Stelio MANGIAMELI, La Provincia: dall'assemblea costituente alla riforma del Titolo V (febbraio 2008)
Sommario:
Ripercorrere con precisione i passaggi attraverso cui si delineò il disegno della nuova organizzazione territoriale della Repubblica è utile, non solo per avere una piena consapevolezza dei limiti storici che hanno segnato la realizzazione del principio autonomista, ma anche per affrontare le problematiche legate al riordino delle funzioni amministrative, dischiuse dalla revisione del Titolo V della Costituzione ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001.
In particolare, l’intera vicenda dell’assetto territoriale della Repubblica ha ruotato intorno al rapporto tra Provincia e Regione, in quanto il dibattito alla Costituente presentava un punto critico: la natura dell’ente Regione, che ben lungi dall’essere percepito come una forma istituzionale concorrente dello Stato (questo aspetto, semmai, veniva paventato, per suscitare grande preoccupazione), con il quale avrebbe condiviso l’esercizio della funzione legislativa, veniva di fatto considerato nel novero degli enti locali, con i quali e, in particolare, con la Provincia, sarebbe dovuto entrare in competizione.
Come è noto, nonostante gli studi preparatori avessero dato un giudizio negativo sull’introduzione di un ente, diverso dallo Stato, dotato di potestà legislativa (1), l’Assemblea Costituente, per opera di un gruppo ristretto di deputati, andò avanti in questa direzione, ma senza valutare l’effetto che questa decisione avrebbe prodotto proprio rispetto allo Stato; non a caso la norma più significativa del testo costituzionale (l’art. 5) non esprime compiutamente questa innovazione (ma si limita ad affermare che “La Repubblica … adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”) e una più esplicita dichiarazione si rinviene solo nella IX disposizione finale (dove si afferma, in modo espresso, che “La Repubblica, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”).
La criticità della relazione tra Provincia e Regione era stata risolta in modo sfavorevole alla prima dal progetto di costituzione portato in Aula dalla Commissione dei 75, presieduta dall’On.le Ruini. Infatti, la Commissione e, in particolare, la seconda Sottocommissione, che aveva affrontato la questione dell’assetto territoriale, anche per la particolare presenza di rappresentanti delle regioni speciali in quella sede, aveva elaborato una disposizione di quello che sarebbe stato il futuro art. 114, in cui si leggeva che “La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni” e che “Le Province sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale” (2).
Su queste basi in Assemblea si avviava un dibattito essenzialmente rivolto a considerare il ruolo amministrativo della Provincia e l’eventuale concorrenza delle Regioni. Le stesse materie regionali, enumerate nei diversi cataloghi inizialmente previsti dal progetto, erano riguardate più come elenco delle funzioni amministrative, che non come oggetti della legislazione, e ciò non senza una ragione. Infatti, molte voci enumerate erano state prese dal TULCP e trasferite nella Costituzione come materia di competenza regionale; basti pensare, in proposito, alla “polizia locale urbana e rurale”, alla “beneficenza pubblica”, a “fiere e mercati”, all’“assistenza sanitaria”, all’“assistenza scolastica”, alle materie qualificate dall’interesse regionale, come la viabilità, i lavori pubblici, le linee automobilistiche, ecc.
Proprio di fronte a questo disegno si accese il dibattito in Aula e l’impostazione di partenza venne rovesciata. Le accuse mosse alla Provincia, di ente non radicato nel sentimento dei cittadini e dai compiti limitati, furono ribaltate contro la Regione, avvertita chiaramente dalla maggioranza dell’Assemblea come il vero ente artificiale creato dalla mente di alcuni membri dell’Assemblea Costituente, ma privo di qualunque riscontro storico.
Negli interventi emergono con immediatezza i connotati storici della Provincia come ente successore del comune medievale (secondo la nota impostazione di Vittorio Emanuele Orlando) e lì dove (nel mezzogiorno) le libertà comunali non avevano avuto modo di manifestarsi, il ruolo della Provincia si era affermato con l’organizzazione stessa dello Stato unitario.
È bene precisare che a favore della Provincia militavano due diverse impostazioni di pensiero: per un verso, la tradizione latina (o, per meglio dire, romana) del comune medievale. che vedeva uno stretto collegamento tra la città e i villaggi del contado, cui i TULCP di epoca costituzionale avevano conferito un assetto democratico e funzioni di gestione di un patrimonio e di servizi (si ricordi anche la legge n. 103 del 1903 e il R.D. n. 2578 del 1925, su “Approvazione del testo unico della legge sull’assunzione diretta dei servizi pubblici da parte dei Comuni e delle Province”): da questa tradizione deriverà, anche dopo l’unificazione statuale, l’evoluzione che dalla nozione di autarchia (espressione del riconoscimento originario da parte dello Stato) porterà a quella di autonomia locale; e, per l’altro, la costruzione dello Stato unitario che, sulla base dell’esempio francese, era basato, dal punto di vista territoriale, sul Prefetto e sulla strutturazione su base provinciale delle articolazioni decentrate degli apparati statali, cui peraltro si era conformata la stessa articolazione della società civile e dell’economia che ha avuto nell’ambito provinciale la dimensione preferenziale.
Questi due aspetti, sia pure per ragioni diverse, erano stati alquanto sovrapposti: in primo luogo, concretamente lo Stato unitario aveva potuto rafforzarsi, evolvendo dalle forme patrimoniali dell’ancien regime, solo acquisendo funzioni che originariamente erano di Comuni e Province, pur mantenendole in un ambito locale e prevalentemente provinciale; inoltre, la nozione di “autarchia”, che contraddistingueva il carattere (rectius: la potestà) di detti enti, inglobati nello Stato unitario, di fatto confondeva la reale natura dell’azione locale, tanto più che la configurazione data degli enti locali veniva racchiusa entro l’espressione di “amministrazione indiretta dello Stato”, che una particolare fortuna avrebbe avuto in epoca fascista; infine, la lenta elaborazione della nozione di “autonomia” da parte della scienza del diritto pubblico italiano (soprattutto per opera di Santi Romano e Oreste Ranelletti).
In Assemblea Costituente, però, detta elaborazione era un dato acquisito – quanto meno per una parte della dottrina presente (si pensi a Costantino Mortati) – e la messa in discussione della figura del Prefetto fece da pendant alle critiche espresse nei confronti della Regione, per cui ne sarebbe derivata l’affermazione di una Provincia come ente autonomo, non solo storicamente radicato nella coscienza dei cittadini e nella struttura dello Stato, vicino ai cittadini più dello Stato e della Regione (potremmo dire con linguaggio odierno vero e proprio “ente di prossimità”), ma anche tecnicamente e funzionalmente meglio attrezzato degli altri enti territoriali e dello Stato medesimo, espressione di uno standard amministrativo migliore persino di quello dei comuni, per la maggior parte di piccole dimensioni, e, perciò, da incrementare nei poteri e nelle funzioni. Operazione, quest’ultima, che sarebbe stata possibile grazie al ripensamento delle competenze, ampiamente auspicato dall’Assemblea, propensa ad un riconoscimento espresso, con la nuova costituzione, delle funzioni proprie degli enti locali, quanto meno attraverso definizioni di principio che sarebbero state precisate successivamente nella legislazione.
Di qui la formulazione data, alla fine, all’art. 114 Cost., v.f., per il quale “La Repubblica si (ripartiva) in Regioni, Provincie e Comuni” (3).
Questa impostazione, susseguente al riconoscimento pressoché unanime del ruolo amministrativo della Provincia, peraltro, finiva per agevolare anche la Regione, i cui fautori, vedendone minacciata l’affermazione, per via dell’ampio consenso che la Provincia riscuoteva nel corso del dibattito in Assemblea, iniziarono ad evidenziare una diversa collocazione di quest’ultima.
Le funzioni regionali messe in evidenza furono, perciò, quelle legislative, poste in concorrenza con lo Stato; mentre la pacifica convivenza della Regione con la Provincia sarebbe dipesa dal modo di esercizio delle funzioni amministrative da parte della Regione. Infatti, il cambiamento di orientamento dava i suoi frutti nell’elaborazione di alcune specifiche disposizioni che raccordavano la funzione della Regione con quella degli enti territoriali minori: in particolare, l’art. 118, comma 1, Cost., v.f., prevedeva, accanto al c.d. principio del parallelismo, che nell’ambito delle materie di competenza legislativa regionale le funzioni amministrative “di interesse esclusivamente locale” potevano “essere attribuite dalla leggi della Repubblica alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali”; e il comma 3 del medesimo articolo, in modo espresso, prevedeva che la Regione avrebbe esercitato “normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”.
Il riassetto del disegno istituzionale della futura Repubblica, operato in questo modo, trovava il suo completamento nell’art. 129, comma 1, Cost., ormai abrogato, il quale come chiara conseguenza della nuova dinamica uscita dal dibattito dell’Assemblea costituente, prevedeva che “Le Provincie e i Comuni sono anche circoscrizioni di decentramento statale e regionale”.
Di conseguenza, la complessiva disciplina costituzionale stava ad indicare che l’autonomia di cui godevano le Province e le forme di collegamento che le stesse potevano avere, con lo Stato o le Regioni, in nulla differivano rispetto a quella dei Comuni. Nello stesso senso, peraltro, faceva propendere anche l’art. 130 Cost., anch’esso oramai abrogato, in tema di controlli sugli atti.
A minare, però, la pienezza di questo risultato, offuscando la chiarezza del disegno complessivo dell’assetto territoriale della Repubblica, ci pensava la fretta con la quale i padri costituenti – al pari dei componenti della Convenzione di Filadelfia, che approvarono la Costituzione americana, i quali furono spinti dalla necessità di non fare raffreddare la cena – chiusero i loro lavori. Come è ampiamente noto, proprio la fretta di approvare il testo della nuova Costituzione determinò almeno due aspetti particolari del Titolo V.
Il primo attiene alla determinazione delle competenze legislative regionali, che, in ragione della premura, furono semplificate e ridotte nel novero delle materie enumerate; con la conseguenza che il valore del nostro regionalismo, dal punto di vista della riforma dello Stato, auspicata dalla IX disposizione trans. e fin., scemava grandemente; tanto più che nel testo costituzionale, al di là del rinvio agli statuti speciali per le regioni differenziate, mancavano delle disposizioni idonee a consentire alle Regioni di esercitare forme e condizioni particolari di autonomia, che potessero ampliare i loro poteri legislativi. L’unica disposizione che prevedeva un ampliamento delle facoltà normative delle Regioni era data dall’art. 117, comma 2, Cost. v.f., per il quale “Le leggi della Repubblica (potevano) demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione”; restava, perciò, escluso che le Regioni avrebbero potuto ottenere di propria iniziativa un ampliamento della potestà legislativa.
Il secondo aspetto, che in ragione della chiusura dei lavori della Costituente venne semplificato con una considerevole riduzione di significato, concerneva la definizione dei ruoli degli enti territoriali minori e l’assetto delle loro funzioni. I tentativi, effettuati da diversi componenti dell’Assemblea, di precisare il ruolo e le funzioni degli enti territoriali minori, e in particolare della Provincia, furono tutti rinviati alla discussione dell’art. 121 del progetto o di altri articoli, soprattutto grazie all’intervento del Presidente della Commissione On.le Ruini, con il risultato che la discussione finì con il ritiro di quasi tutti gli emendamenti e con l’approvazione del testo di quello che sarebbe diventato l’art. 128 Cost., v.f., per il quale “Le Provincie e i Comuni (erano) enti autonomi”, ma “nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne (determinavano) le funzioni”. Anche in questo caso la riduzione dell’autonomia costituzionalmente garantita era evidente (soprattutto in relazione al disposto dell’art. 115 Cost., ormai abrogato, che disponeva “Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione”).
Il quadro costituzionale delle autonomie territoriali disegnato dall’Assemblea costituente era, perciò, sin dall’inizio problematico e non sempre dotato di linearità. A ciò avrebbe dovuto porre rimedio la successiva legislazione soprattutto statale, alla quale veniva demandata l’intera attuazione del principio di cui all’art. 5 Cost. e, in particolare, quell’adeguamento dei principi e dei metodi della legislazione della Repubblica alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
In realtà, anche per la prepotente affermazione dello Stato assistenziale e interventista, che si realizzò negli anni ’50 e ’60, la filosofia di fondo che ispirava la legislazione era opposta ai principi dell’autonomia e del decentramento. Infatti, in quegli anni era preponderante l’idea di pianificazione e quella di programmazione economica, secondo i parametri dell’art. 41, comma 3, Cost., che richiedevano una forte centralizzazione degli apparati pubblici e un ruolo dominante della legge statale.
Non è privo di significato ricordare che mentre lo sviluppo economico del paese avanzava in modo tumultuoso (e si procedeva nel 1962 alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e all’istituzione dell’Enel), sono mancati del tutto gli interventi che dovevano incrementare il ruolo delle autonomie territoriali e gli organi dell’amministrazione periferica dello Stato, costruita in epoca statutaria e fascista, hanno visto aumentati i loro compiti, primo fra tutti il Prefetto, rappresentante del Governo nella Provincia. Persino la Regione, l’ente territoriale di maggiori dimensioni, dotato di potestà legislativa, veniva messa da parte dopo una timida legislazione di attuazione nel 1953 (legge n. 62, c.d. “legge Scelba”), per riapparire nel 1970 dopo la approvazione delle leggi elettorale (n. 108 del 1968) e finanziaria (n. 281 del 1970). Le stesse Regioni speciali pativano una condizione di limitazione della loro autonomia, nonostante gli Statuti costituzionali, della quale si sarebbero resi conto solo successivamente alla realizzazione delle Regioni ordinarie.
In particolare, per ciò che concerne Comuni e Province, questi enti furono regolati in modo alquanto singolare: il sistema di organizzazione veniva disciplinato dalle disposizioni del TULCP del 1915, richiamate in vita all’indomani della caduta del fascismo; mentre il sistema delle funzioni restava ordinato dal perdurante TULCP del 1934. La situazione si protrasse così sino ai decreti di trasferimento delle funzioni del 1972 (DDPPRR nn. da 1 a 12 del 1972). Ma anche dopo il riassetto, dovuto alla presenza effettiva delle Regioni ordinarie, e al DPR n. 616 del 1977, con il quale si completava il trasferimento delle funzioni nel nuovo sistema regionale, i Regi decreti del 1915 e del 1934, con cui furono approvati i testi unici della legge comunale e provinciale, continuarono a svolgere il loro compito di “legge generale della Repubblica” (sic!), che determinano le funzioni di comuni e province.
Bisognerà attendere il 1990, con la legge n. 142, per assistere al primo vero intervento legislativo, di carattere istituzionale, della Repubblica su comuni e province. La disciplina, peraltro, non aveva un vero e proprio carattere esaustivo e abrogativo della pregressa legislazione, quanto piuttosto un carattere correttivo e di adeguamento. Tant’è che venne addirittura esclusa la disciplina delle elezioni locali, rivisitata successivamente con la legge n. 81 del 1993.
Non è che la legislazione statale e regionale non avesse incrementato il complesso delle funzioni amministrative di comuni e province, ma l’impianto delle relazioni tra i diversi livelli rimaneva sempre ancorato al centralismo dello Stato e, per certi aspetti, a quello inedito delle Regioni. Bisognerà, perciò, attendere la crisi finanziaria dell’estate del 1992 e l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1° novembre 1993), che con i suoi criteri di convergenza verso la moneta unica mettevano in forse lo stesso Stato sociale, almeno nella forma in cui era stato realizzato in Italia, e cioè con un forte carattere assistenzialista (nel sociale) e interventista (nell’economia).
È con la normazione che prende l’avvio con le leggi nn. 59 e 127 del 1997, dovuta alla necessità di un rapido riassetto delle funzioni pubbliche, in modo da consentire al Governo di compiere una politica coerente con i criteri di convergenza, che si afferma l’idea della grande riforma della Repubblica verso il federalismo. Tuttavia, con il fallimento della Commissione bicamerale di cui alla legge cost. n. 1 del 1997, che mostra tutti i limiti degli attuali Parlamenti, il nuovo assetto delle regioni e delle autonomie locali viene disegnato, attraverso le deleghe legislative, dai decreti legislativi del Governo, che delineano quello che è stato definito il “federalismo a costituzione invariata” o “federalismo amministrativo”. Questo complesso normativo ha utilizzato sicuramente strumenti previsti dalle disposizioni costituzionali del tempo, come la competenza normativa di attuazione e la delega di funzioni amministrative, ma in una misura tale da determinare un effetto certamente contrario alla Costituzione del tempo, come il ribaltamento del principio delle competenze enumerate e l’allocazione delle funzioni amministrative locali sempre per opera della legge dello Stato.
Nonostante le riforme legislative in quegli anni andassero avanti celermente – basti pensare alla messe di leggi sugli enti locali e al loro riordino con il Decreto legislativo n. 267 del 2000, recante il Testo unico dell’ordinamento degli enti locali – appariva chiaro che sussisteva un problema di recupero della costituzionalità dell’intero sistema territoriale della Repubblica, avvenuto essenzialmente con l’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001.
Prima di prendere in considerazione i contenuti della revisione costituzionale è bene considerare che sino alla legislazione del 1997, la posizione della Provincia aveva visto comunque una costante crescita di funzioni amministrative rispetto al complesso delle attività ad essa assegnate dalla legislazione pre-repubblicana, anche se non può parlarsi di un vero e proprio cambiamento dell’ordinamento a favore dell’autonomia locale e, in particolare, delle province. Queste, infatti, hanno sofferto molto della presenza di apparati statali troppo estesi in periferia (a partire dalle prefetture) e della scarsa propensione delle Regioni a delegare le funzioni amministrative alle Province o a valersi dei suoi uffici. Un segno di discontinuità rispetto a questo uniforme sistema, però, è segnato dall’ordinamento degli enti locali in Sicilia, che con la legge regionale n. 9 del 1986 dava vita a un ampio decentramento di funzioni in capo alle Province, le quali nell’ordinamento speciale prenderanno addirittura il nome di “Province regionali”.
Il bisogno di considerare il ruolo territoriale delle Province, non solo come enti a fini generali e rappresentativi delle comunità sottostanti, secondo una costante tradizione che aveva avuto il suo ruolo determinante – come si è visto – in seno all’Assemblea costituente, ma anche come ente chiamato a svolgere un ruolo di snodo, verso i comuni, da un lato, e verso le Regioni e lo Stato, dall’altro, sia sul versante della programmazione, che sul quello della realizzazione, è presente in modo evidente nella legge n. 142 del 1990, anche se bisognerà aspettare la legge n. 127 del 1997 e il decreto legislativo n. 112 del 1998 e la successiva legislazione di settore, perché questa particolare fisionomia della provincia potesse riempirsi di contenuti più che sufficienti.
Le ragioni di questa crescita del livello provinciale sono molteplici; essenzialmente si può considerare come la fine del mito dello Stato pianificatore abbia richiesto un ambito intermedio tra comuni e Regione/Stato, necessario per rispondere alle funzioni di area vasta e per la gestione ottimale di reti di servizi e, in quest’ottica, vanno considerati, non solo i compiti di programmazione della Provincia, ma soprattutto alcune funzioni che la legislazione assegna alle Province nei confronti dei Comuni (4).
Sensibili innovazioni al disegno del Costituente e alla contorta evoluzione della legislazione apporta la legge costituzionale n. 3 del 2001. A questi fini appare necessario valutare, in un primo momento, la posizione di Comuni e Province insieme, in quanto entrambi questi enti appaiono delineare l’ambito locale come distinto, sia da quello regionale e sia da quello statale; successivamente sarà opportuno considerare, invece, la più netta demarcazione che dal disegno costituzionale traspare del ruolo della provincia, rispetto a quello del comune.
Con riferimento al primo profilo, diversamente dalla precedente formulazione dell’art. 128, la nuova disciplina del Titolo V della Costituzione offre un quadro delle funzioni e dei poteri dei Comuni e delle Province, nonché della loro organizzazione, non esclusivamente rimessa alla statuizione della legge statale (5). Ciò contribuisce ad individuare, non solo un fondamento, ma anche una disciplina delle autonomie locali di rango costituzionale – come tale – sopraordinata alla legge statale e a quella regionale; l’innovazione riguarda, peraltro, non solo le funzioni e l’organizzazione, ma anche, e forse particolarmente, le “fonti” del diritto locale, per la prima volta non semplicemente presupposte dal principio di autonomia degli enti medesimi (secondo la nota ricostruzione di Esposito), ma espressamente indicate nella Costituzione: lo Statuto (all’art. 114, comma 2, “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”) e i regolamenti (all’art. 117, comma 6, “I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”).
A ciò si aggiunga come, per l’una e per l’altra fonte locale, gli oggetti di disciplina non presentino semplicemente un carattere meramente organizzatorio, essenzialmente interno all’ente medesimo, ma abbiano un rilievo diretto nel processo di concretizzazione dei diritti degli amministrati. Da questo punto di vista sono vere e proprie fonti dell’ordinamento giuridico generale (della Repubblica) e, in tal senso, depongono sia l’ambito di riferimento dello Statuto locale, destinato a regolare la partecipazione e i principi di relazione dell’ente con gli amministrati, e sia la previsione costituzionale del regolamento locale come fonte di disciplina, non solo dell’organizzazione, ma anche dello svolgimento delle funzioni attribuite.
Inoltre, la costituzionalizzazione delle fonti locali non si limita ad una mera previsione di esistenza di determinati atti normativi, ma riconnette – già ad una prima lettura – determinati contenuti, per così dire, materiali, per cui sarebbero prospettabili delle vere e proprie “riserve” costituzionali a favore delle fonti locali, che limiterebbero le possibilità di intervento delle altre fonti dell’ordinamento generale: la legge statale e quella regionale. Di conseguenza, non pare più convincente la risoluzione delle antinomie che possono sorgere tra le diverse fonti legislative e le fonti dell’ordinamento locale in termini esclusivamente di gerarchia, atteso che gli spazi di competenza costituzionalmente previsti si prestano ad essere tutelati, non solo nei confronti di atti dotati di una minore forza giuridica, ma anche verso l’alto, cioè in relazione ad atti classificabili come gerarchicamente sopraordinati (6).
Infine, sembra possibile, alla luce del nuovo sistema delle funzioni delineato dal Titolo V, considerare le relazioni (materiali e formali) tra i diversi livelli di governo (compreso quello statale) come regolate da legami, i quali per un verso richiedono il raccordo dell’esercizio delle rispettive funzioni e, per l’altro, tendono a fare applicazione, nei rapporti reciproci, non solo del criterio di separazione, ma anche del principio di esclusività, in base al quale quando è attivo un livello nella regolazione di un oggetto (o di una funzione, o potere, o di un compito), questo determina il non intervento normativo (e amministrativo) degli altri (7).
In questo contesto, l’esercizio delle potestà normative dà luogo ad un effetto inedito di alternatività nell’applicazione del diritto locale, di quello regionale e di quello statale (8).
Se dall’ambito delle fonti si passa, poi, a quello delle funzioni amministrative, il disegno costituzionale si presenta particolarmente innovativo. Le previsioni costituzionali dispongono, infatti, che i Comuni e le Province (insieme alle Città metropolitane e alle Regioni) sono “enti autonomi con propri … poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114, comma 2, Cost.) e affermano “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” (art. 118, comma 2, Cost.).
Quest’ultima espressione, in particolare, potrebbe essere considerata una semplice trasposizione nell’ambito costituzionale di una disposizione legislativa del TUEL (il comma 5 dell’art. 3), ma ad una tale constatazione deve corrispondere l’osservazione che il passaggio dall’ordine legislativo a quello costituzionale non è meramente formale, bensì – pressoché immutato il tenore della norma – la trasposizione in ambito costituzionale ne modifica il significato letterale e sistematico. Questa disposizione, infatti, nell’ambito del Testo Unico tende a sancire una sorta di separazione tra il profilo funzionale e quello organizzativo degli enti locali, in quanto – premesse alcune disposizioni generali – nel TU sarebbero da ricercare esclusivamente le disposizioni riguardanti l’organizzazione, ma non quelle concernenti le funzioni, le quali deriverebbero essenzialmente dalla legge dello Stato o da quella delle Regioni (9).
Nel nuovo testo costituzionale, invece, il significato delle disposizioni indicate si proietta essenzialmente sul contenuto delle funzioni (proprie) costituzionalmente assicurate agli enti locali, rispetto alle quali anche le possibilità di conferimento di funzioni da parte della legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze, diventano o una attività dovuta, oppure una attività discrezionale, ma di sicuro non più liberamente rimessa alla valutazione legislativa.
In modo sintetico, può dirsi che la medesima espressione linguistica, prevista originariamente nella legge e assunta successivamente dalla Costituzione, passa da un significato essenzialmente descrittivo ad uno prescrittivo, con tutto quello che questo comporta sul piano dei rapporti tra Costituzione e legge (10).
La previsione costituzionale delle “funzioni proprie”, pertanto, modifica radicalmente questa realtà dell’ordinamento, in quanto, comprendendo le funzioni riconosciute in modo originario dalla Costituzione, che ne rappresenterebbe il titolo (di attribuzione), darebbe luogo per la legge statale e per quella regionale ad un limite che potrebbe comportare l’invalidità dei loro atti. Infatti, la circostanza che la Costituzione ha contemplato direttamente la titolarità di dette funzioni da parte dei Comuni e delle Province, ha come conseguenza che l’individuazione delle “funzioni proprie” non rappresenta più un problema di definizione, rimesso al legislatore, ma una questione di interpretazione costituzionale.
È stato in altra sede a lungo dibattuto il tema del metodo di determinazione delle funzioni proprie e non del tutto univoci sono stati gli orientamenti espressi in dottrina (11). Tuttavia, su un punto sembra essersi raggiunto un generale consenso, e cioè che le “funzioni proprie” non sono rimesse al legislatore statale o a quello regionale e che eventuali leggi statali o regionali, che avessero la pretesa di definirle, avrebbero un carattere meramente ricognitivo e non costitutivo, per cui potrebbe darsi anche l’evenienza che una funzione sia propria di un ente locale, quand’anche la legge (statale o regionale) abbia omesso di statuire in tal senso.
Il campo delle “funzioni proprie” discende direttamente dalla previsione costituzionale e si presenta materialmente garantito rispetto a quello che può darsi per le funzioni cui fa riferimento la seconda frase del comma 2 dell’art. 118 Cost. (quelle cioè “conferite”), dal momento che le eventuali prescrizioni di legge (statale e/o regionale) in questo ambito non potrebbero sottrarre alla disciplina locale gli oggetti cui le “funzioni proprie” fanno riferimento.
Le disposizioni costituzionali sulle funzioni amministrative non riguardano solo la problematica della tipologia e del riparto delle funzioni, ma anche quella concernente il loro aspetto dinamico e in questo ambito si delinea il ruolo dalla Provincia, come distinto rispetto a quello del Comune.
Da questo punto di vista viene in rilievo soprattutto l’articolazione che le funzioni possono prendere alla luce dell’art. 118, comma 1, in base al quale “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Infatti, con questa disposizione il legislatore di revisione tende ad inserire nel modello amministrativo elementi di flessibilità.
La disposizione citata fa venire meno il principio di uniformità, che sin dall’origine ha caratterizzato la disciplina degli enti locali nel nostro ordinamento e in base al quale tutti gli enti di un medesimo tipo avevano integralmente le medesime attribuzioni (12); adesso, a prescindere da una certa vocazione istituzionale delle diverse tipologia di enti territoriali, che pure determina un particolare assetto delle funzioni (13), può anche darsi l’evenienza che la medesima funzione la cui attribuzione e/o conferimento spetti alla legge regionale, possa essere allocata a livello comunale, provinciale o regionale; e lo stesso dicasi per quelle funzioni di spettanza della legge statale, il cui esercizio unitario può giungere sino al mantenimento delle competenze amministrative in capo allo Stato.
Di conseguenza, può realizzarsi il caso che una funzione amministrativa in un certo ambito territoriale sia comunale e in un altro ambito, invece, venga svolta a livello provinciale e in un altro ancora possa essere mantenuta dalla Regione o dallo Stato.
Si tratta, in sostanza, di un modello non definito, per la presenza di numerose riserve di legge e per il fatto che il sistema di riparto delle funzioni amministrative dal punto di vista costituzionale resta aperto e dinamico, delimitato solo dalla presenza dei principi di sussidiarietà differenziazione e adeguatezza (14). Il principio di sussidiarietà dovrebbe essere collegato al rispetto delle dimensioni territoriali, associative ed organizzative, attribuendo le responsabilità pubbliche ai centri decisionali più vicini ai cittadini interessati; il principio di differenziazione nell’allocazione delle funzioni dovrebbe richiedere che si considerino le diverse caratteristiche, demografiche territoriali strutturali degli enti riceventi; il principio di adeguatezza dovrebbe imporre una valutazione in relazione all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente a garantire l’esercizio delle funzioni (15). L’attribuzione al comune, pertanto, rappresenta il “modo privilegiato di estrinsecazione delle funzioni amministrative, ma non esclusivo” (16).
In ogni caso, le possibilità di una allocazione funzionale delle potestà amministrative tra Comuni e Province (ma anche Regioni e Stato), rimessa alla legge statale e a quella regionale, deve essere considerata complementare all’attribuzione di funzioni amministrative effettuata dalle norme costituzionali e direttamente a queste riconducibile senza l’intermediazione della legge.
Solo movendo da queste premesse, peraltro, appare possibile comprendere e spiegare la collocazione delle Province rispetto ai Comuni. A tal riguardo, pur senza arrivare a denunciare per ipocrisia la disposizione che attribuisce le funzioni amministrative ai Comuni (17), occorre ricordare che il ruolo provinciale appare ormai chiaramente legato – sulla base della legislazione vigente al momento della revisione costituzionale – alla pianificazione e alla programmazione di area vasta e alla gestione dei servizi di rete, così come alla tutela dell’ambiente, nell’accezione più ampia del termine (rifiuti, acqua, caccia, ecc.), e alla protezione civile. Ma al di là dell’intero complesso di funzioni provinciale che assicurano lo sviluppo e la promozione del territorio dell’intero Paese, in sinergia soprattutto con la legislazione statale e regionale e con l’attività regionale, il disegno costituzionale, innovando alla pregressa legislazione – che si limitava alla mera “assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali” – fa intravedere con chiarezza un ruolo sussidiario delle Province, rispetto ai Comuni, per il quale tutte le funzioni comunali – anche quelle più caratterizzanti – nei casi in cui questi enti presentino una naturale inadeguatezza o le funzioni medesime non siano a loro rapportabili, per il principio di differenziazione, possono essere assicurate ai cittadini sussidiariamente dall’azione della Provincia, la quale, in una evenienza del genere, si deve considerare ente di prossimità al pari del Comune (18).
Si tratta di un ruolo che le Province svolgono da tempo in altri ordinamenti, come quello francese, britannico, tedesco e spagnolo, dove Dipartimenti, Contee Kreise e Provincias hanno un ruolo costitutivo del sistema amministrativo generale, che ubbidisce alla formazione di un federalismo territorialmente responsabile, basato sulla collaborazione dei diversi livelli di governo, per garantire la diffusione del principio di democrazia e impedire, o – quanto meno – limitare, il proliferare di enti intermedi tra il Comune e la Provincia, dove più che altrove si realizzano sprechi e clientelismo.
Le sfide che adesso si profilano all’orizzonte, dovute ai processi di integrazione sopranazionale e di internazionalizzazione dell’economia, richiedano una cura inedita dell’assetto istituzionale della Repubblica, per realizzare i cambiamenti: l’infrastrutturazione del Paese, lo sviluppo dell’economia, la promozione del made in Italy, la tutela dei diritti civili e sociali dei cittadini richiedono una valutazione serena dei ruoli istituzionali, a cominciare da quello dello Stato e delle Regioni, ma possono contare su un sistema provinciale che ha strutturato lo Stato stesso, ha mantenuto in vita una tradizione risalente e ha dato alla Repubblica un livello amministrativo efficiente, competitivo e flessibile, vicino ai cittadini e sussidiario.
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(1) Ministero per la Costituente, Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato (Relazione all’assemblea Costituente, vol. II, tomo I, Roma 1946, 11), che aveva inviato un questionario ad un campione vastissimo (oltre cinquemila personalità vicine alle istituzioni locali), aveva ricevuto solo 1621 che sulla domanda: “Nel nuovo Stato italiano, ritenete opportuno il ricorso alla forma federale, attribuendo a ogni regione o a gruppi di regioni l’esercizio del potere legislativo in tutte le materie non espressamente escluse dalla Costituzione”, risultavano così articolate: 243 tacciono rispetto al paragrafo in parola; 234 rispondono sì (185 senza motivare), 1144 no (616 senza motivare).
(2) Camera dei Deputati, Segretariato generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, volume III, Roma 1970, 2399.
(3) La disposizione finiva, perciò, per ricalcare pedissequamente l’art. 1 del ddl di Farina e Minghetti sulla Regione che così recitava: “Il Regno si riparte in Regioni, Province e Comuni”.
(4) V., in particolare, l’art. 19, comma 1, lett. l, del D.Lgs. n. 267 del 2000, relativo all’“assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali” e l’art. 19, comma 2, del medesimo decreto che dispone: “La provincia, in collaborazione con i comuni e sulla base di programmi da essa proposti, promuove e coordina attività nonché realizza opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo”.
(5) Il rinvio alla legge era affermato nell’art. 74 dello Statuto Albertino (4 marzo 1848), per il quale “le istituzioni comunali e provinciali e la circoscrizione dei Comuni e delle Province sono regolate dalla legge”. Si tenga comunque conto del contesto storico in cui la disposizione veniva in essere e del significato politico-costituzionale rivestito dalla stessa riserva di legge nella Monarchia costituzionale. La legge di attuazione del precetto dello Statuto risale al 7 ottobre 1848 con l’adozione del primo TULCP post-statutario e rivestiva il significato di un completamento del disegno costituzionale, consolidandosi in esso la tradizione giuridica dell’autonomia locale, le cui tracce sono risalenti al periodo pre-napoleonico, mentre un modello più prossimo alle innovazioni prodotte dalla disciplina francese del 1789 e dalla successiva legislazione napoleonica si ha con il TUEL del 1859 (c.d. “legge Rattazzi”), successivamente ripresa, dopo l’unità, nell’allegato A delle leggi di unificazione amministrativa dello Stato del 1865. La Costituzione repubblicana eredita, perciò, da questa tradizione la previsione di rinvio alla legge per la determinazione delle funzioni di Comuni e province (art. 128), ma la inserisce nel contesto della Repubblica che “riconosce e promuove le autonomie locali” (art.5), qualificando gli Enti come autonomi (“le Province e i Comuni sono enti autonomi”) e definendo i caratteri della disciplina (“principi fissati da leggi generali della Repubblica”).
(6) La qualcosa – come risulterà chiaro più oltre – non incide sulla vigenza del principio di legalità, ma semmai considera prevalente il principio di legalità costituzionale su quello legislativo.
(7) In ordine a questo profilo, che meriterebbe una più accurata riflessione, si può richiamare l’art. 118, comma 1, Cost., che prevede – quale principio da rispettare nell’allocazione delle funzioni – l’assicurazione dell’esercizio unitario delle funzioni amministrative; in una qualche misura questo principio è ripreso dalla c.d. “chiamata in sussidiarietà” (Corte costituzionale, sentenze n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004), dal momento che ammette la possibilità di una legislazione statale, al posto di quella regionale, per quelle funzioni amministrative che richiedono un esercizio unitario a livello statale, quand’anche ricadenti nell’ambito delle materie di competenza legislativa delle regioni.
(8) Basti pensare all’incrocio tra competenza materiale delle Regioni e poteri funzionali dello Stato, o al modo in cui si atteggia il potere sostitutivo di cui all’art. 120, comma 2, Cost., o ancora ai poteri finanziari delineati dall’art. 119, comma 5, Cost.. Questo profilo non può essere esaminato qui per ragioni di ordine sistematico, che implicherebbero argomentazioni le quali porterebbero lontano dal tema trattato.
(9) Nell’ordinamento in questo senso si sarebbe preso atto, anche per la disciplina dell’autonomia di Comuni e Province, dell’assoluto dominio della legislazione speciale, rispetto alla legge generale, e del sovvertimento della tradizione legislativa del TULCP che legava insieme i diversi profili (organizzazione, funzioni e fonti degli enti locali). Una tradizione che comunque – è bene ricordarlo – era alla base delle stesse disposizioni costituzionali concernenti i Comuni, le Province e gli altri enti locali (art. 128, art. 118, comma 1 e 3, art. 130, ecc.) del 1947.
(10) In particolare, poi, il riconoscimento di funzioni proprie, che si riferiscono al ruolo di rappresentanza (di centro esponenziale), riconosciuto agli enti territoriali, e alla cura degli interessi propri della comunità sottostante, implica un potere (rectius: una competenza generale) di normazione delle situazione soggettive, come peraltro era proprio delle fonti locali nella loro più remota previsione. Nel nuovo testo costituzionale, perciò, le fonti locali (statuto e regolamento) sono in grado di porre norme di disciplina delle situazioni soggettive degli amministrati e, di conseguenza, la riforma del Titolo V prospetta una lettura del rapporto tra fonti locali e legge (statale e regionale) del tutto inedita.
(11) V. sul punto gli atti del convegno del Centro Vittorio Bachelet Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, a cura di G. Berti e G.C. De Martin, Roma 2002, passim.
(12) Sul punto v. S. Mangiameli, La polizia locale urbana e rurale: materia autonoma o potere accessorio e strumentale?, in Giur. Cost. 1996, 457 ss..
(13) A tal riguardo si possono richiamare le disposizioni del D.L.vo n. 267 del 2000: l’art. 13, per le funzioni del Comune, l’art. 19, per le funzioni della Provincia, e l’art. 23, comma 5, per quelle della città metropolitana.
(14) Sul ricorso al principio di sussidiarietà al fine di rimodulare, oltre alle funzioni amministrative, anche quelle legislative, v. Corte costituzionale, sentenza n. 303 del 2003, cit. sopra.
(15) L’attribuzione ai comuni della generalità delle funzioni amministrative con molta probabilità carica di una particolare enfasi tutto il riparto delle funzioni amministrative, in quanto rappresenterebbe una dimensione estrema della prossimità delle funzioni, la quale in realtà non appare giustificata dall’art. 1 TUE, alla cui stregua le decisioni devono essere prese in modo più vicino possibile ai cittadini. Questa disposizione, infatti, riferisce la “prossimità” a tutti i livelli territoriali sub-statali. Per una valutazione critica della disposizione dell’art. 118, comma 1, Cost. v. S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, regionale e statale tra nuove competenze legislative, autonomie normative ed esigenze di concertazione, in A. D’Atena – P. Grossi (a cura di), Diritto, diritti e autonomie tra Unione europea e riforme costituzionali. In ricordo di Andrea Paoletti, Milano 2003, 235, per il quale il principio di sussidiarietà si riferisce al sistema di relazione che deve governare il “processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”, ma è ben lungi dal richiedere una scelta dell’ordinamento interno a favore di una riserva di amministrazione comunale. Contro l’accoglimento di una tale riserva di amministrazione comunale si obietta che difficilmente potrebbe realizzarsi un sistema amministrativo efficiente ed efficace, dato che proprio la dimensione di certi comuni non permetterebbe di raggiungere il livello ottimale per determinati servizi pubblici, e la politica di unione, associazione tra più comuni, inaugurata con la legge 142/90, non ha prodotto grandi risultati.
(16) S. Mangiameli, op. ult. cit., 244
(17) Così, invece, U. De Siervo, Il regionalismo italiano fra i limiti della riforma del Titolo V e la sua mancata attuazione, relazione al Seminario su "Cooperazione e competizione fra Enti territoriali: modelli comunitari e disegno federale italiano", Roma 18 giugno 2007, in http://www.issirfa-spoglio.cnr.it/4173,908.html
(18) Si tenga conto che, con la sola eccezione della Provincia di Isernia (che ha circa 90.000 abitanti), tutte le Province sono sopra i 100.000 abitanti e, ben 89, sopra i 200.000 abitanti. In questa logica, una recente proposta (l’art. 7 del ddl sulla carta delle autonomie) prevede, in revisione – almeno in parte – dell’art. 21 del D. Lgs. n. 267 del 2000, la “revisione delle circoscrizioni provinciali in modo che il territorio di ciascuna provincia abbia una estensione e comprenda una popolazione tale da consentire l’ottimale esercizio delle funzioni previste per il livello di governo di area vasta” e, in conseguenza la “revisione degli ambiti territoriali degli uffici decentrati dello Stato”.