Relazione al Convegno organizzato dall’ISSiRFA-CNR su Regionalismo in bilico tra attuazione e riforma della riforma, Roma, Sala del Cenacolo, 30 giugno 2004

SOMMARIO:
1. Premessa
2. I tributi erariali
3. Esclusione della potestà impositiva delle Regioni dall’area dei tributi erariali vigenti
4. La competenza legislativa tributaria delle Regioni ed il principio di continenza
5. Le addizionali regionali (e locali) ad imposte erariali
6. I tributi regionali istituiti e regolati con legge dello Stato
7. Il riparto di competenze legislative in ordine ai tributi “propri” in senso stretto ed ai tributi “propri” in senso lato
8. Autonomia tributaria ex art. 119 Cost. e addizionali regionali e locali di tributi statali
8.1. Le permanenza delle addizionali nella piena disponibilità dello Stato
8.2. Competenza esclusiva dello Stato in materia di quantificazione del “fabbisogno da funzioni”
8.3. Conseguenze applicative
9. Osservazioni conclusive


1. Premessa
Se si ha riguardo alla complessa materia regolata dal nuovo Titolo V della Costituzione, il tema del c.d. federalismo fiscale dovrebbe essere scomposto nei seguenti articolati subtemi: compatibilità del disegno costituzionale complessivo della finanza pubblica con gli obiettivi di decentramento istituzionale-finanziario; rapporto tra il principio generale di autonomia previsto dagli artt. 5 e 119 Cost. e i principi di riserva di legge, di competenza e di equiordinazione; ripartizione delle basi imponibili tra Stato, Regioni e Enti locali; individuazione del concetto di “tributo proprio” e rapporto tra questo e le compartecipazioni ai tributi erariali; costruzione di un fondo perequativo delle regioni e degli enti locali (possibilmente) alternativo al fondo disciplinato dalla nota legge delegata n. 56/2000 (finora mai attuata e sempre surrogata dalle leggi finanziarie di fine anno); determinazione dell’entità del fabbisogno da finanziare attraverso le fonti di entrata previste dall’art. 119; criteri distintivi del fondo perequativo di cui al terzo comma dell’art. 119 rispetto al fondo straordinario di cui al quinto comma dello stesso articolo. E altri temi ancora.
Come si vede, c’è materia sufficiente per imbastire un altro convegno dedicato esclusivamente alla finanza pubblica e al federalismo fiscale. In questa sede – dato il tempo veramente ristretto accordatomi e essendo per di più alla fine dei lavori – mi soffermerò su quelli che ritengo siano i primi problemi che qualunque cultore del diritto tributario dovrebbe porsi nel commentare il nuovo Titolo V della Costituzione. Alludo agli specifici problemi, già accennati, della ripartizione delle basi imponibili tra Stato, regioni e enti locali e della definizione dei tributi “propri”, regionali e locali.

2. I tributi erariali
Quanto all’individuazione dell’area dei tributi erariali, lo Stato non dovrebbe avere limiti di materia ed ontologici nello stabilire, ex articolo 117, comma 2, lett. e), i tributi propri e, conseguentemente, nell’individuare i presupposti di tali tributi. E ciò per la semplice ragione che la stessa lettera e) assume esplicitamente come oggetto della competenza legislativa statale la sola materia del «sistema tributario dello Stato» e non vincola, perciò, la scelta dei presupposti dei tributi erariali ad una valutazione di «continenza» delle materie sostanziali attribuite alla competenza legislativa dello Stato medesimo dalle altre lettere dell’articolo 117, comma 2.
L’unico naturale limite alla potestà d’imposizione dello Stato è dato, dunque, dall’ammontare complessivo delle spese che esso, per dettato costituzionale, deve finanziare con il ricorso ai tributi di sua pertinenza. E va notato che tra tali spese rientrano, oltre a quelle statali vere e proprie (e cioè quelle sostenute dallo Stato per finanziare investimenti e prestazioni da esso effettuati), anche quella rilevante parte di esse che, pur essendo relative allo svolgimento delle funzioni delle Regioni e degli Enti locali, sono poste tuttavia a carico della finanza statale. Ai sensi del nuovo articolo 119, commi 2, 3 e 4, Cost. tali ultime spese vanno, infatti, finanziate proprio attraverso le compartecipazioni ai tributi erariali e la ripartizione perequativa del relativo fondo (alimentato sempre da tributi erariali); e solo in misura molto limitata attraverso tributi propri, regionali o locali.
Questa ultima constatazione rafforza sul piano logico-sistematico la conclusione cui sono appena giunto in base alla lettera dell’articolo 117, comma 2, lett. e), perché individua la giustificazione della mancanza di limiti alla potestà impositiva dello Stato nel fatto, sostanziale, che i tributi erariali non servono a finanziare solo le spese relative a materie di stretta competenza statale, ma costituiscono anche – sotto forma di compartecipazioni - una quota rilevantissima delle entrate necessarie alle Regioni e agli Enti locali per far fronte alle spese relative alle loro funzioni.

3. Esclusione della potestà impositiva delle Regioni dall’area dei tributi erariali vigenti
In forza dei soli principi fondamentali di razionalità, di semplificazione e di unitarietà della finanza pubblica si dovrebbe poi simmetricamente negare, in via generale ed astratta, la possibilità che le Regioni creino nuove imposte che abbiano gli stessi presupposti e le stesse basi imponibili di imposte erariali già vigenti (oltre che, ovviamente, presupposti o basi imponibili estranei al loro territorio e alle materie di loro stretta competenza costituzionale). Dovrebbe essere, ad esempio, vietata l’istituzione di tributi regionali (e locali) sul reddito o sul patrimonio che abbiano la natura di sovrimposta o che comunque duplichino, nella disciplina e nella struttura, quelli erariali già vigenti.
Una diversa impostazione – che addirittura giungesse ad attribuire alle Regioni, al pari dello Stato, il potere di scegliere i presupposti dei tributi regionali in piena libertà e senza limiti, fino al paradosso di prendere gradualmente esse il posto dello Stato nella titolarità dei tributi generali ora erariali (salvo ribaltarne parzialmente il gettito allo Stato stesso per consentirgli di finanziare le sue funzioni) – sarebbe in contrasto, non solo con i principi fondamentali appena enunciati, ma anche con lo stesso principio di esclusività della competenza statale in materia di tributi erariali fissato dal richiamato articolo 117, comma 2, lett. e). Il fatto, indubitabile, che il nuovo impianto costituzionale sia di immediata applicazione non può infatti comportare:
- né la messa in discussione della natura erariale dei tributi considerati tali ai sensi della legislazione precedente all’entrata in vigore del nuovo Titolo V;
- né la negazione del potere attuale dello Stato di individuare esso stesso senza limiti, ai sensi della più volte richiamata lett. e), i nuovi tributi erariali;
- né, tanto meno, il venir meno dell’esclusività della legislazione statale riguardo alla disciplina di tali tributi per lasciare il passo a (o per coesistere con) la legislazione regionale relativamente agli stessi presupposti di imposta.
Significa solo che si conserverà il «vecchio» sistema tributario statale - e, quindi, permarrà la natura erariale dei tributi che lo compongono - finché detto sistema non sarà modificato da altre norme statali che, anche in via di coordinamento, ne delimitino l’ambito in attuazione delle nuove regole degli articoli 117 e 119. Da qui l’opportunità di una legge quadro-statale che per il futuro – e, quindi, anche per i tributi ancora da istituire – determini le regole di ripartizione delle basi imponibili sulla base dei principi fondamentali e nel rispetto, beninteso, dell’articolo 117, commi 2, lett. e), 3 e 4.
E’, insomma, il fatto che i tributi erariali costituiscono oggetto esclusivo della competenza legislativa dello Stato che dovrebbe portare a confermare l’opinione che le Regioni non possono esercitare la loro potestà di imposizione - riguardo sia ai tributi propri che a quelli locali - intromettendosi nell’area dei tributi erariali già vigenti, e cioè istituendo tributi che hanno gli stessi presupposti e gli stessi soggetti passivi dei tributi oggetto di esclusiva competenza statale.

4. La competenza legislativa tributaria delle regioni ed il principio di continenza
Quanto sopra impone, dunque, di respingere disegni interpretativi diretti a svalutare la finanza statale (sostituendola addirittura con quella regionale), ma non esclude certo che, in forza dei principi di responsabilità e di autonomia tributaria – e, perciò, in funzione dell’espansione dell’autonomia politica – le Regioni esercitino la loro potestà legislativa di imposizione prevedendo tributi regionali e locali aventi presupposti che, da una parte, siano radicati nelle materie di esclusiva competenza legislativa delle Regioni stesse ex articolo 117, comma 4, e, dall’altra, siano in grado di fornire alle Regioni stesse e agli Enti locali le risorse necessarie allo svolgimento di loro politiche autonome affrancandosi dalle interferenze dello Stato: tributi, perciò, stabilmente connessi al loro territorio, non necessariamente retti dal principio del beneficio, ma sicuramente tributi di scopo e tributi contro-prestazione o «corrispettivi». In questi casi, data la stretta strumentalità della tassazione al raggiungimento degli obiettivi di politica regionale, va valorizzato il principio di «continenza», che condiziona la legittimità del «tributo proprio» alla previa valutazione della continenza dell’interesse espresso dall’elemento materiale del suo presupposto negli interessi compresi nell’elencazione delle materie attribuite alla competenza regionale (e locale).
Data l’esposta, ampia portata degli articoli 117, comma 4, e 119, commi 1 e 2, è dunque difficile negare una pregnante potestà legislativa alle Regioni quando essa verta su materie di competenza delle Regioni stesse (e, in via mediata, degli Enti locali). E’, però, anche comprensibile che tale potestà possa essere limitata quando travalica la materia e (naturalmente) l’ambito territoriale di loro competenza. Sarebbe, in altri termini, auspicabile che la potestà legislativa delle Regioni sia esercitata soprattutto per reperire nel territorio risorse che espandano la loro autonomia politica (e quella degli Enti locali). Il che potrà farsi collegando, a tal fine, l’esercizio della potestà stessa e la misura del prelievo al costo delle funzioni non finanziabili tramite le sole compartecipazioni (o in via di perequazione) e, comunque, ad ogni spesa facoltativa o integrativa che le Regioni e gli Enti locali con la loro autonomia intendono sostenere e promuovere.

5. Le addizionali regionali (e locali) ad imposte erariali
A conclusioni diverse da quelle raggiunte con riferimento ai tributi regionali (o locali) dovrebbe, invece, pervenirsi con riguardo alle addizionali regionali (e locali) ad imposte erariali. Non v’è dubbio in proposito che le Regioni e gli Enti locali abbiano la potestà, rispettivamente legislativa e regolamentare, di decidere l’istituzione di tali addizionali. Sorge il dubbio, peraltro, sul carattere primario ed esclusivo (e perciò non derivato) di questa potestà, e cioè se essa sia esercitatile senza la previa mediazione di una legge statale. Trattandosi di addizionali a tributi erariali e, quindi, di prelievi regionali e locali parametrati percentualmente ai tributi erariali, il dubbio è reso legittimo dalla considerazione che anche nel caso delle addizionali – al pari delle sovrimposte e, in genere, delle duplicazioni regionali o locali delle imposte erariali di cui si è detto – l’esercizio del potere normativo d’imposizione (senza la copertura di una legge statale) possa trovare un ostacolo nel più volte richiamato articolo 117, comma 2, lett. e). Tale esercizio, riguardando dei tributi erariali, urterebbe cioè la competenza legislativa esclusiva accordata allo Stato riguardo al «sistema tributario dello Stato», e cioè riguardo ai tributi qualificabili come erariali al momento dell’entrata in vigore del nuovo ordinamento costituzionale.
Non accantonerei frettolosamente questo dubbio sulla legittimità costituzionale di addizionali istituite fuori dalla riserva di legge statale. All’accoglimento di una più ampia nozione di autonomia tributaria regionale potrebbe, infatti, ostare anche qui l’argomento che sarebbe lo stesso disposto dell’articolo 117, comma 2, lett. e) a vietare che le Regioni prevedano esse stesse autonomamente addizionali (regionali o locali) ai tributi erariali. Se si considera che l’addizionale equivale concettualmente ad una vera e propria «quota» di tributo erariale da attribuire alle Regioni o agli Enti locali – e, quindi, rappresenta un prelievo che, in quanto inasprimento di un tributo erariale, incide sulla competenza legislativa dello Stato – la inevitabile conseguenza dovrebbe essere, a mio avviso, che l’applicazione di addizionali da parte delle Regioni e degli Enti locali deve passare prima attraverso l’«autorizzazione» della legge statale.
Ragionando in questi termini non si sarebbe fuori dall’autonomia tributaria come definita dall’art. 119 e, di conseguenza, non si escluderebbe che l’addizionale sia in sé un “prelievo proprio” frutto di una autodeterminazione normativa dell’ente. Si opererebbe, però, nell’ambito di una autonomia normativa più ridotta, che si inscrive dentro la potestà legislativa dello Stato e che si risolve, perciò, nell’esercizio – da parte delle regioni (per i tributi regionali) o dell’Ente locale (per i tributi locali) – della mera potestà di istituire l’addizionale e scegliere l’aliquota della stessa tra un minimo e un massimo fissato, appunto, dalla legge (statale) che disciplina il tributo erariale parametro dell’addizionale.

6. I tributi regionali istituiti e regolati con legge dello Stato
Considerati la dimostrata illimitatezza (quanto ai contenuti) della potestà impositiva dello Stato con riferimento ai tributi vigenti disciplinati dalla legge statale e gli indicati limiti funzionali dell’autonomia tributaria delle Regioni e degli Enti locali, sembra altresì ragionevole pensare che anche con riguardo a quei tributi regionali, come ad esempio l’Irap (già istituiti e regolati dallo Stato con propria legge, ma il cui gettito è stato attribuito alle Regioni stesse), la potestà normativa delle Regioni debba limitarsi, ex art. 117, secondo comma, lett. e), alla determinazione delle sole aliquote nei limiti stabiliti dalla legge statale. Tutt’al più tale potestà potrebbe estendersi all’integrazione e alla specificazione di basi imponibili nell’ambito, sempre, dei confini tracciati dalla legge statale. Si tratta, infatti, di tributi definibili come regionali solo in ragione dell’attribuzione del loro gettito all’Ente territoriale, per la cui disciplina, però, dovrebbe rimanere intangibile la potestà legislativa esclusiva dello Stato in funzione «autorizzatoria» di una, anche qui, ridotta autonomia normativa delle Regioni.

7. Il riparto di competenze legislative in ordine ai tributi “propri” in senso stretto ed ai tributi “propri” in senso lato
C’è ora da domandarsi se lo svolgimento dell’autonomia tributaria degli Enti locali debba passare sempre attraverso la mediazione necessaria di una legge regionale ex art. 23 Cost., e 117, 4° comma o, invece, in certi casi possa passare attraverso la mediazione della sola legge statale (senza alcun intervento regionale).
Dando per scontato che il comma 4 dell’articolo 117 attribuisce in via residuale alle Regioni la potestà legislativa in materia di tributi «propri», regionali e locali, una risposta a tale quesito può essere data solo dopo aver individuato una soddisfacente definizione di tributo «proprio». Solo, infatti, con riguardo ai tributi definibili “propri in senso stretto” è concepibile una potestà legislativa primaria ed esclusiva delle Regioni ai sensi, appunto, dell’appena richiamato articolo 117, comma 4.
Come ho già in parte anticipato, sarei al riguardo contrario ad accogliere una nozione funzionale, considerando «propri» i tributi per il solo fatto che il loro gettito va alle Regioni o agli Enti locali. E ciò non solo perché avremmo una espansione della potestà legislativa delle Regioni che mi sembra, in termini di giudizio di valore, esagerata, ma anche perché una siffatta ampia nozione sarebbe, a mio avviso, non rispondente alla ratio e alla lettera della norma costituzionale e allo stesso principio di autonomia tributaria.
E’ infatti opinione mia e, per quanto mi risulta, anche di alcune più recenti sentenze della Corte costituzionale, che nel sistema delineato dal nuovo Titolo V un tributo è “proprio” della Regione (o dell’Ente locale) solo se esso è il frutto dell’esercizio di una potestà legislativa esclusiva della Regione ex art. 117, comma 4, e non se sussistono altre circostanze, tipo l’attribuzione ad essa o all’Ente locale del gettito o del potere di accertamento e di riscossione. Insomma, non può esser «proprio» della Regione – e, quindi, con l’avvento del nuovo Titolo V non può essere oggetto della sua competenza esclusiva – un tributo previsto dalla legge statale, anche se il suo gettito è da questa attribuito integralmente alla Regione stessa.
Il che dovrebbe portarci a qualificare come tributi «propri in senso stretto», attribuiti alla competenza legislativa delle Regioni, solo i tributi non generali e cioè commutativi, corrispettivi o controprestazione che hanno una condizione negativa e una positiva: quella di non essere previsti da leggi statali e quella di avere un presupposto che «contiene» materie sostanziali di esclusiva competenza regionale o locale (e non statale) e che per loro natura non esorbitano dall’ambito del territorio regionale e locale. Tributi, insomma, espressivi della (e strettamente funzionali alla) autonomia politica dell’Ente locale o della Regione, che lo Stato non ha deciso di assumere come propri e che comunque, una volta esercitato legittimamente il potere legislativo della Regione, non può comunque assumere più come propri.
Fuori da questi casi il tributo può chiamarsi pure «proprio», ma solo in senso lato, in quanto – lo ribadisco – anche se il suo gettito fosse attribuito per intero alle Regioni o agli Enti locali, la sua disciplina apparterrebbe tuttavia alla competenza legislativa dello Stato. In questi termini tributi propri in senso lato sono, ad esempio, le addizionali a tributi la cui disciplina è determinata dallo Stato ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lett. e). L’addizionale, infatti, può essere sì istituita dalla Regione e dall’Ente locale, ma la sua previsione compete allo Stato perché essa non è altro che un “accrescimento” di un tributo statale. In quanto tale, non può qualificarsi come un tributo «proprio» in senso stretto.
Conclusivamente, solo i tributi «propri» in senso stretto (regionali o locali) devono essere previsti dalla legge regionale ex articolo 117, comma 4; con la conseguenza che l’Ente locale può istituire con proprio atto il tributo locale solo nell’ambito di tale legge. Quelli «propri» in senso lato, come le ricordate addizionali (e le stesse sovrimposte), debbono invece essere previsti direttamente dalla legge statale che ha competenza sui tributi di cui esse addizionali costituiscono una mera appendice (articolo 117, comma 2, lett. e); con la conseguenza che l’Ente locale o la Regione potranno istituirli, nell’esercizio della loro autonoma potestà di imposizione, solo nell’ambito dello spazio normativo ad essi attribuito dalla legge statale competente a disciplinare il tributo «principale», senza perciò alcun coinvolgimento della Regione quando si tratti di istituire un tributo locale.

8. Autonomia tributaria ex art. 119 Cost. e addizionali regionali e locali di tributi statali
Un’ultima importante notazione che vorrei fare - che riprende e sviluppa il discorso appena fatto sulle addizionali regionali e locali - riguarda il rapporto che deve instaurarsi tra addizionali regionali (o locali) di tributi statali di cui ho detto e l’autonomia tributaria prevista dall’art. 119.

8.1. Le permanenza delle addizionali nella piena disponibilità dello Stato
Se si accetta l’interpretazione che ho appena dato, secondo cui i tributi (nati) statali sono e rimangono dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera e), e se si ritiene - come ho pure sottolineato - che le addizionali regionali (e locali) sono semplici “quote” di detti tributi (attribuite dalla legge statale, ancorché istituite e determinate nelle aliquote dalle Regioni o dagli Enti locali), la mia opinione è che non è possibile in alcun modo giungere - in base al solo principio di autonomia stabilito dall’art. 119 - alla conclusione, da alcuni adombrata, della illegittimità di norme statali, quale la “finanziaria” per il 2004, che sospendono il potere della Regione (o dell’Ente locale) di aumentare l’addizionale. Mi pare, cioè, assai difficile convertire una quota di tributo statale, quale è l’addizionale, in un vero e proprio tributo regionale di competenza esclusiva della Regione e da ciò trarne la conseguenza della non sospendibilità di detto potere .
Sotto questo profilo il nuovo art. 119 poco si discosta dal vecchio: l’autonomia tributaria garantita alle Regioni (e agli Enti locali) attraverso lo strumento dell’addizionale continua a “derivare” dalla potestà esclusiva dello Stato e, perciò, è solo espressione di quel tipo di autonomia normativa, già conosciuta sotto il vecchio regime, che si risolve nella facoltà di istituire l’addizionale (già stabilita dallo Stato) e di fissare l’aliquota tra un minimo e un massimo. Non va, perciò, confusa l’autonomia impositiva prevista dall’art. 119 con la potestà legislativa esclusiva di imposizione attribuita alle Regioni dall’art. 117, quarto comma.
In questa ottica l’addizionale non si presenta, dunque, come un vero e proprio tributo regionale in senso stretto, intangibile da parte del legislatore statale o, comunque, da esso sopprimibile solo se compensato con altre entrate tributarie (come ha ritenuto la sentenza n. 37 del 2004 della Corte costituzionale). Quando il prelievo – come è il caso dell’addizionale – è il risultato dell’esercizio di una potestà normativa statale, esso, finché esiste, è solo “governato” dalla Regione (o dall’Ente locale) nell’ambito dello spazio di autonomia attribuitole, ma non diviene permanentemente e definitivamente regionale (o locale) e non va annoverato fra i prelievi di cui all’art. 117, quarto comma.
Quanto sopra porta inevitabilmente a ritenere che, come lo Stato ha attribuito una quota del “suo” tributo sui redditi (o sul patrimonio o sulla organizzazione produttiva) alla Regione (o all’Ente locale) sotto forma di addizionale, così lo stesso Stato - in quanto originario ed esclusivo titolare del potere normativo di imposizione - può riappropriarsi della quota attribuita o ridurla ovvero, anche, solo sospendere detto potere. E ciò senza violare il principio costituzionale di autonomia tributaria e senza che in tali ipotesi sussista, sempre a livello costituzionale, alcun obbligo a carico dello Stato di reintegrare e garantire con altre provviste finanziarie (compartecipazioni e altri tributi propri) il gettito che la Regione (o l’Ente locale) poteva attendersi dall’aumento dell’addizionale.

8.2. Competenza esclusiva dello Stato in materia di quantificazione del “fabbisogno da funzioni”
Lo Stato ha indubbiamente l’obbligo, ai sensi dell’articolo 119, di assicurare alle Regioni (e agli Enti locali) il finanziamento delle funzioni loro attribuite, stabilendo a tal fine l’ammontare del gettito derivante sia dalle compartecipazioni (ai tributi erariali) sia dai tributi propri in senso lato (quelli in senso stretto, come ho appena detto, sono la conseguenza dell’esercizio della potestà primaria ed esclusiva della Regione). Ma tale obbligo riguarda solo il finanziamento delle funzioni nel loro complesso e sconta una indubbia discrezionalità del legislatore statale nel fissare l’ammontare della spesa da finanziare in funzione delle più diverse politiche di finanza pubblica che intende realizzare (spesa, che può essere quella storica o quella, maggiore o minore, corrispondente al fabbisogno). Dall’esistenza di tale obbligo non può però derivare né, ovviamente, il divieto per lo Stato di ridurre l’importo originario della spesa da finanziare né, conseguentemente, l’impegno a rendere irreversibile nel tempo - e, perciò, non riducibile - l’ammontare delle entrate attribuite. L’obbligo posto a carico dello Stato di finanziare la spesa per le funzioni non si traduce, in altri termini, in un impegno a far seguire puntualmente ad ogni riduzione di aspettativa di gettito un corrispondente aumento ricavato da una fonte alternativa. La quantificazione del “fabbisogno da funzioni” spetta, ai sensi dell’art. 119, secondo comma, esclusivamente allo Stato in via di coordinamento e la decisione circa l’ammontare delle compartecipazioni o dei tributi “propri in senso lato”, quali fonti di finanziamento di tali spese, appartiene alla sfera della manovra macroeconomica di finanza pubblica, sfera che non può essere sindacata costituzionalmente con riferimento al principio di autonomia tributaria.

8.3. Conseguenze applicative
In conclusione, è difficile attribuire - come invece ha fatto la Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 37 del 2004 - a un singolo atto legislativo, che garantisce alle Regioni (e agli Enti locali) una quota di un tributo erariale, un effetto permanente e irreversibile, fino a convertire un tributo erariale in un tributo regionale (o locale) proprio in senso stretto. L’art. 119, primo e secondo comma non è interpretabile, cioè, nel senso che:
- la legge statale, una volta prevista l’attribuzione dell’addizionale, avrebbe la sola funzione di rendere l’addizionale stessa un tributo automaticamente sottratto alla competenza statale;
- l’addizionale, al momento in cui è istituita, troverebbe la sua giustificazione in un principio di autonomia inteso come definitiva sottrazione dell’addizionale alla disponibilità dello Stato.
La conseguenza negativa di impostazioni eccessivamente espansive del concetto di autonomia, come queste, è che lo Stato non potrebbe più “cancellare” o sospendere l’addizionale, ancorché questa sia una quota del tributo statale e verta sulla stessa base imponibile e ancorché l’intervento statale diretto ad eliminare o sospendere l’addizionale sia pienamente giustificato da ragioni di politica economica e redistributive.
Nella sostanza, la sospendibilità dell’addizionale consegue al fatto che quest’ultima è una delle fonti (di provenienza statale) di finanziamento delle spese regionali equiparabile alle compartecipazioni. Da queste si differenzia solo perché ad essa normalmente si accompagna l’attribuzione alla Regione di autonomia tributaria, e cioè di un potere di autodeterminare e istituire il tributo. In questa ottica, la novità del Titolo V sta solo nel quarto comma dell’art. 117 (che prevede la potestà esclusiva delle Regioni di stabilire e applicare tributi regionali e locali in senso stretto senza la necessaria mediazione della legge statale) e nel potere di coordinamento dello Stato per principi fondamentali previsto dall’art. 117, terzo comma. Il principio di autonomia di cui all’art. 119 continua invece a trovare applicazione - anche col nuovo Titolo V - all’interno della legge statale e, con riferimento ai tributi locali propri in senso stretto, all’interno della legge regionale.
Riterrei, perciò, che la sospensione del potere di aumento dell’addizionale, disposta con la legge finanziaria per il 2004, trovi la sua formale giustificazione nella esclusività del potere legislativo statale di istituire e disciplinare sia i tributi propri sia le “escrescenze” di tributi propri, come sono le addizionali. Il che non esclude che, in via transitoria e in una certa congiuntura, alla base del potere di sospensione ci sia anche la necessità di consentire allo Stato, nel passaggio da un sistema all’altro, di attuare manovre macro-economiche complessive dirette a ridurre sia la spesa pubblica (compresa quella regionale e locale) sia, correlativamente, la pressione fiscale e quindi a restringere specularmente anche lo spazio di autonomia tributaria originariamente accordato per far fronte alla spesa regionale e locale.

9. Osservazioni conclusive
Su questi e altri temi – resi sempre più attuali dalla crisi della finanza pubblica che stiamo attraversando e dalla mancanza di norme di attuazione della riforma costituzionale – credo che dovrà presto tornare la Corte costituzionale per chiarire la portata di alcune sue recenti sentenze in materia e risolvere alcune sue non solo apparenti contraddizioni. In particolare, essa non potrà non affrontare tra l’altro, i seguenti problemi: a) se e come i principi fondamentali di coordinamento si differenzino dai principi generali e da quelli supremi e se, addirittura, essi – come alcune sentenze parrebbero ritenere – costituiscano una mera antitesi delle norme di dettaglio, b) se, al fine di costruire un sistema tributario regionale e locale, sia sempre necessaria (e non solo opportuna) una previa legge-quadro statale che fissi “per iscritto” i principi fondamentali o se, invece, sia sufficiente – come un’altra sentenza ha ritenuto – che le regioni, nell’esercizio della loro potestà esclusiva, estrapolino esse stesse dall’ordinamento detti principi, c) se sussista realmente – come, si è visto, la sentenza n. 37 sembra propensa a ritenere – un generale obbligo costituzionale dello Stato di sostituire, sempre, con altre risorse le minori entrate derivanti dalla sospensione del potere dell’ente locale di aumentare le addizionali.
Su questi temi la Corte sarà incalzata dalla dottrina e, soprattutto, dalla varietà e complessità della casistica. Per cui mi pare assai difficile che essa possa in futuro sottrarsi al compito di intervenire più decisamente e di fissare – in attesa delle disposizioni attuative della riforma tributaria - criteri interpretativi netti e sistematici.

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