(Intervento alla Tavola rotonda del Seminario “L'impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni. La prospettiva italiana, spagnola ed europea”, organizzato dall’ISSiRFA-CNR, dalla LUMSA e dall’Università di Macerata e svoltosi a Roma, presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA, il 13 novembre 2014).
 
 
 
Il primo merito di questo seminario è di aver spostato il punto di osservazione dal consueto tema del riparto di competenze legislative a quello delle prestazioni pubbliche. La prospettiva tradizionale è radicata in un modo di vedere il problema dell'autonomia che è aderente alla giurisprudenza: ma la giurisprudenza reagisce a dei conflitti di competenza e questi a loro volta sono dominati dalla logica burocratica del riparto delle funzioni. Il Governo reagisce alla legge regionale perché la struttura ministeriale segnala lo sconfinamento in materie reputate estranee alla competenza regionale, e lo fa senza alcuna attenzione "politica" alla questione; a sua volta la Giunta regionale è allarmata dalle sue strutture dell'invasione perpetrata da un atto legislativo imbastito dalle burocrazie ministeriali. Noi commentatori ci limitiamo a osservare le leggi e a commentare le sentenze: da tutto questo la realtà è assente.
 
La realtà è data dalle politiche pubbliche che le leggi e gli atti amministrativi conseguenti (ma non la giurisprudenza) perseguono, per lo più implicitamente e talvolta inconsapevolmente. E le politiche pubbliche non si giudicano attraverso lo schema delle competenze, ma misurando i risultati. È una vecchia questione che nelle nostre assemblee elettive non ha mai radicato: le assemblee approvano leggi (per lo più sono dei norm-taker, piuttosto che dei norm-maker, perché agiscono a seguito dell'impulso dei rispettivi esecutivi che godono di un monopolio informativo), ma non misurano i loro effetti; le leggi vengono aggiornate e rifinanziate senza che mai vi sia un esame attento dei risultati che esse sono state effettivamente capaci di produrre. Le "clausole valutative" alle volte inserite nelle leggi (e spesso previste come obbligatorie negli Statuti regionali o nei documenti sulla legislazione) sono considerate degli orpelli che soddisfano il gusto estetico di qualche funzionario, non l'espressione di un preciso compito di chi fa la legge e si assume il peso politico dei risultati che essa produce. La conseguenza è che noi siamo costretti a guardare all'azione politica degli enti (Stato incluso) attraverso il vetro deformante delle competenze, condividendo gli stessi occhiali che deformano la vista della burocrazia e della giurisprudenza.
 
La conseguenza è che mancano i dati per valutare le performance. Abbiamo solo i dati di bilancio, per cui sappiamo quanto spendono le Regioni, per esempio, per l'istruzione professionale, e magari possiamo seguire i vari canali di spesa comprendendo così verso quali iniziative il flusso si è diramato: ma non sappiamo nulla dei risultati prodotti da quella spesa e dalla relativa politica pubblica. Per cui non siamo neppure in grado di misurare e comparare le prestazioni delle diverse amministrazioni, il che ci pone in difficoltà non solo come studiosi, ma persino come cittadini. Su quale base orientiamo il nostro voto? Sappiamo – o meglio, sospettiamo – che le Regioni, per esempio, adottano modelli molto diversi di organizzazione sanitaria, ma ne vediamo solo i rispettivi costi pro-capite, non anche le performance in termini di realizzazione del diritto alla salute. Per cui le leggi ripiegano sulla presbiopia dei costi standard, come se è uniformando i costi delle siringhe o delle garze che si uniformano anche le prestazioni e quindi la realizzazione dei diritti dei cittadini: il che è – ancora una volta – la resa alla prospettiva burocratica che per definizione punta ad un solo risultato, l'uniformità.
 
L'uniformità è l'antitesi dell'autonomia, perché l'autonomia è legata a filo doppio alla diversità. Per un verso, l'autonomia serve a consentire alla diversità dei territori e delle comunità di adattare alle proprie particolarità (e alle proprie opzioni politiche) i principi comuni; per l'altro, l'autonomia deve generare diversità, perché se no non serve a nulla. A che servirebbero 22 legislatori che si occupano dello stesso argomento se unica fosse la soluzione normativa da essi praticata? Siccome da almeno vent'anni – possiamo dire: dal tempo delle leggi Bassanini in poi – il potere decisionale è stato trasferito dalla politica alle burocrazie (e ai "tecnici"), per cui queste sono diventate i veri "signori delle leggi" (mentre la politica preferisce occuparsi dell'apparato pubblicitario e del combattimento dialettico attraverso tweet e talk show), l'uniformità ha soffocato l'autonomia, cioè ha combattuto strenuamente ogni diversità (si pensi alla saga delle riforma delle province o alla disciplina unica delle città metropolitane e delle unioni dei comuni contenute nella legge Del Rio). Costi standard, tagli lineari, controlli sulle spese chiudono l'intero orizzonte delle autonomie viste dal centro: sicché misurare le prestazioni pubbliche appare meno interessante. I dati forse ci sono, raccolti in qualche angolo di questo o quel ministero, ma non sono sistematici, non sono verificati, non sono resi pubblici, non consentono il controllo democratico degli elettori sulle proprie amministrazioni: forse perché tutto questo riporterebbe al centro della scena la politica?
 
Questa visione distorta si è imposta anche all'opinione pubblica (cioè alla stampa, alla televisione e ai social network che forgiano quotidianamente l'opinione dei cittadini e fissano il centro dei loro discorsi). Lo scandalo delle "spese pazze" dei gruppi consiliari delle Regioni è significativo. Ovviamente vi sono politici regionali che hanno dato una mano con i loro comportamenti scandalosi e irresponsabili, ma il meccanismo che si è messo in moto è impressionante: procure della Repubblica e organi di controllo della Corte dei conti hanno affrontato "indagini a strascico" su questi fenomeni perdendo mesi e mesi a controllare ogni scontrino dell'autostrada e ricevuta del bar. È attraverso questa indagine mass-mediatica che si può giungere a risultati conoscitivi significati in merito alle prestazioni prodotte dalle Regioni? Davvero questi dati ci possono informare su quale Regione opera meglio dell'altra e se il sistema delle autonomie funziona meglio di quello ministeriale? Sicuramente ci dice che procure e magistrati della Corte dei conti hanno tempo da perdere, o meglio, preferiscono "andare sui giornali" piuttosto che curare interessi ben più importanti, ma meno clamorosi, per noi cittadini.
 
Il fatto è che per curare gli interessi dei cittadini bisognerebbe svolgere indagini serie sulle prestazioni pubbliche e renderne pubblici i risultati. Ma ciò non avviene, purtroppo. L'art. 120.2 Cost. affida al Governo un compito essenziale per il buon funzionamento di un sistema delle autonomie: quello di sostituirsi alle amministrazioni che non funzionano a dovere quando lo richiede "in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali". Siamo cittadini di una sola Repubblica e i nostri diritti devono essere difesi anche quando le amministrazioni locali che ci governano in loco non funzionano o funzionano male. Il potere sostitutivo ex art. 120.2 è stato usato ben poco e – posso sbagliarmi, però – mai per difendere i livelli essenziali dei diritti dei cittadini. Al di là di singoli episodi incresciosi, mancano i dati per valutare se sistematicamente la tutela dei diritti viene a mancare in una Regione. Mancano dati, non sono questi i dati che interessano gli organi preposti ai controlli e alle verifiche, o forse i dati ci sono ma non sono resi pubblici e comunque non determinano i controlli sostitutivi necessari. Il perno del sistema delle autonomie è bloccato.
 
Elia Mazal Yetano ha posto una domanda centrale, poi ripresa da Stelio Mangiameli: la risposta alla crisi economica sarebbe migliore con o senza le autonomie? La risposta mi sembra evidente, le autonomie hanno funzionato da ammortizzatore sociale, cercando di attenuare l'impatto della crisi sulla società. Lo hanno fatto più o meno bene, questo non si sa, perché mancano i dati. Talvolta lo hanno cercato di fare elaborando qualche strumento nuovo d'intervento, ma immediatamente le burocrazie romane hanno reagito bloccando questi tentativi, per altro assai timidi (le stesse burocrazie regionali sconsigliano di avventurarsi oltre il segna, praticando una deleteria opera di autocensura). Il coordinamento della finanza pubblica, le materie trasversali, il criterio della prevalenza (che opera sempre e esclusivamente a favore delle materie statali) sono gli strumenti giurisprudenziali di giustificazione di queste reazioni contrarie. L'uniformità è stata sempre assicurata. Ma è questo il compito dello Stato?
 
Benvengano quindi ricerche come quella che oggi abbiamo discusso. Aprono finalmente finestre sulla realtà.
 
 

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