Sommario:

1.   La legge elettorale del Senato: una nota di metodo

2.   La prima questione: a quale Parlamento compete l’approvazione della legge elettorale del Senato

3.   La composizione del Senato: la questione della distribuzione dei seggi tra le Regioni

4.   Segue: i problemi connessi alle candidature al Senato dei sindaci e dei consiglieri

5.   La presentazione delle candidature per i sindaci e per i consiglieri

6.   Il raccordo tra le elezioni del Consiglio e quelle dei senatori

7.   Il nodo dei Presidenti delle Giunte regionali

8.   Considerazioni conclusive sul funzionamento e la collocazione del nuovo Senato

 

1.   La legge elettorale del Senato: una nota di metodo. – Il tema della legge elettorale del Senato, alla luce della revisione costituzionale approvata dal Parlamento e in attesa del referendum confermativo, fa sorgere considerevoli problemi che richiedono una prospettazione sistematica di ordine costituzionale: la legge elettorale del Senato, infatti, con molta probabilità, sarà la prima legge che contribuirà alla realizzazione del nuovo disegno costituzionale.

A tal riguardo, occorre premettere che le problematiche poste dalla riforma costituzionale non sono solo la conseguenza delle difficoltà politiche che hanno contrassegnato il dibattito pubblico, ma anche della complessità della riforma stessa che tocca la rappresentanza parlamentare, il procedimento legislativo e la distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni.

Inoltre, si deve rammentare che le disposizioni costituzionali, proprio quando tracciano un nuovo assetto dei poteri – come in questo caso – hanno bisogno di svolgimenti normativi significativi. È compito del legislatore, infatti, dare senso e consistenza ai principi costituzionali.

Infine, considerando la natura e la struttura delle disposizioni costituzionali, che, anche nel caso dell’organizzazione istituzionale dello Stato, come in quello della distribuzione dei poteri, tracciano un “disegno di massima”, sostanzialmente aperto verso assetti tra loro alquanto diversi e pure tutti più o meno compatibili con le disposizioni costituzionali, appare logico ritenere che il nuovo disegno costituzionale richieda un approccio metodologico molto solido, senza del quale si corre il rischio, come è accaduto in passato, di dare vita ad un divario considerevole tra la costituzione formale e quella “vivente”.

L’interpretazione e l’attuazione della Costituzione nella scrittura delle leggi possono dare luogo a integrazioni delle disposizioni costituzionali, ma anche questa attività legislativa, che a volte può essere compiuta dal giudice costituzionale, potrà avere senso se resta nell’alveo dei vincoli creati dal testo costituzionale e non cerca invece di superarli, per realizzare un diverso assetto costituzionale.

Si prospettano perciò due metodologie che si potranno seguire: una è che la legge elettorale del Senato sia scritta in chiave interpretativa rispetto al testo costituzionale, colmando lacune e, al contempo, risolvendo aporie; l’altra è invece che venga scritta sulla base della previsione di una riserva di atto parlamentare, ma discostandosi dai vincoli che il testo costituzionale lascia intravvedere.

Si comprende agevolmente quale sia la distanza tra questi due modi di leggere la Costituzione; nel primo caso, si va alla ricerca dei vincoli che il legislatore ordinario deve seguire e cui deve sottostare; nel secondo, invece, si cerca di ampliare lo spazio di disciplina del legislatore ordinario, tenendo conto solo delle indicazioni di massima che il testo costituzionale offre. Si tratta, in fondo, del significato che si intende attribuire alla disposizione costituzionale rispetto alla legislazione e cioè se la Costituzione abbia un carattere ordinante del potere e delle sue manifestazioni, oppure se – alla fine – essa non possa opporre un vero limite all’esercizio del potere.

Nel caso della nuova legge elettorale del Senato, poi, non è senza effetto – com’è stato già notato – che il disegno in alcuni punti presenti delle aporie, o addirittura delle contraddizioni.

Anche in questo caso bisogna osservare che nella produzione del diritto ciò è meno infrequente di quanto non si possa immaginare; ma ciò significa che le integrazioni del testo costituzionale, al fine di renderlo armonico e di dargli un senso compiuto, dipenderanno proprio dalle leggi di attuazione e, da questo punto di vista, ovviamente, il metodo prescelto sarà chiaramente decisivo.

È evidente che in queste ipotesi di risoluzione di eventuali aporie, le possibili opzioni dell’interprete saranno maggiori e l’integrazione del testo costituzionale potrà risultare più evidente. Da questo punto di vista, potrebbero darsi due chiavi di lettura non nettamente separate, ma tendenzialmente intrecciate tra loro, per cui ogni legge di attuazione finirà con l’essere inevitabilmente in parte interpretativa e in parte integrativa. Tuttavia, a prescindere dal risultato finale, per il quale il carattere armonico, o disarmonico del sistema dipenderà dal risultato complessivo e dalla futura evoluzione costituzionale, anche in ipotesi siffatte le premesse metodologiche che daranno fondamento alla decisione costituzionale di integrazione dovranno essere attentamente valutate.

 

2.   La prima questione: a quale Parlamento compete l’approvazione della legge elettorale del Senato. – La norma che prevede la legge elettorale del Senato è l’art. 57, comma 6, e dispone: “Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale”. In realtà, l’unica indicazione utile che questa disposizione dà, è quella del procedimento di approvazione della legge, a sua volta riassunta nell’art. 70, comma 1, dove si afferma che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere … per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma”,  ed anche “per  quella  che determina  i  casi  di  ineleggibilità  e  di  incompatibilità  con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma”.

Nel merito, invece, le disposizioni costituzionali approvate dal Parlamento, suscitano delle perplessità. La prima questione è quale Parlamento deve procedere all’approvazione della legge elettorale. La seconda riguarda i vincoli sulla composizione del futuro Senato, in particolare con riferimento al criterio di distribuzione dei seggi, alla formazione della rappresentanza regionale e ai meccanismi di sostituzione dei senatori. Infine, si pone la questione delle regole di funzionamento del Senato e della sua collocazione nel nostro sistema democratico.

Cominciando dalla prima questione, occorre ricordare che il testo della riforma prevede tra le disposizioni transitorie dell’art. 39, una disciplina per la prima composizione del Senato; tanto più che la composizione a regime del Senato presuppone non solo l’approvazione della legge elettorale, ma anche lo svolgimento progressivo delle elezioni dei consigli regionali, il che presumibilmente darà vita a una composizione graduale che potrà concludersi solo nel 2020.

Nell’ambito del dibattito politico circola una posizione alquanto discutibile, sostenuta da ampi settori della maggioranza parlamentare, per cui il compito di approvare la legge elettorale del Senato riformato spetterebbe proprio al Parlamento attuale, espressione del bicameralismo perfetto, che si afferma di volere superare.

Si tratta di un’impostazione che appare poco conforme a una lettura sistematica. Essa si fonda su un passaggio testuale contenuto nell’art. 39, comma 11, nel quale si fa riferimento alla “legislatura in corso alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale”, e si prevede la possibilità del “ricorso motivato presentato entro dieci giorni da tale data, o entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore della legge di cui all’articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale”. Si tratterebbe di una disposizione transitoria che fa da pendant alla previsione inserita nell’art. 73, comma 2, e 134, comma 2, sull’impugnabilità delle leggi elettorali prima della loro promulgazione e sull’obbligo della Corte costituzionale di pronunciarsi entro trenta giorni dal ricevimento del ricorso.

In modo alquanto sibillino si aggiunge poi che “Anche ai fini di cui al presente comma, il termine di cui al comma 6 decorre dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale”. Di conseguenza, il comma 11 potrebbe essere inteso come una sorta di seconda attuazione del disposto dell’art. 57, comma 6, diversa da quella disciplinata dal medesimo articolo ai commi  da 1 a 6.

Interpretata così questa disposizione, sussisterebbe un’evidente aporia nel testo di revisione costituzionale.

Tuttavia, come si accennava, sarebbe un’interpretazione non conforme alla lettura sistematica delle disposizioni. Infatti, il primo accadimento previsto, dopo l’approvazione della legge di revisione costituzionale, non è l’approvazione della legge elettorale del Senato, bensì la formazione del Senato secondo la previsione dell’art. 39, comma 1, previo scioglimento del solo Senato.

Il procedimento di formazione del Senato, disciplinato dallo stesso art. 39, pertanto, si baserebbe sull’elezione, nei Consigli regionali e della Provincia autonoma di Trento e, a tal fine, “ogni consigliere può votare per una sola lista di candidati, formata da consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori”. Nella sola Provincia autonoma di Bolzano si tiene “conto della consistenza dei gruppi linguistici in base all’ultimo censimento” e “in sede di prima applicazione ogni consigliere può votare per due liste di candidati, formate ciascuna da consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori” (art. 40, comma 6).

I seggi a ciascuna lista di candidati sono assegnati, dividendo il numero dei voti espressi per il numero dei seggi attribuiti e si ottiene il quoziente elettorale; successivamente si divide il numero dei voti espressi in favore di ciascuna lista di candidati per il quoziente; a questo punto, “i seggi sono assegnati a ciascuna lista di candidati in numero pari ai quozienti interi ottenuti, secondo l’ordine di presentazione nella lista dei candidati medesimi, e i seggi residui sono assegnati alle liste che hanno conseguito i maggiori resti; a parità di resti, il seggio è assegnato alla lista che non ha ottenuto seggi o, in mancanza, a quella che ha ottenuto il numero minore di seggi”.

Ovviamente, si presuppone una distribuzione dei seggi tra le Regioni e le Province autonome secondo i parametri di proporzionalità desunti dal peso demografico di ciascuna regione, con il limite minimo di due senatori per Regione, la qualcosa determina una certa degressività nella rappresentanza proporzionale, che porta a dieci “collegi” (otto Regioni e le due Province autonome) con solo due senatori e a due Regioni con tre senatori.

Non è che queste disposizioni siano di per sé perspicue e non possano dare luogo a incertezze; basti pensare che nulla si dice in merito alla formazione della lista “comune” di consiglieri e di sindaci. Diamo per scontato che, applicando il disposto dell’art. 57, comma 2, anche alla formazione del primo Senato, secondo le disposizioni transitorie, comunque esista una riserva a favore di un sindaco per regione e per provincia autonoma.

Si può discutere, a questo punto, della qualità di questa Camera di rappresentanza istituzionale, evidenziando una valutazione molto approssimativa sul risultato finale della composizione del Senato e si possono richiamare anche le disposizioni della Costituzione austriaca e di quella tedesca che prevedono ciascuna il limite dei tre seggi per Land e per di più senza rappresentanza locale. Resta il fatto che il modello italiano ha una diversa composizione e le regole (transitorie) per la formazione del nuovo Senato dovrebbero essere applicate il giorno dopo l’entrata in vigore della legge di revisione costituzionale.

A questo punto, l’incongruenza con il comma 11 dell’art. 39 sarebbe superata, perché certamente il Parlamento nella composizione della Camera dei Deputati attuale e del nuovo Senato, transitoriamente formato in base all’art. 39, comma 1, potrebbero approvare la legge elettorale del Senato, secondo quanto prescritto nell’art. 70, comma 1, e come anche lascia intendere l’inciso che fa decorrere il termine di sei mesi del comma 6 dalla “data di entrata in vigore della presente legge costituzionale”.

È di tutta evidenza, poi, che una duplicità di percorsi possibili permane. Infatti, i commi 3, 4 e 6 farebbero pensare al rinnovo della Camera dei Deputati, ed eventualmente di (una parte dei) Consigli regionali e provinciali, prima della costituzione in via transitoria del Senato e che a questo Parlamento, con la Camera nuova e il Senato costituito da senatori, in parte, provenienti dai consigli regionali in essere e, per altra parte, da quelli rinnovati  attraverso le nuove elezioni regionali, spetterebbe approvare la legge elettorale del nuovo Senato.

Questa duplicità si adatta meglio all’imprevedibilità delle vicende politico-istituzionali italiane e comunque non rappresenta più un problema dal punto di vista ermeneutico e costituzionale, in quanto potrebbe darsi uno scioglimento anticipato già nella primavera del 2017. Inoltre, nell’ottobre del medesimo anno si avvierà la nuova stagione elettorale delle Regioni. I comportamenti concreti determineranno perciò quale disciplina transitoria troverà applicazione.

 

3.   La composizione del Senato: la questione della distribuzione dei seggi tra le Regioni. – Consideriamo adesso il secondo gruppo di problemi legati alla composizione del nuovo Senato. Con particolare riferimento al criterio di distribuzione dei seggi, abbiamo accennato già alla composizione del Senato transitorio e alla circostanza che anche per quella formazione del Senato si accoglie il principio di riservare un seggio per ogni Regione o Provincia autonoma a un sindaco della stessa, in base al disposto dell’art. 57, comma 2.

La questione è se la legge elettorale del Senato sia obbligata a mantenere la distribuzione dei seggi in modo così rigorosamente proporzionale, con la degressività minima ricavabile dall’art. 57, comma 3, oppure se – fermo il principio che un seggio della propria rappresentanza spetti sempre a un sindaco “dei Comuni dei rispettivi territori” – nella scrittura della legge elettorale si possa porre rimedio alla scarsa qualità della rappresentanza delle regioni e province autonome derivante dal numero minimo di senatori fissato in Costituzione e aumentare la degressività in modo da dare una diversa consistenza alla rappresentanza delle Regioni più piccole.

Si tratta di un profilo molto delicato nella composizione di una Camera di rappresentanza territoriale che non si dà nell’ipotesi in cui la Camera debba rappresentare l’insieme del popolo, inteso come corpo elettorale, per la quale il criterio di formazione proporzionale è sicuramente quello più adatto e, semmai, sono le deroghe, ad esempio in senso maggioritario, a dovere essere giustificate e valutate sempre come compatibili con il principio della rappresentanza generale.

Nel caso di Camere che rappresentano le istituzioni territoriali, invece, il criterio proporzionale è il meno adatto a dare vita all’Assemblea. Senza bisogno di ricordare il caso statunitense, di due senatori per Stato, certamente a rendere inadatto il principio proporzionale è il principio di eguaglianza delle entità rappresentate, a prescindere dalla consistenza della loro popolazione, del quale si deve tenere conto.

Non è un caso che sia la Costituzione tedesca, che quella austriaca prevedono nella composizione del rispettivo Bundesrat, da compiere con regole profondamente diverse tra loro, pur sempre il numero minimo di tre membri per Land (Art. 51, par. 2, GG “Jedes Land hat mindestens drei Stimmen”; Art. 34 B-VG “Jedem Land gebührt jedoch eine Vertretung von wenigstens drei Mitgliedern”) e si badi anche che il numero complessivo dei componenti della Camera di rappresentanza dei Länder nei due Paesi menzionati è più piccolo (rispettivamente 68 per la Germania e di 62 per l’Austria) di quello previsto per il nostro Senato, anche al netto dei sindaci-senatori.

Se si considera la composizione del Senato previsto dalla riforma, alla luce del principio di proporzionalità, risulta evidente che ben dodici regioni sarebbero rappresentate da solo ventisei senatori, mentre le restanti nove avrebbero una rappresentanza di sessantanove senatori; senza contare poi che rappresentanze di due o tre senatori, compresi i sindaci dei rispettivi territori, avranno difficoltà a seguire il complesso dei lavori del Senato rispetto a rappresentanze più numerose che potranno anche applicare il principio della divisione del lavoro; tanto più questo se si considera che, improvvidamente, la riforma non ha previsto nessuna possibilità di senatori supplenti per le rappresentanze regionali.

Il tema si incentra, allora, sull’interpretazione dell’art. 57, comma 3, che così si esprime: “Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha due”.

Ora, questa previsione sembra consentire una diversa distribuzione dei seggi  tra le Regioni articolando in modo diverso il criterio proporzionale, proprio alla luce del disposto dell’art. 57, comma 4, che prescrive “la ripartizione dei seggi tra le Regioni (…), previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, in proporzione alla loro popolazione”. Infatti, la proporzionalità, rispetto alla popolazione, non costituisce il criterio unico per la formazione della rappresentanza al Senato, ma si accompagna a quello della proporzionalità degressiva.

Da questo punto di vista, se ci si interroga su quali siano i limiti di questa degressività, si può osservare che il comma 3, indica solo un limite minimo per la rappresentanza delle Regioni (“Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due”), mentre definisce direttamente solo la rappresentanza delle due Province autonome (“ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha due”). Ne discende che, ferma la quota di due senatori per la rappresentanza delle Province autonome, per le regioni invece, essendo l’indicazione di due senatori solo una previsione minima, la legge elettorale del Senato potrebbe prevedere un numero più alto di senatori, che risulterebbe pienamente compatibile con il principio della proporzionalità degressiva.

Inoltre, anche la prescrizione che impone alla legge nell’assegnazione dei seggi a ciascuna regione di tenere conto della popolazione (“in proporzione alla loro popolazione”), non necessariamente deve comportare la scelta di un calcolo matematico puro, frutto della divisione per ottenere il quoziente, che ha come numeratore la popolazione e come denominatore il numero dei seggi da attribuire; tanto più che i voti espressi in occasione delle elezioni regionali potrebbero non rispecchiarsi proporzionalmente nella composizione di ciascun Consiglio, come avverte l’ultima parte del comma 6 dell’art. 57.

Pertanto, a prescindere dalle disproporzionalità create dalle leggi elettorali regionali, si potrebbe prendere in considerazione il criterio delle fasce demografiche delle Regioni per una più equilibrata distribuzione dei seggi nella composizione della Camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali. In questo modo sarebbe possibile contemperare l’eguaglianza delle Regioni con la loro consistenza demografica, determinando un’attribuzione dei seggi maggiore per le Regioni demograficamente più grandi e, proporzionalmente, minore per le Regioni delle diverse fasce con un minimo di almeno tre senatori per ciascuna Regione e di due per ciascuna delle Province autonome.

Una simile distribuzione dei seggi del Senato sarebbe, anche da parte delle Regioni, un primo momento di un diverso modo di lavorare sul piano istituzionale delle Regioni medesime, caratterizzato dalla collaborazione orizzontale, la quale sarà essenziale nel funzionamento del nuovo Senato.

 

4.   Segue: i problemi connessi alle candidature al Senato dei sindaci e dei consiglieri. – A prescindere dalla questione del numero dei senatori attribuiti a ciascuna regione, resta l’interrogativo sulle modalità di individuazione dei senatori. Anche in questo caso le disposizioni costituzionali sembrano lasciare intravvedere diversi criteri di determinazione non concludenti direttamente verso un’interpretazione univoca, per cui ancora una volta bisognerà ricorrere al criterio sistematico.

In primo luogo, la riforma sembra avere compiuto la scelta a favore di una Camera composta per opera dei Consigli regionali, sui quali grava il compito di scegliere anche il sindaco-senatore della propria regione (“I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori”, art. 57, comma 2).

In base a questa disposizione ciascun Consiglio si trasformerebbe in una costituency per la formazione del Senato con un sistema elettorale proporzionale.

In via transitoria l’art. 39 disciplina il sistema elettorale interno al Consiglio regionale. A tal fine assegna a ogni consigliere la possibilità di votare per una sola lista formata di consiglieri e sindaci dei rispettivi territori. Con la divisione dei voti espressi con i seggi da attribuire individua il quoziente, grazie al quale si effettua l’attribuzione dei seggi alle liste, quozienti pieni e resti, e si individuano i senatori secondo l’ordine delle candidature; non vi sono perciò voti di preferenza. Le liste, infine, conservano validità per la sostituzione dei senatori, nel caso quelli eletti cessino dalla carica di consigliere o di sindaco. È previsto, da ultimo, anche un diritto di opzione per la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti, la quale nell’ambito dei seggi spettanti può decidere se far nominare senatore un sindaco o, in alternativa, un consigliere; per le regioni piccole e per le province autonome questa opzione si traduce in un vincolo per la seconda lista.

Resta da chiedersi quanta parte di questa disciplina è destinata a tradursi nella legge elettorale di cui all’art. 57, comma 6, dal momento che, fermo il principio di proporzionalità e il vincolo dell’elezione di un sindaco del rispettivo territorio, le opzioni del procedimento elettorale non necessariamente possono limitarsi a quelle contenute nelle disposizioni transitorie; e ciò è tanto più vero se si che considera il disposto dell’art. 57, comma 5, è stato modificato nell’imminenza del voto al Senato, sulla base di un emendamento presentato dal Presidente della Commissione affari costituzionali, On.le Finocchiaro, con l’intento di compattare la minoranza del Partito democratico, che minacciava di non votare la riforma costituzionale. Infatti, la disposizione richiamata pone ulteriori condizioni costituzionali che devono essere soddisfatte dalla legge elettorale, per le quali, alla previsione che  “la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti”, si aggiungeva che i senatori sono eletti dai Consigli regionali “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Mentre la prima prescrizione riguarda sia i senatori sindaci, che i senatori consiglieri, la seconda può riguardare solo i senatori consiglieri.

Quest’ultima indicazione, frutto dell’emendamento Finocchiaro, incide direttamente sulle caratteristiche strutturali della rappresentanza regionale. Infatti, senza l’inciso risultava evidente che il disposto per il quale “il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali” (art. 55, comma 4) riconduceva le decisioni circa la composizione della Camera alta, tranne che per le prerogative attribuite al Presidente della Repubblica, esclusivamente ai Consigli regionali (art. 57, comma 2).

A seguito dell’approvazione dell’emendamento, che prescrive l’elezione in seno al Consiglio regionale in conformità alle scelte espresse dagli elettori “in occasione del rinnovo dei medesimi organi”, non viene meno la prerogativa dei consigli regionali di eleggere i senatori, ma questa verrebbe in una qualche maniera condizionata da indicazioni che dovrebbero ricavarsi dalle elezioni regionali, per cui la disposizione costituzionale introdotta con l’emendamento richiederebbe anche una modifica delle leggi elettorali regionali, per conformarle a quanto disposto (come previsto, del resto, dall’art. 39, comma 11, ultima parte, “Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di cui all’articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano conformano le rispettive disposizioni legislative e regolamentari a quanto ivi stabilito”).

Si tratta, però, di capire in che modo la prerogativa dei consigli regionali di eleggere i senatori si può combinare con l’indicazione popolare e, perciò, quali siano le modalità che la legge elettorale possa prescrivere.

 

5.   La presentazione delle candidature per i sindaci e per i consiglieri. – I quesiti posti meritano delle risposte. Innanzi tutto, con riferimento alle modalità di presentazione delle candidature, non si può rilevare alcun obbligo di comporre una lista congiunta di sindaci e consiglieri regionali. Anzi, appare preferibile distinguere le due categorie e attribuire ai consiglieri due voti uno per i sindaci e uno per i consiglieri da eleggere al Senato, perché le condizioni elettorali a cui ubbidiscono sindaci e consiglieri sono diverse. Si consideri, peraltro che il seggio del sindaco da ricoprire è sempre uno solo e la lista, semmai, può tornare utile per le sostituzioni che dovessero rendersi necessarie nel corso della legislatura regionale.

I veri nodi, in tal senso, riguardano le elezioni dei senatori consiglieri e sono due: il primo concerne il pluralismo politico, se debba rispecchiarsi nella presentazione di più liste politicamente caratterizzate, oppure se questo pluralismo, atteso che si tratta di una rappresentanza istituzionale e territoriale, debba ricomporsi nella formazione di una sola lista come avviene nei casi di rappresentanza corporativa, od ancora se si debba trattare di candidature singole. Il secondo nodo è rappresentato dal raccordo tra le elezioni del consiglio e quelle dei senatori.  

A tal riguardo, cominciando dalla prima questione, si consideri che la consistenza dei consigli regionali è stata ridotta, dopo l’intervento del decreto n. 174 del 2012 (art. 2) e della sentenza n. 198 del 2012 e che, salvo correttivi che accentuino la degressività, solo per nove regioni i seggi di senatore da ricoprire sono più di tre; in alcuni casi i consigli hanno una composizione di venti o trenta consiglieri e, in generale, nei consigli regionali non sono rari gruppi consiliari composti di un consigliere (il che costituisce una contraddizione in termini) o di due consiglieri. Di conseguenza, molto difficilmente il sistema regionale nel suo complesso consente la possibilità dell’applicazione di un sistema elettorale con una pluralità di liste, basato su quozienti e resti per l’attribuzione dei seggi di senatori.

Indubbiamente l’appartenenza politica dei consiglieri avrà un peso; sia perché di uomini della politica stiamo trattando, sia perché una prima indicazione dei senatori dovrebbe avvenire a monte dell’elezione del Consiglio regionale, dove la competizione è squisitamente politica ed è pregnante l’attività dei partiti nella selezione delle candidature. Tuttavia, nel proseguimento del procedimento di formazione del Senato, l’appartenenza politica dei consiglieri appare destinata a stemperarsi in virtù della rappresentanza istituzionale e il meccanismo elettorale dovrebbe ubbidire a quest’ultima esigenza e non a riprodurre pedissequamente le coloriture politiche dei singoli consiglieri.

Da questo punto di vista, appare più che sensata, non solo nel caso in cui i senatori da eleggere in consiglio siano uno o al massimo due, ma anche in quello in cui i seggi da attribuire siano più di due, l’ipotesi di candidature individuali senza bisogno della lista su cui i consiglieri si esprimono con il loro voto; e questo passaggio dipende molto dal modo in cui si pensa di dettare, nella legge elettorale del Senato, una disciplina che assicuri che i senatori siano eletti “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”, in occasione del rinnovo dei Consigli regionali.

 

6.   Il raccordo tra le elezioni del Consiglio e quelle dei senatori. – Il legame tra l’elezione in Consiglio dei senatori e le “scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri” ha innescato una discussione ampia tra gli interessati e anche nel dibattito tra costituzionalisti che ha portato a una congerie di proposte: dai consiglieri eletti con il maggior numero di voti di preferenza, al listino dei candidati consiglieri-senatori, all’indicazione per ciascuna lista di un numero doppio di candidati consiglieri-senatori, ecc.

Si tratta di ipotesi tutte, in via di principio, dotate dello stesso grado di arbitrarietà, che rendono evidente come l’emendamento Finocchiaro, utile per ricompattare il gruppo del partito democratico al Senato, sia stato concretamente poco lungimirante; tanto più che l’attenuazione dei poteri elettorali dei Consigli regionali è stata motivata dalla minoranza del Partito democratico con argomenti estemporanei che non hanno alcuna consistenza politica, né costituzionale. Non è con interventi che determinano una confusione sui significati costituzionali delle prescrizioni istituzionali che si difende la nostra ormai fragile democrazia.

La discussione sull’opportunità e sul significato dell’emendamento ormai appare spuria, atteso che questo è stato approvato ed è diventato parte della disciplina costituzionale che tocca la legge elettorale del Senato.

Tuttavia, la legge elettorale del Senato, nel fissare le modalità attraverso cui le “scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri” si riverberano sull’elezione consiliare dei senatori, dovrebbe preoccuparsi soprattutto di non menomare la prerogativa costituzionale dei Consigli regionali cui compete concretamente l’elezione dei senatori e questa elezione, da parte dei Consigli, non può essere ridotta ad una mera registrazione di indicazioni esterne, sia pure provenienti dal corpo elettorale. Il conflitto sarebbe ancora una volta tra elezione politica ed elezione corporativa; tra rappresentanza dei partiti e rappresentanza istituzionale e territoriale.

Un buon compromesso, in proposito, sarebbe quello di fissare nella legge elettorale del Senato un criterio, o un numero minimo, ma maggiore rispetto a quello dei seggi da ricoprire, che possa consentire effettivamente ai Consigli regionali di eleggere i senatori con un potere di scelta effettivo.

Da questo punto di vista, poi, sarebbe sensato, rispetto alla scarsa avvedutezza espressa dall’emendamento, se le forze politiche nelle elezioni per il rinnovo dei Consigli regionali potessero indicare tutti i loro candidati consiglieri come candidati che possono rivestire la carica di senatore, lasciando così il più ampio margine di decisione sui senatori al futuro Consiglio. Del resto è così per il Senato transitorio, per il quale ogni consigliere può essere inserito in lista. Nel caso dell’elezione dei senatori in occasione del rinnovo del Consiglio regionale, l’indicazione di tutti i candidati consiglieri come possibili senatori, una volta eletti effettivamente al Consiglio, darebbe una indicazione opportuna non solo politicamente, ma anche dal punto di vista costituzionale, in quanto agevolerebbe anche la comprensione da parte degli elettori dell’importanza dell’elezione dei propri Consigli regionali.

A tal riguardo, infatti, ci si deve domandare per quale ragione le liste elettorali dei candidati consiglieri dovrebbero contenere delle candidature differenziate, tra chi può essere eletto al Senato e chi debba essere escluso da questa elezione, senza contare che il giudizio degli elettori potrebbe essere diverso, persino in modo radicale; e se non sia più opportuno che i partiti politici selezionino le candidature al Consiglio regionale e pensino al contempo anche alla composizione del Senato, candidando nella lista regionale persone in grado di occupare un seggio tanto in Consiglio, quanto in seno al Senato della Repubblica.

Un simile meccanismo semplificherebbe i meccanismi elettorali per il Senato, metterebbe una cura particolare nella formazione dei Consigli regionali e supererebbe i luoghi comuni che vengono ripetuti per screditare questa parte della riforma costituzionale che è forse l’unica innovazione che meriti un’attenzione particolare. Anche i meccanismi di sostituzione dei senatori-consiglieri (art. 66, comma 2) potrebbero funzionare meglio e in modo più semplice, messi al sicuro dalla possibilità che si esauriscano le eventuali indicazioni fornite dagli elettori per i candidati senatori.

 

7.   Il nodo dei Presidenti delle Giunte regionali. – Residua un ultimo punto da considerare ai fini dell’elezione dei senatori da parte dei Consigli regionali, che riguarda la possibilità, come da più parti si sostiene, che i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome possano essere eletti al Senato. La questione investe direttamente il tipo di rappresentanza che si vuole far sedere in seno al Senato. Con i Presidenti delle Regioni, infatti, si tenderebbe a trasferire la Conferenza Stato Regioni nella Camera alta; mentre con i consiglieri regionali il Senato accoglierebbe i rappresentanti delle istituzioni regionali che svolgono compiti legislativi.

Si comprende come il problema non sia scevro da implicazioni di ordine istituzionale, nel quale, da un lato, si situano le funzioni assunte dal nuovo Senato e, dall’altro, le stesse relazioni insite nella forma di governo regionale con l’elezione diretta dei Presidenti della Regione.

Con riferimento al primo aspetto, occorre considerare che, per quanto l’art. 55, comma 5, attribuisca compiti di genere diverso al nuovo Senato, questa Camera sarà prevalentemente una camera legislativa, non solo per le materie specifiche in cui il Senato interviene in modo paritario nel procedimento legislativo (art. 70, comma 1), ma anche e soprattutto per la necessità di dovere seguire il procedimento legislativo nelle forme di cui ai commi 3, 4 e 5 dell’art. 70; senza contare che a norma dell’art. 70, comma 7, il Senato della Repubblica mantiene come sua diretta controparte la Camera dei deputati e può svolgere “attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame” di questa.

Appare, perciò, improprio che una camera di rappresentanza delle istituzioni regionali con competenze prevalentemente legislative possa essere costituita dai responsabili degli esecutivi.

A tal riguardo, ogni confronto o assimilazione con il Bundesrat tedesco, che è costituito da rappresentanze degli esecutivi dei Länder e che pure in determinate condizioni opera come seconda camera legislativa, è privo di fondamento e denota la scarsa conoscenza del sistema federale e della forma di governo tedesca, così come della storia attraverso cui dalla Costituzione guglielmina del 1871, alla Grundgesetz del 1949, passando per la Costituzione di Weimar del 1919, si è formato e si è evoluto lo stesso Bundesrat.

Infatti, e questo è l’altro profilo considerato, i presidenti delle Regioni in Italia, a partire dall’entrata in vigore della legge costituzionale n. 1 del 1999, sono eletti direttamente con un apposito voto degli elettori e godono di un considerevole peso politico nei confronti dei Consigli regionali compensato solo apparentemente dalla possibilità che questi possano esperire una mozione di sfiducia nei loro confronti, a norma dell’art. 126 Cost., vista la vigenza della regola del simul stabunt, simul cadent.

Diversamente, in Germania gli esecutivi regionali intrattengono una relazione di fiducia con i parlamenti regionali, nella forma della sfiducia costruttiva, esercitano le loro funzioni in seno al Bundesrat attraverso voti che possono essere dati unitariamente dai rappresentanti di ciascun Land (“Die Stimmen eines Landes können nur einheitlich und nur durch anwesende Mitglieder oder deren Vertreter abgegeben werden”, Art. 51, par. 3, GG) e che possono essere preceduti da risoluzioni e mozioni votate nel Landtag. Nel caso italiano, invece, l’elezione riguarda i singoli senatori, i quali – per disposto costituzionale – godono delle immunità parlamentari e del divieto del mandato imperativo. Anche questi elementi sconsigliano vivamente di pensare che organi degli esecutivi regionali, con compiti e responsabilità di amministrazione, possano essere investiti della carica di senatore.

A fronte di queste considerazioni vi sono poi gli elementi che si desumono direttamente dalle disposizioni costituzionali sulla composizione del Senato e dai lavori preparatori. Infatti, le Camere hanno modificato sul punto radicalmente la dicitura dell’art. 57, che nella versione presentata dal Governo l’8 aprile del 2014, prevedeva che “il Senato dell’autonomia (fosse) composto dai Presidenti delle Giunte regionali, dai Presidenti delle Province autonome di Trento e di Bolzano, dai sindaci dei Comuni capoluogo …”; il testo governativo era cioè orientato al trasferimento dell’esperienza delle Conferenze in sede parlamentare, con una scelta a metà fra la rappresentanza di esecuzione e la rappresentanza di tipo politico.

Tuttavia, il Parlamento ha espressamente modificato questa formulazione, facendo venire meno ogni riferimento ai Presidenti delle Giunte regionali e ai Sindaci dei Comuni capoluogo. E ovviamente, nell’immediata applicazione di una norma dopo la sua approvazione, i lavori preparatori sono un elemento fondamentale per interpretare il testo.

Si aggiunga, poi, che i Presidenti delle Giunte possono non essere membri del Consiglio regionale e anche qualora lo Statuto dica: il Consiglio regionale è composto da 20, 30... più il Presidente, quel “più il Presidente” esprime pur sempre una collocazione diversa rispetto al Consiglio, derivante dell’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale.

Infatti, la circostanza che tutte le Regioni ordinarie (e anche quelle speciali, con la sola eccezione della Valle d’Aosta) abbiano optato per l’elezione diretta del presidente della Giunta, complice anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 2 del 2004), crea un ostacolo linguistico insormontabile dal punto di vista interpretativo. Infatti, l’art.  57, comma 5, proprio con l’“emendamento Finocchiaro”, disporrebbe che i senatori siano eletti “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Qui non si fa riferimento ai consiglieri eletti, che – sia pure equivocamente – avrebbe potuto aprire un margine di discussione sui Presidenti delle Giunte, ma ai candidati consiglieri e i candidati consiglieri, con l’eccezione della Valle d’Aosta, non coincidono in nessuna Regione o Provincia autonoma con il candidato Presidente della Giunta, che è eletto con un voto disgiunto rispetto a quello del Consiglio. Questo argomento sembra essere abbastanza decisivo, per non ammettere formalmente la possibilità che i Consigli eleggano i Presidenti della Giunta alla carica di senatore.

Sussiste, però, un ulteriore argomento che il testo della riforma offre a favore dell’impostazione seguita e che smentisce in modo evidente sia l’ipotesi che ammette l’eleggibilità dei Presidenti della Giunta alla carica di senatore, sia quella estrema secondo la quale addirittura la legge elettorale potrebbe prevedere l’assegnazione senza elezione di un seggio di senatore al Presidente della Giunta.

L’impossibilità di considerare eleggibili al Senato i Presidenti della Giunta regionale discende dalla disciplina della sostituzione dei senatori prevista nelle diverse norme costituzionali. Infatti, il medesimo art. 57, comma 6, dispone che la legge elettorale del Senato, oltre a fissare “le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri regionali e i sindaci”, preveda altresì “quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale” e l’art. 66, comma 2, attribuisce al Senato della Repubblica la verifica “della cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente decadenza da senatore”, disponendo – in collaborazione con il Consiglio regionale interessato – la sostituzione del senatore decaduto.

Ora, queste previsioni costituzionali si riferiscono al venir meno della carica elettiva (di sindaco o di consigliere) nel corso della legislatura e perciò alla sostituzione di un singolo senatore nel perdurare della rappresentanza complessiva. Invece, attese le regole che vigono nel nostro ordinamento, la sostituzione che si può disporre per il senatore sindaco e per il senatore consigliere regionale, compreso –eventualmente – il consigliere che possa essere stato eletto Presidente della Giunta in Valle d’Aosta, non può estendersi ai restanti Presidenti della Giunta regionale eletti in via diretta. Infatti, ogni ipotesi di decadenza dalla carica di senatore, a seguito della cessazione della carica elettiva regionale, non potrebbe dare luogo a sostituzione, nel senso indicato dalle disposizioni costituzionali, bensì alla rimozione del Presidente, allo scioglimento del relativo Consiglio (art. 126 Cost.) e a nuove elezioni regionali, con il rinnovo della rappresentanza dei senatori attribuita alla Regione.

Questa questione appare di particolare interessa per l’attuale classe politica nazionale, senza che si accorga che, in questo modo, potrebbe causarsi la prima deviazione dal testo della riforma proprio da parte di coloro che l’hanno propugnata. La forzatura di prevedere comunque i Presidenti della giunta, sia nella forma della loro eleggibilità, sia in quella più estrema che riserverebbe loro un seggio in Senato, contrasta irrimediabilmente con il testo costituzionale. Pertanto, con un comportamento perfettamente in linea con la tradizione italiana, si avrebbe l’effetto paradossale di sostenere con forza l’importanza di una riforma costituzionale, salvo poi disattenderla con la legge ordinaria, che dovrebbe darvi attuazione. Nel tempo si affermerebbe così una logica diversa rispetto a quella che ha animato la scrittura del testo della Costituzione.

 

8.   Considerazioni conclusive sul funzionamento e la collocazione del nuovo Senato. – Esauriti i principali nodi della legge elettorale del Senato si possono considerare le regole di funzionamento e la collocazione di questo “nuovo” organo costituzionale nel nostro sistema democratico.

Ipotizziamo che il buon senso istituzionale, applicato alle nuove disposizioni costituzionali interpretate con un minimo di rispetto e coerenza, conduca all’approvazione di una legge elettorale che consenta una composizione del Senato nella quale prevalga il sentimento della rappresentanza territoriale, e non la semplice appartenenza politica, e che, perciò, realmente il Senato della Repubblica rappresenti le istituzioni regionali e locali, secondo il disposto dell’art. 55, comma 4. Supponiamo, ancora, che il metodo di formulazione della legge elettorale comporti una rappresentanza delle singole Regioni più qualificata, grazie all’accettazione da parte delle Regioni più grandi, per popolazione, di un criterio di degressività adeguato a contemperare rappresentanza e dimensione. Pensiamo, infine, che le modalità di formulazione delle candidature superino gli schemi delle liste di partito, peraltro inapplicabili nella maggior parte dei casi, e che le indicazioni espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione delle elezioni regionali trovino una base di scelta in una classe politica regionale degna di rivestire la carica di senatore. Auspichiamo, da ultimo, che i Presidenti della Giunta regionale, consci dei loro compiti, non si affannino per avere l’immunità parlamentare e che la rappresentanza di esecuzione non sia immessa dentro il Senato.

Consideriamo che la migliore legge elettorale per il nuovo Senato sia stata scritta; resta da valutare, allora, quale debba essere il principio di funzionamento della rappresentanza delle istituzioni territoriali.

Dal testo della riforma, al riguardo, si può ricavare qualche indicazione, ma risulta tutt’altro che perspicua. Un elemento certo si ricava dalle disposizioni costituzionali ed è che il Senato continuerà ad affidare la sua organizzazione per il funzionamento a un proprio regolamento. Anzi, come dispone l’art. 39, comma 8, sono “le disposizioni dei regolamenti parlamentari vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale” che “continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, fino alla data di entrata in vigore delle loro modificazioni, adottate secondo i rispettivi ordinamenti dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica, conseguenti alla medesima legge costituzionale”.

Inoltre, è rimasto immutato il primo comma dell’art. 63 Cost., per il quale “Ciascuna Camera elegge fra i suoi componenti il Presidente e l’Ufficio di presidenza”, mentre tutt’altro che comprensibile risulta essere il secondo comma del medesimo art. 63, inserito dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, il quale disporrebbe che “il regolamento stabilisce in quali casi l’elezione o la nomina alle cariche negli organi del Senato della Repubblica possono essere limitate in ragione dell’esercizio di funzioni di governo regionali o locali”. Infatti, se l’espressione funzioni di governo regionali e locali è assunta, come sembra, in una accezione generale, risulta evidente che i membri del Senato sono tutti investiti di funzioni di governo regionale o locale; e se la dizione “organi del Senato della Repubblica”, più ampia di quella “Presidente e Ufficio di presidenza”, potendo ricomprendere anche Giunte e Commissioni, il nuovo comma dell’art. 63, frutto della trasformazione di un più semplice emendamento che prevedeva l’incompatibilità tra le diverse cariche negli organi del Senato, presentato dal Senatore Calderoli e dalla Senatrice Finocchiaro (“Le elezioni e le nomine alle cariche negli organi del Senato della Repubblica sono disciplinate dal regolamento, che stabilisce i casi di incompatibilità”), è stato trasformato in un testo che presuppone che in Senato seggano rappresentanti dei territori che non possano essere nominati o eletti alle cariche negli organi del Senato. Se così fosse la normativa sulla composizione del Senato sarebbe poco accorta.

A prescindere dalla collocazione di eventuali disposizioni non facilmente intellegibili, conseguenza dei diversi passaggi parlamentari, senza una adeguata revisione finale, sembra potersi sostenere che la strutturazione del Senato per il suo funzionamento dovrà ancora articolarsi in Giunte (per il regolamento, art. 64; per la verifica dei poteri, art. 66; e per le immunità parlamentari, art. 68) e Commissioni, comprese quelle che procedono a indagini conoscitive e a inchieste, come si desume dal complesso della disciplina costituzionale e, in modo specifico, da alcune disposizioni costituzionali, tra cui l’art. 64, comma 6, l’art. 70, comma 7, e l’art. 82.

Anche per ciò che attiene ai procedimenti legislativi dell’art. 70, commi 1, 3, 4 e 5, sarà necessario procedere alla formazione di commissioni che esamino i disegni di legge. Questo è acclarato pure dall’art. 72, comma 1 (“Ogni disegno di legge di cui all’articolo 70, primo comma, presentato ad una Camera, è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e con votazione finale”), per quanto riguarda le ipotesi in cui il Senato interviene nel procedimento legislativo come camera deliberante al pari della Camera dei deputati (procedimento bicamerale per le materie di cui all’art. 70, comma 1).

Tuttavia, è lecito pensare che, anche nel caso in cui il Senato possa (art. 70, comma 3) o debba (art. 70, commi 4 e 5) esaminare il testo approvato dalla Camera dei deputati e la sua partecipazione al procedimento legislativo sia limitata a “deliberare proposte di modificazione del testo”, che sortiscono effetti diversi a seconda della maggioranza della loro approvazione e dei procedimenti in cui intervengono, l’esame delle deliberazioni legislative della Camera dei deputati da parte di questo avvenga in modo ordinato, con una fase istruttoria, affidata a una commissione, e una fase deliberativa, affidata all’assemblea; senza una simile articolazione sarebbe persino difficile pensare che il Senato possa riuscire ad esprimere una propria volontà in merito alle deliberazioni esaminate, per di più nei termini alquanto ristretti previsti dalle disposizioni costituzionali.

Tutto ciò non significa, però, che il Senato debba funzionare esattamente come funziona adesso che è una camera politica e di rappresentanza generale al pari della Camera dei deputati. Infatti, nel contesto di una camera di rappresentanza politica generale, in cui sono attivi, attraverso i gruppi, partiti in competizione per i quali l’appartenenza gioca un ruolo determinante nella lotta politica per la formazione della maggioranza e dell’opposizione, il criterio di organizzazione funzionale è quello di fare eco al risultato elettorale ammettendo la formazione dei gruppi parlamentari e di comporre tutti gli organi interni della camera “in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari”. Diversamente, in una camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali non appare necessaria, né opportuna la previsione dei gruppi parlamentari e la regola della composizione degli organi interni in ragione della proporzione risultante dalle appartenenze politiche, peraltro mutevole alquanto di frequente, per via delle diverse scadenze elettorali cui sono soggette le Regioni.

Su questo punto sembra che il testo della riforma costituzionale abbia avuto l’intuizione giusta. Infatti, l’art. 72, comma 4, con riferimento al procedimento in commissione deliberante, per “l’esame e l’approvazione dei disegni di legge” che possono essere “deferiti a Commissioni, anche permanenti”, prescrive che solo alla Camera dei deputati queste commissioni siano “composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari” e lo stesso sembra ribadire all’art. 82 a proposito delle Commissioni d’inchiesta, che per il Senato sono limitate alle “materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali”.

Anche questa disposizione prevede che alle inchieste si proceda con la nomina di una commissione “fra i propri componenti” e pur non differenziando i poteri di indagine delle commissioni della Camera e di quelle del Senato (“con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria”), prescrive per la sola Camera dei deputati che “la Commissione (sia) formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi”.

Si può sottolineare ancora, che il testo della riforma, sul punto dell’organizzazione interna del Senato, a parte Presidente e Ufficio di presidenza, volutamente tace e specificamente per i procedimenti legislativi prevede, all’art. 70, comma 6, che “il regolamento del Senato della Repubblica disciplina le modalità di esame dei disegni di legge trasmessi dalla Camera dei deputati ai sensi dell'articolo 70”.

Dunque, se in Senato non sono possibili o, quanto meno, auspicati, gruppi parlamentari e commissioni, del diverso tipo, formate in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi, resta da definire – in assenza di indicazione positiva desumibili dal testo della riforma – a quali principi debba obbedire l’organizzazione e la funzionalità del nuovo Senato. Da questo punto di vista, appare importante considerare che la rappresentanza territoriale debba funzionare, anche nella risoluzione dei conflitti che in essa si possano manifestare, secondo il principio della collaborazione solidale. Infatti, la collaborazione orizzontale e la solidarietà territoriale dovrebbe costituire la chiave di lettura dell’intero sistema delle autonomie (Regioni, enti di area vasta e comuni) e della sua rappresentanza in Senato.

Altrimenti detto, il Senato dovrebbe conoscere uno spirito di collaborazione interno proteso verso una rappresentazione coerente del territorio nel contesto generale della Repubblica di cui gli enti territoriali sono parte.

E se il manifestarsi di conflitti interni al Senato sarà da ritenere inevitabile, per il variegato gioco degli interessi, il peggiore dei modi per risolverlo sarebbe quello del rispetto dell’appartenenza politica, che si tradurrebbe o con l’obbedienza politica al Governo, nel caso di una formazione del Senato conforme alla maggioranza della Camera dei deputati, o con una coabitazione “impossibile”, qualora in Senato dovessero prevalere le forze di opposizione, che utilizzino la rappresentanza territoriale per realizzare l’opposizione che non riescono a condurre nella Camera dei deputati, dove, per effetto di una legge elettorale maggioritaria, la loro capacità di opposizione, nonostante la previsione di uno statuto dell’opposizione, finisce con l’essere alquanto limitata.

I conflitti in seno a una camera di rappresentanza territoriale dovrebbero e potrebbero essere di natura territoriale e come tali essere trattati; gli interessi confliggenti che verrebbero in essere atterrebbero cioè agli effetti territoriali delle politiche pubbliche e necessiterebbero di una composizione diversa da quella della camera politica.

Questo profilo è tanto più rilevante, se si pensa che una delle questioni politiche insolute dell’Italia è il divario territoriale, che non ha avuto più da tempo un’adeguata rappresentazione in seno alla politica nazionale, e ciò è la causa del suo drammatico permanere e aggravarsi, con alti costi a carico della comunità generale e con la perdita di opportunità di crescita per la nostra economia.

Certamente, nel caso in cui il conflitto territoriale sia debole, potrebbe accadere che l’appartenenza politica faccia breccia rispetto alla rappresentanza territoriale; per contro, nel caso in cui le esigenze territoriali tendano a prevalere, si assottiglierebbe la differenziazione politica dei senatori, per accentuarsi l’interesse territoriale; il massimo, da questo punto di vista si avrebbe, poi, quando i due elementi dell’appartenenza politica e dell’interesse territoriale, in qualche misura, possano sovrapporsi (l’ipotesi, non peregrina, potrebbe darsi qualora le regioni, di una determinata parte del territorio nazionale, siano governate dalla medesima maggioranza politica).

Di fronte a simili contesti, vi sono due possibili modi di affrontare questo genere di conflitti: o dando sfogo al gioco degli interessi, accentuando nelle deliberazioni il prevalere di quelli di una parte del territorio, nei confronti degli altri interessi territoriali, per cui non resterebbe che sperare che la Camera dei deputati, grazie alla rappresentanza politica generale, ricomponga i conflitti territoriali, ma non sarebbe questo il suo compito. Oppure, controllando, attraverso il dibattito in seno al Senato, il conflitto degli interessi territoriali, per addivenire a deliberazioni nelle quali prevalga lo spirito della solidarietà territoriale, frutto dello spirito di collaborazione tra le istituzioni territoriali che dovrebbe animare il nuovo Senato.

Se si vogliono azzardare degli esempi, per comprendere meglio la tipologia del modo di affrontare e risolvere il conflitto degli interessi territoriali, possiamo considerare, per una ipotesi in cui prevale l’egoismo territoriale, l’esempio europeo, con i conflitti tra gli stati mitteleuropei e scandinavi, da una parte, e gli stati mediterranei, dall’altra; e, per un modello di composizione ispirato alla solidarietà, l’esempio della riunificazione tedesca, nel quale i Länder occidentali si sono fatti carico, insieme al Bund, della condizione economica dei Länder orientali della ex DDR.

Inutile dire, perciò, che il modello virtuoso che ispiri il funzionamento del Senato al principio di collaborazione e di solidarietà territoriale sia quello da preferire, anche perché sarebbe in grado di generare la responsabilità territoriale, per la quale alla solidarietà di alcune Regioni dovrebbe corrispondere l’impegno da parte delle Regioni beneficiarie a migliorare la propria condizione storica; e da questo spirito possono discendere anche regole di organizzazione delle articolazioni interne diverse dalla considerazione dell’appartenenza politica, come ad esempio il comporre le commissioni in modo paritario con senatori che provengono dalle regioni delle diverse parti del nostro Paese; e questo genere di comportamenti potrebbe fornire l’esatta posizione del “nuovo” Senato nel nostro sistema democratico. Infatti, il nuovo Senato potrà essere buono o cattivo, alla luce di tutte le variabili considerate. Tuttavia, la considerazione della sua esistenza e del suo funzionamento, nell’architettura della Repubblica, come utile, inutile o dannosa dovrà essere posta con riguardo al contributo che la rappresentanza territoriale arreca allo sviluppo della democrazia.

Il Senato continuerà a rappresentare un pezzo della nostra democrazia, anche se eletto indirettamente, accanto alla rappresentanza diretta e generale del corpo elettorale che siede nella Camera dei Deputati, la quale continuerà a conferire la fiducia al Governo, e che sarà formata sulla base di una legge elettorale che – diversamente da quella per l’elezione del Senato – sarà deliberata, in via esclusiva, dalla stessa Camera dei Deputati. Per la legge elettorale della Camera varranno i principi costituzionali della rappresentatività democratica, di proporzionalità, di ragionevolezza, di eguaglianza del voto e della sovranità popolare, indicati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014 come caratterizzanti della discrezionalità di cui gode il legislatore ordinario che detta la legge elettorale. Il rispetto di tali principi sarà importante tanto più adesso che la riforma – com’è stato già accennato – prevede la possibilità di una impugnazione preventiva delle leggi elettorali davanti al giudice costituzionale (art. 73, comma 2, e art. 134, comma 2).

Accanto a questa rappresentanza politica generale, la riforma introduce una rappresentanza di prossimità con le istituzioni territoriali. Pure questa si deve considerare una rappresentanza politica e, in tal senso, il Senato continuerà a essere una camera politica, ma di genere diverso. Anche se a volte sarà diviso secondo la logica dell’appartenenza ai partiti, il suo funzionamento dovrà considerare come prevalenti gli interessi territoriali e questa circostanza renderà profondamente diversa la rappresentanza politica che il Senato esprime rispetto a quella della Camera, perché sarà comunque una rappresentanza di prossimità.

La necessità di una rappresentanza di prossimità, accanto alla rappresentanza politica generale, può essere considerato un rimedio importante alla crisi della democrazia italiana. Infatti, un Senato costituito da “candidati consiglieri”, eletti al Consiglio regionale e come senatori “in conformità alle scelte espresse dagli elettori”, diventerà un correttivo del sistema politico attuale, che vede una frattura profonda, in senso oligarchico, all’interno dei partiti politici tra i militanti e l’elettorato fidelizzato, da un lato, e i gruppi dirigenti dei partiti, dall’altro. Non a caso uno degli elementi di questo sistema politico, rispetto al passato, è la disaffezione alla politica e la scarsa partecipazione al voto.

Mettere in campo la rappresentanza territoriale, espressasi nei Consigli regionali, significa immettere un elemento di correzione costituzionale per la crescita della democrazia.

 

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