Sommario:
 
 
 
1. Premessa: regionalismo e crisi.
 
La crisi è una condizione ricorrente delle vicende istituzionali italiane (1).
Alla crisi del 1992, che causò la messa in discussione dell’assetto politico-istituzionale del tempo, con l’avvio di una fase inedita della democrazia italiana, ha fatto seguito quella iniziata sul finire del 2007 e ancor oggi non esaurita, che sembra mettere in discussione lo stesso assestamento sorto dopo le elezioni del 1994 e le riforme istituzionali della fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio.
La ricorrenza di congiunture particolari ha sempre toccato l’articolazione regionale del nostro ordinamento e il sistema delle autonomie territoriali.
La crisi del 1992 fu affrontata con l’idea ancora forte della riforma costituzionale, che nel 1993 è affidata ad una commissione bicamerale istituita con legge costituzionale.
I discorsi sul sistema regionale riprendono immediatamente dopo le elezioni politiche del 1994, quando la Lega va al Governo del Paese e la questione federale diventa dominante, anche se occorrerà aspettare lo scioglimento anticipato del Parlamento e le nuove elezioni politiche del 1996 per riaprire la questione della revisione della forma di Stato, con un percorso analogo a quello precedente: Commissione bicamerale per la riforma costituzionale istituita con legge costituzionale (n. 1 del 1997) e delega al Governo per la riforma dell’Amministrazione pubblica (leggi nn. 59 e 127 del 1997).
Proprio da queste modifiche legislative si originerà, una volta fallita la grande riforma costituzionale, la revisione del Titolo V con le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e nn. 2 e 3 del 2001.
Alla crisi, perciò, si deve il profondo cambiamento del nostro regionalismo, anche se altre ulteriori concause, certamente non secondarie, sono da rinvenire: sia nel processo di integrazione europea, che in quegli anni vedeva, con il trattato di Maastricht, l’Istituzione dell’Unione europea, il rafforzamento delle politiche comuni, l’istituzione di una cittadinanza europea e le basi – attraverso i criteri di convergenza – per la moneta unica europea; e sia nella crisi della classe politica, con la scomparsa del sistema dei partiti politici che aveva retto lo Stato sin dalla caduta del fascismo, dal patto con la monarchia sabauda e dalla transizione approdata alla Repubblica, all’Assemblea Costituente e alla Costituzione democratica.
Circa un decennio dopo, anche la nuova crisi economica che ha toccato l’Italia e l’Europa, ma non solo – basti pensare alle vicende statunitensi (2) – è stata discussa nel nostro Paese alla luce del tentativo di completare il disegno riformatore del nostro regionalismo, attraverso il c.d. “federalismo fiscale”, cui è dedicata la legge n. 42 del 2009 e gli innumerevoli decreti legislativi, adottati – come oltre si dirà – nel corso del 2010 e del 2011.
Il tutto come se la legislazione rivolta a fronteggiare la crisi economico-finanziaria fosse pienamente compatibile con un maggior decentramento del prelievo fiscale e con politiche essenzialmente regionali rivolte a sostenere la crescita economica e lo sviluppo del Paese.
Appare evidente, perciò, come sia quanto mai opportuno chiedersi se le decisioni costituzionali e istituzionali, assunte nell’arco dell’ultimo ventennio, abbiano corrisposto, o meno, ai bisogni reali della Repubblica. Tanto più che un approfondimento delle vicende del regionalismo italiano mostra un’attuazione non coerente con la legislazione e con le nuove norme costituzionali, essendo l’esperienza concreta dell’ordinamento segnata da una costante discontinuità, tra tentativi di riforma della riforma e ritorno a schemi centralistici propri del primo regionalismo.
Le domande che la crisi pone e il significato e l’incidenza che questa sta avendo sul sistema istituzionale e sul regionalismo italiano, appaiono perciò inquietanti.
È evidente, ad esempio, una tendenza a non rispettare il riparto delle competenze sancito costituzionalmente, ma altrettanto evidente è l’incapacità dello Stato di dare una risposta adeguata ai bisogni che salgono dal territorio, rispetto agli impegni imposti dall’Unione europea e dai mercati finanziari, cui l’Italia deve un alto tributo in ragione della dimensione del suo debito pubblico.
Il regionalismo italiano assume così un carattere centralistico senza una vera centralità dello Stato, tanto più che le sedi di concertazione e collaborazione esistenti appaiono ormai insufficienti a realizzare un autentico coordinamento delle funzioni pubbliche; questo aspetto spiega anche i limiti delle misure perequative, sia dal punto di vista quantitativo e sia, soprattutto, qualitativo, che lo Stato adotta rispetto alle diverse regioni, le quali non sono in grado di assicurare tra le Regioni corrispondenti livelli di welfare e di attenuare le tensioni territoriali. Anche la competizione tra le Regioni corre il rischio, per ragioni molteplici, di lacerare ancora di più l’unità della Repubblica.
A fronte dei limiti manifestati dallo Stato, in cui il governo attuale riveste un carattere straordinario, caratterizzato soprattutto per un compito finanziario di contenimento della spesa pubblica, l’esperienza regionale appare vieppiù significativa e degna di approfondimento, poiché concretamente ha consentito alle Regioni di dare delle risposte sociali, anche se differenziate territorialmente, da responder principale, quasi come se questo livello di governo sia quello preferibile al quale i cittadini possano rivolgere la domanda di servizi e prestazioni.
Le reazioni alla crisi hanno cambiato la distribuzione dei poteri nel sistema regionale, ma il bilanciamento di potere tra i governi nazionale, regionale e locale – come oltre sarà chiarito – appare per diversi aspetti più favorevole alle Regioni e alle autonomie locali, considerate dai cittadini come i concreti interlocutori per la soluzione dei loro problemi.
Il sistema regionale, perciò, ha dimostrato una capacità e resistenza nei confronti della crisi finanziaria, della quale lo Stato si è avvantaggiato, senza riuscire però a governare adeguatamente le tensioni che la crisi ha determinato nelle diverse parti del Paese e nella Nazione.
Ma è venuto il momento di approfondire questi aspetti.
   
2.  L’emergenza economica e la reazione del sistema istituzionale
 
Dopo le vicende degli anni 2008 e 2009, nei quali sono state adottate misure anti-crisi nelle leggi finanziarie e in diversi decreti legge (decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge n. 133 del 2008; decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78, convertito in legge n. 102 del 2009), è apparso immediato, all’inizio della nuova legislatura regionale nel 2010, che l’impatto della crisi finanziaria globale era stata sottovaluto (3).
Con l’esplosione della vicenda della Grecia la crisi si è presentata con un volto europeo e se, da una parte, si può ora arrivare al fallimento di uno Stato sovrano, dall’altro, ciò potrebbe causare la messa in discussione dell’Unione europea, così come dell’euro, quale moneta comune (4). Di qui alcune scelte da parte delle Istituzioni europee, compiute sul finire dell’anno 2010, di rafforzare il fondo salva stati e di imporre, a quelli che si trovano sotto il tiro della speculazione finanziaria internazionale, drastiche misure di razionalizzazione economica, come il rafforzamento della disciplina di bilancio, la verifica dei sistemi previdenziali e la precisazione sulla gestione dei debiti pubblici. Ciò, peraltro, avrebbe richiesto l’ampliamento della sorveglianza economica da parte dell’UE e l’approfondimento del coordinamento europeo, in vista di un quadro solido per la gestione delle crisi e di un rafforzamento sostanziale del pilastro economico dell'unione economica e monetaria (UEM), giungendo se necessario ad una modifica dell’art. 125 Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) (5).
La reazione alla crisi è comunque in parte coordinata tra gli stati membri, a livello europeo, e in parte affidata all’intelligenza dei singoli governi. Entrambe queste vie si sono progressivamente rivelate insufficienti, soprattutto per la debolezza del disegno istituzionale europeo uscito dal Trattato di Lisbona e, ancor più, per il modo in cui il Consiglio europeo ha operato, allorquando ha proceduto alla nomina delle cariche di Presidente del Consiglio europeo, Presidente della Commissione e di Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza (6). Non è un caso che la lunga crisi economica sta appesantendo le relazioni tra gli Stati membri, che ormai hanno raggiunto una certa consapevolezza della necessità di nuove regole comuni, e cioè di un nuovo trattato, senza che ci sia concordia sul contenuto di queste (7).
Nel caso italiano, per fronteggiare gli effetti della crisi si realizza un maggiore intervento legislativo statale con un impatto diretto sul sistema istituzionale regionale e locale. Le disposizioni che riguardano i livelli di governo substatali, a partire dalla legge finanziaria 2010 (Legge 23 dicembre 2009, n. 191), hanno avuto una ripresa immediatamente subito dopo, con il decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2, convertito in legge 26 marzo 2010, n. 42 recante: «Interventi urgenti concernenti enti locali e regioni», e con la successiva azione messa in campo dal Governo, con il decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito in legge 30 luglio 2010, n. 122. Questo provvedimento tende a una drastica riduzione della spesa pubblica in relazione soprattutto agli apparati politici ed amministrativi e tocca anche il pubblico impiego. Si incentiva anche il contrasto all’evasione fiscale, alle frodi e ad alcuni comportamenti distorsivi del mercato. Una parte delle misure toccano anche i trasferimenti finanziari alle regioni e alle autonomie locali.
Centrale appare in questo provvedimento la determinazione della misura del nuovo contributo che il sistema territoriale italiano, quello che assicura i servizi e che contribuisce sensibilmente alla realizzazione delle politiche, vede pagare alla crisi. Dispone, infatti, l’art. 14, comma 1, che “ai fini della tutela dell'unità economica della Repubblica, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2011-2013 nelle misure seguenti in termini di fabbisogno e indebitamento netto: a) le regioni a statuto ordinario per 4.000 milioni di euro per l'anno 2011 e per 4.500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012; b) le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano per 500 milioni di euro per l'anno 2011 e 1.000 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012; c) le province per 300 milioni di euro per l'anno 2011 e per 500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012, attraverso la riduzione di cui al comma 2; d) i comuni per 1.500 milioni di euro per l'anno 2011 e 2.500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012, attraverso la riduzione di cui al comma 2”.
I ricavi dalla lotta all’evasione fiscale nel 2010 sono stati consistenti, ma questo problema resta ancora molto forte. Ciò è dovuto all’entità dell’evasione che si aggira sulla base di stime approssimate per difetto di circa 120 miliardi di euro.
Le misure del 2010 di contrasto alla crisi finanziaria, inoltre, hanno iniziato a operare effettivamente solo con il 2011 e nell’estate di quest’anno – come è noto – sono state sottoposte a revisione di fronte all’incessante speculazione dei mercati finanziari. La loro efficacia resta problematica; sulla carta avrebbero dovuto fruttare 25 miliardi di euro, di cui 7 attraverso tagli alla spesa pubblica.
Tuttavia, le quantità previste nelle disposizioni del 2010 si sono rivelate ampiamente insufficienti, soprattutto per l’incapacità del Governo nazionale e del Parlamento di adottare efficaci ed esemplari misure di contenimento del debito, di ristrutturazione degli apparati statali, di semplificazione delle procedure, di rilancio della crescita economica.
A riprova di ciò si consideri sia l’ultima manovra del governo Berlusconi IV e sia la prima manovra del Governo Monti, adottate mentre sulla legislazione regionale e sui bilanci regionali e locali si faceva già sentire l’effetto delle disposizioni del 2008 e del 2009 e di cui si darà conto dopo.
I provvedimenti del 2011 aggravano le somme indicate sopra con la riscrittura per ben due volte del patto di stabilità: la prima volta nel DL n. 98, c.d. manovra correttiva (art. 20, comma 5), già modificato nel punto dal DL n. 138 (art. 1, comma 8). Anche l’anticipazione al 2012 degli effetti di tutte le disposizioni contenenti misure restrittive, apparsa all’improvviso, come conseguenza del peggiorare della crisi, e senza alcuna preparazione, ha semplicemente comportato un taglio delle risorse del livello regionale e locale.
Nel tentativo di una rapida semplificazione dell’ordinamento, poi, alcune disposizioni del DL n. 138 e del DL n. 201, come la soppressione di tutti i comuni fino a mille abitanti, sono state adottate senza un particolare approfondimento dei problemi e, di conseguenza, successivamente sono state addolcite, limitandosi a prevedere l’obbligo di esercizio associato di tutte le funzioni. Allo stesso modo altre disposizioni sembrano non tenere conto dei vincoli creati dalla Costituzione, e segnatamente dall’art. 118 Cost., per la determinazione dei livelli di governo territoriale e delle loro funzioni; a questo ambito possono ricondursi le disposizioni sul commissariamento delle province, sugli organi di governo provinciali e sul trasferimento delle funzioni provinciali a Comuni e Regioni, adottate sulla base di una presunta “opinio”, per la quale il Parlamento dovrebbe procedere alla soppressione di tutte le province, attraverso l’approvazione di un ddl di revisione costituzionale. Si tratta di disposizioni che, a prescindere dai dubbi di costituzionalità che suscitano, inducono dei cambiamenti nel sistema di governo territoriale poco funzionali e che risultano modesti dal punto di vista del contenimento della spesa, come si evince dalla relazione al decreto legge medesimo che quantifica il risparmio generato dalle disposizioni sulle province in circa 65 milioni calcolabile, per di più, a consuntivo; segno evidente che le misure potrebbero comportare, nel breve periodo persino un aggravio di spesa, rispetto a quella in atto (8).
Anche le disposizioni dell’art. 15 e 16, con la continua riduzione delle rappresentanze locali nei consigli comunali e provinciali destano dubbi sul piano costituzionale e, per le medesime ragioni, pure l’art. 14 del DL n. 138, rivolto alle Regioni. Quest’ultimo articolo, che tocca l’autonomia organizzativa delle Regioni,  considera un elemento di virtuosità finanziaria la riduzione da parte di queste del numero dei consiglieri regionali.
Ora, è bene notare che la legislazione statale, attraverso queste disposizioni, sta imponendo un restringimento della rappresentanza politica di Regioni e autonomie locali a livelli francamente non ragionevoli con il principio democratico (9).
Senza colpo ferire, infine, la legge di stabilità 2012 (artt. 30, 31 e 32) ha reso le disposizioni a contenuto finanziario più cogenti, imponendo ulteriori tagli alle spese regionali e locali e modificando, per la seconda volta, il patto di stabilità interno, rendendolo estremamente oneroso per Regioni ed autonomie locali. Tutto ciò senza che si diano riduzioni di spese significative per i Ministeri, previsti ancora in numero pletorico, per di più in sovrapposizione con le materie regionali, il Parlamento, la Corte costituzionale, la Presidenza della Repubblica e gli altri enti ed organi statali, tutti organizzati con apparati sovrabbondanti.
Si consideri, a tal riguardo, e in relazione ai tagli imposti alle rappresentanze regionali e locali, anche il carattere pletorico della stessa rappresentanza parlamentare, aggravato da un bicameralismo perfetto e a fronte di una attesa più che decennale di una riforma del Parlamento equilibrata e seria, anticipata dall’inattuato articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che riduca il numero dei parlamentari e realizzi il Senato federale (10).
 
3.  Il sistema istituzionale: la riforma costituzionale, il federalismo fiscale e la riconfigurazione dell’amministrazione ai diversi livelli di governo
 
Per comprendere il rapporto tra la crisi finanziaria globale e il regionalismo interno in Italia è necessario considerare brevemente l’evoluzione dell’ordinamento a seguito della riforma costituzionale del 1999-2001, attuata come risposta della crisi degli anni ’90, della legge n. 42 del 2009, c.d. sul federalismo fiscale, e del tentativo attualmente ancora in discussione sul riordino amministrativo tra i diversi livelli di governo. Infatti, la crisi sta coincidendo con un processo di trasformazione dell’ordinamento italiano in una forma di federalismo inedito.
Con le leggi costituzionali del 1999 e del 2001 si è tentato di adottare un riparto delle competenze modellato sull’esperienza federale, modificando la precedente disciplina costituzionale e dotando le Regioni di una maggiore autonomia organizzativa anche in relazione alla forma di governo. L’attuazione di questa riforma costituzionale ha conosciuto una forte battuta di arresto e i suoi apporti positivi a favore delle Regioni sono stati messi in discussione da più parti. La stessa giurisprudenza della Corte costituzionale testimonia le difficoltà di costruire un modello equilibrato di legislazione, amministrazione e finanza pubblica.
La riforma costituzionale, infatti, ha complicato, anche per la mancanza di un Senato federale, il riparto delle competenze inerenti all’intervento nell’economia, nel mercato e per il welfare; e la giurisprudenza costituzionale, di fatto, ha ridotto i maggiori spazi di competenza stabiliti a favore della legislazione regionale: chiamata in sussidiarietà, tutela della concorrenza, prevalenza della competenza statale nel caso di materie trasversali e coordinamento della finanza pubblica sono stati gli strumenti utilizzati per ricentralizzare il potere legislativo in capo allo Stato e rendere incerta la sfera della competenza legislativa regionale prevista dal comma 3 e, soprattutto, dal comma 4 dell’art. 117 Cost.. A poco è servito, a tal riguardo, il particolare impegno profuso dalla Corte costituzionale per imporre, in via compensativa, per la perdita dei poteri legislativi delle regioni, il rispetto del principio di leale collaborazione, e ciò per due ragioni: in primo luogo, gli organi, statale e regionali, chiamati a collaborare, non sono quelli cui la Costituzione affida il potere legislativo, ma sono espressione del potere esecutivo; in secondo luogo, e a prescindere dalle sedi di collaborazione impegnate, il modello cooperativo italiano si è affermato in modo squilibrato, giacché segue e non precede l’intervento del legislatore statale: in effetti – come ha osservato la dottrina più accorta – per coerenza, “quando la cooperazione viene invocata per giustificare deroghe al riparto delle competenze legislative, essa (dovrebbe) precedere, non seguire, l’intervento del legislatore statale” (11).
Nonostante ciò, l’esperienza concreta – come si vedrà – mostra che la riforma del regionalismo italiano passa attraverso una presa sul serio della potestà legislativa regionale. Ma, per il momento, rimaniamo nell’ambito statale.
La legge n. 42 del 2009, sul federalismo fiscale, rappresentava una promessa elettorale della maggioranza di governo, anche se analoga promessa aveva fatto in campagna elettorale l’opposizione; per questa ragione essa è stata approvata in Parlamento dalla maggioranza e da un’ampia parte dell’opposizione.
La sua approvazione però è avvenuta nel momento in cui la crisi finanziaria cominciava a diventare sociale ed è stata approvata perché la legge non modificava immediatamente i livelli e i poteri di imposizione, ma delegava il governo di adottare la riforma.
Il Governo ha provveduto nel corso del 2010 e del 2011 a predisporre e approvare i decreti sul federalismo fiscale (12), ma numerosi ostacoli politici si sono frapposti a questa attività, dal momento che la crisi ha anche incattivito la battaglia politica con la richiesta, già nel 2010, di una nuova legge elettorale in vista delle elezioni politiche (anticipate) e gli accadimenti del 2011, con il cambio di governo e la formazione di una maggioranza inedita che ha conferito la fiducia ad un “Governo del Presidente della Repubblica” (13), hanno di fatto determinato una stasi nell’ulteriore implementazione di quasi tutta la normativa delegata di attuazione dell’art. 119 Cost., atteso che l’approvazione dei decreti non corrisponde all’avvio di un sistema di imposizione di tipo federale, ma potrebbe comportare ancora per un lungo periodo il permanere di un forte centralismo del potere tributario.
Perché possano realizzarsi i passaggi effettivi dei poteri tributari dallo Stato alle Regioni (e alle autonomie locali), occorre che si allenti la stretta sulla spesa pubblica e sull’amministrazione determinata dalla legislazione anticrisi, e cioè occorre che la fase più critica della crisi sia alle spalle. La previsione del legislatore è che l’attuale stretta finanziaria resti fino al 2013, ma nulla lascia credere che a quella data la crisi sia superata con successo. Quella data è solo la data in cui si dovrebbero tenere le elezioni politiche, se le Camere non sono sciolte anticipatamente, e la sua previsione significa che sarà il prossimo Parlamento a dovere gestire la ripresa o l’ulteriore congiuntura negativa.
Allo stato attuale la realizzazione del federalismo fiscale appare ancora sulla carta e carica di problemi, rimangono le promesse sono incerte le conquiste.
Tra le incertezze si deve considerare la necessaria realizzazione di una perequazione tra i territori regionali, necessaria per non abbandonare una parte consistente del Paese, quella del centro e del sud, ad una condizione di non sviluppo. Attualmente è un dato acclarato che solo sette regioni (5 del nord – Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna; e 2 del centro – Toscana e Marche) hanno un surplus fiscale (al netto del pagamento degli interessi per il debito), mentre le rimanenti 13 si trovano in una posizione sfavorevole, anche se alcune in modo limitato (come il Lazio, l’Umbria, la Liguria e il Trentino Alto Adige) (14).
La risposta a questo dualismo non può essere ancora una volta l’emigrazione verso il nord. In un sistema di economia globale, nella quale la spesa pubblica ha limiti specifici, l’emigrazione interna, ma anche quella esterna, non può promuovere lo sviluppo di un territorio. La politica perequativa e di solidarietà, peraltro, appare essere una necessità anche per le regioni del nord, dal momento che il loro rating, per quanto si possa elevare, va rapportato sempre all’intero paese (un discorso analogo sembra valere sempre più per l’intera Europa).
Il federalismo fiscale, perciò, sarà accettabile e realizzabile solo se non spezza il vincolo nazionale, ma anzi lo alimenta con forme effettive di solidarietà; altrimenti si corre il pericolo di innescare una situazione di contestazione permanente che nessun partito nazionale può reggere se non predicando un neo-centralismo anti federalista. Non è un caso che la perequazione fiscale nella Costituzione sia una competenza esclusiva dello Stato e – secondo il giudice costituzionale – l’esercizio di questo potere è in grado di incidere concretamente sull’intero assetto delle competenze.
Anche dal punto di vista amministrativo la riforma costituzionale ha previsto un forte decentramento dei poteri a favore delle autonomie (comunale e provinciale), anche se dal 2001 ad oggi si sono susseguiti solo tentativi di riforma dell’amministrazione, in quanto l’amministrazione statale e quella regionale hanno difeso strenuamente i loro poteri: ad ogni legislatura è stato presentato un disegno di legge per la riforma dell’amministrazione, ma questo non è stato approvato; adesso la crisi rischia di ulteriormente procrastinare la riforma dell’amministrazione e di complicarla ancora di più.
In particolare, nella XVI legislatura è stato presentato un disegno di legge dal Governo alla Camera dei deputati (AC 3118) e da questa approvato il 30 giugno del 2010, che reca il titolo “Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell’ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative, Carta delle autonomie locali. Riordino di enti ed organismi decentrati”.
Il testo del ddl è stato il frutto di una lunga elaborazione in sede governativa, alla quale non sono risultati estranei le esperienze maturate con i precedenti tentativi di attuazione del Titolo V, provati nella XIV e nella XV legislatura. Per questa ragione, si può persino dire che si tratta di un testo ampiamente condiviso e nel quale si rispecchia fedelmente il modello amministrativo della revisione costituzionale.
Come è noto, questo si basa: in primo luogo, sulla competenza esclusiva dello Stato a determinare le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p); in secondo luogo, sul conferimento a Comuni, Province e Città metropolitane delle funzioni amministrative nelle materie legislative di Stato e Regioni, per opera delle rispettive fonti legislative (art. 118, comma 2); e, infine, sull’utilizzo dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza nell’allocazione delle funzioni amministrative e al fine di assicurarne l’esercizio unitario (art. 118, comma 1).
Nel concreto, però, nonostante il ddl giaccia dal 2 luglio 2010 presso il Senato della Repubblica, a tutt’oggi non risulta posto in discussione per l’approvazione definitiva. Nel frattempo il legislatore non è rimasto fermo, ma ha provveduto ad introdurre nella legislazione emergenziale del 2010 e del 2011 una serie di prescrizioni riguardanti le autonomie locali, estrapolandole dal contesto della riforma dell’amministrazione ed inserendole in quello del contenimento della spesa pubblica, con la conseguenza che le misure istituzionali previste come coordinamento della finanza pubblica incidono sull’intero sistema amministrativo in modo occasionale e senza una vera prospettiva di riordino istituzionale, ma solo di contenimento della spesa.
Con la legge finanziaria 2010 si è proceduto alla riduzione del contributo ordinario base spettante agli enti locali (art. 2, comma 183), collegandola alla riduzione del numero dei consiglieri comunali (art. 2, comma 184) e degli assessori comunali e provinciali (art. 2, comma 185). Inoltre, sono state imposte ai comuni una serie di misure conseguenti (art. 2, comma 186), quali: a) soppressione della figura del difensore civico; b) soppressione delle circoscrizioni di decentramento comunale; c) possibilità di delega da parte del sindaco dell’esercizio di proprie funzioni a non più di due consiglieri, in alternativa alla nomina degli assessori, nei comuni con popolazione non superiore a 3.000 abitanti; d) soppressione della figura del direttore generale; e) soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali.
Peraltro, il modo poco accorto con cui queste misure sono state introdotte, è stato tale che con il successivo decreto legge n. 2 del 2010, convertito con modificazioni in legge n. 42 del 2010, articolo 1, le disposizioni richiamate sono state modificate e altre sono aggiunte e, nell’insieme, le linee legislative sull’amministrazione locale in non poche occasioni si contraddicono, riammettendo sia pure in parte ciò che avevano eliminato ed eliminando ciò che avevano precedentemente lasciato. Inoltre, la disciplina della riduzione del contributo ordinario si fa più stretta e finisce con il toccare anche le Regioni ad autonomia speciale, che sono titolari, in materia di enti locali, di una competenza legislativa piena.
Il comma 185 (per ciò che riguarda la riduzione di consiglieri e assessori) è modificato in senso più restrittivo e viene aggiunto il comma 185-bis sulla soppressione dei circondari provinciali esistenti, e sempre la stessa disposizione (art. 1, comma 1-ter) ha previsto la soppressione dei primi due commi dell’art 21 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL). Si tratta del primo atto concreto con cui si è cercato di minare il ruolo istituzionale del livello di governo provinciale e l’autonomia delle Province.
Tuttavia, senza il dovuto coordinamento, il successivo comma 1-quinquies, dell’art. 1, della legge n. 42 del 2010, inserisce il comma 186-bis all’art. 2 della legge n. 191 del 2009, che ha previsto: “decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge (27 marzo 2011), sono soppresse le Autorità d'ambito territoriale di cui agli articoli 148 e 201 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni. Decorso lo stesso termine, ogni atto compiuto dalle Autorità d'ambito territoriale è da considerarsi nullo. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Le disposizioni di cui agli articoli 148 e 201 del citato decreto legislativo n.152 del 2006 sono efficaci in ciascuna regione fino alla data di entrata in vigore della legge regionale di cui al periodo precedente. I medesimi articoli sono comunque abrogati decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge”. La disposizione è stata interpretata come un orientamento del legislatore centrale, in una materia di competenza esclusiva (v. Corte costituzionale, sentenza n. 325 del 2010) ad attribuire alle province, quali enti di area vasta la responsabilità di gestione delle reti idriche e dei rifiuti. E se questo cambiamento di regime de servizi non si è realizzato, almeno con un’efficacia generale, ciò è conseguenza dell’inerzia delle Regioni, che non hanno rispettato i termini indicati.
A ciò si aggiunga che l’intero comma 186 della legge finanziaria 2010 è stato rivisto, potremmo dire “al ribasso”, dall’articolo 1, comma 1-quater, della legge n. 42 del 2010. Così, le parole: «In relazione alle riduzioni del contributo ordinario di cui al comma 183, i comuni devono altresì adottare» sono sostituite da una espressione più edulcorata: «Al fine del coordinamento della finanza pubblica e per il contenimento della spesa pubblica, i comuni devono adottare»; e su questa premessa: a) si specifica che il difensore civico soppresso è quello comunale, e che le Province sono chiamate ad istituire il c.d. “difensore civico territoriale” (15); b) le circoscrizioni possono essere istituite di nuovo, ma solo per i comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti; c) la figura del direttore generale, adesso, può essere prevista, ma solo nei comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti; d) e, infine, con riferimento alla soppressione dei consorzi di funzione tra gli enti locali, si inserisce l’eccezione dei bacini imbriferi montani (BIM).
Ulteriori disposizioni di carattere istituzionale, che sono qualificate di coordinamento della finanza pubblica, si ritrovano nell’art. 14 del decreto legge n. 78 del 2010, convertito con legge n. 122 del 2010, già menzionato (comma 25). In questo articolo, oltre alla revisione del patto di stabilità interno, con la misura dei tagli alla finanza dei diversi livelli di governo, si rinviene: l’obbligatorietà dell’esercizio delle funzioni fondamentali da parte dei comuni (comma 26); il provvisorio riferimento alle funzioni fondamentali comunali previste dall’art. 21 della legge n. 42 del 2009 (comma 27); l’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti (comma 28); il divieto di svolgere singolarmente le funzioni svolte in forma associata e il divieto di svolgere la medesima funzione in più di una forma associativa (comma 29); l’individuazione, limitatamente alle funzioni inerenti alle materie dei commi 3 e 4 dell’art. 117 Cost., da parte della Regione, con legge e previa concertazione con i comuni interessati, la “dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica” per lo svolgimento, in forma obbligatoriamente associata da parte dei comuni con dimensione territoriale inferiore a quella ottimale, delle funzioni fondamentali, “secondo i principi di economicità, di efficienza e di riduzione delle spese”; la previsione da parte della legge regionale del termine per i comuni per l’avvio in forma associata dell’esercizio delle funzioni fondamentali e, infine, l’esclusione dall’obbligatorietà dell’esercizio in forma associata per i comuni capoluogo di provincia e i comuni con un numero di abitanti superiore a 100.000 (comma 30). Termini per il completamento della riorganizzazione del livello comunale, secondo quanto indicato, e per la definizione del limite demografico minimo che l'insieme dei comuni che sono tenuti ad esercitare le funzioni fondamentali in forma associata deve raggiungere, sono affidati alla determinazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge (comma 31).
Un’ultima disposizione va richiamata in questa sede che incide sensibilmente sull’autonomia organizzativa dei comuni e sulla loro capacità giuridica: quella inerente alla possibilità e ai limiti di costituzione di società commerciali (comma 32). Si prevede, infatti, che i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire società e che, perciò, entro il 31 dicembre 2011, i comuni mettano in liquidazione le società già costituite, o ne cedono le partecipazioni; inoltre, si dispone che i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una sola società e che anche i predetti comuni, entro il 31 dicembre 2011, mettano in liquidazione le altre società già costituite.
Sull’utilità concreta di questa disciplina istituzionale, qualificata come normativa di coordinamento della finanza pubblica, si può sinceramente dubitare, se – come si è visto – ancora le manovre del 2011 (Decreto Legge n. 138, convertito in Legge n. 148 e Decreto Legge n. 201, convertito in Legge n. 214) abbiano avuto bisogno di modificarla ulteriormente, inasprendo ancor di più le misure nei confronti di regioni, province e comuni, nella vana illusione che questo modo di legiferare possa sortire utili effetti, sia dal punto di vista istituzionale, sia da quello del contenimento della finanza pubblica.
 
 4. Una valutazione del ruolo regionale negli anni della crisi
 
La posizione delle Regioni nel sistema istituzionale – proprio in questi anni e, ancor di più, con la crisi – si è affinata sensibilmente. Di qui la necessità di mantenere desta la ricerca e lo studio del regionalismo italiano, come ordinamento più consono ad una comunità politica organizzata nell’ambito di un processo di integrazione europea e di un sistema di economia internazionalizzata, nel quale i compiti dello Stato crescono sul versante esterno nelle negoziazioni internazionali ed europee e si riducono su quello interno prevalentemente alla funzione perequativa e promozionale dei territori.
Negli ultimi anni, a fronte di una diminuzione della produzione legislativa regionale, si registra una più attenta legislazione nei settori che caratterizzano l’identità regionale stessa e in altri, come le fonti di energia rinnovabile, che stanno diventando un ambito potenziale di esclusiva pertinenza regionale.
Le Regioni mostrano di avere imparato a legiferare e continuano a migliorare i loro ordinamenti attraverso un’attenta “manutenzione” delle leggi di organizzazione e di settore. Risulta, perciò, poco giustificato il comportamento del legislatore statale che, invece di coordinare il suo compito con quello del legislatore regionale, come imporrebbe lo stesso riparto delle competenze, comprime l’autonomia e svaluta il sistema di governo territoriale che le regioni possono svolgere.
Inoltre, le Regioni, nonostante la stretta finanziaria di questi anni, sinora sono in grado di produrre politiche molto avanzate in settori nei quali da tempo la legislazione statale non riesce ad andare oltre la previsione di principi, quasi sempre derivati dalla normativa europea.
Questo vale soprattutto per la materia dell’agricoltura, in quella del turismo, in quella dell’ambiente, all’interno della quale si rinviene anche una disciplina di beni pubblici come le risorse idriche e i beni culturali, e nella materia dell’energia rinnovabile.
Come si vede le materie in cui la qualità legislativa delle regioni si manifesta, caratterizzandone il ruolo, sono varie e attengono ad ambiti di competenza diversa, compreso quello di pertinenza esclusiva del legislatore statale, come nel caso dell’ambiente. Ciò è dovuto essenzialmente alla circostanza che dopo la revisione del Titolo V, di fatto, i limiti che caratterizzano i diversi tipi di competenza sono diventati più elastici, non differenziando così i tipi di competenza, e costanti, per cui i diversi titoli di competenza si possono ritenere ricompresi in un unico quadro sistematico. Esemplare è proprio la competenza ambientale che, pur essendo prevista al comma 2, dell’art. 117 Cost., disegna quasi naturalmente una ripartizione di compiti con le Regioni che denota l’importanza della prossimità per la salvaguardia ambientale.
Se, a quanto sin qui detto, si aggiungono le materie legislative regionali di più consolidata tradizione, come quelle che rientrano nei servizi alla persona e alla comunità, risulta evidente che le Regioni hanno consolidato un ruolo importante nella Repubblica delle autonomie. Infatti, esse rappresentano un livello di governo che ha assunto il ruolo di snodo, non solo verso lo Stato, ma anche verso il territorio, e le autonomie locali, e verso l’Europa.
Non è un caso che, anche di fronte alla caotica legislazione istituzionale, rivestita della maglia del “coordinamento della finanza pubblica”, la legislazione regionale in materia di enti locali si sia consolidata, a un punto tale da realizzare una vera e propria regionalizzazione del sistema di autonomia locale. La qualcosa era in parte inevitabile, nonostante la riserva della lettera p, del comma 2, dell’art. 117 Cost., per via della circostanza che la maggior parte delle funzioni locali rientrano nella sfera della competenza legislativa regionale; ma, ciò che ha accentuato questo processo sono due aspetti ormai ben evidenti, e cioè: la regionalizzazione del patto di stabilità, che negli ultimi anni ha conquistato un nuovo spazio, e la fiscalizzazione dei trasferimenti regionali a favore degli enti locali, per le funzioni amministrative che questi svolgono nell’ambito delle competenze regionali. Quest’ultimo aspetto produrrà maggiori effetti negli anni futuri, con l’applicazione delle regole del federalismo fiscale, ma già adesso si lascia chiaramente intravvedere.
Nei confronti dell’Europa le Regioni hanno con tempestività adeguato i loro ordinamenti alle prescrizioni del Trattato di Lisbona, con particolare riferimento alla verifica della sussidiarietà, e sono particolarmente attive nelle procedure volte alla partecipazione con lo Stato alla determinazione delle politiche europee, essenzialmente disciplinate al momento da atti di natura convenzionale. Si tratta di compiti assolti direttamente e prevalentemente dai Consigli regionali.
Qualora si voglia dare una valutazione del ruolo svolto dalle Regioni, nella situazione della crisi, può dirsi che queste hanno consolidato la loro posizione come livello di governo necessario, assolvendo una funzione di sostegno dell’ordinamento nel suo complesso, come mostrano molto bene le politiche svolte.
 
 5.  Le politiche regionali di risposta alla crisi
 
In quest’ambito, viene in discussione innanzi tutto la materia dell’organizzazione istituzionale.  Negli anni precedenti ma successivi alla riforma del Titolo V, le Regioni, o almeno una parte di queste, si sono segnalate per l’assenza di controlli interni e per forme di gestione (e di indebitamento) non conformi al canone della buona amministrazione. Adesso, anche a ragione della crisi, le Regioni, ancor meglio dello Stato, hanno saputo realizzare una legislazione sulla trasparenza, sulla riduzione delle spese generali di organizzazione e sul trattamento dei consiglieri regionali. Pure l’implementazione del decreto “Brunetta” (D.Lgs. n. 150 del 2009) da parte regionale è stato funzionale a formulare il piano delle performance delle amministrazioni regionali e a introdurre i sistemi di monitoraggio e valutazione dell’attività amministrativa.
Una comprensione più chiara del peso della crisi si evidenzia dall’esame delle leggi finanziarie regionali, che ricomprendono anche disposizioni con le quali si (ri)modellano i diversi settori di intervento regionale.
Dalle leggi finanziarie emerge una partecipazione attiva delle Regioni alle politiche di risanamento nazionale, rispetto alle quali sarebbe auspicabile una loro partecipazione, per la definizione di obiettivi e modalità, in una sede istituzionale appropriata, quale potrebbe essere il Senato federale.
Tutte le Regioni hanno posto in essere politiche di contenimento dei costi (compresi – come si è detto – quelli della politica), ma questo non ha impedito, soprattutto a quelle finanziariamente meglio attrezzate, di realizzare politiche di sostegno allo sviluppo e anche politiche sociali.
L’esame della legislazione finanziaria mostra, però, anche l’approfondimento del divario nord - sud all’interno del nostro Paese, soprattutto con riferimento alle disponibilità per le politiche di sostegno e alla politica tributaria delle Regioni.
In particolare, le politiche di limitazione dell’indebitamento hanno imposto per le regioni soprattutto del sud di aumentare (sino al massimo) la pressione tributaria, soprattutto nell’ipotesi di Regioni sottoposte al piano di rientro nel settore della sanità. Di contro, pur con la dovuta attenzione, in alcune Regioni del nord si registra la tendenza ad un alleggerimento fiscale, insieme alla proposizione di specifici strumenti (in genere, fondi regionali) anticrisi.
A fronte dei tagli alle risorse regionali, imposti dai problemi della finanza pubblica, le Regioni restano il livello di governo nel quale più concreto è il finanziamento delle attività produttive e delle infrastrutture. Queste, inoltre, sono state in grado di dare una particolare risposta alla crisi, proprio nei settori maggiormente sensibili dei servizi alla persona, operando come un vero e proprio ammortizzatore sociale.
Nel settore dei servizi socio-assistenziali le Regioni hanno mantenuto inalterato il loro impegno verso le persone che versano in stato di disagio e nei confronti delle famiglie. Risulta aumentata la percentuale dei provvedimenti, con riferimento al totale dei provvedimenti regionali, in questo ambito nel 2010 (20%), rispetto a quella dell’anno precedente (10%). Anche l’impegno di risorse nel settore è leggermente cresciuto e i rispettivi fondi regionali sono alimentati anche da consistenti risorse proprie. Si mantiene costante l’interesse regionale nelle politiche abitative, mentre sembrano ridursi gli interventi per le politiche migratorie e per quelle di genere (16).
In conclusione, le Regioni mostrano una particolare sensibilità verso le famiglie con redditi bassi e verso le famiglie numerose, attivandosi in questo modo anche nel contrasto alla povertà. La loro azione si svolge con l’utilizzo di strumenti diversi: dalle leggi specifiche di settore, alle leggi finanziarie, ai regolamenti e agli atti amministrativi. In questo settore, peraltro, di fronte alla contrazione dei trasferimenti statali, le Regioni sembrano consapevoli della necessità di mantenere quanto meno costante il rifinanziamento dei diversi fondi regionali.
Una considerazione particolare deve farsi per il settore della sanità, nel quale rientrano tutti gli interventi svolti dalle Regioni per tutelare e promuovere la salute delle proprie popolazioni. Qui, nonostante la riduzione dello spazio d’azione delle Regioni, per via del controllo della spesa, specie per le realtà regionali impegnate nell’adempimento dei Piani di rientro, permane il tentativo delle singole Regioni di realizzare, attraverso la politica della salute, una propria identità. Questa circostanza – già rilevata da tempo – consente di vedere nei sistemi sanitari regionali dei veri e propri “laboratori di federalismo”, in quanto consentirebbero di sviluppare, fuori dall’uniformità, i modelli di autonomia, senza compromettere l’unitarietà del sistema e la salvaguardia dei diritti cittadinanza 17.
Molte Regioni sono impegnate in politiche di prevenzione per determinate malattie e di screening dell’intera popolazione 18. Gli interventi nel settore dell’alimentazione e della salubrità dell’ambiente appaiono in crescita nella considerazione dei legislatori regionali.
La differenziazione regionale risente ovviamente dei problemi connessi al contenimento della spesa, soprattutto per quelle Regioni che ancora stanno in una condizione di difficoltà con il rispetto del piano di rientro. Così, accanto alle Regioni che possono permettersi il potenziamento di prestazioni extra-Lea, si incontrano severe politiche del personale e dell’organizzazione territoriale del servizio sanitario regionale.
Dal punto di vista della spesa, inoltre, le Regioni mostrano di incontrare spesso le medesime problematiche, attinenti, oltre che all’organizzazione della rete, con particolare riferimento alla lunghezza delle liste di attesa, al campo delle urgenze e ai laboratori, a settore farmaceutico, all’acquisto di beni e servizi e ai requisiti inerenti all’accreditamento dei privati.
 
 6.  Crisi e fratture nel regionalismo italiano: tensioni territoriali e conflitti.
 
La crisi economica ha avuto l’effetto di ridurre sensibilmente il potere d’acquisto dei salari e ha inciso sui risparmi delle famiglie. La crisi ha determinato una caduta della competitività delle imprese. Questi eventi hanno accentuato la spaccatura storica tra nord e sud dell’Italia.
È dalla crisi del 1992 che la politica per il mezzogiorno ha subito uno stop in termini non solo di assistenza, ma anche di progetti e di sostegno allo sviluppo. Dal 2008, ad oggi, la situazione è sostanzialmente peggiorata e all’erosione dei margini economici si aggiunge anche una sfiducia verso le prospettive future, anche per responsabilità della legislazione anti-crisi, priva di una prospettiva istituzionale di vero cambiamento, tutta protesa verso tagli (lineari) e aumento dell’imposizione, senza vere misure a favore della crescita.
A ciò si aggiunga che il reddito, l’occupazione, i servizi pubblici, la qualità amministrativa e la formazione, la scuola e la ricerca nel sud hanno standard più bassi che al nord. Questa condizione è dipesa storicamente dal modo in cui è stata realizzata l’unità dell’Italia. È paradossale che alcune forze politiche, presenti in quella parte del Paese che nel processo di unificazione del XIX secolo ha guadagnato maggiori risorse e ha utilizzato il sud per politiche di sostegno alla propria economia, oggi mettano, più o meno velatamente, in discussione l’unità d’Italia e accentuino i conflitti territoriali, soprattutto con il tentativo di fare passare nelle maglie della legislazione del federalismo fiscale un “federalismo separatista”.
In realtà, non si considera con sufficiente attenzione che le condizioni storiche determinate dalla globalizzazione consentirebbero di affrontare in modo nuovo e positivo la spaccatura nord-sud e che una struttura federale dell’ordinamento appare la forma di stato più adatta a tale scopo, capace di generare responsabilità e consapevolezza politica. Non serve perciò che sia messo in discussione il vincolo nazionale, né che sia accentuata strumentalmente una tensione territoriale; tanto più che per il sud il federalismo e la stessa crisi globale rappresentano una opportunità.
In tal senso il gap culturale, che impedisce al Sud di affrontare adeguatamente la questione meridionale del XXI secolo, sembra affliggere anche il nord, grazie ad una politica regionale autoreferenziale, declinando la propria responsabilità verso un’autentica perequazione orizzontale, con assunzione diretta di responsabilità proprio da parte delle Regioni settentrionali.
In conclusione, l’approfondimento del regionalismo italiano mostra che, se le Regioni vogliono rivendicare una maggiore rappresentanza e responsabilità a livello statuale, devono farsi carico della “tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica”, altrimenti non possono pretendere una pari-ordinazione con le istituzioni nazionali, come è solito essere negli ordinamenti federali.
 
_______________________________
 
NOTE
 
(1)  L’espressione “crisi” è quanto mai problematica, secondo un’accezione comune il termine indica una perturbazione acuta nella vita di un individuo o di una collettività, con effetti più o meno gravi e duraturi. Tuttavia, non può sottacersi che la parola “crisi” conserva nel suo etimo greco (καιρός) un significato positivo di “momento giusto o opportuno” per la decisione; spetterà a chi opera nel concreto della storia umana decidere la valenza positiva o negativa del “tempo di Dio” (accezione biblica dell’espressione “crisi”). Proprio nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, si rinviene una particolare definizione di “crisi”: § 21 - «La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità».
(2) Efficacemente esaminate da R. Posner, A Failure of Capitalism. The Crisis of ’08 and the Descent into Depression, Harvard University Press, 2009.
(3) La crisi è iniziata lentamente sul finire del 2007 ed ha avuto un crescendo continuo sino ad ora. In questo arco di tempo, in Italia, oltre alle finanziarie per il 2008 e gli anni seguenti sono stati adottati una serie di decreti legge. Complessivamente si tratta di 13 atti normativi estremamente pesanti, cui si deve aggiungere la legge di stabilità per il 2012. Questi atti non hanno una natura sistematica, ma emergenziale, ed è difficile dire se le risposte legislative date alla crisi economica dalla legislazione statale abbiano avuto realmente l’effetto di mantenere il sistema economico italiano in equilibrio. Sicuramente le misure che hanno avuto maggiore efficacia sono quelle relative al mercato del lavoro e agli ammortizzatori sociali (decreto del 2009); mentre le misure per le imprese, le esportazioni, le infrastrutture, il sud del paese e la casa (sostanzialmente le misure del decreto del 2008) non hanno avuto un grande effetto di contrasto alla crisi. Sulle misure prese nel 2010 e, soprattutto, nel 2011 un giudizio non è ancora possibile articolarlo, si può al momento considerare il significato rivestito nel sistema dalle disposizioni legislative.
(4) V. F. Lépine, L’Union eropéenne dans la crise financière: À la recherche d’une gouvernance èconomique, in L’Europe en formation, 2010, n. 358, 173 ss.
(5) Il cui testo recita: “L'Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico. Gli Stati membri non sono responsabili né subentrano agli impegni dell'amministrazione statale, degli enti regionali, locali o degli altri enti pubblici, di altri organismi di diritto pubblico o di imprese pubbliche di un altro Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico”.
(6) V. S. Mangiameli, The institutional Design of the European Union After Lisbon, in H. J. Blanke & S. Mangiameli (Eds.), The European Union after Lisbon. Constitutional Basis, Economic Order and External Action, Heidelberg, Springer, 2011, 93 ss.
(7) A tal riguardo si consideri La dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo della zona Euro, del 9 dicembre 2011, nella quale si afferma la necessità di un’architettura rafforzata per l’unione economica e monetaria: 1. La stabilità e l'integrità dell'unione economica e monetaria dell'Unione europea nel suo complesso richiedono sia la rapida e vigorosa attuazione delle misure già convenute sia ulteriori interventi di qualità verso un'autentica "unione di stabilità fiscale" nella zona euro. A fianco della moneta unica, è indispensabile un robusto pilastro economico, che si basi su una governance rafforzata volta a promuovere la disciplina di bilancio e una più profonda integrazione nel mercato interno nonché una maggiore crescita, una competitività rafforzata e la coesione sociale. Per conseguire tale obiettivo, ci baseremo sui risultati conseguiti negli ultimi 18 mesi, potenziandoli: il patto di stabilità e crescita rafforzato, l'attuazione del Semestre europeo che comincia questo mese, la nuova procedura per gli squilibri macroeconomici e il Patto euro plus. // 2. Tenendo presente questo obiettivo primario e fermamente determinati a superare insieme le difficoltà attuali, oggi abbiamo concordato un nuovo "patto di bilancio" ed un coordinamento notevolmente rafforzato delle politiche economiche nei settori di interesse comune. // 3. A tal fine sarà necessario un nuovo patto tra gli Stati membri della zona euro da sancire in regole comuni e ambiziose, che traducano il loro forte impegno politico in un nuovo quadro giuridico.
(8) Nella Relazione, AC n. 4829, pag. 89, è dato leggere "il risparmio di spesa associabile al complesso normativo in esame - 65 milioni di euro lordi - è destinato a prodursi dal 2013 e peraltro in via prudenziale non viene considerato in quanto verrà registrato a consuntivo" (v. http://nuovo.camera.it/ Camera/view/doc_viewer_full?url=http).://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=16PDL0055610&back_to=http%3°//nuovo.camera.it/126?PDL=4829&leg=16&tab=2
(9) Questo infatti richiede che negli enti territoriali il popolo deve avere una rappresentanza che emerga da elezioni generali, dirette, libere, uguali e segrete e che la rappresentanza abbia una consistenza tale da conseguire due risultati: in primo luogo, l’espressione del pluralismo politico, compatibilmente con la governabilità; e, in secondo luogo, la capacità di gestione e di controllo da parte della rappresentanza dell’ente medesimo.
(10) V. S. Mangiameli, Il Senato federale nella prospettiva italiana, in Rass. parl. 2010, 167 ss.
(1)1 A. D’Atena, Le aperture dinamiche del riparto delle competenze, tra punti fermi e nodi non sciolti, in Le Regioni, 2008, 815.
(12) I decreti legislativi approvati nel 2010 sono: quello sul federalismo demaniale (28 maggio 2010, n. 85); quello su Roma Capitale (17 settembre 2010, n. 156); quello in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province (26 novembre 2010, n. 216). A lungo dibattuti, con ripetute e diverse stesure, nel corso del 2010 sono state le proposte di decreto legislativo riguardante il federalismo fiscale municipale e quello riguardante l’autonomia di entrata delle Regioni a statuto ordinario e delle province, al cui interno sono state collocate anche le disposizioni concernenti la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario. Entrambi questi decreti legislativi hanno avuto la luce nel 2011 (il primo D.Lgs. n. 23; e il secondo DLgs. n. 68). Sempre nel 2011 sono stati adottati il decreto legislativo n. 88, “Disposizioni in materia di risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali”, il decreto legislativo n. 91, “Adeguamento ed armonizzazione dei sistemi contabili”, e il decreto legislativo n. 149, sui “Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni”.
(13) Su questa formula nella forma di governo italiana, cfr.: S. Mangiameli, La forma di governo parlamentare. L’evoluzione nelle esperienze di Regno Unito, Germania ed Italia, Torino, Giappichelli, 1998, 70 e 132.
(14) V. C. Buratti, The Italian Way to Fiscal Federalism, 21 gennaio 2011, paper, University of Cardiff (www.cf.ac.uk/wgc/events/financing.html); E. Buglione, La finanza regionale: storia scritta e da riscrivere, in Il percorso del regionalismo italiano, Roma, Donzelli, 2011.
(15) La questione inerisce al ruolo della difesa civica per il rispetto dei diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, prevista in accordi internazionali cui l’Italia ha preso parte. La soppressione dei difensori civici, pertanto, avrebbe esposto lo Stato italiano sul piano del diritto internazionale, tanto più che questo manca a tutt’oggi della figura di un mediatore nazionale e questa mancanza è stata considerata compensata da una rete di difensori civici locali.
(1)6 V. G. M. Napolitano, Le politiche socio-assistenziali delle Regioni nell’VIII: tra crescita e sfida, in Sesto rapporto sullo stato del regionalismo in Italia, a cura dell’Issirfa - CNR, Giuffrè, Milano 2011, 595 ss.
(17) L’espressione “laboratori di federalismo” è riassunta da G. France, “Laboratori del federalismo” e miglioramento del servizio sanitario nazionale, in Quinto rapporto sullo stato del regionalismo in Italia, a cura dell’Issirfa - CNR, Giuffrè, Milano, 2008, 557 ss., il quale rinvia all’accezione fatta propria da Louis D. Brandeis nella dissenting opinio a Corte Suprema degli Stati Uniti sentenza New State Ice Co. v. Liebmann, 285 U.S. 262 (1932), nella quale affermava: “It is one of the happy incidents of the federal system that a single courageous state may, if its citizens choose, serve as a laboratory; and try novel social and economic experiments without risk to the rest of the country”.

Menu

Contenuti