C’è un altro modo per esprimere un giudizio sulla riforma costituzionale in attesa dell’ormai imminente referendum del 4 dicembre 2016? È questa, nella sintesi espressa anche nel titolo, la riflessione cui si vuole invitare il lettore attraverso queste brevissime note, rivolte agli addetti ai lavori, ovvero ai costituzionalisti, e non alla generalità dei cittadini che saranno chiamati al voto né, tanto meno, ai politici (con particolare riferimento a quelli componenti l’attuale maggioranza).

Entrando subito nel merito, il costituzionalismo è soprattutto (qualora non si concordi sull’esaustività definitoria di tale formula), una teoria dei limiti al potere politico. Ovvero, un’analisi sistematica, quindi scientifica, delle modalità attraverso le quali il potere politico si manifesta e dell’eventuale travalicamento dei limiti di cui il costituzionalismo deve argomentare estensione e forme di custodia (affidata poi agli organi a ciò deputati). Anche nella sua manifestazione più alta e impegnativa, che prende forma attraverso la revisione costituzionale, massima e non recessiva dovrebbe essere l’attenzione su tali limiti del potere (costituito) che, pur rispettati nella nuda forma, potrebbero svuotarsi nella sostanza che li dovrebbe caratterizzare.

Ebbene, fermo restando che la forma dell’art. 138 della Costituzione è stata rispettata (ma la circostanza non prova troppo, se è vero che in caso contrario si sarebbe davanti a un attentato alla Costituzione?), nella sostanza della situazione politico-istituzionale attuale nessun osservatore, e nessun costituzionalista, può negare quanto segue: un Paese retto da una Costituzione rigida, e dunque dai principi del costituzionalismo contemporaneo, vive una situazione nella quale il Governo in carica starà o cadrà a seconda se verrà approvata la riforma di ben 47 articoli della Costituzione. Il Governo, ovvero la maggioranza parlamentare (della quale in questa sede può anche, a fatica, trascurarsi la claudicante legittimazione, dopo la sent. n. 1 del 2014 della Corte costituzionale), ovvero il potere, ha legato volontariamente ed espressamente la sua sopravvivenza a ciò che strutturalmente, fondamenti del costituzionalismo alla mano, non gli compete: ha legato, cioè, la sua permanenza al mutamento di quei limiti che dovrebbero contenerne l’azione. E la circostanza, si converrà sul punto, appare alquanto sospetta o, almeno, non proprio secondaria per l’udito attento di un costituzionalista: il quale, senza nemmeno indugiare nel merito analizzando le singole nuove disposizioni costituzionali, dovrebbe interrogarsi sulla sostenibilità scientifica di una riforma costituzionale a marca così sfrontatamente governativa.

Piccolo passo indietro. Nella seduta del 20 gennaio 2016 in aula al Senato, quindi non alla stampa o in programmi televisivi o sui così detti social media, ma in una sede (e in un atto) istituzionale che obbliga alla considerazione, il Presidente del Consiglio ha dichiarato: «Ho personalmente affermato davanti alla stampa, e lo ribadisco qui davanti alle senatrici e ai senatori, che nel caso in cui perdessi il referendum, considererei conclusa la mia esperienza politica» (notare il verbo, «perdessi», coniugato alla prima persona singolare)[1]. Si tratta a ben guardare della sede, il Senato della Repubblica, che consente (almeno ai sensi della Costituzione ancora vigente) la vita e la permanenza in carica di un esecutivo, attraverso una manifestazione di quel potere prima politico (il consenso sul programma di governo) poi giuridico (il voto di fiducia) che individua la forma di governo parlamentare. In quella sede, insomma, le parole contano, se è vero che là il governo proprio con le parole compone il discorso programmatico per l’ottenimento della fiducia: in quella sede, dunque, con le parole il governo non fa spettacolo o propaganda, ma sottoscrive impegni.

Esorbitando nettamente dal ruolo assegnatogli, che è quello di realizzare l’indirizzo politico, il Governo esibisce così la paternità di un qualcosa di addirittura superiore a quello che Paolo Barile definiva l’indirizzo politico costituzionale (affidato, secondo l’A., al Presidente della Repubblica). Non si tratta, infatti, di dipanare un discorso costituzionale già scritto nelle disposizioni in vigore, ma di sostituirlo con un discorso proprio, che il Governo rivendica come a sé riconducibile: il Governo non si fa interprete, peraltro non autorizzato (se non nei limiti dell’indirizzo politico che propone al Parlamento), della Costituzione vigente; non attua il menzionato indirizzo politico costituzionale, quid minus rispetto alla riforma e già comunque, almeno in buona parte, fuori dal raggio d’azione governativa: si intesta addirittura le parole a fondamento di quel discorso, promuovendole peraltro (anche dal punto di vista strettamente propagandistico) attraverso la potente dotazione di strumenti di cui dispone (ma, ovviamente, di cui dispone per tutt’altre finalità).

Che la paternità della riforma costituzionale sia da ascrivere al Governo è, pertanto, constatazione a confutare la quale si rischia un’inevitabile patente d’ingenuità (tutti lo sanno, e i costituzionalisti scelgono di ignorarlo): perché, altrimenti, il Governo (rectius: il Presidente del Consiglio) in carica dovrebbe dimettersi per la bocciatura di scelte che non sono ad esso in qualche modo riconducibili? Ne fa forse una questione di principio?

Si dirà che trattasi di paternità politica. E quindi di un qualcosa che esula dal discorso costituzionalistico. Ma l’obiezione non è così granitica come potrebbe sembrare.

Intanto, tale presunta paternità politica comporterà non secondarie conseguenze giuridiche, prima fra tutte le dimissioni (immediate o ritardate poco rileva) dell’Esecutivo: a dimostrazione del labile confine in argomento, ma un po’ in tutto il diritto costituzionale, tra diritto e politica, e quindi tra forma e sostanza. Peraltro, se si nota bene, la dichiarazione del Presidente del Consiglio rappresenta un reingresso non richiesto della sostanza nella discussione: nel senso che da nessuna parte è scritto, e quindi la forma non prevede, che un governo debba dimettersi in caso di non approvazione di un referendum costituzionale. Nella procedura di revisione in corso che si concluderà il 4 dicembre, la forma dell’art. 138 è stata rispettata ma, in un brusco ritorno alla sostanza, la disapprovazione popolare genererà le dimissioni del Governo (non previste dalla forma): a dimostrazione che il balletto tra forma e sostanza, ovvero ragionare formalmente (cioè giuridicamente) o sostanzialmente (cioè politicamente) a seconda del singolo nodo da sciogliere all’interno dello stesso discorso, produce risultati abbastanza scadenti quanto a valore euristico.

Inoltre, a sostegno dei dubbi circa la rilevanza soltanto politica e non giuridica della posizione del Governo, si dovrebbe discutere su quanto tale posizione possa incidere sul voto del 4 dicembre, laddove il libero convincimento del corpo elettorale, peraltro già compresso dall’evidente disomogeneità del quesito referendario (una disomogeneità oggettiva innegabile, e ciò a prescindere dalla sua possibile rilevanza giuridica), potrebbe subire un’ulteriore compressione. È stato scarsamente considerato un dato al contrario diffusamente riscontrabile: un numero non irrilevante di elettori potrebbe ritenere non desiderabile, o magari esiziale, l’apertura oggi di una crisi di governo, al punto che lo stesso numero di elettori potrebbe esclusivamente, ma è sufficiente anche che ciò abbia una ricaduta parziale, esprimere il suo consenso alla riforma costituzionale proprio per evitare tale evenienza (le dimissioni cui il Presidente del Consiglio si è impegnato davanti al Senato).

Ma, soprattutto, agli occhi di un costituzionalista, una riforma costituzionale governativa dovrebbe indurre un allarme tale da relegare sullo sfondo tutto il resto, ivi compreso il suo contenuto. Francamente, non convince affatto la posizione secondo la quale, dopo aver constatato il rispetto dell’art. 138 Cost., si possa tranquillamente procedere all’esegesi della riforma, quale unica via per maturare un giudizio sulla stessa.

Si potrebbe di nuovo obiettare, in generale, sulla politicità dell’argomentazione avanzata in questa sede, e dunque sulla sua irrilevanza in un discorso giuridico costituzionale. E a sostegno dell’obiezione rilevare: esiste ad oggi un rimedio giuridico a tale situazione?

Ovviamente, no. Il diritto costituzionale italiano non dispone ad oggi di strumenti giuridici per impedire riforme costituzionali nate per impulso e forte volontà governativa: un Governo eccede quindi rispetto alla propria collocazione e ruolo costituzionali, e il diritto non ha (o forse rinuncia ad avere) risposte. Sembra, si consenta, una riedizione della situazione esistente all’epoca delle così dette leggi ad personam, prima fra tutte la legge-Alfano (legge n. 124 del 2008), nata al pretestuoso fine della protezione  delle  funzioni  di  alcuni  organi  costituzionali ma, come da tutti all’epoca compreso (oggi forse lo si può dire), approvata anch’essa sfrontatamente dalla maggioranza parlamentare (peraltro in circa 20 giorni, nonostante il bicameralismo paritario…) per sottrarre ai procedimenti giurisdizionali l’allora capo di quella maggioranza, ovvero il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: e tuttavia, anche all’epoca dottrina e giurisprudenza costituzionale si divisero e faticarono non poco per sostenere l’annullamento di tale legge, in un complicato e non sempre lineare ricorso all’art. 3 e alla violazione del principio di eguaglianza, anziché a un impraticato e ancora impraticabile ricorso all’eccesso di potere legislativo (figura inesistente e lontana di cui, però, oggi come all’epoca, i sintomi sono di nuovo molto visibili).

Il punto, tuttavia, non è questo. Perché non è affatto pacifico che la contingente inesistenza di un rimedio giuridico a una situazione nella quale il Governo in carica lega la sua permanenza all’approvazione di una corposissima riforma costituzionale renda non giuridico il problema, e sia sufficiente a svincolarlo dal discorso costituzionalistico. La situazione, cioè, non dovrebbe comunque esimere i costituzionalisti dall’analizzare questo aspetto, dall’esprimere anzitutto un giudizio su questo aspetto e, si consenta ancora, a non ritenerlo così pacifico: perché non è affatto pacifico che, in un sistema a costituzione rigida, un Governo s’intesti una riforma costituzionale (peraltro, di tali proporzioni), legando addirittura la sua permanenza all’approvazione popolare della stessa.

D’altra parte, il rimedio giuridico oggi inesistente e che, in quanto inesistente, consentirebbe l’afasia degli operatori del diritto costituzionale sul punto, non sarebbe molto lontano. Non un Paese collocato in qualche atollo tropicale, ma la tanto invocata e vicina Germania, non potrebbe mai vivere tale situazione, in ragione della necessità, per le riforme costituzionali, del voto favorevole dei «due terzi dei membri del Bundestag e dei due terzi dei voti del Bundesrat» (art. 79, comma 2, della Legge fondamentale per la Repubblica Federale di Germania). Là è impossibile che si verifichi quanto in Italia si sta verificando, o che si verifichi nelle forme e nelle misure in cui oggi in Italia si sta verificando. Qua, basterebbe un (improcrastinabile?) ritocco in quella direzione all’art. 138 (quella in corso, come di recente è stato rimarcato, sorvola su tale punto) e una riforma costituzionale governativa non potrebbe più fare ingresso nell’ordinamento.

Tutto sommato, si fa presto a transitare dalla sostanza alla forma. La domanda cruciale è se l’enorme bagaglio scientifico e culturale offerto in dote dal costituzionalismo e dalla sua storia debba attendere passaggi formali (e si converrà, un po’ banali) di questo tipo prima di desumere dai suoi stessi principi tutte le perplessità del caso sulla questione. Perplessità che potrebbero condurre anche a tale posizione: fermo restando che, diritto positivo alla mano, la riforma in atto è formalmente legittima, la stessa si pone in forte ed insanabile contrasto con i principi fondanti il costituzionalismo contemporaneo.

La riforma costituzionale in corso, in definitiva, è percepita da tutti, Presidente del Consiglio in testa, quale prova della forza effettiva della corrente maggioritaria del partito di governo (nemmeno del partito nella sua interezza) e di colui che ne è alla guida; ciò, sia detto per inciso, è talmente vero che in molte realtà locali, ovvero in molti Comuni nei quali si andrà al voto amministrativo nella prossima primavera, le cronache riportano come si stia attendendo il 4 dicembre per far luce sulla forza effettiva del Partito Democratico (il partito del Presidente del Consiglio), ai fini delle strategie politiche utili alla individuazione delle possibili alleanze e dei possibili candidati alla carica di Sindaco: ciò, qualora si nutrissero dubbi sulla valenza di parte, quindi maggioritaria e nemmeno lontanamente ispirata da un benché minimo, indispensabile ed autentico spirito costituente (o spirito di revisione) della riforma in atto.

La Costituzione e la sua riforma al servizio delle sorti politiche di chi l’approva e sostiene determina o non determina una smaccata distorsione della sua funzione e un palese travalicamento costituzionale dei limiti del potere politico?

Tale (retorica) domanda, e la risposta inevitabilmente affermativa sono sufficienti, a modesto avviso di chi scrive, per esprimere una ferma contrarietà alla riforma in atto, inammissibile per carenza di quei presupposti che, principi del costituzionalismo alla mano, dovrebbero costituirne il fondamento.

Alessandro Gentilini

(ricercatore in Diritto pubblico del CNR-ISSIRFA)

 


[1] Resoconto stenografico, p. 134, in:ù

http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/956844.pdf

 

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