Relazione presentata al Convegno ISSiRFA "IL PERCHÉ DELLE REGIONI OGGI. La Repubblica tra Stato unitario e Stato regionale", Roma, 27 ottobre 2016.

 

1.   Dei nuovi poteri delle regioni

2.   Del ridimensionamento dell’autonomia delle regioni

3. Del bilanciamento tra quanto le regioni perdono e quello che le regioni potrebbero guadagnare

4.   Del nuovo modello di regione

 

 

1. Dei nuovi poteri delle regioni

Una valutazione di quali saranno i poteri delle regioni in caso di eventuale approvazione popolare della riforma già approvata dal Parlamento (e pubblicata, per notizia, sulla G.U. 15 aprile 2016, n. 88) non è cosa facile.

Il significato da attribuire alle norme scritte dipende ampiamente dall’interpretazione che ne darà il legislatore in sede di attuazione o la Corte costituzionale in caso di contenzioso. Ciò che, peraltro, appare confermato da quanto avvenuto sia con la versione originaria del Titolo V sia con quella conseguente alla revisione costituzionale del 2001.

Possiamo constatare, in primo luogo, che ben 43 dei complessivi 47 articoli toccati dalla revisione riguardano il superamento del bicameralismo paritario e la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione. Si tratta di un oggetto bipartito ma strettamente collegato che nel suo complesso incide, direttamente o indirettamente, sui poteri delle regioni e degli enti locali. Le uniche previsioni relativamente disomogenee rispetto a quest’oggetto principale sono, infatti, quelle concernenti l’iniziativa popolare e il referendum abrogativo, l’elezione del Presidente della Repubblica e la soppressione del CNEL.

Per la mia relazione sui poteri regionali nella riforma costituzionale del 2016 non è dunque possibile limitarsi a valutare esclusivamente la nuova revisione del Titolo V ma occorre tener conto, sullo sfondo, anche delle previsioni relative al nuovo Senato e al nuovo procedimento legislativo. Della richiamata partizione costituzionale, sono oggetto di modifica 11 dei suoi 15 articoli ancora in vigore. Non sono state toccate o sono state solo marginalmente modificate le previsioni concernenti gli organi e la forma di governo regionale (che furono oggetto, in particolare, della revisione costituzionale del 1999). Quella riforma ha dato, infatti, una buona prova (determinando la stabilizzazione degli esecutivi regionali e la realizzazione del cd. governo di legislatura) e non è, ora, oggetto di contro-revisione. Nella riforma in atto, anzi, si prende a modello l’esperienza regionale (ma prima ancora comunale) e si cerca di realizzare scopi analoghi anche a livello nazionale, in maniera indiretta mediante la previsione della legge elettorale della Camera dei deputati n. 52/2015 (cd. Italicum) in base alla quale “contestualmente al deposito del contrassegno (…), i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica” e che si candida al governo del Paese. Si ottiene in tal modo un’investitura semi-diretta del capo di governo e il conseguente rafforzamento del suo ruolo, con un’operazione simile a quella che venne fatta con la legge n. 43 del 1995 (cd. Tatarellum): indicazione del capolista sulla scheda elettorale collegato ad un listino unico regionale per l’assegnazione del premio.

Alcuni dubitano della legittimità costituzionale di una trasformazione della forma di governo parlamentare realizzata, indirettamente, attraverso modifiche della legge elettorale (tra gli altri: Staiano). Sul punto – estraneo all’oggetto della mia relazione – non mi soffermo. E’ utile tenere presente, tuttavia, che una similare incidenza indiretta sulla forma di governo prevista dalla Costituzione per le regioni si realizzò già con la citata legge Tatarella nel 1995 (a costituzione invariata  fino alla revisione del 1999, che ha previsto l’elezione diretta dei presidenti delle regioni, pleno iure, e ha introdotto il forte strumento di stabilizzazione dei governi regionali noto come simul stabunt, simul cadent) senza che ciò abbia dato adito - che io ricordi - a dubbi di legittimità costituzionale.

 

2. Del ridimensionamento dell’autonomia delle regioni

In ordine alla riforma del Titolo V si può trovare un elemento di sicura condivisione da parte di tutti i commentatori  – cosa non rinvenibile per nessun altro aspetto della riforma – nella constatazione del ridimensionamento dell’autonomia legislativa (e dunque politica) delle regioni. Infatti:

- scompare la potestà concorrente a favore, in genere, di nuove competenze esclusive dello Stato;

- si amplia, conseguentemente, anche la potestà regolamentare dello Stato, nelle materie già concorrenti;

- ricompare la clausola dell’interesse nazionale, che consente allo Stato di riassorbire ambiti di competenza regionale.

Quanto all’eliminazione delle materie concorrenti, in base al criterio secondo il quale spettava alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Nel nuovo testo dell’art. 117 Cost. approvato dal Parlamento 16 delle 19 materie già di competenza concorrente vengono assunte tra le materie di competenza esclusiva dello Stato. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il riassorbimento è limitato alle disposizioni generali e comuni (ad es. governo del territorio, istruzione, tutela della salute) o, comunque, alla sola disciplina di interesse nazionale (energia, porti e aeroporti, reti di trasporto). Per queste ragioni, le nuove ipotesi di co-legislazione non si presentano così radicalmente diverse rispetto alle vecchie materie concorrenti, e non perché le norme generali e comuni sono l’equivalente delle norme di principio (non autoapplicative) ma perché - come l’ormai non breve esperienza del nostro regionalismo ci ha insegnato - il modello costituzionale della legislazione concorrente che avrebbe reso necessaria la produzione di una legislazione statale quadro o di cornice non ha mai effettivamente visto la luce, già all’indomani della prima costituzione delle regioni (quando l’art. 17 della legge 281/1970, novellando l’art. 9 della legge 62/1953, stabilì che l’esercizio della funzione legislativa delle regioni dovesse svolgersi “nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono o quali si desumono dalle leggi vigenti”) e anche, salvo limitatissime e marginali eccezioni, all’indomani della riforma del Titolo V nel 2001 (quando l’art. 1, co. 4, della legge 131/2003 delegò il governo alla ricognizione dei principi fondamentali che si traggono dalla legislazione vigente, come primo orientamento per il legislatore statale).

In altre ipotesi l’elenco delle competenze esclusive dello Stato appare ora arricchito di competenze precedentemente innominate ma che comunque, già in base alla giurisprudenza costituzionale formatasi a seguito della revisione costituzionale del 2001, erano state riconosciute come di implicita competenza dello Stato (le norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale e le disposizioni generali e comuni sul turismo). Laddove, come nel caso dell’ordinamento degli enti locali, la sussistenza di una generale competenza dello Stato appariva quantomeno dubbia dopo la riforma del 2001, il testo della revisione ora approvata dal Parlamento attribuisce comunque la materia alla legislazione bicamerale paritaria (art. 70, primo co., Cost.) e dunque perfettamente compartita tra camera politica e camera rappresentativa dei territori.

La scelta di sopprimere la competenza concorrente a beneficio di nuove e diverse forme di co-legislazione - che non si ebbe il coraggio di compiere nella riforma del 2001 - risponde, peraltro, all’evidente esigenza di adeguamento del nostro sistema delle fonti all’evoluzione dell’ordinamento dell’Unione europea. In un contesto, infatti, in cui una parte assai rilevante delle fonti interne è di derivazione comunitaria, mal si concilia il mantenimento di un doppio ordine di principi nelle materie di competenza regionale. E’ inevitabile, pertanto, che, in un quadro normativo in cui sia già presente una cornice comunitaria, l’intervento dello Stato, se necessario, vada senz’altro e inevitabilmente oltre una disciplina di mero principio. Un’analoga evoluzione si è avuta, d’altronde, anche nella Repubblica federale di Germania, la quale, con una revisione del 2006, ha soppresso tutte le materie per le quali era prevista una legislazione cornice del Bund per orientare la legislazione dei Länder e le ha riassegnate ripartendole tra la federazione e i territori.

La nuova formulazione dell’art. 117 Cost. introduce, inoltre, una clausola di supremazia che consente alla legge statale di intervenire in materie di competenza regionale “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Va tenuto conto, tuttavia, che anche dopo la soppressione dell’analoga clausola dell’interesse nazionale nel 2001, si è potuto supplire – laddove si è reso necessario – con la cd. chiamata in sussidiarietà di determinate competenze regionali da parte del legislatore statale. Un istituto che ha trovato fondamento su una giurisprudenza pretoria della Corte costituzionale (sent. 303/2003) che lo traeva implicitamente dal combinato disposto del principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.) e del principio di legalità dell’amministrazione.

Se dunque il moto centripeto delle materie legislative (il rimbalzo del pendolo) appare netto rispetto alla Costituzione scritta. L’evidenza, a quindici anni dalla riforma del 2001, che nella grande maggioranza dei casi si tratta di materie che le regioni non hanno mai effettivamente esercitato o che, comunque, sono state impedite dal disciplinare o da trattare in maniera differenziata, può consentire di affermare che, più di un effettivo riaccentramento di poteri legislativi (e di indirizzo politico), abbiamo a che fare piuttosto con un’opera di razionalizzazione che ravvicina il dato testuale (ineffettivo) alla costituzione vivente (effettiva).

Al di là di questa opera di semplice razionalizzazione, che ha il pregio, quantomeno, di dire con più sincerità quale sia la vera ripartizione delle competenze tra Stato e regioni, costituisce un elemento di sicura novità, invece, la realizzazione di un nuovo procedimento di formazione della legge che, grazie ad una nuova organizzazione del Parlamento, assicura l’integrazione degli interessi territoriali mediante una generale estensione del principio di leale collaborazione anche a livello legislativo.

Può certamente dubitarsi – volendo – che sia una scelta opportuna quella di ridimensionare in termini di diritto e non più ai sensi di una (possibilmente mutevole) giurisprudenza costituzionale il ruolo della legge regionale ed anche, per altro verso, che il nuovo Senato sia in grado di integrare effettivamente gli interessi generali delle comunità regionali nell’ambito del procedimento di formazione della legge statale, con il compito di definire un unitario indirizzo politico nazionale. Non può dubitarsi, tuttavia, che vi sarebbe una maggiore chiarezza e sincerità sui rispettivi ambiti di intervento di Stato e regioni (realizzando non disprezzabili effetti pedagogici) e, almeno, il tentativo di avere una maggiore integrazione e collaborazione interistituzionale mediante la costituzione di un Senato della Repubblica rappresentativo delle autonomie territoriali.

 

3. Del bilanciamento tra quanto le regioni potrebbero perdere e quanto potrebbero guadagnare

Nel bilanciamento di quello che le regioni perdono e quello che le regioni guadagnano secondo la riforma, possiamo dire pertanto che, se esse rinunciano ad un credito comunque inesigibile (l’ampio corredo astratto ma ineffettivo delle competenze), esse comunque ottengono alcuni sicuri miglioramenti e alcune più significative conferme di quanto già ottenuto con la riforma del 2001 e in particolare:

Per quanto attiene alla potestà legislativa regionale

 

a) l’ampliamento degli ambiti materiali di co-legislazione regionale, espliciti o impliciti che salgono da 19 (nel 1948), e poi 24 (nel 2001), a 37, e precisamente:

- 15 quelli espressamente enumerati (art. 117, terzo comma, art. 122, art. 133, art. 40, co. 4, d.d.l. cost.), ove spiccano - tra gli altri - la pianificazione del territorio regionale, la programmazione e l’organizzazione dei servizi sanitari e sociali, la promozione dello sviluppo economico, la valorizzazione e l’organizzazione regionale del turismo;

- 22 quelli impliciti (ex art. 117, secondo comma, e art. 119 Cost.), tra cui rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni, il sistema regionale della protezione civile, la polizia amministrativa locale, l’organizzazione e il funzionamento dell’amministrazione regionale e degli enti pubblici regionali, le funzioni non fondamentali degli enti locali;

 

b) la conferma della competenza legislativa generale delle regioni in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione (esclusiva) dello Stato:

questo significa che possiamo sicuramente aggiungere almeno altri 8 ambiti di competenza strettamente residuali (ex art. 117, terzo comma), già riconosciuti dalla giurisprudenza costituzionale pregressa – sia pur con molti ritagli e regolazioni dei confini – (agricoltura, artigianato, caccia, commercio, edilizia residenziale pubblica, pesca, trasporto pubblico locale, viabilità di interesse regionale); vi sono qui, ovviamente, altre materie che si potrebbero aggiungere: l’ordinamento delle professioni, ad es., è una materia di competenza esclusiva dello Stato che non sembrerebbe travolgere le normative regionali (per quel poco che valgono) sugli organismi consultivi degli ordini, dei collegi e delle associazioni professionali; la programmazione e l’organizzazione dei servizi sanitari e sociali, di esplicita competenza regionale, assorbe solo parzialmente la materia residuale dell’assistenza e dei servizi sociali, la quale dunque potrebbe risultare frazionata e non necessariamente ridotta.;

 

c) la conferma del regionalismo differenziato:

le materie regionalizzabili nell’ambito del cd. regionalismo differenziato (ex art. 116 Cost.) scendono da 23 a 14 (tra cui istruzione, ordinamento scolastico, istruzione universitaria, programmazione strategica della ricerca scientifica, istruzione e formazione professionale), ma è ora prescritta una maggioranza ordinaria e non più assoluta per la legge di attribuzione (da approvare, peraltro, nell’ambito di un procedimento bicamerale paritario, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata); e la portata della previsione viene estesa, inoltre, a beneficio anche delle regioni speciali;

Per quanto attiene alla legislazione statale e alla normazione comunitaria

 

d) il riconoscimento di un nuovo potere di concorso paritario al procedimento di formazione di alcune tipologie di leggi statali:

si tratta di un pacchetto di 15 competenze legislative statali perfettamente bicamerali, tra cui - secondo un modello tipicamente federale - le leggi costituzionali e di revisione costituzionale e le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea;

 

e) il riconoscimento di un nuovo potere di concorso dis-paritario al procedimento di formazione di tutte le altre leggi dello Stato, nell’ambito di un procedimento parlamentare che potremmo chiamare: monocamerale partecipato:

si tratta di altri 59 titoli di competenza esclusiva dello Stato, tra cui quella in esercizio della cd. clausola di supremazia (su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie di spettanza regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale). L’esame del Senato è disposto entro 10 giorni dalla data di trasmissione. Nei trenta giorni successivi la camera territoriale può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera si pronuncia in via definitiva. Quest’ultima può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi a maggioranza assoluta dei propri componenti (art. 117, quarto comma, Cost.);

 

f) il riconoscimento di nuovi strumenti di raccordo interparlamentare tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea (ex art. 55 Cost.):

tra essi spicca – in primo luogo – la partecipazione alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi europei e delle politiche europee;

Per quanto attiene all’autonomia politica

 

g) il riconoscimento che i senatori eletti dai consigli regionali - in quanto esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.) - rappresentano nel Parlamento nazionale – il luogo politico per eccellenza della Repubblica - gli interessi generali delle rispettive istituzioni territoriali democratiche, esponenziali di comunità locali organizzate per il perseguimento di finalità generali e non certamente interessi personali o particolari (dato che della natura politica delle autonomie territoriali non si può dubitare):

posto, infatti, che solo i membri della camera direttamente elettiva rappresenterebbero la Nazione, secondo quanto ora disporrebbe il riformando art. 55, terzo comma, e dovendosi senz’altro escludere alla luce di una lettura sistematica della Costituzione che le autonomie territoriali e la stessa Patria/Repubblica possano essere intese come un qualcosa di alieno o di altro rispetto alla Nazione rappresentata dai membri della Camera dei Deputati, credo di non errare nel dire che nel nuovo disegno istituzionale spetta ai rappresentanti della camera eletta direttamente dai cittadini, in rapporto dialettico con il Senato, portare a sintesi l’interesse nazionale, di cui sono i necessari interpreti (i levatori, potremmo dire con una figurazione), ma non i depositari assoluti in un sistema di pluralismo politico-territoriale. L’aver portato questa pluralità di interessi generali delle comunità territoriali che compongono la Repubblica all’interno del Parlamento potrebbe dunque determinare il superamento dell’orientamento della Corte costituzionale che ritiene impugnabili dalle regioni le sole leggi statali che incidano sulla loro competenza (ora ad es. anche l’impugnativa dei decreti-legge per la sola violazione dell’art. 77 potrebbe determinare la lesione delle competenze regionali, sia in quanto riduce i termini a disposizione del Senato per deliberare proposte di modificazione dei disegni di legge approvati dalla Camera dei deputati nelle cd. materie monocamerali (art. 77, sesto comma) sia perché tali provvedimenti di necessità ed urgenza possono essere adottati anche nelle materie di competenza perfettamente bicamerale dei due rami del Parlamento);

 

h) L’attribuzione di un nuovo potere di nomina (attraverso il Senato) di due dei cinque giudici della Corte costituzionale di nomina parlamentare:

si tratta di un modello tipicamente federale di composizione del giudice delle leggi nei sistemi a sindacato accentrato (Germania, Svizzera, Spagna);

 

i) il rafforzamento del principio pattizio per la revisione degli statuti speciali:

l’art. 39, co. 13, della legge costituzionale sottoposta a referendum confermativo prevede infatti che tale revisione debba avvenire con legge costituzionale sulla base di intesa. A prescindere, dunque, se tale intesa costituisca un passaggio aggiuntivo all’iter procedimentale già previsto dalla legge cost. n. 2/2001 ovvero possa intendersi sostitutiva del parere del Consiglio regionale, ivi previsto, non è dubbio, però, che questo diverso modulo procedimentale – qualunque sia il grado di vincolatività che gli verrà riconosciuto in concreto e l’organo che lo dovrà effettivamente rendere (Giunta o Consiglio) – si prospetta, comunque e in ogni caso, assai più forte del parere già precedentemente previsto. Conseguentemente, non si può nemmeno dubitare che questa modifica – al di là della valutazione sull’opportunità della scelta – faccia emergere un elemento di stampo para-federale nel modello di relazione che si instaura tra lo Stato - o, meglio, la Repubblica - e le regioni speciali (Lombardi già parlava di criptofederalismo e, secondo quanto ci ha già insegnato Ambrosini, in una sua fondamentale opera sull’ordinamento regionale nel 1957, in presenza dell’elemento pattizio si può parlare di un conclamato modello federale), che certamente riguarda le sole regioni speciali ma che comunque contribuisce a sostenere il tono generale del nostro regionalismo (un forte regionalismo a vocazione amministrativa e federale), anche in ragione del fatto che tali regioni costituiscono il modello e il traino per l’evoluzione del regionalismo differenziato (ex art. 116);

Per quanto attiene all’autonomia amministrativa

 

j) la conferma del principio di sussidiarietà:

l’art. 118 Cost. è stato solo marginalmente toccato dalla riforma, al fine di estendere le speciali forme di “intesa e di coordinamento” in materia di tutela dei beni culturali anche ai beni paesaggistici e di introdurre una nuova disposizione secondo la quale “le funzioni amministrative sono esercitate in modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell’azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli amministratori”. Disposizione che va letta insieme alla modifica dell’art. 97 Cost., secondo la quale i pubblici uffici (anche quelli delle autonomie territoriali, dunque) sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati oltre al buon andamento e l’imparzialità, ora, anche la trasparenza dell’amministrazione.

Ciò che però a me pare di maggior rilievo è che le previsioni concernenti l’attribuzione e il conferimento delle funzioni amministrative allo stato e agli enti territoriali (commi primo, secondo e quarto), siano state modificate al solo fine di espungere ogni riferimento alle Province. Il principio della sussidiarietà amministrativa in senso verticale e orizzontale è stato dunque confermato.

Mi pare necessario sottolineare che si tratta adesso della sola sussidiarietà amministrativa, giacché l’introduzione di una clausola legislativa di supremazia (o di flessibilità) consente di escludere che lo Stato per attrarre in sussidiarietà la disciplina legislativa delle questioni di interesse nazionale lo possa fare ancora in via soltanto indiretta mediante l’uso alla rovescia del principio di legalità (l’assunzione per sussidiarietà delle funzioni amministrative consente che queste debbano essere organizzate e regolate dalla legge statale). Questo schema argomentativo inventato dalla Corte costituzionale, non solo consentiva ma persino imponeva l’assunzione delle funzioni amministrative insieme alla loro disciplina: il principio di parallelismo, che di per sé sarebbe antinomico con il principio della sussidiarietà amministrativa), cacciato dalla porta (la disposizione), fu fatto rientrare dalla finestra (l’interpretazione costituzionale).

Questa riforma, grazie al combinato disposto della clausola di supremazia legislativa e del principio di sussidiarietà amministrativa, ha dunque il merito, non solo, di consentire una disciplina legislativa unitaria anche in materie (legislative) di competenza regionale senza la necessità di riassorbire in capo allo Stato anche le funzioni amministrative di esecuzione, ma anche, di converso, di consentire il conferimento agli enti locali e alle regioni ulteriori e più ampie funzioni amministrative esecutive di discipline legislative di esclusiva competenza statale, in base ai criteri di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione di cui all’art. 118 Cost.

 

k) l’assegnazione alle regioni della disciplina degli enti di area vasta (escluse le città metropolitane) nel rispetto dei profili ordinamentali generali definiti con legge dello Stato:

per quanto la disposizione recata da una norma finale della legge costituzionale sia di difficile comprensione (a partire dalla sua collocazione) e, dunque, di difficile attuazione, mi pare, tuttavia, che la de-costituzionalizzazione delle province (non metropolitane) – che ne fa degli enti di area vasta (attualmente funzionali dei comuni) privi di funzioni fondamentali – permette alla co-legislazione statale-regionale di fare scelte della massima flessibilità organizzativa, che consentano, con relativa facilità, di variarne la taglia dimensionale e di adattarne organizzazione e funzioni alle differenti caratteristiche ed esigenze dei territori. Non sembrerebbe consentita, però, la soppressione tout court degli enti di area vasta (almeno fino a quando perduri la vigenza della richiamata disposizione di valore costituzionale) o una loro trasformazione in enti funzionali delle regioni (il cd. modello Agenzia), tranne che – in quest’ultimo caso – non si ritenga che i “profili ordinamentali generali” di cui alla legislazione statale non possano limitarsi alla scelta relativa alla loro trasformazione in enti funzionali della regione per la realizzazione di obiettivi generali definiti dalla legge medesima e ad una conseguente delega, (quasi) in bianco, alla normativa regionale di organizzazione. L’autonomia organizzativa delle regioni non sembra consentire, infatti, che la legge statale possa definire, nemmeno per principia, profili ordinamentali dei suoi enti funzionali (tranne che tali principi non trovino fondamento in altri e diversi titoli di competenza dello Stato che lo possano consentire, in concreto). Se così fosse si potrebbe immaginare di sopprimere gli enti di area vasta (come forme associative obbligatorie di comuni), almeno nelle regioni più esigue (es. Molise), e di trasformarli – in questi casi – in enti funzionali delle regioni. Mi pare, invece, che si debba escludere che, soppresse le vecchie province-enti autonomi già a costituzione invariata (ciò è stato consentito dalla Corte cost. con sent. 50/2015), sulla base dell’art. 40, co. 4, della legge costituzionale, sia consentito di sopprimere tout court ogni tipologia di ente di area vasta. Sia nel caso dell’area vasta come ente funzionale dei comuni (non metropolitani) sia in quello di ente funzionale delle regioni, si avrebbe dunque una certa manovrabilità della loro organizzazione con legge regionale; ciò che, in mancanza della riforma, rimarrebbe assolutamente impossibile.

 

4. Del nuovo modello di regione

Appare opportuno chiedersi, per concludere, quale sia il modello di regione – ammesso che se ne distingua uno – che si delinea con questa riforma. 

Per quanto, fin qui, da parte dei primi commentatori sia stata prestata la massima attenzione soprattutto al tema dell’autonomia legislativa (che è quella parte che spicca con la massima evidenza nel dictum della riforma). A me pare però che per comprendere il verso della riforma in atto sia centrale, invece, la questione dell’amministrazione. D’altronde, anche coloro che danno il massimo rilievo alla questione dei poteri legislativi - senza soffermarsi sulla nuova interpretazione da dare all’art. 118 nella sua interrelazione con le nuove disposizioni - affermano in genere che questa riforma amministrativizza (se non anche provincializza) il ruolo delle regioni. Mi pare pertanto che, da ovunque si parta, si arriva, sempre e comunque, al nodo dell’amministrazione.

Il fenomeno della trasformazione della regione da ente di governo (Barbera) in ente di amministrazione non è, però, nuovo, né inaspettato. Esse, infatti, dopo lunga inattuazione, sono state realizzate – negli anni settanta del secolo scorso – per rispondere ad esigenze politiche piuttosto che per dare sostanza ad una diffusa cultura autonomista e sono dunque diventate terminali di spesa dello Stato sociale “all’italiana” e dunque, in buona sostanza, degli enti di decentramento funzionale di tipo prevalentemente amministrativo; con conseguente amministrativizzazione della politica e della legislazione regionale. I confini poco decifrabili dell’autonomia regionale e la mancanza di un chiaro progetto di regione (Morrone) nella legislazione statale di attuazione costituzionale, e dunque le regioni senza il regionalismo (Pastori),  hanno determinato lo smarrimento da parte delle regioni della loro autentica vocazione di governo (della “cosa pubblica”) regionale con compiti di direzione e coordinamento del sistema integrato degli enti e delle comunità locali e le hanno spinte verso l’espansione parossistica dell’amministrazione regionale, diretta e indiretta, e delle connesse pratiche burocratiche e provvidenze (facile strumento di costruzione del consenso elettorale).

Da questo punto di vista non c’è nulla nel testo di riforma che possa leggersi in senso senz’altro confermativo dell’esistente declinazione dell’autonomia amministrativa regionale e locale. Tutto è rimesso alle scelte di indirizzo politico e al ruolo che riuscirà a giocare il Senato, ovviamente. Mi pare però che, ai tempi della crisi finanziaria dello Stato e del fiscal compact, l’epoca delle amministrazioni regionali come terminali di spesa pubblica deresponsabilizzata sia finita; ma ritengo, anche, che non sia più rinviabile – ai tempi di spending review – nemmeno sciogliere il nodo della riforma dell’amministrazione statale, sono infatti le duplicazioni, le sovrapposizioni e le frammentazioni di competenze che hanno reso il regionalismo italiano costoso e poco efficiente (Mangiameli). Il rafforzamento del ruolo politico del Governo, potrebbe essere l’occasione per modificare il rapporto tra politica e burocrazia, a favore del primo (i governi passano ma le burocrazie restano), ma potrebbe anche costituire l’occasione per rinsaldare un patto di potere tra politici e burocrati nazionali che continui a proporre una visione autoritaria del rapporto-centro periferia (Bin). Se prevalesse questa seconda opzione, conservatrice, non si ridurrebbe affatto il contenzioso tra Stato e regioni – che com’è noto non è alimentato dalle competenze concorrenti ma dagli uffici legislativi dei ministeri – e non si avrebbe alcuna riforma sussidiaria dell’amministrazione statale (anche al fine, facilmente condivisibile con i sindacati, di mantenere alti gli organici e i posti dirigenziali). Si può ricordare, infatti, che il grande tentativo di riforma amministrativa orientata al principio di sussidiarietà (la legge Bassanini con i suoi decreti attuativi), pur provvedendo al riordino dei ministeri (d.lgs. 300/1999) demandava a decreti ministeriali la riorganizzazione dei ministeri in periferia (i quali però erano in evidente conflitto di interessi, e – ovviamente – non se ne fece nulla).

E’ possibile, pertanto, che rimanga in auge un ampio parallelismo tra amministrazioni statali e amministrazioni degli enti territoriali (soluzione centralistica che mantenga intatta l’APS) o anche che, in tutto o in parte (per effetto della diffusione di un federalismo differenziato e asimmetrico), il sistema possa virare verso un (pur blando) regionalismo di esecuzione (riducendo le sedi del decentramento burocratico statale a favore delle amministrazioni autonome) che releghi le APS ad un ruolo del tutto residuale (in primo luogo, per le amministrazioni d’ordine: interno e difesa, ma anche economia, istruzione e beni culturali). Concordo, pertanto, con chi ha parlato di una riforma costituzionale a due facce “in grado tanto di assecondare la tendenza verso il definitivo tramonto del regionalismo “politico-legislativo” (la faccia in piena luce), quanto, al tempo stesso, di supportare la riapertura di una nuova sfida per lo sviluppo e il consolidamento di autonomie regionali mature (la faccia nascosta), che si configurino come elemento davvero qualificante e non meramente ‘accessorio’ della nostra forma di stato” (Cecchetti).

Certamente, però, aver mantenuto fermo il principio di sussidiarietà, rafforzato dall’ulteriore criterio guida dell’efficienza e disincrostato dal parallelismo alla rovescia indotto dalla giurisprudenza sulla cd. chiamata in sussidiarietà, può consentire di proseguire ancora con pratiche ostruzionistiche delle burocrazie statali volte all’inattuazione costituzionale, ma sembrerebbe, comunque, orientare il legislatore (ora politicamente integrato e rafforzato dalla rappresentanza contestuale dell’unitario interesse nazionale e dei plurali interessi dei territori) verso un’opera di razionalizzazione degli uffici statali diffusi sui territori (quanto all’UTG/UTS) e di ridimensionamento funzionale dell’APS (e non solo delle circoscrizioni di riferimento, nel senso della de-provincializzazione) e degli enti e delle agenzie statali (Legge Madia). L’unitarietà delle politiche non necessita in ogni caso, infatti, l’unità amministrativa e la centralizzazione degli apparati (che può portare a forme di deconcentrazione, vale a dire di amministrazione gerarchica, ma non di decentramento, vale a dire di amministrazione autonoma).

Si veda, ad esempio, il caso delle politiche relative al turismo che, sotto il Governo Letta, hanno visto spostare in capo al ministero dei beni culturali (che com’è noto si tratta di un’amministrazione con un sistema di APS radicato e diffuso), ora divenuto MIBACT (art. 1, commi 2-3, legge n. 71 del 2013), le competenze statali concorrenti con quelle delle regioni e degli enti locali.

Secondo l’art. 32 del DPCM 29 agosto 2014, n. 171, recante il regolamento di organizzazione del MIBACT, spetta ai segretariati regionali l’attuazione degli indirizzi strategici e dei progetti elaborati a livello centrale relativi alla valorizzazione e alla promozione turistica degli itinerari culturali e di eccellenza paesaggistica e delle iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza delle identità territoriali e delle radici culturali delle comunità locali (lett. r), favorire la conoscenza, l’implementazione e l’attuazione a livello periferico delle politiche turistiche definite a livello centrale (lett. s), favorire iniziative per il miglioramento della qualità dei servizi turistici e per una migliore offerta turistica nel territorio regionale (lett. t).

Nessuno di questi compiti pare avere le caratteristiche proprie dell’intervento regolatorio che spetterebbe all’amministrazione statale.

Appare chiaro, pertanto, che un’applicazione piena e coerente del principio di sussidiarietà determinerà una coerente riforma dell’amministrazione statale e potrebbe offrire un buon contro-bilanciamento al riaccentramento delle competenze legislative. L’affidamento alle autonomie territoriali di significativi poteri di attuazione delle politiche nazionali regionalizzate o regionalizzabili determina, infatti, che non sarà possibile per il Governo dar corso alle politiche perseguite senza il consenso e la piena collaborazione delle istituzioni territoriali che dovranno darvi concreta attuazione. Ciò che rafforzerà il ruolo del Senato, sia in fase ascendente (la fabbrica delle leggi) che discendente (la valutazione delle politiche), al di là del limitato peso formale dei voti da esso espressi (nella maggior parte dei casi), in applicazione del principio di separazione dei poteri. Le regioni, dunque, come limite al potere dello Stato, come sapientemente affermava Carlo Esposito le regioni “non hanno rilievo solo per l’organizzazione amministrativa ma incidono in profondità nella struttura interiore dello Stato e… costituiscono per i cittadini… garanzia di democrazia e di libertà”.

 

 

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