BREVI OSSERVAZIONI SULLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA IN ITALIA
Stelio Mangiameli
 
(Intervento al Seminario in preparazione del Convegno sulla democrazia, organizzato da Italiadecide il 5 giugno 2013, Roma, Sala della Regina – Camera dei Deputati)

1. Critica della democrazia virtuale
2. La democrazia come risposta alla condizione antropologica dell’uomo contemporaneo
3. Postdemocrazia, rappresentanza politica e partiti
4. Perché e quali riforme della Costituzione
 
  
1. Critica della democrazia virtuale. — Nella “Teoria della Costituzione” del 1928 Carl Schmitt, a proposito della democrazia, osservava che questa “è una forma di Stato che corrisponde al principio di identità (cioè del popolo concretamente esistente con se stesso in quanto unità politica)” (293). La conseguenza è che l’eguaglianza democratica deriva dalla condizione politica dell’individuo di essere parte del popolo e l’eguaglianza è essenzialmente omogeneità e precisamente omogeneità del popolo (307). Egli afferma ancora: “il concetto centrale della democrazia è il popolo e non l’umanità. Se la democrazia deve essere innanzitutto una forma politica, esiste solo una democrazia del popolo e non dell’umanità”. Tra l’altro il popolo era per Schmitt l’essenza della Costituzione, intesa appunto come la decisione fondamentale sull’esistenza e sull’unità politica del popolo. Di qui la sua filosofia di popolo e democrazia come di un’identità realmente presente: “solo il popolo effettivamente riunito è popolo e solo il popolo effettivamente riunito può fare ciò che è specificamente proprio dell’attività di quel popolo” (319); con la conseguenza che “appena il popolo è effettivamente riunito (…), è presente ed è una grandezza politica”.
 
Carl Schmitt non era un pensatore versato dal punto di vista del principio democratico. Anzi, è stato uno dei critici più acuti dell’idea della democrazia borghese fondata sulle elezioni, considerate una pratica individuale quasi privata, che spogliava il popolo del suo ruolo politico; e la sua posizione fondata sul legame tra popolo presente e democrazia lo portava a valutare positivamente l’opinione pubblica (Öffentlichheit) che nel moderno avrebbe potuto rappresentare un valido succedaneo del popolo deliberante riunito come εκκλησια nel mercato o nel foro romano. “Solo partendo da questi semplici ed elementari fenomeni – osservava – si può reintegrare nei suoi diritti il concetto di opinione pubblica (Öffentlichheit), abbastanza offuscato, ma essenziale per la vita politica e in particolare per la moderna democrazia e riconoscerne il vero problema” (320). Sarà questa la prospettiva nella quale si muoverà la Habilitationsschrift di Jürgen Habermas (Storia e critica dell’opinione pubblica) pubblicata nel 1962 che affronterà il problema dell’opinione pubblica come elemento strutturale della sfera pubblica delle moderne società.
 
Tuttavia, Carl Schmitt non è stato solo un critico della democrazia borghese, ma anche un autore che aveva una considerevole visione del futuro. Egli è il primo pensatore che riesce a descrivere le conseguenze del processo di globalizzazione per lo Stato e, perciò, pure per la democrazia (nel Nomos della Terra e nell’eccellente Dialogo sul potere, entrambi del 1954). Non può non colpire che la sua visione del futuro, con riferimento al tema della democrazia, sia già predittiva nel 1928 nel brano della Teoria della Costituzione, nel quale osservava: “Potrebbe immaginarsi che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa continuamente esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura. Ciò non sarebbe affatto una democrazia particolarmente intensa, ma una prova del fatto che Stato e Opinione pubblica sarebbero totalmente privatizzati” (322).
 
La lunga digressione schmittiana, serve a considerare il primo profilo al quale mi richiamerei, parlando della democrazia: la democrazia non è altro che una compresenza reale dei soggetti che devono decidere in un certo modo e in certe forme; molte delle forme di cui oggi si parla e che vengono configurate come forme democratiche, molto probabilmente non lo sono, e mi riferisco in modo particolare al tentativo di accreditare una democrazia via web; le decisioni prese via web che sono state accreditate come decisione democratica, in realtà mancano del contenuto proprio e cioè dell’essenza della democrazia: il popolo come entità vitale e unitaria.
 
Questo non vuol dire che il web non stia incidendo sulla nostra visione del mondo e, perciò, sul nostro modo di rapportarci nella società e nella politica. Basti pensare a tutte quelle operazioni che prima richiedevano una presenza umana e relazionale e adesso possono essere compiute comodamente da casa attraverso il computer: disponendo di un conto on-line posso pagare le tasse o un bollettino postale direttamente senza fare la fila; posso comprare beni di qualsiasi genere, dai libri al vino; posso persino iscrivermi ad un partito politico via web, o quanto meno pagare l’obolo necessario per partecipare al voto delle primarie. Ma per l’appunto, sino a quando si tratta di operazioni sostanzialmente private l’interfaccia rappresentata dalla schermata del computer appare uno strumento di semplificazione; anche l’amministrazione e la giustizia e le funzioni pubbliche in genere possono essere organizzate meglio grazie alla tecnologia informatica, dando luogo a semplificazioni documentali e procedurali; ma non si possono sostituire a (e non possono essere sostitutive di) qualsivoglia decisione pubblica. Che cosa sarebbe il processo senza le parti davanti al giudice? Che cosa l’istruttoria del provvedimento amministrativo senza la conoscenza diretta dei luoghi e delle persone che vi vivono? Che cosa, infine, sarebbe la decisione su cui si fonda l’autorità della legge e dello Stato? Tutte queste decisioni hanno un carattere politico e richiedono pubblicità e compresenza. Di conseguenza, nei casi in cui la decisione ha un rilievo politico, l’invisibilità dell’individuo, l’invisibilità di ciascuno di noi, chiamato a decidere, e l’invisibilità dell’effetto che si produce con il click determinano un effetto naturalmente negativo, perché l’assenza del confronto vis-a-vis, che caratterizza il dibattito democratico, fa degenerare il senso pubblico e la responsabilità politica della decisione.
 
L’idea che l'invasione delle tecnologie dell'informazione permetta di bypassare il processo politico tradizionale e di stabilire una forma di democrazia diretta, una società virtuale, dove tutto può essere vissuto attraverso schermi e software, è, prima ancora che stupefacente, sostanzialmente eversiva. L’esempio fatto da Léo Scheer (La democrazia digitale), che sembra particolarmente critico sulla possibilità di fare funzionare la democrazia attraverso il web, fa riferimento alla domanda democraticamente posta via web sulla pena di morte e alla diversità di risposta che la stessa persona può dare davanti al computer, oppure se interrogato pubblicamente e di fronte agli altri.
È facile comprendere che la tecnologia consenta grandi cambiamenti, ma non tutti i cambiamenti possibili grazie alla tecnologia possono per ciò solo dirsi buoni o giusti, o comportare un miglioramento reale delle condizioni di vita dell’uomo; può essere esattamente l’opposto. Perciò, la tecnologia stessa è un problema e va sottoposta ad un regime, deve essere amministrata e, se del caso, formare oggetto di controllo.
 
Ancora una profezia schmittiana ricavata dal dialogo (Gespräch über den Neuen Raum (1958), Akademie Verlag, Berlin, 1994, 63) tra il Vecchio (Altmann), il Nuovo inquilino [del mondo] (Neumeyer) e il Figlio del futuro (MacFuture). Ad un certo punto il Vecchio pronuncia queste parole all’indirizzo del Figlio del futuro: “Colui che riuscirà a conquistare la tecnica scatenata, a domarla e a inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla Luna o su Marte. La sottomissione della tecnica scatenata: questa sarebbe, per esempio, l’azione di un nuovo Ercole. Da questa direzione sento giungere la nuova chiamata, la sfida del presente”.
 
Certamente oggi siamo di fronte ad una crisi della democrazia rappresentativa e ad una crisi della democrazia diretta, peraltro tenuta in scarsa considerazione dalla classe politica che si è quasi sempre contrapposta ai risultati referendari considerandoli non vincolanti o addirittura pericolosi per le stesse funzioni pubbliche.
 
Tuttavia, non è la democrazia via web la risposta a questa situazione, anzi le catene del virtuale – che non si vedono – risultano alla fine ancora più stringenti dei vincoli sociali. Non è un caso che nella società globalizzata e informatizzata finiamo col sentirci allo stesso tempo più soli e più controllati.
 
 
2. La democrazia come risposta alla condizione antropologica dell’uomo contemporaneo. — Veniamo così alla seconda considerazione: la democrazia come destino. Nel documento di base c’è una critica al concetto di democrazia come destino e questa critica può essere più, o meno, condivisa. E’ vero che tutto si può mettere in discussione e che le acquisizioni di civiltà possono anche essere cancellate dall’oggi al domani e che, perciò, l’affermazione della democrazia e la difesa della libertà impegnano i cittadini ogni giorno della loro vita; ma il problema principale non è questo e cioè se possiamo regredire a una condizione antidemocratica o contraria alla democrazia, è chiaro che il declino è sempre possibile.
 
La questione è se la condizione democratica è connaturata alla dimensione antropologica dell’uomo contemporaneo. Questo mi sembra il vero nodo; cioè se noi possiamo considerare come acquisito il principio che ogni individuo, come tale, abbia nella sua condizione umana (nel senso che sia destinatario di) un frammento di potere. Di conseguenza, su questa eguaglianza del potere di cui ogni individuo è titolare si fonderebbe il principio democratico.
 
Se il potere è coessenziale all’uomo in quanto uomo, come deve essere organizzata la comunità politica (lo Stato) che richiede, affinché si compia la decisione pubblica, il passaggio dai frammenti alla concentrazione del potere politico? Come realizzare l’unità e l’identità del popolo?
 
Vi sono molte vie attraverso cui questa concentrazione si è compiuta e ancora si compie nelle società moderne; non tutte sono democratiche, ad esempio, il Führerprinzip è una tipica forma di concentrazione del potere, nella quale la questione pubblica viene affidata al Capo riconosciuto, acclamato o eletto e la sua decisione diventa vincolante per l’intera comunità. A parte i momenti oscuri della storia del secolo scorso, in molte occasioni ricorriamo ancora oggi al principio di supremazia del capo. Si dice, ad esempio, che chi vuole dirigere un partito politico, si vuole accreditare come Leader del partito stesso. Ora, a parte la musicalità della parola inglese Leader, essa ha lo stesso identico significato dell’infelice parola tedesca Führer e dell’altrettanto infelice parola italiana Duce.
 
Una delle conseguenze dei diversi tentativi di risolvere la questione della frammentazione politica in Italia (e, perciò, della necessaria concentrazione del potere) è apparsa essere la modifica della legge elettorale in senso maggioritario. Tuttavia, le modifiche legislative del 1993 e del 2005 non avevano l’intento di assecondare una filosofia della supremazia del capo, ma semplicemente di rimediare all’inettitudine dei partiti politici a formare stabili maggioranze. Invece, è stata una Vandea in senso proprio, a cominciare dai sindaci eletti direttamente dai cittadini dal 1993 e perciò in una posizione di legittimazione assoluta anche rispetto ai consigli: loro erano l’espressione della volontà della città e perciò il loro volere era al di sopra di tutti gli altri; nel 1999, quando con legge costituzionale si incide sulla forma di governo e sull’elezione del presidente della Regione, diventa espressione comune quella di “Governatore” della Regione, per indicare un potere presidenziale che nell’immaginario avrebbe evocato il presidenzialismo americano.
 
Anche per ciò che riguarda i partiti politici nazionali, si ha uno spostamento sul personalismo; ad esempio, si ha un bel dire del partito personale di Berlusconi, che dal 1994 in poi avrebbe caratterizzato il sistema politico italiano, ma una delle critiche che sovente viene rivolta alla sinistra è quella della carenza di leadership, e cioè la mancanza di un capo carismatico che sappia condurre il partito.
 
Maggioritario e principio di supremazia del capo in Italia si sono sposati molto bene. Anzi, molto male! Ci si lamenta da entrambe le parti – lo ha fatto ancora di recente Bersani dopo le elezioni del febbraio 2013 – che si è costretti a sopportare altre parti nelle coalizioni di governo e che, perciò, la legge elettorale, neppure con un assurdo premio di maggioranza, appare in grado di assicurare al Leader (rectius: al presidente del Consiglio indicato al momento del deposito delle candidature) la possibilità di governare e di disporre di tutto il potere necessario per decidere. In questa posizione che possiamo considerare estremista si sostiene che non vi è ancora una concentrazione del potere sufficiente in Italia per cui non si può realizzare in modo adeguato il principio di supremazia del capo.
 
Persino il Sen. Mario Monti, in qualità di Presidente del Consiglio italiano, durante una sua visita in Germania si è lanciato in una reprimenda pubblica contro i Parlamenti che legherebbero le mani agli esecutivi che, perciò, non potrebbero operare liberamente. Non dobbiamo sorprenderci se il suo discorso è stato aspramente criticato dalla stampa tedesca. Era il luogo più sbagliato d’Europa nel quale si potevano esprimere simili opinioni. Per i tedeschi, vittime della più feroce dittatura e della filosofia del Führerprinzip, la sovranità del Parlamento e la democrazia parlamentare sono diventate un punto di riferimento che non ammette alcuna deroga. L’intera forma di governo tedesca è fondata su un ruolo prioritario dei partiti politici e sulla relazione di questi con il popolo. Solo in questo contesto e con i limiti che ne derivano è riconosciuto un ruolo particolare al Leader del partito di maggioranza che ottiene il maggior numero di seggi al Bundestag, che è naturalmente designato alla posizione di Cancelliere.
 
Insomma, stiamo lavorando in Italia per concentrare ancora di più il potere di decisione politica? Più ancora di quanto è accaduto sinora con la legislazione concentrata nelle mani dello Stato, a discapito delle Regioni, e in quelle del Governo, a discapito del Parlamento?
 
Mi pare che la questione della democrazia come destino vada ribaltata – se siamo ancora padroni, sia pure in parte, del nostro futuro – nella domanda sul limite a cui si può spingere la concentrazione del potere politico per rendere possibile la decisione pubblica.
 
La misura della concentrazione del potere che è accettabile non è quella che appare necessaria per effettuare la decisione pubblica, dal momento che in determinate situazioni – come quelle di crisi – una simile impostazione finirebbe con il giustificare e legittimare la dittatura e la compressione totale della sfera della libertà. Anche la dittatura – per il suo carattere provvisorio – è stata accettata come una soluzione delle situazioni di crisi. Ma ripugna il pensiero che l’uomo – essere a cui tutte le filosofie umaniste riconoscono il dono della libertà – sia meritevole della dittatura e non sia capace di trovare soluzioni diverse alle crisi, senza compromettere il principio di libertà. Nella dittatura – per parafrasare Kant (Per la pace perpetua) – l’uomo cessa di essere il fine e diventa il mezzo.
 
La misura della concentrazione del potere politico non è perciò la necessità della decisone politica. Questo non vuol dire che in situazioni eccezionali di crisi non possa essere necessario concentrare il potere sino a una misura totale, come quando in presenza di profonde crisi istituzionali si è ipotizzato il ruolo eccezionale del Presidente della Repubblica come reggitore dello Stato (Esposito, Capo dello Stato, in Encicl. Dir.), ma solo che quando questo accade la decisione pubblica non può consistere che nel ripristinare la condizione di normale libertà.
 
La misura della concentrazione del potere politico è data dalla salvaguardia del principio di libertà. Infatti, che senso avrebbe una decisione pubblica che opprima la libertà della persona? Una tale decisione sarebbe in contrasto con la condizione antropologica dell’uomo contemporaneo.
 
In questo contesto la democrazia ci appare, non solo come la forma di governo ideale, quanto soprattutto come la forma di governo concreta che meglio risponde al bisogno di salvaguardia della libertà dell’individuo. Lo stesso principio di maggioranza che opera come regola di funzionamento della decisone democratica non sarebbe intellegibile se non ancorandolo al principio di libertà. Scriveva Hans Kelsen (Essenza e valore della democrazia) “il principio della maggioranza assoluta (e non della maggioranza qualificata) rappresenta l’approssimarsi relativamente maggiore dell’idea di libertà”.
 
A questo punto, però, potrebbe sorgere una profonda incomprensione sul tema della democrazia, e cioè di ridurla alle regole della formazione della rappresentanza (sistema elettorale) e alle regole deliberative che soddisfano il principio maggioritario. La democrazia corre il rischio di essere svuotata di significato e di essere un canone procedurale. In fondo, nelle Carte internazionali, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) su cui si fonda l’azione dell’ONU, la società democratica è condensata nella regola elettorale (art. 21.3. – “La volontà popolare è il fondamento dell'autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, e a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione”).
 
La democrazia ha certamente nelle elezioni e nella rappresentanza dei momenti importanti di estrinsecazione, ma va oltre il voto e il mandato elettorale. Dove la democrazia è vitale il mandato elettorale non è mai un mandato in bianco e la discussione pubblica non si svolge nel chiuso di alcune stanze dove sono presenti ministri e rappresentanti delle potenti lobbies economico-finanziarie che dettano i provvedimenti governativi. La democrazia permette e richiede una partecipazione attiva di tutti i cittadini nella sfera pubblica, con interventi alla discussione sui problemi generali della comunità in modo che la stessa rappresentanza sia consapevole di quali siano gli interessi in campo e di quale siano le priorità della vita pubblica. È la discussione pubblica condotta dai cittadini che definisce i programmi politici dei partiti, le loro posizioni e l’agenda di Parlamento e Governo.
 
Si potrebbe obiettare che si tratta di una visione idilliaca della democrazia. Niente affatto, è un modo di vedere coerente con gli sviluppi del pensiero democratico. Questo, infatti, considera, come un elemento stabile della democrazia, l’esistenza di una società attiva, strutturata e non amorfa, nella quale siano presenti cittadini che godono dei diritti fondamentali il cui esercizio li porta a svolgere attività lavorative, economiche e sociali della diversa specie, ad avere una cultura e una stampa libera, dei centri di formazione del sapere indipendenti dal potere politico, come università e accademie, e a formare gli elementi vitali della società: associazioni, sindacati, chiese, ecc., che permettono all’individuo di vivere e convivere con gli altri, condividendo interessi e passioni.
 
Per questa ragione il Trattato sull’Unione europea che all’art. 2 richiama la democrazia, come valore comune all’Unione e agli Stati membri, e la annovera insieme agli altri valori dell’Unione (rispetto della dignità umana, della libertà, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze), i quali concorrerebbero a formare “una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.
 
L’idea della democrazia procedurale, simboleggiata dalle “libere elezioni”, corre il rischio, perciò, di svuotare di senso la democrazia stessa; di privarla di quelle condizioni che sono necessarie al senso della democrazia come decisione sul bene comune. La maturazione in seno all’ONU di questa prospettiva ha portato l’Organizzazione a modificare la tipologia dei propri interventi e a preoccuparsi di raggiungere determinati risultati, economici e sociali, prima di procedere a elezioni, seguendo il principio precauzionale “do no harm” (v. “Guidance Note on Democracy” dell’11 settembre 2009).
 
Ma lo stesso Kelsen già si rendeva conto di questo pericolo e, per mettere in guardia il lettore, al fine di non scambiare il mezzo con la sostanza della democrazia, chiudeva il suo contributo richiamando il Capitolo 18° del Vangelo di Giovanni, nel quale si narra il processo dinnanzi al popolo di Gesù e Barabba. La conclusione di Kelsen era: “forse si obbietterà, forse i credenti, i credenti politici obbietteranno che quest’esempio parla piuttosto a sfavore che a favore della democrazia. E bisogna riconoscere il valore di tale obbiezione; a condizione però che i credenti siano tanto sicuri della loro verità politica – che, se necessario, dovrà venire realizzata anche per vie cruente – quanto il figlio di Dio”.
 
 
3. Postdemocrazia, rappresentanza politica e partiti. — Se la democrazia è la forma di governo che risponde meglio alla condizione antropologica dell’uomo, perché consente di coniugare la concentrazione del potere ai fini della decisione pubblica con la sua necessità di libertà, sono inevitabili due questioni che emergono dall’osservazione della realtà: come mai la democrazia, e quella rappresentativa in modo particolare, è in una situazione di crisi? Quali riforme possono determinare una ripresa della democrazia? Di queste due domande dovrebbero farsi carico quanti in Italia e in Europa sentono il destino della democrazia come un problema che può risolversi negativamente per la convivenza della comunità e dei popoli.
 
Cominciamo con la crisi della democrazia. Nel mondo occidentale e, in particolare, in Europa la democrazia è stata sempre costruita attorno ai partiti politici. L’invenzione del partito è molto antica. Il riferimento va al periodo repubblicano di Roma dal quale Hume ha tratto molti esempi per parlare dei partiti in Inghilterra e per sostenere che ogni partito, per mantenersi, ha bisogno di un sistema di principi filosofici annessi a quelli pratici o politici. Nel mondo anglosassone la considerazione di un pluralismo dei partiti era bene accetta e derivava dalla tolleranza tra i partiti medesimi e dall’accettazione della comune Costituzione espressa dalla loro stessa presenza. Roma antica serviva come esempio in cui la libertà era stata distrutta non dalla presenza dei partiti, uno aristocratico e l’altro democratico, ma dalla soppressione di uno di questi per mano del rivale.
 
Questa tendenza distruttiva della libertà da parte del partito politico è stata espressa molto bene da Ugo Spirito, il quale sosteneva che ogni partito in nuce è totalitario, perché è portato dalla forza della sua ideologia a imporre la sua visione del mondo alla società e allo Stato. Infatti, le ideologie di cui si sono dotati i partiti politici sono state delle armi potenti e in grado di coprire l’intera dimensione umana. I partiti portavano già nel loro nome la potenza della loro ideologia (partito liberale, partito repubblicano, partito socialista, partito popolare, partito comunista) e i loro leader erano innanzi tutto dei pensatori di quella ideologia (da Sturzo, a De Gasperi; da Gramsci a Togliatti; da Croce a Einaudi; da Turati a Nenni; da Sforza a La Malfa).
 
Tutto ciò era ben visibile nei partiti presenti in seno all’Assemblea Costituente, dopo le elezioni del 2 giugno del 1946. Quei partiti e i loro leader avevano vinto la dittatura fascista e praticavano anche la tolleranza reciproca all’interno della Costituzione (prima ancora di quella scritta da loro stessi) espressa dalla loro convivenza.
 
L’ideologia dei partiti è stata lo strumento della lotta politica nelle elezioni e del proselitismo ed anche dello stretto legame con i cittadini, attraverso tesseramenti, sezioni, federazioni, congressi democratici e, last, not least, elezioni.
 
La maggioranza dei cittadini che legittimava il potere del Parlamento e, soprattutto quello del Governo, era perciò una entità reale del Paese, che contava di per sé, e non un semplice risultato elettorale.
 
Le élites economico-finanziarie (i c.d. poteri forti) avevano un carattere eminentemente privato e dovevano comportarsi in un certo modo per farsi apprezzare nella sfera sociale e in quella politica, costituendo delle fondazioni benefiche, istituendo premi e borse di studio, elargendo denaro per opere pubbliche, ecc. (sul ruolo pubblico delle lobbies v. H.J. Kaiser, La rappresentanza degli interessi organizzati). Finanziare partiti politici e pagare la campagna elettorale di singoli uomini politici sarebbe sembrato immorale e politicamente inaccettabile da entrambe le parti.
 
La politica democratica si sostanziava nell’uso delle risorse pubbliche, ma per fini pubblici e il sistema economico-produttivo, anche quando ne beneficiava, interagiva con il sistema politico dei partiti rimanendone nettamente separato.
 
Giuliano Amato, nella sua introduzione, ci ha descritto in modo sintetico, ma efficace questa realtà storica contrapponendola a quella presente nella quale i partiti sono distaccati dalla società e dalla loro stessa base, non operano più come un fattore di integrazione sociale e politico, non si pongono più concretamente il tema dell’ineguaglianza crescente (neppure quelli di sinistra) per effetto della globalizzazione e ubbidiscono ai dettami dei media e, soprattutto, delle lobbies. Ci ha presentato un mondo che, riprendendo il titolo del libro di Tony Judt, egli ha definito “guasto”.
 
Che cosa è successo? Quando è avvenuto tutto ciò? Perché non ci siamo accorti di quello che stava accadendo? Perché non abbiamo reagito per tempo?
 
Nelle moderne democrazie funzionanti i partiti politici svolgono un compito pubblico ed è per questo che si parla di una loro incorporazione nello Stato (Triepel, Die Staatsverfassung und die politischen Parteien, Berlin, 1930, 12 ss.).
 
L’incorporazione dei partiti politici si è compiuta in Italia da molto tempo, ma nel suo corollario è presupposto necessario che i partiti politici restino comunque ancorati alla relazione sociale e, quindi, in grado di avere una relazione con i propri militanti, i propri elettori e con i cittadini in genere.
 
È vero che la globalizzazione ha inciso sulla loro funzione? Certamente la crisi (del 1992) ha desacralizzato il potere dei partiti politici, soprattutto perché il superamento della crisi non è apparso ai cittadini come il frutto di una decisione politica presa dai partiti, ma di decisioni esterne assunte in nome e per conto del Parlamento e del Governo in sedi lontane dai palazzi della democrazia italiana. La crisi ha messo in evidenza la carenza di strategia della politica nazionale e ciò ha reso non degni di rispetto i politici e i partiti che sono visti come incapaci o, anche peggio, come traditori della loro base elettorale e politica.
 
Invero, nella crisi si è fatta strada una relazione tra i partiti e le élite economico-finanziarie (i poteri forti), che ha sostituito – anche ai fini del finanziamento della politica – quella con i tesserati e i militanti, ormai emarginati; rileva solo l’elettorato come mercato dei voti. Tra i partiti e le élites economico-finanziarie si è costruito un collegamento molto stretto e caratterizzato da reciprocità. Il distacco dalla base politica ha permesso ai dirigenti dei partiti e ai loro consulenti di riprodursi in modo autoreferenziale. Ogni gruppo così formato per sopravvivere ha avuto bisogno di fidelizzarsi con i gruppi economico-finanziari, con i quali si intrattengono rapporti di scambio, non solo di denaro e prebende o contratti pubblici, ma anche di scambi di consulenti: politici entrano nelle banche e uomini delle banche entrano in politica. Il pensiero politico non è più il frutto di principi filosofici, come pensava Hume, e l’ideologia è scomparsa dalla scena politica. La politica diventa un prodotto da imporre nel mercato dei voti e i diversi partiti politici sembrano avere tutti pressoché lo stesso prodotto. La propaganda politica, un tempo svolta sotto l’egida di giornali, libri e convegni, adesso assume i caratteri dello spettacolo e della réclame sui media: non deve persuadere, bensì impressionare. Di qui il ricorso continuo ai sondaggi, per sapere cosa pensano gli elettori, e ai guru della comunicazione, per avere consigli sull’opinione pubblica. Di qui il venir meno della tolleranza repubblicana che aveva caratterizzato il sistema dei partiti, dall’Assemblea costituente in poi, e la sostituzione con la denigrazione continua dell’avversario. Gli scandali e la corruzione aggiungono a questo quadro un carattere di ulteriore indecenza che fa scappare gli elettori dal mercato dei voti.
 
In Italia, questo nuovo corso è cominciato con le leggi elettorali del 1993, adottate in conseguenza del famoso referendum del 18 aprile sulla legge elettorale del Senato, il cui intento era l’opposto (e per questo ebbe un successo enorme), grazie alle quali si è determinata una trasformazione dei partiti in senso meno democratico. I partiti prima del referendum, in qualche modo, rappresentavano ancora il territorio, interagivano con gli elettori attraverso una serie di strutture e collegamenti. Più tardi, con la riforma della legge elettorale e con la separazione dal territorio, i partiti sono diventati dei consorzi: gruppi piccoli, autoreferenziali che cercano il loro fondamento nel potere e non nella rappresentanza.
 
Il fenomeno è descritto da Colin Crouch, come Postdemocrazia (“In potenza, tutti i componenti formali della democrazia sopravvivono nella postdemocrazia, compatibilmente con la complessità di una fase ‘post’. Tuttavia, dovremmo aspettarci di riscontrare qualche erosione nel lungo periodo, via via che ci allontaniamo, scettici e disillusi, dal modello ideale di democrazia” (29)), e come un fenomeno di livello europeo che riguarda i partiti in generale, a prescindere dal loro collocamento politico. È sicuramente così. Tuttavia, sia consentito osservare, che comunque esiste una peculiarità tutta italiana di questa democrazia sempre più apparente che reale. In Germania, il Parlamento e i partiti, nonostante non ci sia il voto di preferenza sulle liste dei candidati (ma vi è la concorrenza di collegi uninominali), sono ancora espressione diretta del territorio; in Francia, un Presidente che vince le elezioni, vince insieme al suo partito; è stato così quando ha vinto Sarkozy ed è stato così quando ha vinto Hollande portando il suo partito al governo; in Gran Bretagna vincere le elezioni per il Primo Ministro significa esercitare un patronage sui posti più importanti del civil service che avvantaggerà i suoi supporters all’interno del partito.
 
In ogni caso se questa è la situazione, il punto di rottura è determinato dalla trasformazione della politica in una faccenda che riguarda gruppi chiusi (politici ed economici). Ciò ha fatto ammalare la democrazia. Come curarla?
 
La via più semplice sarebbe che i dirigenti dei partiti rinsavissero e ridessero corpo e voce ai loro militanti ed elettori. La guarigione dovrebbe passare non solo da un allontanamento del personale politico da quello dei poteri forti, ma soprattutto da una limitazione della loro predominanza. È noto che tutto il caos della finanza globalizzata è nato dalla deregulation del settore; in assenza di una disciplina condivisa a livello internazionale, sarebbe comunque utile una legislazione nazionale in grado di separare nettamente funzioni pubbliche e ricerca privata del profitto.
 
Non è una terapia facile, perché dovrebbero essere coloro (i partiti) che hanno causato la malattia della democrazia ad applicarla. Senza contare che ormai i partiti economicamente sono dipendenti dalla finanza, che fornisce loro i mezzi per andare avanti. Certamente la partecipazione dei cittadini in forme più attive, o più evidenti, è un rimedio auspicabile. Tuttavia sembra che i dirigenti dei partiti non riescano nemmeno a vedere i cittadini, per loro questi sono solo voti.
 
I partiti sorti dalle ceneri della crisi dell’inizio degli anni ’90 che per vent’anni hanno animato la vita pubblica nelle ultime elezioni di febbraio 2013 hanno ottenuto a malapena circa un 50%: un elettore su due li ha disconosciuti preferendo l’astensionismo o il voto per un movimento inedito. Nelle elezioni siciliane dell’ottobre 2012 è andata ancora peggio: solo tre elettori su dieci hanno votato per loro, il resto o si è astenuto (52,58%), oppure ha votato per una proposta politica esterna al sistema dei partiti che si accreditava come nuova (18,20%). In entrambe le votazioni, quella siciliana e quella nazionale, tale movimento inedito è risultato il primo partito. Eppure, non vi è stata una riflessione seria e, soprattutto, pubblica da parte della politica sul rigetto manifestato dai cittadini nei loro confronti. Paradossalmente il fenomeno è stato esorcizzato ignorandolo. Conseguentemente proprio in questa fase la politica genera nei cittadini un senso di disgusto.
 
Si può derivare una legge sociale da quanto è accaduto? La finanza non regolamentata è la causa delle crisi cicliche della nostra società europeizzata e internazionalizzata. Bene, più aumentano i danni delle crisi, più i partiti dovrebbero allontanarsi dai poteri forti per trovare consenso e soprattutto produrre la decisione sul bene comune; altrimenti, corrono il rischio di essere soppiantati da nuovi movimenti o partiti (e poco importa se anche questi risultano collegati alla stessa finanza). Se i partiti non seguono questa regola il dibattito pubblico e il voto negheranno loro la legittimazione come di fatto si sta già verificando.
 
Un rimedio alla crisi della democrazia, che si potrebbe prospettare, è quello di procedere a riforme delle prassi politiche e istituzionali. E questa sembra ora la via prescelta nel caso italiano.
 
 
4. Perché e quali riforme della Costituzione. — Negli ultimi vent’anni, ogni volta che la crisi si è fatta sentire, il tema delle riforme istituzionali ha sopravanzato ogni altra questione nel dibattito pubblico; è stato così nel 1993; così nel 1997, quando bisognava preparare il Paese per la moneta unica; e sembra che sia così anche adesso.
 
La crisi non è il momento migliore per fare le riforme costituzionali. Anzi, tutta la dottrina insegna che le riforme vanno fatte in momenti in cui l’economia ha una fase espansiva, e ciò per due ragioni: in primo luogo, perché le riforme se sono reali implicano dei costi e, perciò, sono necessarie delle risorse per la loro realizzazione che solo la congiuntura economica favorevole può assicurare; in secondo luogo, in quanto le nuove regolamentazioni richiedono del tempo per entrare a regime e in una situazione di crisi non risolverebbero i problemi che questa causa, ma semmai li aggraverebbero.
 
In Italia esiste ormai una vasta letteratura sulle riforme costituzionali, dovuta a vent’anni di inutili tentativi. I temi principali sui quali ci si è esercitati, sono la riforma del bicameralismo, la riduzione del numero dei parlamentari, la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, la nuova legge elettorale, la razionalizzazione della forma di governo: o con l’inserimento della sfiducia costruttiva, oppure con la proposizione di un modello semipresidenziale; il completamento della riforma regionale con il federalismo fiscale, la carta delle autonomie, ecc.
 
In questi anni la legislazione della crisi, fatta essenzialmente di decreti legge e leggi finanziarie (ora di stabilità), ha prodotto cambiamenti sensibili, nella prassi istituzionale e nelle regole di funzionamento dell’ordinamento.
 
Ad esempio, la legislazione è stata concentrata nelle mani del Governo, a discapito del Parlamento e delle Regioni; il federalismo fiscale, ancorché deliberato, non può essere applicato; la Carta delle autonomie per il riordino delle funzioni, è stata approvata solo in una Camera e subito dopo abbandonata; la nuova legge elettorale, tutti la invocano e nessuno la propone. Non è credibile che la grande riforma istituzionale, alla fine, si riduca all’abolizione delle Province. È noto che si tratta di una riforma catartica, richiesta persino dalla celebre lettera della BCE dell’agosto 2011, ma il cui scopo reale è di nascondere ben altre colpe della politica. Tutto ciò che riguarda la politica e i partiti come la riforma del Parlamento e quella del finanziamento pubblico ai partiti, per quanto sia discusso persino sui media, non forma oggetto di ripensamento concreto. Il quadro è realmente deludente.
 
Si parla di riforme costituzionali, ma quelle che si vogliono intraprendere sono riforme costituzionali o alterazioni della Costituzione? La domanda sorge spontanea ed è questo il vero nodo: vogliamo cambiare la Costituzione nel senso di riformarla, per attualizzarla; o la vogliamo alterare, per non procedere con i cambiamenti della politica che sarebbero necessari?
 
Non possiamo pensare di risolvere i problemi che derivano dalle prassi della politica che minano la democrazia, alterando la Costituzione. I problemi principali che sono sul terreno in questo momento non hanno a che fare con la Costituzione, ma con la spesa pubblica che dovrebbe essere riformata; con il debito sovrano, che dovrebbe essere ridotto; con l’amministrazione dello Stato che è inefficiente e lontana dai cittadini; con il divario territoriale che sta causando l’abbandono di una parte rilevante del Paese.
 
Che senso ha non fare, perché sarà difficile che si facciano, ma persino parlare delle riforme costituzionali, se non si procede prima a una riforma della politica?
 
L’essenza di questa riforma si potrebbe ricondurre, molto semplicemente, a due soli atti: la legge sui partiti politici e una legge elettorale che consenta la competizione onesta tra i partiti.
 
L’accordo per realizzare le riforme costituzionali sarebbe insufficiente senza un accordo per cambiare la legge elettorale. La politica ha difficoltà a riformare sé stessa, perché rifiuta un confronto reale con i cittadini, sente la difficoltà di reintegrarsi con il territorio; preferisce rinunciare, forse, persino ai privilegi di cui gode, come il finanziamento pubblico, piuttosto che ritornare ad essere il momento di collegamento tra i cittadini e le istituzioni.
 
Ma la via maestra è proprio questa: puntare a recuperare il coinvolgimento dei militanti, degli elettori fedeli e, più in generale, dei cittadini, attraverso la revisione e la ricostruzione della rete della rappresentanza politica, per assicurare la coincidenza di un centro decisionale e di un centro di partecipazione.
 
La crisi nella quale ci stiamo dibattendo ci ha già portato indietro e lascerà alle sue spalle parecchie macerie che pagheremo ancora nei prossimi anni; il paragone con ciò che accade dopo una guerra può apparire improprio, ma è quello che esprime meglio, non solo la realtà vissuta, ma anche i sentimenti che proviamo.
 
Quando riflettiamo sulle riforme, teniamo conto che abbiamo alle spalle 30 anni di discussioni poco produttive. Adesso non dobbiamo confondere la necessità di riformare la Costituzione, per renderla più aderente al principio democratico, con lo snaturamento della Costituzione, per rispondere a una mancata riforma della politica.
 

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