PRIME OSSERVAZIONI SUL PROGETTO DI LEGGE COSTITUZIONALE
DEL MINISTRO PER LE RIFORME E LA DEVOLUZIONE

ISR "Massimo Severo Gianini" - CNR

Roma, luglio 2001



INDICE

1. Profili generali

2. La sanità
2.1 La situazione attuale e le evoluzioni più recenti della normativa
2.1.1 La Costituzione vigente
2.1.2 La legislazione ordinaria
2.2 La proposta di riforma dell’art. 117 nel testo formulato dal Ministero per le riforme istituzionali e la devoluzione
2.2.1 Contenuto della proposta
2.2.2 La proposta rispetto alla Costituzione vigente e alla sua attuazione
2.2.3 La proposta rispetto alla legge costituzionale di modifica del Titolo V

3. L’istruzione
3.1 La situazione attuale e le evoluzioni più recenti della normativa
3.1.1 La Costituzione vigente
3.1.2 La legislazione ordinaria
3.1.3 Gli ordinamenti delle regioni speciali: in particolare la Valle d’Aosta
3.2 La proposta di riforma dell’art. 117 nel testo formulato dal Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione
3.2.1 Contenuto della proposta
3.2.2 La proposta rispetto alla Costituzione vigente e alla sua attuazione
3.2.3 La proposta rispetto agli statuti differenziati
3.2.4 La proposta rispetto alla legge costituzionale di modifica del Titolo V

4. La pubblica sicurezza d’interesse locale
4.1 La situazione attuale e le evoluzioni più recenti della normativa
4.1.1 La Costituzione vigente
4.1.2 La legislazione ordinaria
4.1.3 Gli ordinamenti delle regioni speciali: in particolare la Sicilia e la Valle d’Aosta
4.2 La proposta di riforma dell’art. 117 nel testo formulato dal Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione
4.2.1 Contenuto della proposta
4.2.2 La proposta rispetto alla Costituzione vigente e alla sua attuazione
4.2.3 La proposta rispetto agli statuti differenziati
4.2.4 La proposta rispetto alla legge costituzionale di modifica del Titolo V


1. Profili generali

Il Progetto in esame, all’art.2, propone – al fine di determinare le materie di competenza legislativa regionale – di utilizzare il vigente art.117 della Costituzione, che viene modificato però con la previsione, introdotta con il nuovo terzo comma, di una possibile attivazione da parte di ciascuna regione di una potestà legislativa esclusiva nelle materie della sanità, della scuola e dei programmi scolastici, della sicurezza locale.
Tale scelta esclude l’utilizzo del modello di determinazione residuale delle materie regionali rispetto ad un elenco tassativo e predeterminato di materie statali; modello – come è noto – di norma adottato dalle costituzioni di tipo federale e coerente con il principio di sussidiarietà.
Nella relazione si motiva tale scelta con il fatto che il c.d. criterio della inversione della determinazione delle competenze avrebbe portato, nelle varie elaborazioni di riforma, ad una elencazione tassativa di competenze legislative statali eccessivamente ampia, tale da affievolire decisamente il carattere generale delle competenze legislative regionali.
Si può osservare, tuttavia, che l’eventuale uso improprio del criterio dell’inversione non giustifica di per sé l’abbandono tout court del criterio stesso che – come mostra anche l’analisi comparata – gode di un ampio e consolidato riconoscimento.

La soluzione normativa prefigurata con l'art. 117, secondo la parziale riscrittura operata nella proposta in esame, sembra caratterizzarsi, pertanto, per taluni caratteri essenziali, sia rispetto all'attuale dettato costituzionale, sia nei confronti delle norme contenute nel testo di riforma del Titolo V approvato in via definitiva dal Senato l'8 marzo 2001.
a) rispetto al testo attuale:
- Viene confermato il limite dell'interesse nazionale.
- Viene confermato l'elenco delle materie (vecchia formulazione).
- Si conferma il modello di competenza concorrente come prevalente (almeno quantitativamente), con l'eccezione delle materie che possono essere assunte direttamente dalle regioni come esclusive.

b) rispetto al testo di riforma del Titolo V:
- Non ci sono le materie di esclusiva competenza statale e, quindi, scompare la competenza residuale generale a favore delle regioni.
- Non ci sono, conseguentemente, le competenze esclusive nelle materie di competenza residuale delle regioni.
- Si riduce notevolmente il catalogo delle materie regionali.
- Si conferma, applicandolo però a materie non identiche, un modello di autoattribuzione regionale di poteri differenziati (v. art. 116 del testo di modifica del Titolo V).

Alcuni dei punti evidenziati si prestano ad ulteriori considerazioni.
In particolare, il mantenimento del limite dell’ “interesse nazionale”, ripropone rilevanti margini di incertezza, come dimostra l'esperienza attuativa delle regioni, sia ordinarie che speciali, in ordine al potere di riassunzione da parte dello Stato di rilevanti porzioni di competenza legislativa (ma non solo) nelle materie regionali.
Ulteriori elementi di riflessione possono essere ricavati dal testo in esame rispetto alla individuazione degli ambiti di competenza regionale concorrente, che risultano determinati sulla base dell'elenco del vigente art. 117 e che, tenuto conto dell'evoluzione legislativa, ma anche giurisprudenziale che se ne è data, sembrano porsi in termini riduttivi, piuttosto che espansivi, delle attribuzioni regionali. È il caso, ad esempio, dell'ormai ampia accettazione dell’attribuzione alle regioni di competenze in materia di attività produttive, che trova riconoscimento nel testo di revisione del Titolo V della Costituzione, laddove è riconosciuta alle regioni – in via residuale rispetto alle competenze statali –una ampia competenza legislativa esclusiva in varie materie, per le quali l’art.117 si limita - come noto - a prevedere la competenza concorrente (v., in particolare, agricoltura e foreste, turismo e industria alberghiera, artigianato). Inoltre, nello stesso testo di riforma costituzionale approvato nel marzo scorso, si riconosce alle regioni la competenza esclusiva in materia di industria, non prevista, invece, nell'art. 117 della proposta in esame, con il risultato di prefigurare così il mantenimento in capo allo Stato della competenza legislativa piena nella materia in oggetto.

Passando a considerare la novella proposta al terzo comma dell’art.117, vale a dire la possibilità di ciascuna regione di attivare la propria competenza legislativa esclusiva per determinate materie, si può osservare in generale che:

- innanzitutto il riferimento alla competenza legislativa esclusiva di per sé non è detto che chiarisca il campo effettivo di estensione della competenza regionale, come del resto testimonia la pluridecennale esperienza delle regioni a statuto speciale. Non sembra infondato ritenere che, stante anche la formulazione normativa avanzata, potrebbero determinarsi incertezze di portata assai rilevante non solo sotto il profilo della tutela di valori, diritti e interessi generali e unitari, pure affermati dai “principi fissati nella Costituzione” che l’articolo indica come unici limiti alla competenza esclusiva, ma anche sotto il profilo della tutela della stessa autonomia regionale, con il rischio per altro di una estesa conflittualità e un sovraccarico di lavoro per la Corte costituzionale. Nella Relazione al disegno di legge per la verità si afferma che il richiamo ai principi costituzionali – nel caso della competenza esclusiva regionale in materia di assistenza e organizzazione sanitaria - “consente l’intervento legislativo dello Stato per la fissazione dei livelli minimi ed essenziali della prestazioni e di tutela del cittadino e gli indirizzi generali di settore”, aggiungendo che lo Stato “potrà intervenire sui grandi temi che costituiscono diretta derivazione del principio di tutela della salute di cui all’articolo 32 della Costituzione”. Analogamente per la materia dell’istruzione si afferma che “residuerà comunque allo Stato, in applicazione di quanto previsto nella prima parte della Costituzione in materia di istruzione, la definizione in via generale degli ordini di studio, degli standard di insegnamento, delle condizioni per il conseguimento e la parificazione dei titoli di studio”.
Quanto affermato nella relazione non trova, però, un riscontro puntuale nel testo normativo, anche se il richiamo ai "principi fissati nella Costituzione" opera senza dubbio nella direzione di prefigurare tutti gli interventi statali che si rendano necessari, anche nei confronti della potestà esclusiva regionale, per il pieno rispetto degli stessi principi costituzionali.
La soluzione che è stata avanzata, fondata sulla tecnica della determinazione del contenuto delle materie attribuite, rende però – come appunto si diceva – incerti l’estensione ed il limite della competenza esclusiva. Se certamente può essere comprensibile il timore che un testo meno asciutto di quello in discussione possa dare adito ad una eccessiva estensione della competenza statale, non è detto che non possa argomentarsi anche a contrario. Sul punto, in effetti, potrebbe essere opportuno - a tutela della stessa autonomia regionale - esplicitare i limiti e confini effettivi della competenza legislativa esclusiva regionale, delimitando in tal modo maggiormente di quanto non emerga dal testo in esame, lo spazio di intervento del legislatore nazionale. Ciò consentirebbe, inoltre, di evitare ogni dubbio e incertezza sul mantenimento dei valori di unitarietà ed eguaglianza, fondati sui principi della prima parte della Costituzione;

- in secondo luogo si può osservare che la concentrazione dell’attenzione del testo sui contenuti della attribuzione della competenza esclusiva – pur evidentemente importante – perde molto del suo rilievo se non accompagnata dallo sviluppo di una coerente normativa costituzionale di tipo finanziario. Sotto questo profilo i problemi da risolvere sono almeno due. In primo luogo quello di garantire a tutte le regioni le ulteriori risorse necessarie a gestire le materie per quali si ipotizza un decentramento nuovo o maggiore rispetto alla situazione attuale (sicurezza pubblica e istruzione).
In secondo luogo quello di garantire una maggiore autonomia tributaria a quelle regioni che optino per la competenza esclusiva in sanità, istruzione e sicurezza pubblica. Una delle conseguenze di questa scelta, infatti, deve necessariamente essere quella della totale esclusione di interventi del governo centrale volti a far fronte agli eventuali maggiori costi conseguenti alle scelte organizzative e gestionali adottate da tali regioni nell'esercizio della loro più ampia autonomia.

- in terzo luogo – visto l’intento di introdurre un criterio di flessibilità nella attribuzione delle competenze – non sembra eludibile, anche adottando un sistema come quello proposto che vede la regione interessata unico dominus dell’attivazione del processo, un approfondimento e una specificazione delle modalità, anche sotto il profilo temporale, attraverso le quali la regione interessata può attivare la competenza esclusiva, considerati gli effetti di tale attivazione sul piano legislativo, sul piano governativo-ministeriale, sul piano della finanza, sul ruolo degli enti locali territoriali subregionali e, non ultimo, sulle altre regioni.

In conclusione di quanto ora esposto non sembra qui fuori luogo ricordare – anche sulla scorta dell’esperienza di altri paesi – come molti dei problemi che inevitabilmente sorgono in ordine all’attribuzione e al riparto delle competenze verrebbero attenuati, se non del tutto eliminati, attraverso un potenziamento (anche in prospettiva con l’istituzione della Camera delle regioni) della partecipazione regionale alla elaborazione della legislazione nazionale, in particolare di quella relativa alla determinazione di livelli essenziali, di standard, ecc., essendo evidente che più certo diverrebbe il rispetto di tali standard da parte degli enti che hanno concorso a determinarli e meno rischi si avrebbero, di conseguenza, in ordine allo sviluppo da parte statale di marchingegni di vario tipo volti a imbrigliare e controllare i comportamenti regionali.

2. La sanità

2.1 La situazione attuale e le evoluzioni più recenti della normativa
2.1.1 La Costituzione vigente

Nella vigente Costituzione la materia della sanità trova esplicito richiamo nell'art. 117 che riconosce la competenza legislativa regionale per la "assistenza sanitaria ed ospedaliera".
Tra le norme di principio della Carta fondamentale si rinviene, inoltre, una disposizione volta al riconoscimento del diritto alla salute: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti" (art. 32, primo comma).
Al di là della pur complessa configurazione del diritto alla salute, quale diritto fondamentale, ma, allo stesso tempo, connesso ad una imprescindibile libertà dell'individuo, vale sottolineare come la previsione della norma-principio sulla salute comporti anche un necessario risvolto organizzativo per il complesso dei poteri della Repubblica.
È della Repubblica, quale insieme plurale di ordinamenti, infatti, il compito di tutelare la salute dell'individuo; il che presuppone una necessaria convergenza di tutti i soggetti istituzionali verso il raggiungimento del fine costituzionale.

2.1.2 La legislazione ordinaria

In base alla legislazione ordinaria il Servizio sanitario nazionale (Ssn) è una funzione pubblica la cui organizzazione è già oggi massimamente “devoluta”.
Con il decreto legislativo 56/2000 si è introdotto il federalismo fiscale, l’ultima tappa di un cammino intrapreso già nella seconda metà degli anni ottanta con importanti sentenze della Corte Costituzionale che affermarono la sovranità regionale in materia di organizzazione e amministrazione del Ssn. Questo processo di decentramento, de facto e de jure, è stato riconosciuto e formalizzato con il decreto legislativo 502/92 e successive modifiche e integrazioni, e ulteriormente perfezionato e rafforzato con il decreto legislativo 229/99.
Sono pertanto rimasti al livello centrale solo le competenze relative all’indirizzo, al coordinamento e al monitoraggio delle attività del Ssn, oltre alla programmazione e al finanziamento della ricerca sanitaria ed altre funzioni tipicamente centrali (ad es. contratti sanitari per gli aeroporti e i porti marittimi, rapporti con l’estero, etc.).
La forza della “devolution” risiede, nel caso della sanità, nella maggiore garanzia e nel maggiore spazio riconosciuti alle preferenze locali. Perciò la regione è titolare della funzione di tutela della salute della popolazione regionale attraverso le aziende sanitarie. Essa ha, in particolare, piena autonomia per quanto riguarda l’organizzazione e l’amministrazione del Servizio sanitario regionale. Lo spirito federalista vuole anche che gli enti locali esercitino una funzione consultiva e propositiva relativamente alla programmazione strategica del Servizio sanitario regionale e, con particolare riguardo all’area della integrazione socio-sanitaria, svolgano un ruolo preminente nello sviluppo di piani intersettoriali per la salute.
Allo stesso tempo, per definizione, la “devolution” contiene elementi o forze che potrebbero incoraggiare tendenze alla frammentazione e alla eccessiva eterogeneità nelle scelte politiche decentrate, anche con il rischio di indebolire l’unità nazionale. Da questo punto di vista, da un lato esiste il bisogno di ribadire gli obiettivi propri del Servizio sanitario nazionale - universalità dei diritti, solidarietà nel finanziamento, globalità delle copertura e continuità nell’assistenza, equità nella distribuzione delle risorse, entro i vincoli complessivi - e, d’altro lato, diventa importante il ruolo del Ssn proprio come espressione della cittadinanza nazionale, ovvero come “collante dei regionalismi”.
In altre parole, proprio perché si intraprende la strada del federalismo, è il momento di riaffermare e di promuovere gli interessi di carattere unitario e nazionale nel campo della salute e di stabilire garanzie per i cittadini.

2.2 La proposta di riforma dell'art. 117 nel testo formulato dal Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione
2.2.1 Contenuto della proposta

L'obiettivo di mantenere il carattere "nazionale" del servizio sanitario sembra ribadito anche nel progetto di modifica dell'art.117 il quale prevede, al comma 1 dell'articolo 2, che la sanità rientri tra le materie rispetto alle quali spetta alla regione emanare "norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello delle altre regioni".
Né questo obiettivo sembra essere messo in discussione dal comma 2 dello stesso articolo in base al quale la materia della "assistenza sanitaria e organizzazione sanitaria" costituisce una delle ipotesi in cui a ciascuna regione è consentito di "attivare la propria competenza legislativa esclusiva". Ciò emerge chiaramente, tuttavia solo dalla Relazione al disegno di legge nella quale si afferma, ad esempio, che "la formulazione prescelta (relativamente all'assunzione da parte di una regione della competenza esclusiva, n.d.r.) grazie al richiamo ai principi costituzionali e dunque anche alle disposizioni contenute nella prima parte della Costituzione (vigente, n.d.r.) consente l'intervento legislativo dello Stato per la fissazione dei livelli minimi ed essenziali delle prestazioni e di tutela del cittadino e gli indirizzi generali di settore".

2.2.2 La proposta rispetto alla Costituzione vigente e alla sua attuazione

Se, tenendo conto della Relazione, il disegno di legge in esame non fa intravedere modifiche sostanziali della normativa costituzionale vigente per quanto riguarda il diritto di tutti i cittadini ad una assistenza sanitaria capace di garantire livelli minimi di prestazioni sul territorio nazionale, la stessa considerazione può farsi rispetto alla legislazione ordinaria con la quale finora è stata data attuazione alla Costituzione. In tale legislazione, i livelli essenziali ed uniformi sono, in effetti, l’ingrediente principale del “collante” che dovrebbe consentire che, anche in un assetto federale, il Ssn non si frammenti in ventuno servizi sanitari regionali estremamente eterogenei fra di loro. E tale normativa ribadisce altresì che la determinazione dei livelli essenziali sia e rimanga di competenza dello Stato e, di conseguenza, che ogni singola regione, nella gestione del proprio servizio sanitario, sia tenuta a rispettare i seguenti tre fondamentali criteri nazionali:
1. universalità: ogni residente nelle diverse regioni deve avere accesso alle prestazioni e ai servizi che qualificano i livelli essenziali;
2. accessibilità: devono essere definite delle norme generali che regolamentino il ricorso, da parte delle singole regioni, alla partecipazione al costo delle prestazioni, per evitare eccessive differenze interregionali nella spesa sanitaria posta a carico del cittadino; inoltre, ogni residente deve poter accedere alle prestazioni contenute nei livelli essenziali con tempi di attesa clinicamente ragionevoli e con tempi di percorrenza civilmente accettabili compatibilmente con le risorse disponibili ai servizi sanitari regionali;
3. trasferibilità: deve essere garantito il diritto delle persone di mantenere le garanzie offerte loro dalla propria regione anche al di fuori dalla stessa, con entità, modalità e tempi di rimborso delle spese anticipate dai cittadini ragionevolmente uniformi.
Questi tre criteri possono considerarsi “l’infrastruttura” sulla quale si fonda la garanzia dei livelli essenziali e, insieme con questi stessi livelli, definiscono il carattere nazionale del Ssn.
Il criterio più facile da capire è forse quello della universalità: è ovvio che, se il luogo di residenza può determinare l’accesso o meno a prestazioni o a servizi che rientrano nei livelli essenziali, viene a mancare un pre-requisito di un servizio sanitario di carattere nazionale.
Lo stesso vale nel caso in cui non sia rispettato il criterio dell’accessibilità. Se i cittadini di una data regione devono assumere l’onere di compartecipazioni marcatamente più elevate rispetto a quelle a carico dei cittadini di altre regioni si offende un principio basilare di qualsiasi sistema federale di carattere solidaristico e cioè l’equità geografica o orizzontale. L’equità geografica risulterebbe ancora più compromessa se tali maggiori oneri venissero accompagnati da tempi di attesa relativamente più lunghi.
Per quanto riguarda, infine, il criterio della trasferibilità delle garanzie, esso è pienamente giustificato dalle aspettative degli italiani di potersi muovere con tranquillità da regione a regione per motivi di lavoro, studio, turismo o famiglia. Questo criterio trova ulteriore validità nell’esigenza di una razionale pianificazione ed utilizzo di strutture sopra-regionali e di strutture collocate in zone di confine fra regioni.
I tre criteri hanno in comune una dimensione trasversale in quanto tutti si riferiscono esplicitamente a livelli essenziali di assistenza di qualità. Ciascun servizio sanitario regionale deve mirare a garantire ai propri residenti prestazioni di elevata qualità, clinica e non clinica.
Rispetto alla legislazione ordinaria, tuttavia, la proposta in esame può comportare innovazioni di grande rilievo su versanti diversi da quelli dei livelli essenziali ed uniformi. Infatti, almeno nelle regioni che optino per la competenza esclusiva, si potrebbe avere una completa regionalizzazione, sotto il profilo gestionale ed organizzativo di settori di altamente sensibili come la ricerca, il personale, gli istituti scientifici e la farmaceutica. Il primo assorbe una quota della spesa pubblica sanitaria abbastanza contenuta, ma va osservato che in genere anche nei paesi a tutti gli effetti federali risulta di competenza del governo nazionale. Gli altri settori potrebbero (come di fatto avviene in altri paesi) essere decentrati. Deve tuttavia osservarsi che, ad esempio sotto il profilo non secondario del rispetto del patto di stabilità, le responsabilità delle regioni diventerebbero estremamente ampie: basti pensare che le spese per il personale assorbono quasi il 38% della spesa complessiva e quelle per la farmaceutica convenzionata il 12%.

2.2.3 La proposta rispetto alla legge costituzionale di modifica del Titolo V

A prescindere dagli aspetti a cui si è fatto ora riferimento e tenendo conto di quanto affermato nella Relazione che accompagna l’articolato, va osservato che la proposta in esame appare abbastanza compatibile rispetto al Titolo V della Costituzione, come modificato dal testo di legge costituzionale approvato in data 8 marzo 2001. Anche qui, infatti, la determinazione dei livelli essenziali è riservata alla normativa statale.

3. L’istruzione

3.1 La situazione attuale e le evoluzioni più recenti della normativa
3.1.1 La Costituzione vigente

Nella Costituzione vigente, la materia istruzione è disciplinata principalmente negli artt. 30 (diritto-dovere all’istruzione), 33 e 34 (libertà della cultura, libertà di insegnamento, diritto allo studio ecc.), ma trova anche riferimento nell’art.117.
In particolare, nel testo vigente dell’art.117, tra le materie per le quali la regione può emanare norme nei limiti dei principi fondamentali, è inclusa l’istruzione, ma solo per quanto riguarda “l’istruzione artigiana e professionale e l’assistenza scolastica”.

3.1.2 La legislazione ordinaria

Fino alla metà degli anni novanta, l’istruzione risultava fortemente accentrata (era considerata essenzialmente fine dello Stato). Le connotazioni tradizionali del sistema, però, iniziano a subire un sostanziale mutamento a partire dalle previsioni contenute nella legge n. 59 del 1997, con la quale si è avuto un importante riconoscimento normativo del fatto che l’istruzione possa essere inclusa nel processo di decentramento. La legge, infatti, tra le funzioni riservate allo Stato (“istruzione universitaria, ordinamenti scolastici, programmi scolastici, organizzazione generale dell’istruzione scolastica e stato giuridico del personale”-art.1, co.3, lett.q) e le funzioni in materia di gestione del servizio di istruzione da attribuire progressivamente alle autonomie scolastiche (art.21), parla del trasferimento agli enti locali di compiti e funzioni anche (quindi, non soltanto) in materia di programmazione e riorganizzazione della rete scolastica (art.21, co.18).
Nel sistema della legge n. 59, il complesso delle funzioni oggetto del conferimento alle autonomie regionali e locali appare, dunque, delimitato, da un lato, dalla riserva allo Stato dei compiti elencati nell’art.1, co.3, lett.q) e, dall’altro, dalla riserva alle scuole di compiti da trasferire nel quadro dell’autonomia scolastica.
Al quadro normativo, come sopra sintetizzato, è stata data attuazione, per il primo aspetto, con il capo III del titolo IV (artt.135-139) del decreto legislativo n. 112 del 1998, per il secondo aspetto, con il D.P.R.n.275 del 1999.
Preliminarmente, occorre sottolineare che anche nel primo dei testi normativi sopra richiamati, è fatta salva l’esigenza, da un lato, del decentramento tra livelli territoriali, dall’altro, del riconoscimento dell’autonomia scolastica (art.135).
Quanto alle funzioni che rimangono allo Stato, oltre a quelle relative a specifici tipi di istituti di istruzione (art.137, co.2 e art.138, co.3), sono da segnalare le funzioni inerenti ai criteri e ai parametri per l’organizzazione della rete scolastica e le funzioni di valutazione del sistema scolastico (che rispondono all’esigenza di rispettare principi e criteri di uniformità nell’organizzazione e nelle prestazioni del sistema scolastico); inoltre, le funzioni relative alla determinazione e all’assegnazione delle risorse finanziarie a carico del bilancio dello Stato e del personale alle istituzioni scolastiche (che rispondono, invece, nel quadro di un modello organizzativo finora prevalente, ma in prospettiva probabilmente modificabile, all’esigenza di porre in stretta relazione i singoli istituti e l’amministrazione centrale).
Quanto alle funzioni amministrative delegate alle regioni è da segnalare come rilevante, accanto a quella della programmazione della rete scolastica, che rappresenta l’aspetto fondamentale del processo di decentramento, la funzione di programmazione dell’offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale.
Per quanto riguarda i compiti e le funzioni attribuiti alle province (in relazione all’istruzione secondaria superiore) e ai comuni (in relazione a quella elementare e secondaria inferiore), essi concernono principalmente le attività di attuazione della programmazione regionale e di supporto alla stessa, attraverso la redazione di piani di organizzazione della rete di istituzioni scolastiche.
Il secondo dei testi normativi, dettato in attuazione dell’art.21 della legge n.59 del 1997, è rappresentato dal d.P.R.275 del 1999 che disciplina l’autonomia scolastica. Questo decreto, da un lato, sottolinea il ruolo della scuola in quanto “comunità”, che si autogoverna mediante organi collegiali (consiglio di circolo e di istituto) e organi rappresentativi del corpo docente (collegio dei docenti). Dall’altro lato, attribuisce al consiglio di istituto un rilevante potere di indirizzo politico-amministrativo, assegnando allo stesso, tra l’altro, il compito di predisporre il piano dell’offerta formativa. Questo potere di indirizzo si estrinseca, quindi, attraverso varie forme di autonomia attribuite agli istituti scolastici proprio da questo decreto: autonomia didattica (differenziazione dell’offerta formativa attraverso la regolazione dei tempi e dello svolgimento delle singole discipline); autonomia organizzativa (superamento dei vincoli in tema di unità oraria della lezione, di unitarietà del gruppo di classe e dell’impiego dei docenti); autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo (nell’ambito della flessibilità curricolare); autonomia gestionale (assegnazione alle scuole delle funzioni già di competenza dell’amministrazione centrale e periferica relative alla carriera scolastica, al rapporto con gli alunni, all’amministrazione e alla gestione del patrimonio e allo stato giuridico e al trattamento economico del personale, salvo, però, il limite delle competenze riservate all’amministrazione centrale e periferica dall’art.15 del regolamento e da altre successive disposizioni); autonomia normativa (possibilità per le scuole di adottare il regolamento di disciplina degli alunni, oltre che il regolamento interno, peraltro già esistente); autonomia di spesa (autonomia di destinazione e di ricerca di risorse finanziarie aggiuntive pubbliche e private) e autonomia contabile (ai sensi del d.lgs. 297/1994: le istituzioni scolastiche operano sulla base di un bilancio preventivo sottoposto all’approvazione del provveditore, previo parere della giunta esecutiva del consiglio scolastico provinciale).
Le scuole hanno, inoltre, la possibilità di stipulare accordi non solo con altre istituzioni scolastiche per assolvere compiti istituzionali coerenti con il piano dell’offerta formativa, ma anche con le regioni e gli enti locali per realizzare percorsi formativi integrati. Possono, inoltre, effettuare convenzioni con università, enti, associazioni e agenzie, aderire a consorzi pubblici e privati per acquisire servizi e beni.
Alle forme di autonomia indicate nel D.P.R.275 si contrappongono, però, dei limiti piuttosto rilevanti. Dal punto di vista delle risorse umane e finanziarie, ad esempio, l’autonomia scolastica si può sicuramente considerare ridotta. Nell’ambito dei finanziamenti, derivanti principalmente dallo Stato, oltre che dagli enti locali i margini di manovra delle scuole sono, infatti, ristretti. Basti pensare che più del 90% delle risorse finanziarie che affluisce agli istituti scolastici è costituito da oneri per il personale e, comunque, da spese a carattere vincolato.
L’autonomia consiste, quindi, solo nella possibilità attribuita alle scuole di ottenere delle risorse finanziarie attraverso l’ampliamento dell’offerta formativa o la stipula di accordi per la realizzazione di progetti formativi o mediante un aumento dei trasferimenti dello Stato non legati a spese vincolate. Si fa riferimento, in questo caso, al Fondo per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa e per gli interventi perequativi (l. n. 440/1997 e direttiva del Ministro della pubblica istruzione 19 maggio 1998, n.238).
Sotto questo profilo, l’autonomia degli istituti scolastici può essere considerata come un’autonomia di iniziativa manageriale. La figura del capo d’istituto (ancora, comunque, funzionario statale) e, soprattutto, la sua capacità manageriale risultano particolarmente importanti per la valorizzazione dei singoli istituti. Anche la legge n.59 ha messo in evidenza questo aspetto, attribuendo al capo d’istituto la qualifica dirigenziale (d.lgs. n.59/1998 di attuazione dell’art.21 della stessa legge 59) e configurandolo come responsabile della gestione della scuola. I risultati della gestione sono, invece, esaminati da un nucleo di valutazione, istituito presso l’amministrazione scolastica regionale, presieduto da un dirigente e composto da esperti anche non appartenenti all’amministrazione stessa.
Particolarmente ridotta anche l’autonomia rispetto alla gestione del personale, avendo gli istituti scolastici solo la possibilità di reclutare il personale supplente (art.4, comma 17, legge 537/1993) e quello che può essere incaricato con contratti d’opera per attività extracurricolari (contratti d’opera disciplinati dalla legge n.449/1997).
Questa, in sintesi, la disciplina attuale della materia istruzione contenuta nella normazione ordinaria.

3.1.3 Gli ordinamenti delle regioni speciali: in particolare la Valle d’Aosta

Particolare interesse riveste l’ordinamento scolastico della Valle d’Aosta, che tuttavia non ha riscontro in nessun’altra regione d’Italia ed è strettamente collegato all’utilizzo della lingua francese e alla tutela del bilinguismo.
Lo statuto ha attribuito la materia dell’istruzione non universitaria alla competenza legislativa della regione, stabilendo inoltre che “nelle scuole di ogni ordine e grado, dipendenti dalla regione, all’insegnamento della lingua francese è dedicato un numero di ore settimanali pari a quello della lingua italiana” (art.39).
Il compito di individuare le materie da insegnare in lingua francese è, invece, affidato congiuntamente alla regione e al ministero della pubblica istruzione, su proposta del consiglio scolastico regionale, sentite apposite commissioni miste (previste dall’art.40, comma 2, dello statuto) costituite da rappresentati del Ministero, del Consiglio regionale della Valle d’Aosta e degli insegnanti e nominate dal Presidente della Giunta regionale. La regione adotta i relativi atti formali e ne dà esecuzione (art.28, comma 2, legge 196/1978).
L’insegnamento delle materie è regolamentato dalle norme e dai programmi in vigore a livello statale, ma con “opportuni adattamenti” approvati con la stessa procedura prevista per la scelta delle materie da insegnare in lingua francese.
Spetta alla Regione Valle d’Aosta l’istituzione delle scuole e degli istituti di istruzione tecnico-professionale (art.2, lett.r, Statuto V.A.) e l’istruzione materna, elementare e media (art.3, lett.g, Statuto V.A.), nonché gli istituti d’arte, i licei artistici e le scuole popolari (art.29 l.196/1978). Da precisare che l’ordinamento dell’istruzione elementare e media è disciplinata dal Consiglio regionale (art.1, lett. c, l. r. 66/1979).
Inoltre, fin dal dopoguerra è stato soppresso il Provveditorato agli studi di Aosta e le sue funzioni sono state esercitate dalla Sovrintendenza agli studi per la Valle d’Aosta. Lo stesso è avvenuto per il consiglio scolastico, divenuto regionale, anche per quel che riguarda la dipendenza organica (D.L.C.p.S. 11 novembre 1946, n. 365).
Con il D.P.R 31 ottobre 1975, n.861 ha, invece, avuto effettiva attuazione l’istituzione dei ruoli regionali e l’obbligo di accertamento della conoscenza della lingua francese, stabilito, comunque, già nel decreto del 1946 sopra citato. Quest’ultimo aveva previsto, infatti, che la regione dovesse provvedere alla nomina degli insegnanti, degli ispettori scolastici e dei direttori didattici, previa dimostrazione della conoscenza della lingua francese (art.2 d.l.C.p.S. n.365/1946). Attualmente le modalità di accertamento della lingua sono disciplinate dalla l.r. n.12 del 1993.
Per quanto riguarda il personale sopra citato, il D.P.R. n.861 ha disposto, inoltre, l’applicazione delle norme sullo stato giuridico ed economico del personale statale; l’assunzione delle spese a carico della Regione; l’attribuzione al Consiglio scolastico regionale delle competenze del Consiglio nazionale della pubblica istruzione in materia di stato giuridico (oltre alle competenze spettanti ai Consigli scolastici provinciali); l’istituzione di appositi Consigli di disciplina; la competenza del Sovrintendente agli studi per la Valle d’Aosta; la “necessità della piena conoscenza della lingua francese” da accertare da parte della Valle d’Aosta; la possibilità di effettuare dei passaggi (anche con assegnazione provvisoria) ai ruoli nazionali e, viceversa, da questi ultimi a quelli della Valle d’Aosta (in questo caso, previo accertamento della lingua francese da parte di una Commissione nominata dalla Regione); la partecipazione del personale scolastico della Valle d’Aosta alla formazione delle rappresentanze delle rispettive categorie all’interno del Consiglio nazionale della pubblica istruzione; la conferma delle competenze regionali previste dal D.l. C.p.S. n.365 del 1946, con particolare riferimento alla disposizione che attribuisce alla Regione il compito di provvedere all’esercizio delle funzioni amministrative in materia di scuole con uffici e personale propri. Le disposizioni del D.P.R. 861 sono state attuate dalla legge regionale 26 aprile 1977, n.23 (parzialmente modificata dalla legge regionale n.54/1977).
Per quanto riguarda la scuola materna, la Regione con legge regionale n.22 del 1972 ha promulgato norme integrative della legge n.444/1968, disponendo che spetta agli organi della regione approvare il piano annuale per l’istituzione di scuole materne (decreto del Presidente della Giunta) e il programma di attività, nonchè la costituzione di sezioni delle scuole materne regionali (in questi ultimi casi, con decreto dell’assessore regionale alla pubblica istruzione). Il personale delle scuole materne regionali è alle dirette dipendenze della Regione (l.r. n.45/1977). È, inoltre, ammesso ricorso all’assessore regionale alla pubblica istruzione contro i provvedimenti del Sovrintendente agli studi e dei direttori didattici delle scuole materne.
Da precisare, infine, che anche il personale di segreteria e ausiliario delle scuole materne, elementari e secondarie della Valle d’Aosta è regionale (l.r. n.31/1985).

3.2 La proposta di riforma dell’art.117 nel testo formulato dal Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione
3.2.1 Contenuto della proposta

Nel testo di riforma dell’art. 117 cost. contenuto nella proposta, la materia “istruzione”, specificata in termini di “organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della regione”, viene inserita nell’ambito sia della competenza concorrente, sia della competenza esclusiva. Quest’ultima, infatti, può essere “attivata” (per gli aspetti organizzativi e gestionali, come pure per la programmazione di specifico interesse regionale) direttamente dalla regione, valendo in tal caso solo il limite dei princìpi fissati in Costituzione.
Il testo non dà indicazioni circa le modalità e le procedure per l’attivazione di tale competenza. Inoltre, non viene fatto alcun riferimento alla ormai operante riforma dell’autonomia scolastica che, per contro, è confermata – come si vedrà nel successivo paragrafo 3.2.4 - nel testo di revisione costituzionale del titolo V.

3.2.2 La proposta rispetto alla Costituzione vigente e alla sua attuazione

Nel testo della proposta è da segnalare la mancanza di accenni alla autonomia scolastica, come si è visto ampiamente disciplinata dalla legislazione ordinaria vigente. A questo proposito occorre anche porre particolare attenzione alla terminologia utilizzata per determinare le competenze regionali al fine di evitare che, dopo quella ministeriale, si riproduca in capo alla regione un accentramento amministrativo - burocratico.

3.2.3 La proposta rispetto agli statuti differenziati

La proposta in esame sembra comportare lo spostamento delle funzioni amministrative in materia di istruzione dallo Stato alle regioni che optino per l’attivazione della competenza legislativa esclusiva. Anche nel modello della Valle d’Aosta, la regione sotto questo profilo svolge un ruolo rilevante, come risulta dall’analisi del precedente paragrafo 1.3. Da sottolineare, tuttavia, la preminenza di rapporti Stato-regione circa l’individuazione delle materie da insegnare in lingua francese e la regolamentazione dei programmi d’insegnamento.

3.2.4 La proposta rispetto alla legge costituzionale di modifica del Titolo V

Nel testo di modifica dell’art.117, contenuto nella legge da ultimo approvata dal Senato in data 8 marzo 2001, le “norme generali sull’istruzione” risultano di esclusiva competenza statale, mentre tra le materie concorrenti è inserita “l’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale”.
Quest’ultimo punto, in particolare, risulta coerente con la riforma amministrativa indirizzata, come evidenziato in precedenza, verso il consolidamento dell’ampliamento dell’autonomia scolastica. L’art.117 deve essere, però, letto anche in relazione alle disposizioni contenute nell’art.116 che, sia pur dedicato alle specialità, prevede che “particolari forme di autonomia”, concernenti una serie di materie indicate nel secondo comma dell’art.117 (tra le quali figurano le “norme generali sull’istruzione”) possono essere attribuite anche alle regioni ordinarie, con legge statale, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali.
Per concludere, si può constatare che – mentre un ampio conferimento di funzioni è già avvenuto sul piano amministrativo – vi è di massima una convergenza tra quanto già stabilito dal testo di revisione del Titolo V e quanto previsto dalla proposta in esame. Resta naturalmente la diversità del modello di attribuzione: nel primo caso essendo determinata la competenza legislativa riservata allo Stato e individuata in via residuale quella regionale; nel secondo essendo – a seguito della scelta del modello dell’art.117 della Costituzione vigente – determinata la competenza regionale.
Va, inoltre, sottolineato che mentre il testo di revisione (art.116 rivisto) fa riferimento alla possibile attivazione di “forme particolari di autonomia”, tali eventuali forme, nel progetto Bossi, sono specificate nella competenza esclusiva della regione.

4. La pubblica sicurezza d’interesse locale

4.1 La situazione attuale e le evoluzioni più recenti della normativa
4.1.1 La Costituzione vigente

Nell’attuale costituzione la materia della pubblica sicurezza non rientra tra quelle indicate di competenza legislativa concorrente delle regioni dall’art. 117, né ha costituito oggetto di delegazione amministrativa sulla base dell’art. 118.
Non esistono principi costituzionali che inducano ad escludere con certezza la funzione amministrativa volta al perseguimento della sicurezza pubblica da una possibile parziale devoluzione di poteri al sistema degli enti territoriali. Si può delineare tuttavia almeno un principio costituzionale fondamentale che risulterebbe comunque inderogabile (anche in sede di revisione costituzionale) nell’ambito dell’attuale ordinamento costituzionale: tutte le limitazioni alle libertà dei cittadini che la Costituzione riserva alla legge possono essere determinate esclusivamente dalla legislazione statale. E’ con riferimento alle riserve di legge statale qui disposte dalla Costituzione che si trovano, peraltro, gli unici richiami espliciti alla sicurezza pubblica o analoghe formulazioni (art. 13, art. 14, art. 16, art. 17).

4.1.2 La legislazione ordinaria

I sindaci sono stati considerati autorità locali di pubblica sicurezza sin dal T.U. della legge comunale e provinciale 4 febbraio 1915, n. 148, secondo il quale (art. 152, n. 3) essi, quali ufficiali di governo, erano incaricati “di provvedere agli atti della pubblica sicurezza”.
In base a quanto stabilito dall’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza sono attualmente da considerare autorità locali di pubblica sicurezza, però, esclusivamente i sindaci di quei comuni ove non siano istituiti commissariati di polizia (art. 15, comma 2, legge 1 aprile 1981, n. 121).
La legge recante il nuovo ordinamento delle autonomie locali (legge 8 giugno 1990, n. 142) ha confermato le (più o meno ampie) funzioni che le leggi dello stato affidano ai sindaci in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria statuendo con disposizione di portata generale che “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, sovraintende: […] b) all’emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e di sicurezza pubblica; c) allo svolgimento, in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, delle funzioni affidategli dalla legge; d) alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico, informando il prefetto” (art. 38, comma 1, ora art. 54, comma 1, d.lg. 18 agosto 2000, n. 267, T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
E’ da collegare a queste attribuzioni del sindaco quale ufficiale del governo la previsione della legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale (legge 7 marzo 1986, n. 65) che prevede che il personale che svolge detto servizio collabora, nell’ambito delle proprie attribuzioni, con le forze di polizia dello stato quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle autorità competenti (art. 3) e che, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, esercita anche funzioni di polizia giudiziaria e funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza. A tal fine il prefetto conferisce al suddetto personale la qualità di agente di pubblica sicurezza (art. 5).
Più di recente, anche a seguito di una forte richiesta di espansione del ruolo dei comuni nel campo dell’ordine pubblico, il d.lg. 27 luglio 1999, n. 279, decreto correttivo e integrativo del d.lg. 112 del 1998, ha modificato l’art. 20 della legge 1 aprile 1981, n. 121, che istituisce e regola il funzionamento del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, al fine di realizzare un migliore coordinamento e un più stretto raccordo tra forze di polizia ed enti locali; prevedendo, adesso, che la composizione di questo organo - originariamente composto esclusivamente dal prefetto, dal questore e dai comandanti provinciali dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza - sia integrata dal sindaco del comune capoluogo, dal presidente della provincia, nonché dai sindaci degli altri comuni interessati, quando devono trattarsi questioni riferibili ai rispettivi ambiti territoriali. La convocazione e la formazione dell’ordine del giorno di detto comitato spetta sempre al prefetto, ma è stato previsto che “la convocazione è in ogni caso disposta quando lo richiede il sindaco del comune capoluogo di provincia per la trattazione di questioni attinenti alla sicurezza della comunità locale o per la prevenzione di tensioni o conflitti sociali che possono comportare turbamenti dell’ordine o della sicurezza pubblica in ambito comunale”.
Per quanto in particolare riguarda le regioni, all’atto del trasferimento di materie avvenuto con il d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616 vennero riservate alla competenza dello stato le funzioni attinenti alla pubblica sicurezza (art. 4) e vennero trasferite o delegate alle regioni e agli enti locali le funzioni di polizia amministrativa nelle materie ad essi rispettivamente attribuite, trasferite o delegate (art.9) e che in precedenza erano state svolte dall’amministrazione di pubblica sicurezza (e per questo dette di “polizia” amministrativa).
Il processo di conferimento di nuove funzioni alle regioni e agli enti locali avviato con la legge Bassanini ha confermato l’esclusione della materia “ordine pubblico e sicurezza pubblica” (art. 1, lett. l, legge 15 marzo 1997, n. 59) e ha ribadito la spettanza delle funzioni di polizia amministrativa a regioni ed enti locali nelle materie loro conferite, prefigurando l’istituzione di un “servizio di polizia regionale e locale” disciplinato dalle leggi regionali e dai regolamenti degli enti locali (art. 162, comma 2, d.lg. 112 del 1998). E’ da rilevare che quest’ultima previsione rappresenta un fatto di sicura novità non esistendo in precedenza servizi di polizia (amministrativa) regionale, ma solo servizi di polizia municipale (da istituire sulla base della già richiamata legge quadro 7 marzo 1986, n. 65).
Nell’attuazione regionale della legge Bassanini spicca la legge della Regione Emilia-Romagna che, pur con norme di chiaro tenore “programmatico”, accosta alla disciplina delle funzioni di polizia amministrativa alcune disposizioni concernenti “politiche regionali per la sicurezza” (Titolo VIII della legge reg. 26 aprile 1999, n. 3), che vengono intese come “le azioni volte al conseguimento di un’ordinata e civile convivenza nelle città e nel territorio regionale” (art. 218, comma 2). Questa legge, che non risulta essere stata impugnata dal Governo, potrebbe costituire un modello per il rafforzamento degli strumenti di collaborazione sui temi della sicurezza, nel rispetto delle rispettive competenze.

4.1.3 Gli ordinamenti delle regioni speciali: in particolare la Sicilia e la Valle d’Aosta

L’art. 31 dello Statuto speciale della Regione Sicilia prevede che “Al mantenimento dell’ordine pubblico provvede il Presidente regionale a mezzo della polizia dello Stato, la quale nella Regione dipende disciplinarmente, per l’impiego e la utilizzazione, dal Governo regionale” e che il Governo dello Stato assume la direzione dei servizi di sicurezza “quando siano compromessi l’interesse generale dello Stato e la sua sicurezza”.
L’art. 48 dello Statuto speciale della Regione Val d’Aosta stabilisce che “Il presidente della Giunta provvede al mantenimento dell’ordine pubblico per delegazione del Governo, mediante reparti di polizia di Stato e di polizia locale”.
La disposizione dello statuto valdostano è coerente e conseguenziale alla mancanza dell’istituto prefettizio in questa regione.
Semplicemente inattuata è, invece, rimasta la disposizione dello statuto siciliano. Il modello qui prefigurato vedrebbe il presidente della regione esercitare il potere di polizia in veste di rappresentante del governo dello stato, secondo le direttive da quest’ultimo impartite. Questa soluzione manterrebbe statale l’organizzazione della polizia ma riconoscerebbe al presidente della regione la potestà statutariamente delegata di provvedere al mantenimento dell’ordine pubblico, che non sia riferibile all’interesse generale dello stato e alla sua sicurezza.
La giurisprudenza costituzionale formatasi a riguardo ha avuto modo di chiarire:
a) che il decentramento delle funzioni in oggetto deve necessariamente avvenire con legge dello stato, in quanto la materia della sicurezza e dell’ordine pubblico non è inserita tra quelle riservate alla potestà esclusiva o concorrente della regione (Alta corte per la regione siciliana, 20 marzo - 13 aprile 1951, n. 39);
b) che è escluso che al mantenimento dell’ordine pubblico si possa provvedere a mezzo di una polizia diversa da quella statale (Corte cost., sent. 4 – 13 luglio1963, n. 131).
La Corte costituzionale è tornata a esprimersi sull’art. 31 dello statuto della regione Sicilia assai di recente, ribadendo entrambi questi principi (Corte cost. 5 – 13 marzo 2001, n. 55). E’ interessante notare, tuttavia, che la disposizione oggetto dell’eccezione di legittimità costituzionale (art. 22, l. reg. 13 settembre 1999, n. 20), accolta dalla Corte, intendeva istituire un Comitato regionale per la sicurezza presieduto dal presidente della regione che avrebbe dovuto operare in raccordo con i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza istituiti presso le prefetture. Detto comitato regionale avrebbe avuto “il compito di proporre, di concerto con le istituzioni dello stato e dei comuni, misure ordinarie e straordinarie volte a garantire la sicurezza dei cittadini, del patrimonio pubblico regionale e delle attività economiche che si svolgono nel territorio della regione”.

4.2 La proposta di riforma dell’art 117 nel testo formulato dal ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione
4.2.1 Contenuto della proposta

Il progetto di legge all’attuale elenco delle materie di legislazione concorrente delle regioni reca, tra le altre, la nuova materia “pubblica sicurezza d’interesse locale” che verrebbe a sostituire e assorbire la vecchia competenza in materia di “polizia locale urbana e locale”. L’intenzione, dichiarata nella Relazione del progetto, sarebbe quella di attribuire alle regioni la possibilità di disciplinare in modo corrispondente alle esigenze concrete sul territorio gli interventi di prevenzione e repressione dei c.d. “piccoli crimini”. Questa nuova competenza spetterebbe a tutte le regioni che la eserciterebbero nel rispetto dei “limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello stato”, nonché dell’interesse nazionale e di quello delle altre regioni.
L’aggiunta di un terzo comma allo stesso art. 117 consentirebbe inoltre, alle regioni che lo vogliano, di attivare in questa materia una competenza legislativa esclusiva, che incontrerebbe i soli “limiti dei principi fissati dalla Costituzione”.

4.2.2 La proposta rispetto alla Costituzione vigente ed alla sua attuazione

La proposta del progetto di legge costituzionale formulata dal ministro Bossi supererebbe la linea di confine che fino ad ora è stata tenuta ferma e ritenuta invalicabile nella ripartizione dei poteri tra stato e autonomie territoriali, linea di confine che passa lungo la distinzione tra polizia amministrativa, conferita nelle materie di rispettiva competenza a regioni ed enti locali, e polizia di sicurezza, esclusivamente statale (v. art. 159 del d.lg. 112 del 1998). Mentre dunque il conferimento di nuove funzioni amministrative ha, in questa materia, espressamente fatto salva la legge di riforma della polizia, l’introduzione di una distinzione tra una pubblica sicurezza di interesse locale e una pubblica sicurezza d’interesse nazionale necessiterebbe, invece, di una profonda riforma dell’ordinamento della polizia.
Avremmo la costituzione di corpi di polizia regionali, con competenza delimitata alle rispettive circoscrizioni territoriali, che sarebbe chiamata a svolgere – come si afferma nella Relazione - interventi di prevenzione e repressione dei cd. “piccoli crimini” sulla base di una legislazione regionale che potrebbe persino essere di natura esclusiva (in base al testo del nuovo possibile art. 117, comma 2).
Salvo però che prevalga in sede d’interpretazione costituzionale una lettura che riconduca questa legislazione regionale ad una sostanziale concorrenza con una legislazione statale che si faccia interprete sul piano della legislazione ordinaria di quei “principi fissati dalla Costituzione”, che costituirebbero l’unico limite della competenza “esclusiva” delle regioni, questa ampia autonomia normativa comporterebbe addirittura che l’individuazione dei c.d. “piccoli crimini” possa variare regione per regione.

4.2.3 La proposta rispetto agli statuti differenziati

La proposta in questione si spingerebbe dunque ben al di là del modello, peraltro - come abbiamo detto – assolutamente inattuato, delineato dalla statuto della regione Sicilia. Sistema che non prevede alcuna potestà legislativa regionale in questa materia e che esclude, comunque, la formazione di una polizia regionale.
Questa nuova specialissima competenza legislativa esclusiva delineata dal progetto incontrerebbe, peraltro, limiti assai meno stringenti rispetto alla potestà legislativa c.d. esclusiva delle regioni speciali. La potestà legislativa regionale incontrerebbe in questa materia, infatti, i soli limiti dei principi fissati nella Costituzione e non anche quello delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali” o dei “principi fondamentali dell’ordinamento” (tranne che non risultino costituzionalizzati).
C’è da chiedersi allora se in un simile quadro costituzionale non possa piuttosto assumere un certo interesse il modello valdostano (dove manca l’istituto prefettizio), per una nuova organizzazione nazionale - e non semplicemente statale - della funzione amministrativa volta al perseguimento della pubblica sicurezza.

4.2.4 La proposta rispetto alla legge costituzionale di modifica del titolo V

Il testo di legge costituzionale approvato dalle camere e pubblicato sulla G.U. dello scorso 12 marzo 2001 riserva alla competenza esclusiva dello stato la materia “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale” (art. 117, comma 2, lett. h).
Questa materia non rientra, peraltro, nemmeno tra quelle per cui possono essere attribuite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle attuali regioni ordinarie (art. 116, comma 3).
La legge costituzionale, tuttavia, quantomeno fa carico alla legge statale di disciplinare “forme di coordinamento fra stato e regioni” in questa materia, nonché in quella dell’immigrazione.
Il senso di questa disposizione non è particolarmente chiaro. Dato però che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha già individuato un generale principio di leale collaborazione tra stato e regioni nell’esercizio delle relative competenze, si deve intendere questo enunciato, probabilmente, come espressivo della necessità di realizzare speciali forme di coordinamento sul piano dell’organizzazione amministrativa, valorizzando un livello territoriale, quello regionale, attualmente, per questa materia, non valorizzato. L’organizzazione periferica dell’amministrazione della pubblica sicurezza è, infatti, tradizionalmente provinciale, con la sola limitata eccezione della Regione Trentino – Alto Adige, dove al mantenimento dell’ordine pubblico provvede il Commissario del governo, a livello regionale.

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