Rielaborazione dell’intervento svolto nel corso Poder judicial y unidad jurisdiccional en el estado autonómico (En memoria de José Ma Lidón Corbi y de todos los miembros del Poder Judicial Víctimas del Terrorismo), organizzato dal Consejo general del Poder Judicial nell’ambito dei programmi di formazione continua dei magistrati spagnoli

(Madrid 1-3 febbraio 2006).
 
 
SOMMARIO:
 
 
 
 
1. Anticipazioni dell'esito della ricerca
 
Si preferisce esporre immediatamente la tesi principale che si sostiene in questo lavoro: l’esperienza italiana si è caratterizzata e continua a caratterizzarsi per un deciso accentramento della funzione giurisdizionale in capo allo Stato, escludendo rilevanti forme di coinvolgimento dei poteri locali, e quindi soprattutto delle Regioni, in campo giudiziario.
Secondo quanto si cercherà di dimostrare nelle pagine seguenti, il diritto costituzionale vivente, nel suo intreccio di norme legislative attuative della Costituzione e di pronunce giurisprudenziali, soprattutto ad opera della Corte costituzionale, ha evitato di utilizzare i non pochi margini di apertura presenti nelle disposizioni della Costituzione e degli statuti speciali, frustrando, sotto questo punto di vista, le aspettative di coloro che ritenevano possibile una valorizzazione regionale nell’organizzazione giudiziaria e nella disciplina processuale.
E’, peraltro, il caso di sottolineare che, a parere dello scrivente, non sembra si possa parlare, a proposito di questa complessiva vicenda, di una violazione o di un’elusione di prescrizioni costituzionali, se non in talune limitate ipotesi: in genere, le indicazioni costituzionali in materia presentano una dose di ambiguità tale da legittimare svolgimenti in direzione tanto “minimalista” nei confronti delle competenze regionali che nel verso opposto. Se, di fronte ai bivi dell’interpretazione, l’esperienza concreta ha quasi sempre intrapreso il percorso tendente ad escludere la valorizzazione di competenze giudiziarie regionali, ciò è probabilmente da ascriversi alla forza di quelle suggestioni culturali profonde che verranno richiamate nel successivo paragrafo.
Senza alcuna pretesa di fornire un giudizio di valore sulla bontà o meno di questa linea di tendenza, sembra, quindi, di poter rilevare che il filo rosso che attraversa la storia costituzionale italiana, compresa quella più recente, è all’insegna della conservazione in capo allo Stato di una sorta di quasi-monopolio della giurisdizione e dei poteri organizzativi in materia giudiziaria.
 
 
2. Le diverse correnti di alimentazione ideale del monopolio statale del potere giudiziario.
 
La situazione appena descritta ha diversi e profondi canali di alimentazione ideale.
Costituisce un momento decisivo di tale processo l’unificazione delle diverse Corti di Cassazione civili (1) esistenti in Italia avvenuta nel 1923 (2), restando così definitivamente superato un regime pluralistico che affondava le sue radici nell’esperienza pre-unitaria e che era stato mantenuto nel periodo successivo al 1861(3): soltanto una piramide giudiziaria avente il suo vertice in una ed unica Corte di Cassazione è apparsa, agli occhi del legislatore italiano, in grado di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione del diritto oggettivo” (4), respingendo nel passato modelli organizzativi e funzionali pure dotati di indubbia tradizione storica.
Negli anni successivi alla Costituzione del 1948, i tentativi di riarticolare su basi regionali la funzione nomofilattica della Cassazione non hanno superato l’ambito di ristrette discussioni nelle riviste specializzate (5), mentre va segnalato che anche la recentissima riforma dell’ordinamento giudiziario (legge 25 luglio 2005, n. 150) non va oltre un decentramento su basi regionali dell’amministrazione ministeriale, prevedendo l’istituzione di direzioni regionali o interregionali dell’organizzazione giudiziaria (articolo 2, comma 12) (6).
Tutto ciò non appare affatto casuale. Come è stato accuratamente evidenziato (7), nell’esperienza italiana appare particolarmente radicata, in modo consapevole o inconsapevole, la convinzione che il “cuore” della sovranità (statale) sia rappresentato dallo ius dicere: non è la funzione legislativa il proprium della sovranità - atteso anche l’accoglimento del policentrismo legislativo su base territoriale (8) - quanto proprio la funzione di giudicare, che attua la volontà dell’ordinamento nel caso concreto. Alla base di tale soluzione può essere vista tanto la reazione alle pluralità di giurisdizioni, oltre che di regimi giuridici, degli stati pre-unitari, che inevitabilmente finivano per indebolire l’autorità dello Stato, quanto una sorta di “naturale kelsenismo” di costituenti ed interpreti, per i quali l’unità dell’ordinamento si compie, fondamentalmente, nella giurisdizione (9): solo essa riconduce ad unità i diversi gradini della piramide normativa, partecipando - ad essere rigorosamente kelseniani - della stessa natura della normazione. In ogni caso, soltanto nella pronuncia giurisdizionale le diverse fonti dell’ordinamento si compongono tra loro in modo da consentire l’elaborazione della “regola del caso concreto”, dando un senso a tutto il processo che dalla Costituzione viene dipanandosi verso i concreti casi della vita e consentendo allo Stato di manifestarsi concretamente con la sua signoria ai consociati (10).
 
 
3. L’esperienza delle Regioni speciali.
 
E’ con riferimento alle Regioni a statuto speciale che abbiamo modo di verificare la presenza di una serie di ipotesi di riconoscimento di un ruolo di qualche rilievo agli enti territoriali nell’organizzazione giudiziaria (11).
In questo senso, si potrebbe, o meglio si sarebbe potuto ragionare, del ruolo regionale in materia giudiziaria come di un elemento che caratterizza, valorizzandola, “la specialità regionale” in Italia (12). Si tratta di una suggestione che è stata probabilmente tenuta presente allorché nel 2001, come vedremo, si è cercato di introdurre con la riforma costituzionale dell’art. 116 Cost. elementi di specialità e di asimmetria anche nell’ordinamento delle Regioni ordinarie.
Ciononostante – è bene precisarlo subito – anche nel caso delle Regioni ad autonomia differenziata valgono le considerazioni di un’esperienza concreta complessiva tesa a smorzare, piuttosto che ad accentuare, la “diversità” di queste: la vis actractiva della tradizione è stata prevalente e delle potenziali diversità non è rimasto, a mio giudizio, effettivamente molto.
 
 
3.1. La Sicilia
 
Tra le Regioni speciali, sicuramente quella che maggiormente ha attirato l’attenzione degli interpreti e che per questa ragione merita di essere richiamata per prima è la Sicilia. In ragione dei ben noti problemi di coordinamento con la (successiva) Costituzione repubblicana, la disciplina dello statuto siciliano del 1946 presenta talune soluzioni originali ed allo stesso tempo problematiche nella materia che qui interessa.
Si tratta, o meglio si trattava, innanzitutto della previsione di un vero e proprio sistema di giustizia costituzionale autonomo per la Regione (13), ad opera di un organo – l’Alta Corte per la Regione siciliana – avente sede in Roma e pariteticamente composta da rappresentanti regionali e statali.
In secondo luogo, l’art. 23 dello statuto prevede che “gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione”.
Sul primo tema, va rilevato come la previsione di un organo di giurisdizione costituzionale ad hoc per la Regione siciliana sia stato immediatamente percepito come un elemento assolutamente eccentrico ed eccezionale rispetto al sistema di giustizia costituzionale generale delineato dalla Costituzione italiana. Di qui, il suo smantellamento progressivo ad opera della Corte costituzionale, una volta che questa ha concretamente iniziato ad operare. Come è noto, nella sentenza n. 38 del 1958 (14), la Corte costituzionale ha ritenuto assorbito nella propria competenza il sindacato giurisdizionale su leggi statali e regionali che l’Alta Corte aveva in precedenza esercitato e ciò in forza della affermata abrogazione delle disposizioni statutarie ad opera della Costituzione cronologicamente posteriore.
La puntuale incompatibilità-contrasto tra disposizioni statutarie e disposizioni costituzionali successive ed inoltre – ma forse prima ancora – la difficile riconducibilità di un modello derogatorio di giustizia costituzionale come quello siciliano a quello degli articoli 134 e seguenti della Legge fondamentale (da ritenersi, evidentemente, principio supremo non derogabile dell’ordinamento costituzionale) possono anche fornire una sufficiente giustificazione della decisione assunta nel 1958 dalla Corte (15).
Meno giustificabile, da un punto di vista logico-sistematico, e maggiormente espressiva dell’impostazione restrittiva in materia di competenze giurisdizionali regionali appare la sentenza n. 6 del 1970 (16), con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della residua competenza di quel fantasma che era divenuto l’Alta Corte, ovvero la potestà di giudicare dei reati compiuti dal Presidente e dagli Assessori regionali. Non è questa la sede per soffermarsi sulla natura della decisione, vale a dire una vera e propria dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 26 del regio decreto legislativo luogotenenziale n. 455 del 1946, e sul révirement nell’occasione compiuto dalla Corte rispetto al precedente del 1958 (17). Va qui sottolineata, invece, la nettezza dell’affermazione di incompatibilità di una competenza giudiziaria (in materia penale) in capo alla Regione (o meglio ad un organo misto Stato-Regione previsto dallo statuto regionale), nonostante la natura statutaria delle disposizioni che la fondavano e l’assenza di identiche competenze della Corte costituzionale.
            Limitatamente a questa competenza, si sarebbe potuto ragionare in termini di specialità del sistema statutario rispetto a quello generale, senza timore di arrecare lesioni al principio di unicità giurisdizionale costituzionale, ma evidentemente la Corte ha ritenuto che l’unicità della giurisdizione penale (si badi non costituzionale) assumesse anch’essa carattere di principio fondamentale non derogabile dell’ordinamento costituzionale.
Anche la vicenda relativa all’attuazione dell’art. 23 dello Statuto ed all’istituzione di “Sezioni regionali” degli organi giurisdizionali centrali non consente, alla luce dell’interpretazione storicamente invalsa, di ragionare in termini di “Giudici regionali”, ma più semplicemente di un’articolazione regionale specifica per la Sicilia degli organi giurisdizionali centrali (ma il problema si è concretamente posto solo per Consiglio di Stato e Corte dei Conti, non avendo la Corte di Cassazione mai proceduto in tal senso).
E’ il caso di segnalare come un’impressione diversa si potrebbe trarre dalle norme di attuazione dello statuto, le quali (18) hanno costruito il Consiglio di Giustizia amministrativa (19) come un organo a composizione mista, parte dei componenti del quale (due su cinque per ogni collegio giudicante) sono designati dal Presidente della Regione siciliana (20) (21). La Corte costituzionale ha respinto recentemente questioni di legittimità costituzionale su tale previsione contenuta nelle norme di attuazione, ritenendo che tale composizione mista del Consiglio di Giustizia amministrativa rispecchi i contenuti profondi della tradizione autonomistica siciliana in tema di giustizia amministrativa (sent. n. 316 del 2004 (22)).
Al di là della considerazione che la “tradizione autonomistica” non pare, di per sé, argomento risolutore dei dubbi di legittimità costituzionale della normativa di attuazione dello statuto rispetto alla previsione dell’art. 23 dello statuto stesso (23), non dovrebbero sfuggire due circostanze: di fronte alla concreta disciplina del Consiglio di Giustizia Amministrativa dettata dalla normativa di attuazione statutaria, non sembra potersi parlare di giudice regionale, attesa la componente maggioritaria di componenti statali in ogni collegio giudicante (24).
In secondo luogo, se si esamina il procedimento per la nomina dei componenti di derivazione regionale (25) ci si rende conto che la regionalità degli stessi appare piuttosto discutibile e, comunque, debole (26): va sottolineato, in particolare, il peso e l’autorevolezza che il parere del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa riveste nel procedimento, nonché l’intervento di un ulteriore livello decisionale - rispetto a quello del Consiglio dei ministri integrato dal Presidente della Regione siciliana - rappresentato dal Presidente della Repubblica, in grado quanto meno di proiettare nel procedimento in esame ulteriori interessi ed esigenze che trascendono la dimensione regionale (27).
Ad ancora minori questioni dà adito il decentramento della Corte dei Conti per la regione siciliana, trattandosi di mera istituzione di una sezione regionale, composta esclusivamente da magistrati della Corte designati dall’organo di auto-governo della Corte dei Conti stessa, così come peraltro si è deciso di fare per tutte le altre Regioni (28).
Conclusivamente sul punto, sembra che anche per la Regione “più speciale tra le speciali”, i margini di allontanamento rispetto al modello di esclusiva spettanza statualistica della funzione giurisdizionale siano notevolmente ristretti. Come si è cercato di evidenziare, ciò appare macroscopicamente evidente nella vicenda dell’Alta Corte per la Regione siciliana, mentre la carica derogatoria della composizione mista del Consiglio di Giustizia amministrativa appare più apparente che reale.
 
 
3.2. La Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste
 
La reductio e la semplificazione in senso unitario della disciplina costituzionale contenuta negli statuti speciali appare particolarmente evidente nel caso della Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, il cui statuto di autonomia prevede all’articolo 41 la competenza del Presidente della Giunta a nominare, revocare, dispensare e dichiarare la decadenza dei Giudici conciliatori. Si tratta di una delle possibili tecniche di valorizzazione del ruolo regionale in materia giudiziaria (e più precisamente di ordinamento giudiziario): prevedere un ruolo attivo degli organi regionali per la cosiddetta “giustizia minore”, quale era quella attribuita alla competenza dei giudici conciliatori.
Anche in questo caso, tuttavia, occorre guardarsi da una lettura “estremizzante” della disposizione richiamata: l’art. 41 prevede, infatti, che tale competenza sia esercitata dal Presidente della Giunta “in virtù di delegazione del Presidente della Repubblica” ed, inoltre, “osservate le altre norme stabilite dall’ordinamento giudiziario”. Quest’ultima previsione, in particolare, sembrerebbe imporre un intervento del Consiglio superiore della magistratura nei procedimenti di nomina e, soprattutto, di revoca, dispensa e decadenza dei Giudici conciliatori, restando assicurata in questo modo la garanzia dell’indipendenza del Giudice rispetto ad altri poteri dello Stato. In questo modo, l’attribuzione in capo al Presidente della Giunta regionale di un potere sostanziale di decisione, o di compartecipazione, alla decisione sull’investitura o la rimozione di titolari di potestà giurisdizionale sembrava suscettibile di essere ricondotta ad un’interpretazione in grado di smussarne gli elementi di attrito con il modello costituzionale generale di rapporti tra potere esecutivo e giudiziario.
Ciò che è però da sottolineare, ai fini dell’analisi qui condotta, è la sostanziale abrogazione in via interpretativa di tale disposizione ad opera della Corte costituzionale, la quale, pronunciandosi sulla legge statale 21 novembre 1991, n. 374, istitutiva del Giudice di pace, come giudice operante su tutto il territorio nazionale, ha ritenuto - con un’argomentazione che pare logicamente inversa a quella della successiva, ma già richiamata, sentenza n. 316 del 2004 sul caso siciliano - che le tradizioni di autonomia previste dallo Statuto in materia di organizzazione giudiziaria siano recessive rispetto all’istituzione di una nuova figura di giudice, quale appunto il Giudice di pace, più avanzato rispetto al giudice conciliatore valdostano dal punto di vista dell’ordinamento delle competenze e della salvaguardia del principio di indipendenza rispetto ai possibili condizionamenti da parte di altri poteri dello Stato. L’esito del giudizio deciso con la sentenza n. 150 del 1993 (29) è stato, quindi, quello di rilevare la sopravvenuta inoperatività (la Corte rigetta l’uso della nozione di abrogazione) di una norma statutaria, in forza di una diversa disciplina legislativa ordinaria, con la conseguente pratica scomparsa della figura di un giudice previsto e disciplinato dallo statuto speciale.
Mi sembra che l’effetto uniformante della concezione monistica statale della spettanza della funzione giudiziaria abbia raggiunto in questo caso un suo picco storico, assistendosi non già ad un’opzione interpretativa consentita da norme caratterizzate da un’intrinseca ambiguità ma ad una vera e propria disapplicazione integrale, in via interpretativa, di una norma contenuta in una fonte di rango costituzionale (30).
Un recupero di ruolo del Presidente della giunta regionale valdostana è stato successivamente realizzato grazie all’art. 13 della legge statale 24 novembre 1999, n. 468 che, novellando l’articolo 40 della legge n. 374 del 1991, attribuisce allo stesso un potere di proposta nei procedimenti relativi alla nomina, alla decadenza, alla dispensa, ammonimento, censura e revoca dei Giudici di pace nella Regione. Viene mantenuta tuttavia ferma la previsione in base alla quale il potere decisorio in ordine a tali provvedimenti resta in capo al Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio superiore della magistratura e nel rispetto delle norme dell’ordinamento giudiziario e della legge n. 374 del 1991.
La soluzione dettata dal legislatore del 1999 ed estesa alla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste può dirsi sicuramente più soddisfacente di quella statutaria, sotto il punto di vista della salvaguardia del principio di separazione dei poteri e di garanzia dell’indipendenza del Giudice. Ciò non toglie, tuttavia, che la discrasia rispetto alla previsione statutaria permanga. Come si è anticipato, si tratta di una discrasia che poteva essere superata in via interpretativa, attraverso una definizione del carattere vincolante delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura in tema di Giudici onorari (conciliatori o di pace) valdostani, ferma restando la competenza in capo al Presidente della giunta regionale ad adottare i provvedimenti relativi allo stato giuridico di tali magistrati onorari.
 
 
3.3. Il Trentino Alto Adige/Südtirol
 
Attualmente, l’ipotesi di maggiore valorizzazione del ruolo di una Regione speciale nella materia della giurisdizione si ha nel caso del Trentino-Alto Adige/Südtirol.
Non ci si riferisce, in questa sede, all’uso della lingua nel processo: come è noto l’articolo 99 dello statuto parifica la lingua tedesca a quella italiana nella Regione, anche nei rapporti con gli uffici giudiziari. Si tratta di una parificazione direttamente disposta dalla norma costituzionale ed, in questo senso, essa non istituisce competenze in capo alla Regione ed a suoi organi.
Non mi riferisco neanche alla normativa di attuazione dell’art. 90 dello statuto (ovvero al d.P.R. 6 aprile 1984, n. 426), per la parte relativa all’istituzione di una Sezione del Tribunale amministrativo regionale competente per la Provincia di Trento: l’articolo 1 delle suddette norme, svolgendo l’anodina previsione della disposizione statutaria (31), prevede che i collegi giudicanti di tale Sezione vedano la presenza di un componente (su tre complessivi) designato dal Consiglio provinciale di Trento, secondo una procedura che vede la nomina del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, analogamente al modello che abbiamo già considerato per il Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana (32).
Si possono richiamare, quindi, le considerazioni svolte a quel proposito sul carattere “debole” del modello organizzativo prescelto, dal punto di vista della presenza della Provincia autonoma nell’organo. Va peraltro anche rilevato che, nel caso della Provincia autonoma di Trento, l’organo giudicante disciplinato è organo di primo grado, restando intatta la competenza del Consiglio di Stato, in grado di appello e che, inoltre, dalla sopra ricordata disposizione statutaria sarebbe difficile ricavare ipotesi di valorizzazione ulteriore della componente provinciale nella composizione dell’organo giudicante avente sede a Trento.
La disciplina sulla quale si dovrebbe concentrare l’attenzione è, invece, quella dettata dall’articolo 2 delle norme di attuazione contenute nel d.P.R. n. 426 del 1984 sulla composizione della Sezione di Bolzano del Tribunale Amministrativo Regionale (33): si prevede, infatti, che metà dei componenti siano nominati dal Consiglio provinciale di Bolzano tra appartenenti a svariate categorie, anche se la nomina è formalizzata con decreto del Presidente della Repubblica. La mancata previsione della deliberazione del Consiglio dei ministri (secondo quanto previsto nel caso della Provincia di Trento) va presumibilmente intesa come un voluto rafforzamento del ruolo della deliberazione dell’ente provinciale in ordine alla metà dei componenti del collegio, fatta salva sempre una estrema clausola di tutela per lo Stato, grazie al meccanismo della nomina effettuata con decreto del Presidente della Repubblica.
Tralasciando le disposizioni sull’equilibrio tra le componenti linguistiche italiana e tedesca nelle nomine, va segnalata ancora la previsione della necessaria intesa con il Consiglio provinciale per i provvedimenti incidenti sullo stato giuridico dei magistrati della Sezione di Bolzano (34).
Non pochi dubbi di legittimità costituzionale possono essere avanzati nei confronti di tale disposizione. Si può dubitare, infatti, della compatibilità con il principio di separazione tra i poteri di una previsione la quale non appare necessaria a salvaguardare il collegamento con la collettività territoriale dell’organo giudiziario in esame, già assicurato dalle sopra ricordate modalità di nomina, e che introduce, invece, elementi di condizionamento politico in ordine all’esercizio dei poteri lato sensu disciplinari, secondo una formulazione ingiustificatamente più intensa di quella, ad esempio, già considerata a proposito dell’ordinamento valdostano.
Un’incidenza, ancorché di ridotta portata, della Provincia autonoma di Bolzano si ha anche in ordine alla necessaria nomina di due Consiglieri di Stato appartenenti al gruppo di lingua tedesca, nominati previo assenso del Consiglio provinciale. Uno di essi dovrà essere presente nel collegio che provvede a decisioni di appello relative a sentenze della Sezione autonoma di Bolzano del Tribunale Amministrativo Regionale (35).
A completare il quadro, vi è l’articolo 6 delle norme di attuazione del d. lgs. n. 267 del 1992, che ha evitato alla Regione Trentino–Alto Adige/Südtirol di incorrere nella “sterilizzazione” delle competenze in ordine alla nomina dei giudici conciliatori già vista per la Regione Valle d’Aosta. Tale disposizione converte, infatti, le competenze statutarie relative alla nomina, decadenza, revoca e dispensa dei giudici conciliatori previste in capo al Presidente della Giunta regionale dall’art. 94 dello Statuto (36) in una potere di proposta del Presidente regionale al Presidente della Repubblica dei relativi provvedimenti “osservate le altre norme in materia stabilite dall’ordinamento giudiziario”. Tale meccanismo è sostanzialmente confermato per il procedimento di nomina dei giudici di pace dal già ricordato art. 13 della legge n. 468 del 1999.
E’ il caso di notare come il “prezzo” per salvare il coinvolgimento del Presidente della Giunta nel procedimento di conferimento degli incarichi di Giudice, conciliatore prima e di pace poi, sia stato, in questo caso, la degradazione del potere di nomina, ancorché in virtù di delegazione del Presidente della Repubblica, in potere di proposta. Anche in questo caso il superamento della disposizione statutaria pare indubbio, tanto più che le apprezzabili esigenze di salvaguardia dell’indipendenza dei Giudici onorari in tema di decadenza, revoca e dispensa potevano dirsi comunque assicurate dal riferimento all’osservanza delle norme “stabilite dall’ordinamento giudiziario” presente nell’art. 94 dello statuto, ritenendosi quindi implicitamente richiamata, per tali casi, la necessaria deliberazione del Consiglio superiore della magistratura.
In questa ultima parte, relativa al procedimento di decadenza, revoca e dispensa, la disposizione in esame si pone, comunque, quale auspicabile modello al quale ricondurre la disciplina applicabile alla Sezione di Bolzano del Tribunale amministrativo regionale (37). 
 
 
4. Le Regioni a statuto ordinario anteriormente alla riforma del 2001.
 
L’esposizione sin qui svolta dovrebbe aver chiarito come negli ordinamenti delle Regioni ad autonomia speciale la competenza regionale in tema di organizzazione ed esercizio della funzione giurisdizionale non si sia caratterizzata per soluzioni che permettano di affermare la “regionalità” di segmenti dell’ordine giudiziario.
L’analisi della disciplina costituzionale per le Regioni ad autonomia ordinaria ribadisce e rafforza tale giudizio, potendosi, con riferimento ad esse, percepire in modo ancora più sensibile ed evidente l’impostazione culturale di fondo che ha portato a sciogliere ogni incertezza interpretativa, ogni margine di ambiguità del testo costituzionale in senso favorevole all’unità e centralità del potere giudiziario.
Ne costituisce una riprova l’assenza di sviluppi significativi della previsione dell’art. 106, secondo comma, Cost. in base al quale la legge sull’ordinamento giudiziario avrebbe potuto introdurre “la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”. La disposizione, in astratto, nella sua ampia formulazione, sembrerebbe consentire anche sistemi elettivi di secondo grado di tali figure da parte degli enti territoriali - salva ovviamente la necessaria salvaguardia dell’indipendenza, oltre che della professionalità, dei giudici così nominati – e, quindi, la creazione di un corpo di giudici di derivazione regionale o sub-regionale. Negli anni in cui maggiore è stato il dibattito su tale disposizione (e cioè negli anni ’70 del secolo scorso) non è stata questa, tuttavia, l’ipotesi maggiormente approfondita, facendosi piuttosto leva sulla norma costituzionale per auspicare un più diretto collegamento tra funzione giurisdizionale ed articolazioni della società civile, cercando, così, di attenuare la statualità della giurisdizione rispetto alla società e non già la statualità rispetto agli enti territoriali (38).
E’ appena il caso di segnalare l’accantonamento finale di queste suggestioni allorché, con la legge n. 374 del 1991, istitutiva del Giudice di pace, la via di reclutamento prescelta per questa figura è stata un’altra, saldamente inserita nella struttura dello Stato-persona e con esclusione di qualsiasi coinvolgimento degli enti territoriali (39).
Un secondo estremamente significativo elemento di conferma del “verso” di implementazione delle prescrizioni costituzionali è rappresentato dall’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali di cui all’articolo 125 Cost. Troncando decisamente il dibattito sulla natura dei suddetti organi giudiziari (40), la legge istitutiva del 1971 ha configurato gli stessi come tribunali statali a circoscrizione territoriale regionale: una scelta pienamente consentita dal testo costituzionale, ma sicuramente non l’unica possibile e quindi affermatasi, nella sua nettezza, in base ad un’opzione di valori ben precisa (41).
La prudenza con la quale la legislazione guarda al coinvolgimento degli enti territoriali nelle decisioni relative all’ordinamento giudiziario mi sembra trovi una sua recente conferma nella già menzionata disciplina di riforma dell’ordinamento giudiziario, la quale, ridisegnando la composizione dei Consigli giudiziari locali, ha aumentato il numero dei componenti di questi non appartenenti all’ordine giudiziario(42) e, soprattutto, per quanto a noi interessa, ha previsto che due di tali componenti siano eletti (a maggioranza qualificata) dai Consigli regionali tra persone estranee al Consiglio medesimo (art. 2, comma 3, lettere f) e g) della legge). La disposizione in esame ha, tuttavia, al contempo limitato abbastanza rigorosamente il tipo di deliberazioni ai quali i componenti di derivazione regionale possono partecipare, con esclusione di quelle incidenti sullo stato giuridico dei singoli magistrati (art. 2, comma 3, lettera u) della legge) (43).
Anche la possibilità di integrare le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti con due componenti esperti in materie “aziendalistiche, economiche, finanziarie, giuridiche e contabili” designati dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali (44), previsto dall’art. 7, comma 9, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (45), non pare in grado di mettere seriamente in discussione la natura statale delle suddette sezioni. E’ evidente, peraltro, come in questo caso si esuli dalla materia dell’esercizio della giurisdizione in senso proprio, riferendosi la previsione alla distinta funzione del controllo, nelle sue diverse articolazioni previste dal comma 7 dell’articolo considerato.
Le coordinate essenziali della disciplina costituzionale del potere giudiziario in relazione agli enti regionali sono però rappresentate dall’esplicita riserva di legge statale in materia di ordinamento giudiziario posta dal primo comma dell’art. 108 Cost. e dall’implicita riserva di legge statale in materia di disciplina processuale desunta dal sistema costituzionale di ripartizione delle competenze tra Stato e Regione nel suo complesso (46).
Si tratta di due assunti entrambi pacifici nella giurisprudenza costituzionale italiana, mentre nella dottrina il secondo di questi è stato sottoposto frequentemente a critiche, anteriormente alla riforma costituzionale dell’anno 2001.
Nessun dubbio, infatti, che l’articolo 108 della Costituzione riservi al legislatore statale la disciplina dello status dei magistrati, specificando tale previsione la configurazione in termini unitari sul territorio nazionale dell’ordine giudiziario (articoli 102, 105 106, 107 e 108 della Costituzione) (47). Solo in alcune più recenti sentenze, la Corte costituzionale ha operato alcune distinzioni all’interno della riserva ex art. 108 Cost., ammettendo la legittimità di interventi regionali in materia di incarichi ai magistrati, purché estranei ai loro compiti di istituto (48).
Più dibattuta appare la questione in ordine alla possibilità per le Regioni di dettare norme di diritto processuale, ovvero norme che incidano sull’esercizio della funzione giurisdizionale. Anche in questo caso, una costante giurisprudenza costituzionale - che ha i suoi estremi temporali tra la sentenza n. 4 del 1956 (49) e la sentenza n. 352 del 2001 (50), anteriormente alla riforma del 2001 (che, come vedremo tra breve, modifica i termini della questione) - ha escluso la legittimità di ogni intervento regionale al riguardo, sulla base di un argomento essenzialmente “negativo”: la mancata esplicitazione in Costituzione di attribuzioni normative in materia giurisdizionale alle Regioni.
Va però ricordato come vivaci critiche siano state sollevate nel tempo nei confronti di tale giurisprudenza da parte degli interpreti (51), sulla base di diverse considerazioni ricostruttive facenti soprattutto leva sulla circostanza che le norme processuali non si prestano ad essere considerate come una materia in senso tecnico, assoggettate alla regola dell’enumerazione dell’art. 117 Cost nella sua vecchia formulazione: esse costituirebbero, invece, un modo di disciplina che accederebbe alle singole materie sostanziali, come normazione accessoria della stessa.
 
 
5. La riforma del 2001: un passo avanti e due indietro.
 
La riforma costituzionale del 2001 si inserisce in questo dibattito in modo non perfettamente coordinato. Essa, in via di principio, è suscettibile di talune valorizzazioni delle competenze regionali in materia di giustizia (52), ma comporta anche netti arretramenti rispetto alla disciplina costituzionale anteriore. Dal punto di vista pratico, tuttavia, e la circostanza probabilmente non è casuale, essa non ha portato ad alcun ampliamento delle competenze regionali. In altri termini, le previsioni restrittive della competenza regionale hanno trovato attuazione, mentre quelle ampliative non hanno avuto seguito.
A tale ultima categoria appartiene la previsione del terzo comma dell’art. 116 che consente, l’attivazione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” a favore della competenza legislativa regionale nella materia della organizzazione della giustizia di pace.
La disposizione si segnala per le sue potenzialità di valorizzazione del ruolo del legislatore regionale (53), pur restando dubbio il confine di tale possibile intervento. A questo proposito, se si ritiene che la riserva di legge ex art. 106, secondo comma, Cost. (in tema di procedure di nomina dei magistrati onorari), in quanto riserva che rinvia alla legge sull’ordinamento giudiziario, operi quale riserva di legge statale, ne consegue che è sottratta alla capacità di intervento del legislatore regionale la disciplina dei requisiti per la nomina a giudice di pace, nonché del procedimento di nomina stesso. L’oggetto del possibile intervento dei legislatori locali potrebbe essere, quindi, quello – meno ambizioso, ma non necessariamente secondario e marginale - della distribuzione territoriale delle sedi e degli uffici dei giudici, nonché dell’organizzazione degli uffici di supporto dei giudici stessi.
La via italiana alla realizzazione di un “regionalismo asimmetrico” attraverso la previsione del terzo comma dell’art. 116 Cost., che pure aveva suscitato perplessità in alcuni commentatori (54) è rimasta comunque allo stato priva di concreto seguito: nessun tentativo di attuazione legislativa della disposizione è stato operato nella XIV Legislatura repubblicana, mentre, anzi, nella legge di revisione costituzionale della Parte II della Costituzione pubblicata, ai sensi del secondo comma dell’art. 138 Cost., nella Gazzetta Ufficiale del 18 novembre 2005, n. 269 e sottoposta a referendum popolare ai sensi del medesimo art. 138 Cost. (55), la stessa disposizione costituzionale che fonda le ipotesi di regionalismo asimmetrico viene cancellata (56).
Nel senso di un arretramento rispetto alla situazione anteriore alla riforma, va segnalato come il legislatore di revisione costituzionale del 2001 abbia esplicitamente menzionato la giurisdizione e le norme processuali (nonché la giustizia amministrativa) tra le materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato e rispetto alle quali è da ritenere precluso, pertanto, ogni possibile intervento legislativo regionale (art. 117, secondo comma, lettera l) Cost) (57).
Sembrano così frustrate le speranze dottrinali circa un’evoluzione della giurisprudenza costituzionale tale da consentire un ruolo quantomeno integrativo ed accessorio delle Regioni in materia giudiziaria. Quello che è da sottolineare è che ciò avviene non soltanto per quegli oggetti per i quali più arduo risultava identificare spazi di intervento regionale - e cioè per la disciplina organizzativa che ruota intorno all’esercizio della giurisdizione ed, in primis, per la disciplina dell’ordinamento giudiziario - ma anche per ciò che concerne la possibilità di dettare norme processuali integrative ed accessorie di quelle statali. In questo caso, addirittura, la riforma sembra aver tolto alla dottrina maggiormente impegnata a riconoscere un ambito di intervento regionale lo stesso terreno sul quale impostare la propria riflessione!
Ad avere il sopravvento sembra essere stata, ancora una volta, la forza di una tradizione culturale profonda che tende ad identificare statualità e giurisdizione in tutti i suoi aspetti.
Per completezza è appena il caso di aggiungere che non vale ad alterare il quadro sin qui tracciato, la possibilità da parte degli statuti regionali ordinari di istituire collegi di garanzia statutaria, chiamati a pronunciarsi, anche su richiesta di minoranze qualificate di componenti del Consiglio regionale, su questioni interpretative degli statuti, su conflitti tra gli organi fondamentali della Regione o su eventuali contrasti delle fonti subordinate regionali rispetto allo statuto (58). La Corte costituzionale, infatti, ha ammesso la legittimità del ricorso da parte degli statuti regionali a tali soluzioni organizzative, precisando, comunque, la loro completa diversità e non assimilabilità a organi giudiziari (59): si tratta, infatti, di organi consultivi e provvisti di funzioni latamente conciliatorie che non sono in grado di incidere, caducandolo od anche soltanto aggravandolo. sul procedimento legislativo regionale (60).
 
 
6. La partecipazione delle Regioni alla giurisdizione costituzionale.
 
Il presente lavoro ha ad oggetto le forme attraverso le quali Regioni e le Province autonome italiane partecipano alla funzione giurisdizionale ed incidono sull’organizzazione del potere giudiziario. Facendo leva sulla concezione giudiziaria della garanzia costituzionale ed identificando nella Corte costituzionale il “giudice” naturale chiamato ad assicurare tale garanzia (61), si può estendere alla stessa Corte la nostra analisi.
            Si tratta, come è evidente, di un’analisi che si arresta immediatamente dinanzi alla constatazione che la nostra Costituzione ha scelto di non dettare un criterio di composizione del Giudice di costituzionalità collegato alla natura regionale dello Stato (62). Anche in questo caso trova in modo netto dimostrazione la volontà del Costituente di tenere distinta la dimensione dell’ordinamento regionale (legislativo ed amministrativo) da quello della giurisdizione, intesa nella sua più ampia estensione e comprensiva della risoluzione attraverso procedimenti giurisdizionali delle questioni di costituzionalità (63).
La riforma costituzionale del 2001 non ha toccato, del resto, questa parte del testo costituzionale e ciò è con tutta probabilità da mettere in collegamento con la mancata trasformazione del Senato in Senato federale, in qualche modo rappresentativo delle Regioni (64).
            Un riforma della composizione della Corte costituzionale, con la previsione dell’elezione di quattro giudici da parte del Senato federale, integrato dai Presidenti delle Giunte regionali e delle Province autonome, è contenuta, invece, nella già ricordata legge di revisione costituzionale della parte II della Costituzione approvata nella XIV Legislatura e sottoposta a referendum. La soluzione proposta accoglie i rilievi da più parti espressi in sede scientifica circa l’opportunità che i componenti della Corte di derivazione regionale non siano direttamente espressi dalle Regioni ma da un’istanza unitaria – il Senato federale – nella quale si “stemperi” in una dimensione organica l’investitura regionale (65).
            Non si può fare a meno di segnalare, tuttavia, la discutibile scelta del legislatore di revisione costituzionale di spezzare il felice equilibrio disegnato dal vigente art. 135 Cost., tra i diversi soggetti che eleggono o nominano i membri della Corte costituzionale. Nel testo della riforma, infatti, il Senato federale procederebbe all’elezione di un numero di componenti maggiore di ogni altro soggetto legittimato, con rischi di spostamento del baricentro della Corte verso i componenti di derivazione più accentuatamente politica (66).
 
 
7. Considerazioni minime di merito costituzionale nella prospettiva di una valorizzazione delle competenze regionali in materia giudiziaria
 
Nella trattazione sin qui condotta si è cercato di mantenere un atteggiamento quanto più possibile avalutativo rispetto agli argomenti trattati. Tale impostazione sembra richiesta, oltre che da ovvie considerazioni di metodologia scientifica, dalla circostanza, più volte ricordata, che molto spesso le disposizioni di rango costituzionale trattate non si presentano in termini assolutamente univoci, aprendosi ad una molteplicità di differenziate e graduate attuazioni, da parte delle norme subordinate. La stessa rilevazione di un atteggiamento culturale di fondo a favore della statualità della giurisdizione e dell’organizzazione giudiziaria va considerata in modo oggettivo, in quanto si inserisce in spazi aperti del sistema normativo, orientandolo secondo una delle possibilità consentite.
Vorrei concludere esprimendo alcune osservazioni estremamente sintetiche che si collocano dichiaratamente, invece, nella prospettiva dell’opportunità costituzionale e, quindi, risentono di considerazioni di merito.
Va premesso che nessuna conclusione necessitata mi sembra debba trarsi, in ordine al tema trattato, dalla qualificazione regionale o federale dello Stato: il diritto comparato dimostra una tale varietà di soluzioni in ordine al rapporto tra funzione giurisdizionale e forma di stato da non consentire alcuna rigidità interpretativa (67).
Fatta questa precisazione, mi sembra che vadano tenute nettamente distinte le ipotesi di valorizzazione delle competenze regionali in materie accessorie a quelle del processo e dell’organizzazione giudiziaria da quelle di diretto coinvolgimento degli enti territoriali nella disciplina processuale e dell’organizzazione giudiziaria, con particolare riferimento allo status dei magistrati.
Nel primo caso, una diversificazione su base territoriale di discipline accessorie al processo, al fine di realizzare un adattamento della generale normativa codicistica a situazioni particolari, non sembra arrecare gravi rischi alla certezza del diritto. In questa prospettiva, la possibilità per una Regione di prevedere per talune forme di controversie tentativi obbligatori (e non vincolanti) di conciliazione o forme di Alternative Despute Resolutions (ADR) non previste nel codice di procedura civile - a condizione che non precludano il diritto di azione in giudizio - ovvero forme di notificazione alternative – e più moderne – rispetto a quelle disciplinate dal codice di rito (68), fino ad arrivare alla stessa possibilità di dettare le regole di distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari non sembra di per sé dirompente per l’unità del sistema e soprattutto non sembra mettere in discussione i capisaldi costituzionali che sovrintendono al fenomeno processuale, primo tra tutti il diritto del singolo di azione e difesa nel giudizio (art. 24 Cost.), oggi ulteriormente specificato, nel caso italiano, dal principio del giusto processo (art. 111 Cost.) (69).
Si tratta, peraltro, di interventi che mi paiono compatibili con la formulazione vigente dell’art. 117, secondo comma, lett. l) dell’art. 117 Cost., proprio perché si pongono in una fase logicamente, se non anche cronologicamente, esterna rispetto allo svolgimento della giurisdizione in senso proprio.
Ad uno scrutinio stretto di compatibilità con le garanzie costituzionali del diritto di azione e difesa in giudizio e con i principi del giusto processo dovrebbero essere sottoposti, invece, eventuali interventi del legislatore regionale sulla disciplina processuale in senso stretto: la variazione delle regole di competenza del giudice (70) e, più in generale, tutte le misure che incidono sullo status ed i poteri delle parti del processo si presentano in grado di introdurre modalità differenziate di fruizione della tutela giurisdizionale.
In ogni caso, come si è visto in precedenza, la riserva alla competenza esclusiva statale della legislazione in materia di giurisdizione e giustizia amministrativa da parte della riforma costituzionale del 2001 ha di molto ridotto il rilievo pratico del problema, che sembra piuttosto destinato a porsi in una prospettiva de iure condendo, collegata, in particolare, alla possibile attuazione dell’articolo 116, terzo comma, Cost. sul regionalismo asimmetrico, limitatamente ai Giudici di pace.
L’ipotesi che, secondo chi scrive, anche in una prospettiva riformatrice della Costituzione, va valutata con la massima prudenza è quella dell’ampliamento delle competenze regionali in materia di ordinamento giudiziario (71). Appare facile in questo ambito rompere il delicato cristallo della garanzia della terzietà ed indipendenza del giudice, consentendo l’inserimento di elementi legati al circuito della rappresentanza politica od anche degli interessi organizzati, tanto più in situazioni nelle quali segmenti della rappresentanza politica assumono una posizione ostile nei confronti della giurisdizione, ora in quanto la giurisdizione viene vista come il baluardo della statualità unitaria più difficile, ma anche ultimo, da espugnare, ora in nome di una contrapposizione tra politica e magistratura che vorrebbe la prima sottratta alle regole dello stato di diritto.
L’assenza fino ad oggi di criticità significative nell’esperienza italiana non deve ingannare: a scongiurare possibili contrapposizioni tra Stato e Regioni ha contribuito la debolezza intrinseca e la lettura riduttiva delle disposizioni statutarie sin qui invalsa. Andando alla ricerca di un dato ancora più strutturale, va menzionata l’omogeneità che per molti decenni ha caratterizzato i rapporti tra il livello politico nazionale e quello regionale, ovvero, in altri termini, la presenza di partiti politici nazionali fortemente centralizzati che hanno reso priva di senso ed utilità una conflittualità sulla giurisdizione (72). Nel caso dell’Alto Adige, in cui questa omogeneità era meno presente, la compensazione e l’accordo è stato raggiunto su altri piani, quello finanziario soprattutto.
Ovviamente, nulla garantisce che tale situazione sia destinata a perpetuarsi per il futuro. Proprio le disposizioni dello statuto e, soprattutto, delle norme di attuazione, del Trentino Alto Adige, in ordine alla composizione della Sezione di Bolzano del Tribunale Amministrativo Regionale od anche il d.d.l. di riforma dello statuto siciliano devono far riflettere: ipotesi di composizione paritaria di organi giudicanti tra Stato e Provincia (o, generalizzando, tra Stato e Regione) così come il riconoscimento di poteri di governo in ordine allo status di giudici (impropriamente definiti come) minori in capo alle Regioni ed enti assimilati sono in grado di aprire scenari di non semplice soluzione in caso di conflittualità accentuata tra Stato e Regioni, ovvero tra politica e giurisdizione.
Per queste ragioni ogni tentativo di far leva sulla materia dell’ordinamento giudiziario per recuperare rilievo costituzionale alle Regioni continua a suscitare in me una non sopprimibile preoccupazione.
 
 
NOTE
 
(1) L’unificazione della materia penale (oltre che della giurisdizione elettorale e disciplinare sui magistrati) presso la Cassazione romana era già stata realizzata nel 1880.
(2) Legge 24 marzo 1923, n. 601. Lo “spirito dei tempi” è efficacemente rappresentato dalle parole pronunciate nell’Aula della Camera dei Deputati dal Ministro Guardasigilli Alfredo Rocco nella tornata del 28 maggio 1925, in occasione della discussione dei disegni di legge relativi alla delega al Governo della facoltà di apporre emendamenti alla legge di pubblica sicurezza, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice civile ed alle leggi sull’ordinamento giudiziario. Il Ministro di Grazia e Giustizia si riferisce specificamente al tema delle giurisdizioni speciali ma i termini del discorso mi sembrano possedere una valenza più ampia:“ Noi abbiamo assistito, onorevoli colleghi, da più di venti o venticinque anni ad un moltiplicarsi delle giurisdizioni speciali, le quali hanno fatto a ritroso il cammino che il Regno d’Italia appena costituito fece con la legge del 1865. Il moltiplicarsi delle giurisdizioni speciali è stato un fenomeno parallelo al disintegrarsi della autorità e della sovranità dello Stato (approvazioni) perché alla unità della sovranità dello Stato deve corrispondere l’unità della giurisdizione (vive approvazioni)“, in A. Rocco, Discorsi parlamentari (con un saggio di G. Vassalli), Roma – Bologna, 2005, 205.
(3) Sull’evoluzione della disciplina legislativa relativa alla Corte di cassazione italiana, cfr. S. Satta, Corte di cassazione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. X, Milano, 1962, 801 ss. ed ivi i frequenti rinvii alla fondamentale opera di P. Calamandrei, La Cassazione civile, I, Torino, 1920.
(4) Secondo la nota definizione dell’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario vigente (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12).
(5) Si veda, a questo proposito, P. Pajardi, Una dimensione regionale per la giustizia, in Quaderni della giustizia, 1985, 9 ss. e F. A. Genovese, Cassazioni regionali e sezioni staccate della Cassazione, in Quaderni della giustizia, 1986, 51 ss.
Per una presa di posizione decisamente critica nei confronti del tentativo di reintrodurre in Italia una pluralità di Corti di cassazione, cfr. G. Ferrari, L’evocazione di un fantasma del passato: la pluralità delle Corti di cassazione, in Scritti in memoria di U. Pioletti, Milano, 1982, 253 ss. Cfr. anche A. Pizzorusso, Ruolo della cassazione e giustizia “regionale”, in Quaderni della giustizia, 1986, 6 ss.
(6) Per un primo commento della riforma, cfr. AA.VV. (a cura di F. Dal Canto - R. Romboli); Contributo al dibattito sull’ordinamento giudiziario, Torino, 2004; AA.VV., La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Foro it., 2006, V, 1 ss. Per osservazioni sul disegno di legge governativo che ha poi dato vita alla legge n. 150 del 2005, cfr. G. Silvestri, I problemi della giustizia italiana fra passato e presente, in Dir. pubbl., 2003, 348 ss.; Id., La riforma dell’ordinamento giudiziario, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), La Magistratura nello Stato costituzionale. Teoria ed esperienze a confronto, Milano, 2004, 3 ss.; Id., L’organizzazione giudiziaria, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, nonché in corso di pubblicazione in Annuario AIC 2004 - Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale; S. Chiarloni, Riforma dell’ordinamento giudiziario, efficienza nell’amministrazione della giustizia, indipendenza della magistratura, in Dir. pubbl., 2003, 353 ss.
(7) Cfr., per tutti G. Silvestri, Funzione giurisdizionale e autonomia regionale, in Riv. it. sc. giur., 1971, 177 ss., secondo il quale “dal collegamento tra la tradizione accentratrice, ereditata dall’amministrazione piemontese, rafforzata ed esasperata dal fascismo, e la concezione del potere giurisdizionale come perno essenziale del potere statuale, sia nata quella preclusione, data quasi per scontata, all’esercizio da parte delle regioni della funzione giurisdizionale” (181); preclusione che, osserva l’A., non si pone sul piano strettamente logico (179). Il concetto è ribadito in Id., Il problema dell’identificazione del “diritto vivente” in una sentenza che ribadisce una consolidata giurisprudenza in tema di competenza sui rapporti processuali (nota a C. cost., sent. n. 767 del 1988), in Giur. cost., 1988, I, 3682.
Sul contenuto e valore essenzialmente politico e non logico della riserva statale della funzione giurisdizionale, in antitesi polemica contro il “pullulare delle giurisdizioni extrastatuali, che ancor nel secolo XVIII aduggiavano la vita sociale ed impacciavano l’economia”, cfr., con antesignana chiarezza e nettezza di posizione, N. Jaeger, La ripartizione dei poteri giurisdizionali in uno stato federale ed il concetto di giurisdizione indiretta (autocrinia), in Studi in onore di Enrico Redenti, nel XL anno del suo insegnamento, I, Milano, 1951, 560.
L’assenza di un nesso necessario tra forma federale o regionale di stato e riconoscimento di competenze costituzionali in materia di ordinamento giudiziario agli enti territoriali decentrati è evidenziata anche da A. Poggi, Revisione della “forma di Stato” e funzione giurisdizionale: una diversa ripartizione di competenze tra Stato e Regioni, in Le Regioni, 1996, 91, nonché in F. Pizzetti (a cura di), Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, Torino, 1996, 274 ss. e da A. D’Aloia, Regioni e giustizia, in www.forumcostituzionale.it.
(8) Sull’accoglimento di tale principio negli ordinamenti federali e regionali, cfr. A. D’Atena, L’impatto del policentrismo legislativo sul sistema delle fonti, ora in Id., L’Italia verso il “federalismo”. Taccuini di viaggio, Milano, 2001, 41 ss. Con particolare riferimento alla diversità di soluzioni concretamente accolte nell’ordinamento italiano per quanto concerne legis latio e legis executio (in via giudiziaria), cfr. G. Silvestri, Funzione giurisdizionale e autonomia regionale, cit., 178 s.
(9) Non è casuale, probabilmente, che la Costituzione austriaca, di cui è nota la derivazione kelseniana, preveda unicamente la giurisdizione federale e non quella degli stati membri, ponendosi in controtendenza rispetto agli altri federalismi storici (art. 82, secondo comma).
(10) Sul punto cfr. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 46 ss.
Sulla funzione unificante che i modelli monisti di articolazione del potere giudiziario (fondati cioè sulla presenza di un solo sistema giudiziario) svolgono nei confronti di ordinamenti complessi, caratterizzati dall’articolazione territoriale del potere legislativo ed esecutivo, cfr. F.G. Pizzetti, Il giudice nell’ordinamento complesso, Milano, 2003, 135 ss.
Una particolareggiata analisi di come i giudici “comuni”, ordinari ed amministrativi fanno applicazione della legislazione regionale nella propria giurisprudenza e, quindi, di come si realizza la saldatura della potestà legislativa regionale nel tessuto sistematico dell’ordinamento giuridico complessivo è compiuta da Q. Camerlengo, La legge regionale nella giurisprudenza comune, in Le Regioni, 2000, 49 ss.
(11) Tanto da superare, forse, i confini del modello monista di forma “quasi-pura” tratteggiato da F.G. Pizzetti, op. ult. cit., 93 con riferimento all’esperienza italiana (nonché spagnola ed austriaca) ed aprirsi verso le forme cosiddette “integrate”, caratterizzate dalla presenza, all’interno dell’ordinamento complesso, di “spezzoni di sistemi giudiziari dello Stato e degli enti territoriali decentrati (ivi, 98 ss.). A tale conclusione potrebbe condurre, ad esempio, la valorizzazione delle competenze di talune Regioni speciali in materia di giudici conciliatori (ora giudici di pace, come si vedrà infra), vale a dire dei giudici più prossimi ai consociati e le competenze dei quali sono, negli ultimi anni, come è noto, progressivamente andate crescendo.
(12) In senso contrario sembra orientato S. Raimondi, Il Consiglio di Giustizia Amministrativa nel disegno di legge costituzionale di revisione dello statuto siciliano, in Dir. pubbl., 2005, 945 ss. il quale scrive di “un principio cardine sancito nella Costituzione del 1948 e conservato dalla riforma del 2001 (legge cost. n. 3), quale è quello della riconduzione ad unità dell’ordinamento della giustizia amministrativa” (955).
(13) Artt. 24 – 30 dello statuto.
(14) In Giur. cost., 1957, 463 ss.
(15) Sul punto, cfr. C. Mortati, Corte costituzionale e Alta Corte per la Regione siciliana, in Giur. cost., 1956, 1251; C. Esposito, Costituzione, legge di revisione della Costituzione e “altre” leggi costituzionali, in Scritti in onore di Carlo Jemolo, Milano, 1962, 208.
(16) In Giur. cost., 1970, 59 ss.
(17) Questi aspetti sono messi in luce da A. D’Atena, Dalla “costituzionalizzazione” alla “dissoluzione” dello statuto siciliano. (Riflessioni sull’elaborazione giurisprudenziale del primo ventennio), in Id., Costituzione e Regioni. Studi, Milano, 1991, 373 ss.
(18) Ci si riferisce al d. lgs. 645 del 1948, sostituito dal d. lgs. 24 dicembre 2003, n. 373.
(19) A proposito del quale, cfr. in particolare, A.M. Sandulli, Sulla natura del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Giust. Civ., 1955, I, 1584, ss ed in Studi in onore di G.M. De Francesco, Milano, 1957, 591 ss., ora anche in Id. Scritti giuridici – V Diritto amministrativo, Napoli, 1990, 411 ss., il quale, alla luce della legislazione all’epoca vigente, escludeva per tale organo il carattere di sezione decentrata del Consiglio di Stato; R. Chieppa, Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Enc. giur., vol. VIII, Roma, 1988.
(20) L’articolo 4, comma 2, del d. lgs. 24 dicembre 2003, n. 373 prevede che il collegio giudicante sia composto da uno dei due presidenti della Sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia, da due consiglieri di Stato e da due membri tra i quattro nominati dal Presidente della Regione tra persone “in possesso dei requisiti di cui all’articolo 106, terzo comma, della Costituzione per la nomina a Consigliere di Cassazione ovvero di cui all’art. 19, primo comma, numero 2, della legge 27 aprile 1982, n. 186”.
E’ appena il caso di ricordare che in seno al Consiglio di Giustizia amministrativa opera anche una Sezione consultiva, la quale vede la partecipazione di cinque componenti (su nove) di nomina regionale e che non verrà considerata ai fini della presente trattazione (art. 3 del d. lgs. n. 373 del 2003).
(21) Si possono avanzare, peraltro, dubbi di legittimità costituzionale sulle ipotesi di nomina di organi giurisdizionali da parte di organi del potere esecutivo, rispetto al principio di indipendenza del giudice. Il problema è stato è stato a suo tempo posto in relazione alla nomina governativa dei Consiglieri di Stato da C. Mortati, La nomina dei Consiglieri di Stato secondo la Corte costituzionale, in Giur. cost., 1973 2626 ss. e ripreso, con riferimento alla nomina dei componenti del Consiglio di Giustizia amministrativa, da A. Cerri, Indipendenza, imparzialità, nomina politica: problemi e dubbi irrisolti, in Giur. cost., 1976, I, 175 s.
Come noto, la Corte costituzionale nella sua giurisprudenza ammette per i giudici non ordinari procedure di nomina diverse dal concorso, attestando la garanzia dell’indipendenza del giudice sul venir meno degli eventuali rapporti di subordinazione del nominato nei confronti del nominante (cfr. sentt. 33 del 1968, in Giur. cost., 1968, 487 e 177 del 1973, in Giur. cost., 1973, I, 2348) nonché sul divieto di conferma alla scadenza dell’incarico (cfr. sent. n. 49 del 1968, in Giur. cost., 756 e sent. n. 25 del 1976, in Giur. cost., I, 1976, 93 s.). In senso critico nei confronti di questa giurisprudenza, cfr., recentemente, N. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2006, 77.
(22) In Giur. cost., 2004, 3681. La sentenza è commentata adesivamente da G. Corso, Sulla composizione del C.G.A: una sentenza da condividere, in Nuove aut., 2004, 887 ss. e criticamente da S. Raimondi, Il salvataggio del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, in Nuove aut., 2004, 881 ss. e D. Corletto, Il Consiglio di giustizia amministrativa e le singolarità dell’autonomia siciliana, in Le Regioni, 2005, 395 ss., i quali sottolineano la centralità, nell’argomentazione della Corte, del non limpidissimo argomento del “radicamento storico” del Consiglio di Giustizia amministrativa nell’esperienza autonomistica siciliana. A commento della decisione, cfr. anche R. Rotigliano, Il C.G.A.? Va bene lo stesso, in Nuove aut., 2004, 891 ss.
La soluzione accolta nella sentenza n. 316 è stata ribadita nell’ordinanza n. 179 del 2005 (in Giur. cost., 2005, 1622).
(23) Il quale si limita a prevedere che “gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione”, non fondando, quindi, alla stregua dell’interpretazione letterale, criteri di composizione delle sezioni stesse diversi ed eccentrici rispetto a quelli normalmente previsti. Sul punto, cfr. le critiche alla decisione della Corte costituzionale citata nella nota precedente di S. Raimondi, op. ult. cit., 882 e D. Corletto, op. ult. cit., 397.
L’”eccedenza” del modello di organizzazione offerto dalla normativa di attuazione rispetto alle previsioni statutarie è riconosciuta dalla già ricordata sent. n. 25 del 1976 della stessa Corte costituzionale, in Giur. cost., I, 1976, 94.
(24) Cfr. il già richiamato art. 4, comma 2, del d. lgs. n. 373 del 2003. Si deve osservare, peraltro, che la Corte costituzionale nella già ricordata sent. 177 del 1973, relativa alla possibilità di nomina governativa dei Consiglieri di Stato, ha negato che il sistema costituzionale imponga che “nei collegi giudicanti [del Consiglio di Stato] abbiano prevalenza numerica i magistrati provenienti dalla carriera” (2371), ritenendosi sufficiente “solo l’equilibrio quantitativo tra le due componenti ed in modo tendenziale, e precisamente nel senso che la legge possa discostarsi dall’osservanza del relativo criterio unicamente in presenza di specifiche esigenze meritevoli di tutela” (ivi).
(25) L’art. 6, comma 3, del d. lgs. n. 373 del 2003 prevede che la nomina venga effettuata con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, previa deliberazione del Consiglio dei ministri al quale partecipa il Presidente della Regione siciliana, ai sensi dell’art. 21, terzo comma, dello statuto.
Considerazioni critiche severe (e condivisibili) sono mosse da S. Raimondi, Il Consiglio di Giustizia amministrativa, cit., 966 ss. e da D. Corletto, Il Consiglio di giustizia amministrativa, cit., 411 sul d.d.l. costituzionale di revisione dello statuto siciliano presentato al Senato nella XIV Legislatura con il n. 3369, il quale - introducendo un comma 3-bis all’articolo 23 dello statuto vigente - prevede l’intesa nella nomina del Presidente del Consiglio di Giustizia amministrativa e dei Presidenti di Sezione della Corte dei conti nella Regione siciliana, con ciò compromettendo l’attuale equilibrio esistente e vulnerando il principio di indipendenza del giudice amministrativo garantito dall’art. 108 Cost.
(26) In senso diverso rispetto a quanto si sostiene nel testo, cfr. A. Poggi, Revisione della “forma di Stato”, cit., 67.
(27) Interessi ed esigenze che sono destinati a combinarsi con quelli che scaturiscono dalla deliberazione consiliare e dai procedimenti connessi, secondo una serie di possibili punti di equilibrio che trovano il loro suggello nella firma presidenziale e nella controfirma ministeriale dell’atto. Sul punto si rinvia alle non facilmente superabili considerazioni di C. Esposito, Saggio sulla Controfirma ministeriale, in Enc. dir., vol. X, Milano, 1962, 285 ss., ora in Id., Diritto costituzionale vivente. Capo dello Stato ed altri saggi (a cura di D. Nocilla), Milano, 1992, 65 ss.
In senso contrario alla ricostruzione espositiana, cfr. comunque la sentenza n. 200 del 2006 della Corte costituzionale.
(28) Art. 1 d. l. 15 novembre 1993, n. 453, convertito con modificazioni in l. 14 gennaio 1994, n. 19.
(29) In Giur. cost., 1993, 1143. La decisione è stata commentata da A. Poggi nonché da G. Fadel, L’istituzione del giudice di pace al vaglio della Corte costituzionale dal punto di vista delle prerogative statutarie di due Regioni: una frattura veramente necessaria rispetto alla tematica del giudice conciliatore?, in Giur. it., 1994, I, 392 ss.
(30) La previsione dell’art. 41 dello statuto valdostano viene definita nella sentenza n. 150 del 1993 “doppiamente eccezionale”: ciò perché “contempla un’interferenza regionale in materia di esclusiva competenza statale e perché tale interferenza nell’ordinamento giudiziario si realizza a livello non già di legge regionale, bensì esclusivamente di atti dell’esecutivo” (1152).
(31) “Nel Trentino-Alto Adige è istituito un tribunale regionale di giustizia amministrativa con un’autonoma sezione per la provincia di Bolzano, secondo l’ordinamento che verrà stabilito al riguardo”.
Non vi dovrebbero essere dubbi sulla riferibilità dell’”ordinamento” menzionato dalla disposizione alla sezione di Trento, in considerazione della presenza di una successiva specifica disposizione (art. 91) dedicata alla composizione ed al funzionamento della sezione autonoma di Bolzano.
(32) D. Corletto, Il Consiglio di giustizia amministrativa, cit., 410, nota 31 osserva come le previsioni in tema di composizione della sezione di Trento del Tribunale amministrativo regionale siano verosimilmente dovute ad un effetto di “trascinamento” o di simmetria da parte delle previsioni relative alla sezione di Bolzano.
(33) Su tale organo, cfr. A. Poggi, Revisione della “forma di Stato”, cit., 74 ss.
(34) Art. 5 del d.P.R. n. 426 del 1984, il quale stabilisce che “gli eventuali provvedimenti di rimozione, sospensione, o collocamento a riposo anticipato, sono adottati, limitatamente ai magistrati di nomina del consiglio provinciale di Bolzano, previa intesa con il consiglio provinciale stesso”.
(35) Art. 93 dello statuto ed art. 14 delle norme di attuazione.
(36) “Alla nomina, alla decadenza, alla revoca, alla dispensa dell’ufficio dei giudici conciliatori e viceconciliatori provvede il Presidente della Giunta regionale in virtù di delegazione del Presidente della Repubblica, osservate le altre norme in materia, stabilite dall’ordinamento giudiziario”.
(37) In mancanza di una – improbabile – revisione in senso restrittivo della normativa di attuazione dello statuto, è evidente che l’unica via percorribile per raggiungere tale risultato sarebbe quella di una dichiarazione di illegittimità costituzionale in via incidentale da parte della Corte della normativa di attuazione, attraverso l’utilizzazione di una sentenza di tipo sostitutivo.
(38) Per un florilegio critico delle opinioni tendenti a svalutare l’elemento tecnocratico nella selezione dei magistrati, professionali ed onorari, cfr. P.F. Grossi, I diritti di libertà ad uso di lezioni, I, 1, II edizione ampliata, Torino, 1991, 68 (nota 38). In senso critico nei confronti di ipotesi di selezione dei giudici onorari su base di sistemi elettivi di secondo grado, da parte di assemblee politico-amministrative, cfr. F. Bonifacio – G. Giacobbe, Art. 106, inCommentario della Costituzione, (a cura di G. Branca), Bologna – Roma, 1986, 130.
Una riflessione di ampio respiro sulle procedure di selezione dei giudici, che guarda ai modelli di common law ed alle qualità che il giudice in tali modelli necessariamente incarna (e che non paiono facilmente replicabili nell’esperienza italiana) è svolta da V. Caianiello, Formazione e selezione dei giudici in una ipotesi comparativa, in Giur. it., 1998, 387 ss.
I problemi di definizione del ruolo della magistratura onoraria sono di recente considerati da P.P. Sabatelli, Il lato oscuro della magistratura: spunti per una (improbabile) riforma organica dei giudici onorari, in AA.VV. (a cura di F. Dal Canto – R. Romboli), Contributo al dibattito sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, cit., 229 ss., il quale evidenzia, tra l’altro, l’esigenza di eliminare rapidamente figure spurie di giudice onorario in funzione di supplenza, quali i giudici onorari aggregati ed i vice pretori onorari, prive delle necessarie garanzie di indipendenza (235 ss.), nonché il rischio che il giudice di pace assuma i caratteri di un magistrato sub-professionale, anziché un magistrato onorario (247).
(39) Cfr. l’art. 4 della legge n. 374 del 1991, nel quale la forma più intensa di collegamento con il territorio prevista per il procedimento di nomina dei giudici di pace è rappresentata dal potere di proposta di ammissione al tirocinio da parte del consiglio giudiziario, in composizione allargata (comma 2).
(40) A proposito della quale si rinvia alle indicazioni di A. Poggi, Revisione della “forma di Stato”, cit., 60 (nota 11).
(41) I termini del dibattito svoltosi anteriormente alla legge n. 1034 del 1971 sono richiamati da A. Poggi, Revisione della “forma di Stato”, cit., 60 ss. In tale dibattito sembra essersi inserita la stessa Corte costituzionale allorché, nella sentenza n. 49 del 1968 ebbe ad affermare che “quei collegi giudicanti [i Tribunali amministrativi per il contenzioso elettorale, dalla stessa pronuncia definiti parte degli istituendi Tribunali amministrativi regionali] sono collegati, prima che alla Regione come ente giuridico, alla Regione come entità territoriale e sociale determinatasi storicamente” (in Giur. cost., 1968, 764).
(42) In senso critico nei confronti di tale disposizione, cfr. G. Silvestri, La riforma dell’ordinamento giudiziario, cit., 13, il quale afferma che “il rapporto interno tra componenti fissato dalla Costituzione per il CSM (due terzi togati, un terzo “laici”, con i membri di diritto esclusi dal conteggio) assurga alla dignità di principio generale nella materia, con la conseguenza che la sua alterazione crea uno scompenso nel sistema e indebolisce la tenuta complessiva delle garanzie”; Id., I problemi della giustizia italiana, cit., 349. La disposizione in esame prevede, invece, una lieve prevalenza (sette contro sei) dei componenti magistrati professionali, per i consigli giudiziari presso le corti d’appello nei distretti nei quali prestino servizio fino a trecentocinquanta magistrati e più accentuata, invece (nove contro sei) nei consigli giudiziari relativi a distretti nei quali prestino servizio più di trecentocinquanta magistrati.
(43) Cfr. anche il d. lgs. 27 gennaio 2006, n. 25 attuativo della delega legislativa stabilita dalla legge n. 250 del 2005. Sulle attribuzioni dei Consigli giudiziari, cfr., in generale, N. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., 9 s.
(44) O dal Presidente del Consiglio regionale su indicazione delle associazioni rappresentative dei Comuni e delle Province a livello regionale, in assenza di concreta istituzione del Consiglio delle autonomie locali.
(45) La disposizione prevede comunque che la nomina venga effettuata con decreto del Presidente della Repubblica. A commento di essa, cfr. M. Gola, Commento all’art. 7, in AA.VV. [a cura di P. Cavaleri - E. Lamarque], L'attuazione del nuovo titolo V, parte seconda, della Costituzione. Commento alla legge "La Loggia" (legge 5 giugno 2003, n. 131), Torino, 2004, 177 s.
(46) Per questa bipartizione tra disciplina dell’ordinamento giudiziario, “nel quale è compreso l’insieme delle norme organizzative attinenti alla struttura degli organi giurisdizionali e dello status dei magistrati” e sistema giurisdizionale, “consistente nelle norme che regolano l’attività dei giudici e i loro poteri nell’ambito del processo, dei diritti e dei doveri delle parti, che disciplinano, in altri termini, l’esercizio della funzione, oltre che delle norme sulla struttura degli organi e lo status dei loro componenti”, cfr. G. Silvestri, Funzione giurisdizionale e autonomia regionale, cit., 169, dal quale sono tratte le citazioni. Un’analoga distinzione tra profilo soggettivo, riguardante l’organizzazione complessiva dell’organo giurisdizionale e profilo oggettivo, inerente l’esercizio della funzione giurisdizionale, è operata da A. Poggi, Revisione della “forma di Stato”, cit., 54. Un’analitica elencazione di nove modalità di intervento della legislazione regionale in materia processuale è presente in Id., Corte costituzionale e competenze normative delle regioni in “materia giurisdizionale”. Una rilettura critica, in AA.VV., (a cura di P. Ciarlo – G. Pitruzzella – R. Tarchi), Giudici e giurisdizioni nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Torino, 1997, 290 ss.
(47) Sul carattere statale della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario, cfr., per tutti, N. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., 17 s.
(48) Si tratta delle sentenze n. 224 e 285 del 1999 (in Giur. cost., 1999, rispettivamente 1986 e 2409), adesivamente commentate da A. Poggi, Nuove distinzioni in tema di riserva allo Stato dell’ordinamento giudiziario, in Le Regioni, 1999, 1014 ss. la quale sottolinea il passaggio della Corte da una nozione della riserva di legge di cui al primo comma dell’art. 108 Cost. quale riserva di legge astrattamente statale ad una concezione secondo cui “il rapporto legge statale-legge regionale nell’ambito della riserva di legge ... va valutato ed analizzato in concreto (corsivo originale), alla stregua di parametri di definizione del contenuto della riserva stessa e, conseguentemente, della delimitazione della sfera di intervento delle due fonti” (1018 s.).
(49) In Giur. cost., 1956.
(50) In Giur. cost., 2001, 3609.
(51) Per primo in questa linea, anche se in termini dubitativi, C. E.[sposito], Osservazione senza titolo a C. Cost., sent. n. 35 del 1958, inGiur. cost., 1958, 482, ora in C. Esposito, Scritti giuridici scelti – IV Note di giurisprudenza, Napoli, 1999, 123. In seguito, cfr. G. Silvestri, Funzione giurisdizionale e autonomia regionale, cit., 195 ss.; A. Pizzorusso, Art. 108, inCommentario della Costituzione, (a cura di G. Branca), Bologna – Roma, 1992 ammette l’intervento del legislatore regionale nei possibili casi di res mixtae. 10.
(52) Sulle quali si sofferma particolarmente S. Mangiameli, Le Regioni e l’organizzazione della giustizia di pace, in www.forumcostituzionale.it.
(53) In questo senso, cfr. S. Mangiameli, op. ult. cit. Sull’interpretazione di tale disposizione cfr. anche L. Antonini, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000; F. Palermo, Il regionalismo differenziato, in AA.VV. (a cura di T. Groppi – M. Olivetti, La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, Torino2, 2003, 55 ss.; G. Braga, La legge attributiva di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, in AA.VV. (a cura di F. Modugno – P. Carnevale), Milano, 2003, 97 ss.; F.G. Pizzetti, Il giudice nell’ordinamento complesso, cit., 196 ss.
(54) Cfr. L. Elia, Introduzione, in AA.VV. (a cura di T. Groppi – M. Olivetti, La Repubblica delle autonomie, cit., 18 s.
(55) La cui celebrazione, nel momento in cui si licenzia questo studio, non è ancora avvenuta.
(56) Scrive, a questo proposito, di una “controriforma discutibile” S. Mangiameli, Le Regioni e l’organizzazione della giustizia di pace, cit.
(57) Il passo indietro operato dalla riforma è rilevato da A. D’Aloia, Regioni e giustizia, cit. e da F.G. Pizzetti, Il giudice nell’ordinamento complesso, cit., 184 ss., il quale si sofferma compiutamente sull’interpretazione delle espressioni giurisdizione e giustizia amministrativa inserite nell’elenco di competenze legislative statali esclusive. L’A. giunge alla conclusione che il potere giudiziario (statale) resti, all’indomani della riforma del Titolo V, il vero ultimo potere “unificante” dell’ordinamento complessivo italiano (201 ss.), che ormai può dirsi di tipo “destrutturato” (237 ss.).
(58) Su tali collegi, in termini generali, cfr. T. Groppi, Quale garante per lo statuto regionale?, in Le Regioni, 2001, 841 ss.
(59) Sent. n. 378 del 2004, in Giur. cost., 2004, 4111 ss., ribadita dalla sent. n. 12 del 2006.
(60) Su tali problemi, cfr. D. Nocilla, Natura delle disposizioni programmatiche statutarie e controllo endoregionali su leggi e regolamenti delle regioni, in Giur. cost., 2004, 4134 ss.
(61) Sulla contrapposizione tra concezione giudiziaria e concezione politica di garanzia della costituzione, cfr. riassuntivamente G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale2, Bologna, 1988, 28 ss. ed ivi i riferimenti alle opere di H. Kelsen e C. Schmitt.
(62) Per il passaggio in rassegna dei criteri di composizione delle Corti costituzionali di taluni stati regionali europei, cfr. A. Anzon, I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto costituzionale, Torino, 2003, 50 ss., la quale sottolinea una sostanziale indifferenza della fisionomia dei tribunali costituzionali rispetto alla natura federale o regionale dello Stato. Per un’ampia comparazione di modelli cfr. J. Luther, La composizione dei tribunali costituzionali e le autonomie territoriali: esperienze straniere, in AA.VV. (a cura di A. Anzon – G. Azzariti – M. Luciani), La composizione della Corte costituzionale. Situazione italiana ed esperienze straniere, Torino, 2004, 67 ss.
(63) Il dibattito in Assemblea costituente circa il possibile coinvolgimento delle Regioni nella designazione dei giudici costituzionali è richiamato da L. Pesole, Composizione della Corte costituzionale e autonomie territoriali, in AA.VV. (a cura di A. Anzon – G. Azzariti – M. Luciani), La composizione della Corte costituzionale, cit., 37.
(64) Al di là della limitata previsione dell’art. 11 della l. cost. n. 3 del 2001.
(65) In questo senso, G. Azzariti, Forme e soggetti della democrazia pluralista. Considerazioni su continuità e trasformazioni dello stato costituzionale, Torino, 2000, 250; A. Anzon, I poteri delle Regioni nella transizione, cit., 54 ss.; L. Pesole, Composizione della Corte costituzionale, cit., 51, J. Luther, La composizione dei tribunali costituzionali, cit., 95 ss., il quale contrappone allo strumento, orami démodé, della designazione separata quello della partecipazione organica, peraltro suscettibile di numerose varianti.
Maggiormente cauti sull’inutilizzabilità dello strumento della selezione diretta dei giudici da parte regionale sembrano G. Guzzetta, Relazione introduttiva, e M. Carli, La “regionalizzazione” riguarda anche la Corte, entrambi in AA.VV. (a cura di A. Anzon – G. Azzariti – M. Luciani), La composizione della Corte costituzionale, cit., rispettivamente 11 e 199 ss.
Per una critica complessiva all’idea che i giudici costituzionali debbano essere portatori di varie sensibilità, di sesso, di minoranze, di religioni, di interessi delle autonomie territoriali, cfr. L. Olivieri, Questioni di status e “politicizzazione” della Corte costituzionale, in AA.VV. (a cura di A. Anzon – G. Azzariti – M. Luciani), La composizione della Corte costituzionale, cit., 206.
(66) Sette su quindici componenti complessivi.
(67) Cfr, a questo proposito, gli Autori citati a nota 7 del presente scritto.
(68) Diverso discorso deve farsi per quanto concerne la disciplina dei destinatari delle notificazioni, incidendosi, in questo caso, sul contraddittorio tra le parti del giudizio. Cfr., a questo proposito, C. cost., sent. n. 767 del 1988, in Giur. cost., 1988, I, 3678.
(69) In questa linea, cfr. F. Sorrentino, La giustizia amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale; G. Pitruzzella, Stato regionale e giustizia amministrativa, entrambi in www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/studi_contributi; A. D’Aloia, Regioni e giustizia, cit.
(70) Per menzionare la tipologia di intervento regionale in materia processuale più frequentemente considerata dalla giurisprudenza costituzionale.
(71) Per considerazioni critiche sul punto, cfr. anche F. Sorrentino, La giustizia amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale, cit. 10 s.
(72) Sul ruolo condizionante che partiti politici nazionali fortemente centralizzati hanno avuto nei confronti dell’esperienza del regionalismo italiano, fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, cfr. A. D’Atena, Regione (in generale), in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, ora in Id., Costituzione e Regioni, cit., 68 ed ivi la letteratura citata.

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