Intervento alla tavola rotonda su “La riforma della riforma”, svoltasi nel quadro del Convegno-ISSiRFA dal titolo “Regionalismo in bilico, tra attuazione e riforma della riforma” (Camera dei Deputati, Sala del Cenacolo, 30.6.2004). L’intervento è aggiornato al testo della riforma approvato dalla Camera dei deputati il 15 ottobre 2004


SOMMARIO:
1. Premessa
2. La correzione dell’elenco delle materie
3. Il Senato federale
4. Le esigenze unitarie
5. Il federalismo fiscale
6. La forma di governo
7. La corsa verso il referendum costituzionale



1. Premessa
Il lavoro parlamentare di approvazione della revisione della Costituzione procede con rapidità e non è stato sempre facile seguire nel dettaglio le diverse proposte e schermaglie politico-parlamentari; d’altra parte, sino a che non si arriverà ad un testo consolidato è molto difficile poter dare un giudizio complessivo.
Può però essere opportuno svolgere qualche riflessione generale, partendo dalla seguente osservazione: oggi, sotto il profilo istituzionale, la situazione italiana si potrebbe sintetizzare dicendo che il nostro paese vive due emergenze, un problema ideologico, un grande problema concreto e pratico, una sindrome. Seguendo questo schema proverò ad articolare un giudizio sullo stato delle riforme e sul testo di riforma approvato dalla Camera il 15 ottobre 2004.

2. La correzione dell’elenco delle materie
La prima emergenza è rappresentata dalla correzione dell’elenco delle materie di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni contenuto nell’art.117, comma 3, così come modificato dalla riforma del Titolo V (legge n.3 del 2001).
Come è ben noto, ormai, al colto e all’inclita, al chierico e al laico, l’art.117, comma 3, attribuisce alla potestà legislativa concorrente “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, “ordinamento della comunicazione”, “grandi reti di trasporto e di navigazione”, “professioni”. Si trattava – per non voler seguire la tesi paradossale dell’errore della funzione Windows “taglia” e “cuci” – del tentativo generoso di un legislatore costituzionale, forse ingenuo, che riteneva di poter coinvolgere le Regioni (tutte le Regioni) nei processi di governo di settori cruciali della vita economica nazionale.
Di fronte all’evidente incapacità di Stato e Regioni di maneggiare in modo moderno una simile, diversa, prospettiva (che presupponeva non il formale attaccamento alla difesa delle reciproche potestà legislative, ma una non miope capacità di reciproco coinvolgimento) ed alla impossibilità istituzionale per la Corte di trattare efficacemente siffatti esplosivi problemi, bene ha fatto la Camera dei deputati (Ac 4862) a correggere l’art.117, comma 3 e in alcuni casi anche il comma 2.
Allo Stato spettano, dunque, secondo il testo approvato dalla Camera dei deputati, “grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza”, “ordinamento della comunicazione”, “ordinamento delle professioni intellettuali”, “sicurezza del lavoro”, “ordinamento sportivo”, “norme generali sulla tutela della salute; sicurezza e qualità alimentari”, “produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia”. Restano di competenza concorrente “reti di trasporto e di navigazione” “comunicazione di interesse regionale, ivi compresa l’emittenza di ambito regionale; promozione in ambito regionale dello sviluppo delle comunicazioni elettroniche”, “istituti di credito a carattere regionale”, “ordinamento sportivo regionale”, “produzione e trasporto e distribuzione dell’energia”. Oltre a ciò, l’art. 38 aggiunge tra le competenze esclusive statali, facendo tesoro dell’esperienza di quasi tre anni della giurisprudenza della Corte costituzionale, la “promozione internazionale del sistema economico produttivo nazionale”, la “politica monetaria”, la “tutela del credito”, le “organizzazioni comuni di mercato”.
Si tratta di modifiche che vengano incontro alle esigenze di funzionamento del sistema economico ed alle pressanti richieste in tal senso del mondo industriale e professionale, senza con ciò essere penalizzanti per le Regioni, alle quali vengono attribuiti i rispettivi ambiti di interesse regionale.
Sembra difficile non approvare – e almeno astenersi! – su tali proposte di modifiche (almeno fino a che, nel processo di riformulazione delle competenze, si manterrà un certo equilibrio e non prevarranno istinti di eccessiva centralizzazione).

3. Il Senato federale
La seconda emergenza riguarda la necessità di individuare un luogo di compensazione politica tra Stato e Regioni, essendo ormai le seconde titolari di rilevanti competenze legislative e di risorse destinate ad ampliarsi.
Questo luogo non può che essere una Camera (il Senato) dove siano rappresentati gli interessi locali attraverso un forte collegamento con il territorio.
E, allora, almeno elezione contestuale di Senato e Consigli regionali in modo che i primi e i secondi siano eletti sulla base degli stessi temi, problemi e questioni e possano vicendevolmente influenzarsi; presenza pleno iure con diritto di voto di un rappresentante delle Regioni e di un rappresentante delle Autonomie locali all’interno del Senato.
Nel contempo, costruzione di un razionale procedimento legislativo, che veda la presenza forte del Senato “federale”, la tendenziale prevalenza della Camera politica e alcune leggi bicamerali (con la Commissione di conciliazione).
Su questi temi c’è ancora da lavorare; ma se si vuole superare l’emergenza di una endemica conflittualità, questa (assieme alla costituzionalizzazione delle conferenze) è la strada da seguire. Per la maggioranza al governo l’acquisizione del consenso delle Regioni e delle autonomie è cruciale, per cercare di reiterare – se necessario – il modello della legge Cost. 3/2001, contrapponendo alla contrarietà dell’opposizione politica il consenso delle Regioni e delle autonomie.

4. Le esigenze unitarie
Il problema ideologico è quello dell’unità nazionale e del ripristino di strumenti di esplicita tutela dell’interesse nazionale (non inesistenti in realtà nel testo vigente, pur se non esplicitamente così denominati; macchinosi nella proposta di riforma).
Bene ha fatto – e altro non poteva fare – il Presidente della Repubblica a richiamare il principio di unità.
Ma, da un lato, il valore dell’unità nazionale è profondamente diverso nell’ambito dell’unione europea: l’unitarietà è oggi in grande misura data dall’Europa e la vera unità da perseguire è quella europea, nell’ambito della quale quella nazionale rappresenta una species ad genus. Dall’altro, non è vero che la riforma attenti all’unità nazionale.
E, invero, l’assistenza e l’organizzazione sanitaria sono già profondamente regionalizzate, giacché da tempo le Regioni hanno predisposto propri modelli di funzionamento. Il vero grande fallimento della riforma Bindi è proprio quello di non essere stata in grado di offrire modelli di riferimento validi per le varie regioni: nell’impossibilità di attuazione, la normativa nazionale è oggi totalmente svuotata di efficacia, come ha in qualche modo sancito la sentenza n. 510/02 della Corte Costituzionale.
La capacità unificante è data dalla competenza legislativa statale in tema di “determinazione dei livelli essenziali”, alla quale il testo approvato dalla Camera aggiunge – con una operazione di chiarezza intellettuale – la competenza in tema di “norme generali sulla tutela della salute”.
Egualmente, dopo la riforma Moratti e la sentenza della Corte costituzionale n. 13 del 2004, estremamente avanzata è la regionalizzazione dell’istruzione scolastica e della gestione degli istituti scolastici, nonché la definizione di parte dei programmi scolastici e formativi.
Le differenziazioni nel godimento di fondamentali diritti, quali quello alla salute ed all’istruzione, non subiranno nessuna ulteriore torsione rispetto a quanto già oggi possibile con l’attuale Titolo V.
Rimane, è vero, la “polizia locale”. Rischi di attentato all’unità – in presenza delle competenze statali in tema di ordine pubblico e sicurezza e di ordinamento penale – non ne vedo; rischi di confusione, si.
E, allora, bene ha fatto la Camera a modificare il testo parlando di “polizia amministrativa regionale e locale”, come comprensiva anche di quelle politiche della sicurezza, che non attengono alla nozione ristretta di ordine pubblico e sicurezza e riguardano la sicurezza (safety) dei cittadini nelle materia di potestà legislativa regionale: sicurezze spesso molto più importanti per il cittadino di quella sicurezza legata a, e dipendente da, la nozione di ordine pubblico.

5. Il federalismo fiscale
Il vero grande problema concreto è quello della distribuzione delle risorse finanziarie. A livello costituzionale non è probabilmente opportuno specificare e dettagliare ulteriormente il testo dell’art. 119, che già offre riferimenti sufficienti; occorre in realtà definire i tempi di attuazione. Né appare impossibile costruire uno schema di attuazione dell’attuale testo costituzionale: occorre definire le funzioni statali, regionali e locali; individuarne i costi storici; attribuire quote di imposte statali e ambiti di tassazione tale da coprire tali costi; costruire un modello di perequazione.
I nodi scottanti arriveranno quando si dovrà definire le modalità di finanziamento delle Regioni speciali rispetto a quelle ordinarie, quando si dovrà discutere del riparto delle risorse tra Regioni e autonomie, quando si dovrà (ri)definire il modello di perequazione (dopo che quello individuato dal D.lgs. 56 del 2000 ha incontrato le fiere resistenze delle Regioni meridionali).
Questi sono i veri problemi, di difficilissima soluzione, fonte sicuramente di gravi lacerazioni anche all’interno degli schieramenti politici, ma in qualche modo sub-costituzionali, nel senso che derivano dalle possibili attuazioni della vigente disposizione costituzionale. E’ vero poi che mancano valutazioni approfondite sui costi e i conti del federalismo: ma la polemica di questi giorni è in grande misura strumentale. I costi del federalismo nascono già con la legge n. 59 del 1997 e con la legge cost. n. 3 del 2001.

6. La forma di governo
La sindrome italiana, infine, è quella del “ribaltone”, del cambio cioè di maggioranza ribaltando o modificando la maggioranza uscita dalle elezioni. Proprio da questa sindrome derivano (oltre alla disciplina dell’elezione del Presidente della Regione) le complicate disposizioni previste nei nuovi articoli 88 e 94 approvati dalla Camera dei deputati il 15 ottobre.
Facciamo un passo indietro. Dalla prima applicazione della legge elettorale maggioritaria, a seguito del referendum del 1993, l’Italia ha avuto sette governi: (XII Legislatura) Berlusconi I; Dini; (XIII) Prodi; D’Alema I; D’Alema II; Amato II; (XIV) Berlusconi II. Di questi, tre (Berlusconi I, Prodi, Berlusconi II) sono derivati direttamente dal responso elettorale (qualche dubbio, come è noto, viene avanzato sulla diretta derivazione del primo Governo Berlusconi dal voto); uno (Dini) è uscito da un ribaltamento del responso elettorale; gli altri tre sono derivati dalla sostituzione di un partito della originaria maggioranza elettorale con un manipolo di parlamentari usciti dalle fila dell’opposizione. Manca nella tipologia di questi anni il cambio Thachter-Major, vale a dire la sostituzione del Premier all’interno della stessa maggioranza parlamentare.
Ora, prima di giudicare gli emendamenti proposti dalla maggioranza, bisogna rispondere ad una domanda pregiudiziale: quale di queste tipologie di governo e di maggioranza governativa riteniamo costituzionalmente auspicabile, essendo le altre tipologie da bandire dalla Costituzione?
La risposta del centro-destra è nota: sono possibili solo governi come quelli formati da Berlusconi e Prodi (governo di legislatura del Premier), potendo essere accettata la variante Major (governo di legislatura della maggioranza). La risposta del centro-sinistra è variegata, molte essendo sul punto le voci e le opinioni (viene quasi il dubbio che la blindatura delle maggioranze uscite dalle elezioni proposta dal centro-destra sia un vantaggio più per il centro-sinistra che per il centro-destra: e se così fosse, ne uscirebbe confermata la vicenda che vide Mitterand diventare il migliore interprete delle istituzioni golliste!).
Se appare preferibile la soluzione dei governi di legislatura del premier o della maggioranza, si potrà allora discutere sull’opportunità di irrigidire e blindare costituzionalmente tutte le possibili ipotesi, senza lasciare (apparentemente, ché poi la realtà ha sempre più fantasia dei legislatori!) nessuna situazione scoperta e non disciplinata, ovvero se confidare sulla capacità conformativa di formule costituzionali più vaghe, quali quelle che potrebbero suonare nel senso “Il Presidente della Repubblica, sulla base (o nel rispetto) dei risultati elettorali, nomina il Primo Ministro” (disciplinando conseguentemente la formazione del Governo e lo scioglimento della Camera).
Vedremo come va a finire.

7. La corsa verso il referendum costituzionale
Sembra essersi avviata una corsa verso il referendum. Lo scenario sembrerebbe essere: approvazione delle riforme a maggioranza assoluta; successiva richiesta di referendum; svolgimento della consultazione popolare (subito dopo o subito prima delle elezioni politiche del 2006).
Ora, di per sé, l’utilizzazione di strumenti previsti dal testo costituzionale rientra nella fisiologia e non nella patologia dei fenomeni istituzionali (e sembra strumentale la riscoperta di questi giorni di quella Assemblea Costituente quasi quindici anni fa proposta da Cossiga). E, dunque, non vi sarebbe da preoccuparsi di un esito referendario.
Ma è proprio utile e positiva questa corsa verso il referendum? Per tutti e due i poli, si tratta in verità di una scommessa pericolosa: contro il centro-destra verrebbe sventolato lo spauracchio della rottura dell’unità del paese; contro il centro-sinistra verrebbe ventilata la responsabilità della prima riforma del Titolo V e, soprattutto, la volontà di opporsi alla creazione di governi più stabili (e questa accusa giungerebbe da un Presidente del Consiglio che si avvia a concludere la legislatura).
Nell’Italia dei guelfi e dei ghibellini, le divisioni sui temi istituzionali sono state più laceranti di quelle sui temi di coscienza: la società italiana ha metabolizzato i referendum sul divorzio e sull’aborto meglio di quanto abbia fatto di quello istituzionale del giugno 1946 e di quello sul sistema elettorale del 1993 (il referendum del 2001 sul Titolo V non ha diviso il paese solo perché l’opposizione, diventata maggioranza, non ha potuto fare una veemente campagna contro una riforma che comunque andava nella direzione prospettata da una delle sue componenti).
E, allora, valga porsi ancora una volta – pur dopo le posizioni estreme di questi ultimi giorni – la domanda: è opportuno imboccare una strada senza ritorno? E, soprattutto, ha senso per maggioranza e opposizione pregiudicare la battaglia politica del 2006 sul tema delle riforme istituzionali e di uno scontro referendario (prima o dopo le elezioni, non conta) che distrarrebbe gli elettori dai grandi temi politico-economici, dalla valutazione delle scelte (giuste o sbagliate) di questi anni, dalla discussione sulle scelte, alcune cruciali, che dovranno compiersi negli anni a venire? C’è ancora spazio per sotterrare l’ascia?

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