglio regionale, per cessazione del Presidente in caso di morte o d’impedimento permanente (ipotesi, queste, alle quali potrebbe utilmente aggiungersi quella delle dimissioni di natura “privata”).
Per il resto, interventi migliorativi o sono mancati o non sono riusciti.
La seconda ipotesi ricorre per la discutibilissima inclusione, tra le materie di competenza concorrente, di ambiti dalla manifesta connotazione nazionale, come quelli, rispettivamente, denominati “grandi reti di trasporto e di navigazione” e “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia”. Il progetto, infatti, per effetto di un emendamento approvato dall’aula, si è dato carico del problema nel modo e nel luogo sbagliati. Esso, in particolare, non ha assoggettato le due materie alla competenza esclusiva dello Stato (modificando corrispondentemente l’elenco di cui all’art. 117, comma 2), ma ha previsto su esse “forme di intesa e coordinamento”, tra Stato e Regioni, destinate ad operare sul versante dell’amministrazione (art. 118, comma 3). Con il che non ha risolto il problema. Il quale non si pone tanto al livello dell’amministrazione, quanto sul piano della legislazione: essendo non poco dubbio che in materie come queste si giustifichi la compresenza di un nucleo di principi statali e di venti diverse discipline legislative regionali.
Ma non è tutto. Infatti, salvo che per le materie appena ricordate – e per quella delle professioni, trattata dal progetto allo stesso modo – nel testo licenziato dal Senato manca un serio tentativo di rivisitare gli elenchi contenuti nel secondo e nel terzo comma dell’art. 117. Di qui, il permanere di tutte le incongruenze segnalate in proposito in sede dottrinale. Basti – a titolo esemplificativo – ricordare che tali elenchi ignorano materie come la circolazione stradale e le poste, che normalmente le costituzioni federali allocano a livello centrale.
Può essere, infine, il caso di sottolineare l’opportunità che il procedimento in corso sia anche l’occasione per eliminare alcuni inestetismi della disciplina in vigore (come l’ormai inutile riferimento negativo al visto del Commissario del Governo, di cui all’art. 123, e la discontinuità della serie numerica degli articoli) e per correggere le disposizioni più problematiche. Un caso per tutti: l’infelicissima disciplina del potere sostitutivo, che si è rivelata un autentico rompicapo.
Allo stato, non è prevedibile se si daranno le condizioni per interventi di questo tipo: e, più in generale, per un dibattito sulle riforme più pragmatico e meno ideologico. Quello che è certo è che, se ciò non dovesse avvenire, l’eventuale conclusione del procedimento in corso non porrebbe la parola fine al processo di riforma: essendo prevedibile che la “riforma delle riforma” sarebbe, a propria volta, seguita da una “riforma della riforma della riforma”. Il che conferirebbe alla tormentata transizione che stiamo vivendo i caratteri di una condizione permanente della nostra esperienza costituzionale.

Menu

Contenuti