(Intervento alla Tavola rotonda del Seminario “L'impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni. La prospettiva italiana, spagnola ed europea”, organizzato dall’ISSiRFA-CNR, dalla LUMSA e dall’Università di Macerata e svoltosi a Roma, presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA, il 13 novembre 2014).
 
 
1. Note introduttive
2. Il caso della fecondazione eterologa: una strana commistione tra diritti fondamentali e diritti sociali
3. Il ruolo delle Regioni nel dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale in materia di fecondazione eterologa
4. Qualche considerazione conclusiva
 
 
1. Note introduttive
Tempi di crisi, tempi di ripensamento dei capisaldi. E’ per questo che rileva un momento di riflessione sul ruolo che le Regioni italiane svolgono nel campo dei diritti in generale e dei diritti sociali in particolare, un ruolo che è stato valorizzato dalla riforma del Titolo V, Parte Seconda, della nostra Costituzione e che ora sembra subire una regressione come conseguenza della crisi economica[1].
Il mio contributo a tale riflessione nasce dall’aver osservato da vicino per alcuni anni l’esperienza della Regione Lombardia, regione efficiente e segnata da interessanti innovazioni proprio nel campo dei diritti sociali. In forza di ciò mi pare di poter dire che, se in superficie le Regioni non sono state in prima linea nel disegnare normativamente (e quindi in astratto) le caratteristiche e i confini del welfare state italiano (basti pensare che la previdenza, uno dei capisaldi della garanzia dei diritti sociali, è tutta di pertinenza statale e che spesso la previdenza stessa è stata un modo per dare assistenza ai bisognosi fornendo loro denaro invece che servizi), in concreto le politiche di welfare, a partire dalla sanità, sono stata un importante banco di prova per configurare nuovi e più efficienti interventi in questo settore. E, pertanto, è bene guardare a questo aspetto per interrogarsi sul protagonismo regionale in materia e per verificare l’impatto della crisi su di esso.
Ora, non vi è dubbio che le formule costituzionali abbiano influenzato potentemente il pensiero della dottrina sui diritti e, in un certo senso, anche la prassi. Non è certo il caso in questa sede di riandare alle discussioni già fatte sull’interpretazione della formula di cui alla lett. m) dell’art. 117, II comma. Essa ha polarizzato l’attenzione degli studiosi per la sua indeterminatezza ma anche per la promessa di preludere ad un rinnovamento delle caratteristiche dello stato sociale, aperto alla differenziazione ma non disgregato, abbandonato al mercato o a mere scelte arbitrarie regionali. Come è noto, essa ha poi anche portato a sovrastimare il ruolo dello Stato, dominus della finanza e quindi artefice e garante dell’uniformità fino ad annullare, almeno in apparenza, la possibilità di intervento creativo ed innovativo delle Regioni nel determinare i livelli non essenziali. La Corte, si sa, ha poi fatto il suo[2].
E tuttavia, pur tra mille difficoltà, le Regioni hanno avuto un ruolo importante nel configurare il regime dei servizi. Il protagonismo regionale, infatti, si è visto molto più sul piano dell’amministrazione[3], quello che guarda primariamente alle prestazioni relative ai diritti sociali e che si occupa di rispondere a domande fondamentali: come si organizza un servizio? Come lo si finanzia? Quali caratteristiche deve avere la prestazione e a chi è concretamente destinata? Queste domande, che attengono alla dimensione amministrativa, danno spazio agli interventi delle Regioni e degli enti locali e toccano i diritti della persona in modo diretto, al di là di disegni normativi spesso concepiti al centro del Paese.
Credo di avere segnalato questo aspetto molto volte: diritto allo studio, diritto all’acceso ai servizi al lavoro, formazione professionale, la stessa sanità, politiche per la famiglia e politiche assistenziali sono tutti settori in cui l’azione regionale (e degli enti locali per quanto di loro competenza) ha avuto spazio e ha creato innovazione e forse anche efficienza (ma questo è molto difficile da dire visto che da noi ogni tentativo di “valutare” l’efficienza amministrativa sconta un ritardo decennale soprattutto a motivo della mancanza di dati su cui esercitarsi). Lo stesso tema dell’accreditamento, presente in diverse materie del welfare e regolato in modi diversi nelle diverse regioni ma pure cruciale per la determinazione della platea dei produttori di beni sociali, non è certo secondario se si vuole parlare con realismo di diritti sociali e delle prestazioni che devono essere erogate per renderli effettivi.
Essendo imperniata sulla dimensione amministrativa, l’azione regionale ha subìto in modo molto importante le conseguenze della crisi del 2008 anche se, in questa sede, ci è stato documentato che non sempre si è riscontrato un impatto negativo (vedi relazione di De Angelis sulla sanità). Certo, il trend centralizzante è cresciuto sia per la necessità di rafforzare gli ammortizzatori sociali sia per gli interventi di risanamento della spesa pubblica (ad esempio nei casi di taglio alle spese per l’assistenza ai disabili); si può notare come, sempre per fare un esempio, la riduzione dei trasferimenti agli enti locali abbia contribuito a mettere in crisi un settore, quello delle cooperative sociali, da sempre impegnato a far fronte ai bisogni assistenziali della popolazione. Eppure, anche in questo campo, la crisi ha contribuito a riaprire una riflessione sull’assistenzialismo che ha caratterizzato da sempre il welfare nostrano, svincolando le politiche di supporto al bisogno da scelte di empowerment del bisognoso; anche la politica dei sussidi a pioggia è stata spesso un vero e proprio incentivo a mantenere gli utenti nello loro stato di bisogno: basti pensare alle politiche passive per la disoccupazione, totalmente svincolate da vere e proprie politiche attive, capaci di rimettere in modo la persona.
Come impressione generale si può dunque dire che la crisi ha sì inciso sul welfare regionale ma non sempre in modo negativo; e, ancora come impressione generale, si riscontra il fatto che, sotto la crosta delle discussioni e dei tagli, la vita delle Regioni è continuata circa come prima, dibattendosi tra le incertezze in tema di finanziamento e l’impossibilità di intervenire a organizzare l’erogazione dei servizi per rigidità delle norme statali di contorno (si pensi, ad esempio, al peso dei contratti collettivi nazionali in sanità e nel settore dell’istruzione).
Dove invece ci sono stati spazi di intervento, qualcosa è stato fatto anche se molto meno di quanto si sarebbe dovuto. Venendo da un Regione tendenzialmente efficiente, posso dire che i processi innovativi sono stati tanti e sono ancora in atto, nonostante il cambio nella politica regionale: la classe politica al governo, infatti, ha per ora e in buona sostanza lasciato le cose nello stato in cui le ha trovate, cambiando etichetta ma non contenuti. I tagli, ovviamente, sono stati fatti (e subiti): a soffrirne sono state soprattutto le politiche di supporto all’istruzione (il buono scuola in Lombardia si è praticamente dimezzato) e la formazione professionale, che ha perso una parte consistente dei fondi statali, mentre la sanità, da sempre di buon livello, ha visto un incremento dei tickets ma anche il sostanziale mantenimento dei livelli qualitativi propri dell’ante crisi.
Con tutto ciò non si vuol dire che la crisi non abbia inciso: i tagli alle spese per le prestazioni sociali, a partire dalle pensioni, hanno determinato una svolta nei livelli di reddito delle persone e delle famiglie. La riforma costituzionale in cantiere si prefigge di riportare molto al centro, soprattutto in relazione all’esercizio della funzione legislativa. Eppure molto rimarrà come prima: il ventre molle della pubblica amministrazione, in tutte le sue articolazioni, cambia più lentamente quando non tende a restare motore immobile di una relazione stato-cittadino da sempre orientata alla subordinazione. Valutare gli impatti di un cambiamento costituzionale in fieri non è facile, soprattutto se non è ancora chiaro il destino del cambiamento stesso. E’ per questo che è la vita concreta delle istituzioni da mettere a tema, ben di più che le teorie sul welfare e i suoi riscontri costituzionali.
 
 
2. Il caso della fecondazione eterologa: una strana commistione tra diritti fondamentali e diritto sociali
A documentare queste prime scarne osservazioni può essere utile fare un a fondo sul caso della fecondazione eterologa dopo la sentenza della Corte costituzionale nr. 162 del 2014, sentenza che ha dichiarato incostituzionale il divieto di tale forma di procreazione e ha quindi aperto le porte a questa nuova pratica sanitaria.
Come si ricorderà, la decisione si era aperta plaudendo a diritti fondamentalissimi quali il diritto alla privacy, all’autodeterminazione, al diritto ad essere genitori ecc… per chiedersi poi con un richiamo forte al diritto alla salute, in forza del quale sussisterebbe un diritto a ricevere determinate prestazioni sanitarie volte a ripristinare le manchevolezze nell’esercizio dli tale diritto.
l caso interessa in questa sede non tanto per i suoi risvolti etici, su cui ci si è già soffermati, quanto proprio per il tema del ruolo delle Regioni in materia di welfare state e di diritto alla salute in particolare. In estrema sintesi (ma anche per aprire il discorso) si può dire che qui le Regioni hanno dimostrato una straordinaria vitalità, capace di metterle in pole position rispetto allo Stato non solo facendo da apripista nel garantire ai cittadini diritti costituzionalmente garantiti ma anche espandendo il loro raggio di azione dalla garanzia della prestazione alla garanzia di diritti fondamentali. Il che, sempre in apertura, modifica sostanzialmente il loro ruolo globale rispetto ai diritti: si evidenzia infatti un intervento sulle prestazioni (fecondazione di tipo eterologo) che non manca di risvolti sul piano dei diritti di libertà (o delle libertà in senso lato) quale è la libertà/diritto a procreare e il diritto alla autodeterminazione/privacy desunta dalla Cedu.
 
 
3. Il ruolo delle Regioni nel dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale in materia di fecondazione eterologa
Andando con ordine, va ricordato che la sentenza, oltre a eliminare il divieto, aveva anche prefigurato il regime giuridico da applicare alla nuova tecnica sulla base di principi generali (quali l’anonimato del donatore o la gratuità della donazione) già presenti nella normativa generale sulla materia ma non immediatamente applicabili alla fattispecie la quale, a differenza della fecondazione artificiale omologa, prevede l’intervento del terzo quale donatore, figura da regolamentarsi ad hoc. A ciò si aggiunga il problema dei costi (da definire sia quantitativamente sia per quanto riguarda l’imputazione degli stessi) e, a ciò ancora connesso, la necessità/opportunità di modificare l’elenco delle prestazioni previste come livelli essenziali di assistenza, il rapporto Stato-Regioni nella definizione delle rispettive competenze in materia.
Tale forma d’intervento della Corte ha attivato Governo, Parlamento e Regioni ad intervenire in materia, creando non poche problematiche di tipo sia giuridico sia politico. In un primo tempo, infatti, il Governo si era orientato verso l’emanazione di un decreto-legge che evitasse la diversificazione degli interventi regionali e volto quindi a garantire l’uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale. Caduta in sede politica questa ipotesi (non irragionevole, a dire il vero) la palla è stata passata al Parlamento (e lì come al solito si è fermata) ma contemporaneamente anche alle Regioni le quali si sono attivate sia individualmente (Regione Toscana) sia nel loro insieme. Può essere interessante ricorda che, nel rimandare la questione al Parlamento, il Governo non aveva presentato un disegno di legge ma aveva inviato una semplice Nota in cui il Governo invitava i Capigruppo Parlamentari ad attivarsi e ad un tempo rendeva pubblici i contenuti del mancato decreto legge, dopo essere stati politicamente condivisi con le Regioni; nella nota si sanciva infatti che la nuova tecnica avrebbe dovuto essere fornita sulla base di una serie di principi tra i quali andavano annoverati: il recepimento della direttiva 2006/17/CE; l’istituzione del Registro Nazionale per la tracciabilità donatore-nato per motivi inerenti alla salute ma che, ad un tempo, consentisse di rispettare il diritto all’anonimato del donatore, sancito dalla Corte Costituzionale; la regola della gratuità e volontarietà della donazione di cellule riproduttive (una scelta questa non solo tecnica ma valoriale in quanto inerente alla disponibilità del proprio corpo); l’introduzione di un limite massimo alle nascite da un medesimo donatore per motivi di ordine pubblico e di salute (in generale un massimo di 10) ; l’introduzione di un limite massimo di età per i donatori (35 per le donne e 40 per gli uomini) e la modifica dei livelli essenziali di assistenza al fine di ricomprendervi la fecondazione eterologa e la relativa copertura finanziaria. Sempre secondo il Governo, si sarebbero dovute predisporre regole che definissero, tra l’altro, i criteri di selezione dei donatori e dei riceventi, gli esami infettivologici e genetici da effettuare, le regole relative all’anonimato (e non solo il principio stesso) nonché i criteri per l’esecuzione della metodica.
La scelta governativa lascia aperte e irrisolte diverse questioni, prima tra tutte quello della competenza a deliberare in materia: trattandosi infatti di diritti fondamentali (quali il diritto alla privacy nella forma dell’anonimato) e di questioni di natura economica attinenti alla necessità di realizzare l’uniformità di trattamento, naturale sarebbe stato ritenere l’intervento di spettanza statale. E, tuttavia, questo non è avvenuto. Al contrario, i mesi successivi hanno visto le Regioni attivarsi al fine di “garantire un diritto a tutte le coppie che vogliono avere un figlio” e “dare linee guida, sicurezza, regole chiare e eliminare il rischio far west” (così l’assessore sanità Marrone[4]) ; sempre dalla Toscana è poi partita la decisione di aprire un tavolo nella sede della Conferenza Stato Regioni che, a settembre dello scorso anno, ha predisposto un documento sul tema sottoscritto da tutte le Regioni. Com’è stato ampiamente riportato dalla stampa, la classe politica regionale, nel rivendicare il primato delle iniziative adottate, ha affermato che, senza queste scelte primigenie, tutto si sarebbe fermato, in attesa delle scelte da operarsi in sede nazionale; esse avrebbero pertanto consentito di rendere effettivo il diritto affermato dalla Corte Costituzionale, quello di diventare genitori.
A differenza della Toscana, la Lombardia ha mostrato fin dall’inizio una forte resistenza a dare applicazione diretta alla sentenza e a fornire il servizio a titolo gratuito. La Regione aveva infatti manifestato la volontà di attendere che il Governo inserisse la fecondazione eterologa tra i livelli essenziali di assistenza assumendosene in tal modo i relativi costi, nel rispetto delle competenze stabilite dalla Costituzione, secondo cui i livelli essenziali delle prestazioni sono una materia di competenza esclusiva statale su cui non è consentito alle Regioni intervenire in modo autonomo e non in via migliorativa[5].
A smentire ad interim questa impostazione è intervenuta una recentissima pronuncia resa nell’ambito di un provvedimento di urgenza dal Consiglio di Stato; nel provvedimento i giudici hanno asserito che la Regione Lombardia, una volta scelto di sostenere i costi della PMA omologa, non possa non sostenerli anche nel caso della PMA eterologa, altrimenti realizzandosi una discriminazione irragionevole tra chi ottiene il primo trattamento sanitario (a spese della collettività generale) e chi ottiene il secondo (a spese proprie), nel godimento di un diritto fondamentale (quello alla salute).
Venendo al documento regionale, esso rispecchia molti dei contenuti della Nota ministeriale presentata dal Governo al Parlamento; in seguito, le Regioni hanno recepito tali contenuti in loro delibere attuative dell’accordo e hanno iniziato a erogare la prestazione, normalmente a carico dei proprio servizi sanitari o, in caso di prestazione rese a persone provenienti da una regione diversa, a rimborsare per quanto eseguito a favore delle coppie sterili.
Questo modo di dare attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale, peraltro, non ha eliminato i molti problemi sia normativi (relativi ad esempio alla scelta compiuta da alcune regioni sottoposte a commissariamento di erogare gratuitamente la prestazione) sia pratici (mancanza di donatori, vista l’incertezza in materia di anonimato, formalmente garantito mentre sono richiesti dati imprescindibili per una tutela effettiva della salute dei nati) che la nuova tecnica presenta e che le Regioni hanno tentato di risolvere ma certamente in modo non definitivo, essendo ancora aperto il procedimento di determinazione dei nuovi livelli essenziali delle prestazioni[6].
 
 4. Qualche considerazione conclusiva
Non è certo il caso, di fronte alla vicenda descritta, di dilungarsi in considerazione teoriche se non per segnalare che, in questo caso, le Regioni hanno dimostrato una notevole capacità di intervento, capacità che ha trovato una forte eco nella stampa. Certo, il caso di prestava ad essere sottolineato e, in parte, enfatizzato; resta il dubbio se si sia in presenza di un episodio isolato o se esso sia il segnale di un trend che il futuro potrà confermare. In altre parole, vi è da chiedersi se in materia di diritti fondamentali, e perlopiù controversi sul piano dell’etica, la via della azione congiunta in via amministrativa delle Regioni sia la più utile e, in seconda battuta, la più opportuna.
Un’altra questione da porsi è se questo caso, facendo tendenza, potrebbe essere un modo per contrastare la centralizzazione cui si è assistito in questi ultimi anni caratterizzati dalla crisi e dalla conseguente spending review; la via della regolamentazione amministrativa uniforme tramite accordi tra Regioni potrebbe essere infatti un modo per contemperare le esigenze di unità con quelle della differenziazione (anche se pare evidente che qui non ci sia stato spazio alla differenziazione viste le tendenze in atto nella giurisprudenza). Un altro modo di contrastare la centralizzazione è quello messo in luce da Francesco Merloni su Le Regioni (editoriale del nr. 5-6/2014), secondo cui spending review e lotta alla corruzione possono diventare leve potenti di centralizzazione e di compressione dell’autonomia ma lasciano molti spazi anche all’azione autonoma delle Regioni e degli enti locali, posto che essi siano in grado di farne buon uso. E se ciò non avviene, non è per una carenza nel disegno normativo bensì per una incapacità sostanziale ad intervenire in modo coerente e creativo.
In questa fase, in cui il Paese sembra sulla strada per uscire dalla crisi e per avviare una importante stagione di riforme (a partire dalla riforma costituzionale ma non solo: scuola e lavoro sono anch’esse oggetto di progetti di riforma, che appare epocale) le Regioni possono continuare a svolgere i loro compiti in stretta collaborazione con gli sforzi in atto da parte del governo centrale.
In conclusione, dunque, si può dire che, se è vero che la crisi economica ha messo alla prova l’autonomia regionale e la sua capacità di rispondere alle domande di beni sociali, essa ha anche fatto emergere tendenze nuove, che potrà essere utile tenere vive per comprendere se sia possibile passare da tendenza a metodo. Questa del resto è anche la posizione espressa da Valerio Onida in una sua recentissima risposta a Antonio Polito (Corriere della Sera, 28 maggio 2015, p. 30). A Polito che icasticamente affermava che “il potere è a Roma, in periferia sono rimaste solo le addizionali IRPEF” ha ribattuto Onida che il disegno regionalista è stato voluto in Costituzione per contrastare la tradizione centralista e burocratica e per costruire uno stato nuovo, capace di dare migliori servizi ai cittadini, per governare in modo intelligente il territorio, per sollecitare lo sviluppo economico. Se la crisi è stata una occasione per rilanciare questo dibattito, essa ha certamente fatto qualcosa di positivo per il Paese.
 
 
 
Prof. Lorenza Violini
Diritto Costituzionale, Università degli Studi di Milano
 
 

[1] Circa l’“insopportabile degrado del nostro regionalismo”, per usare le parole di U. De Siervo (in Rappresentanza politica e ruolo della legge, in Osservatorio sulle fonti, fasc. n. 3 del 2012, Osservatorio sulle fonti.it), con riferimento alla tutela dei diritti sociali, cfr. i contributi contenuti in L. Violini (a cura di), Verso il decentramento delle politiche di welfare, incontro di studio “Gianfranco Mor” sul diritto regionale, Giuffrè, 2011. Più in generale, S. Mangiameli, Le regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, Milano, giuffrè, 2013; i Rapporti annuali dell’ISSIrfa sullo stato del regionalismo italiano (Ed. giuffrè, Milano); Irpa (Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione), Il falso decentramento italiano a dieci anni dalla riforma della costituzione, Rapporto n. 2 del 2012.
[2] Da ultimo, tra i molti, F. Biondi Dal Monte, V. Casamassima, Le Regioni e i servizi sociali a tredici anni dalla riforma del Titolo V, in Le Regioni nr. 5-6/2015, p. 1080. Si mette in luce in questa sede un ampliamento significativo del significato della formula livelli essenziali fino a ricomprendervi la normativa sull’ ISEE e l’erogazione diretta di provvidenze ad opera della Corte Costituzionale (sentt. 297/2012, 10/2010 e 62/2013).
[3] Un caso di studio condotto a partire dalla dimensione amministrativa e in particolare dalle disponibilità finanziarie in E. Fagnani, Tutela dei diritti fondamentali e crisi economica: il caso dell’istruzione. Stato di attuazione, funzioni amministrative e finanziamento del sistema, Giuffrè, 2014, in cui è contenuta un’analisi relativa allo stato di attuazione del diritto sociale all’istruzione.
[4] L. Marrone, Fecondazione eterologa, il ruolo di apripista della Toscana, in www.regione.toscana.it.
[5] Nella Conferenza-stampa che ha seguito l’approvazione del Documento del 4 settembre 2014, il Presidente Maroni ha dichiarato che la Regione Lombardia – in assenza di decisioni a livello centrale in merito ai costi della procedura – non avrebbe compiuto alcun passo avanti, trattandosi di questioni che esulano dalla competenza regionale.
[6] Sui passi fatti dal Governo in materia si veda R. Lugarà, L’abbandono dei LEA alle Regioni: il caso della procreazione medicalmente assistita, in Osservatorio Costituzionale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Febbraio 2015.

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