(Rielaborazione e ampliamento della relazione presentata al Seminario "L’impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni. La prospettiva italiana, spagnola ed europea", organizzato dall’ISSiRFA-CNR, dalla LUMSA e dall’Università di Macerata e svoltosi a Roma, presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA, il 13 novembre 2014.  Una prima versione del contributo è stata pubblicata su Le Regioni, n. 5-6 del 2014. Il lavoro è frutto della comune riflessione delle autrici, tuttavia la stesura dei paragrafi 1, 2, 3, 5 è da attribuire ad Elena Innocenti, quella dei paragrafi 4, 6, 7, 8 ad Elena Vivaldi. Il paragrafo finale è stato redatto congiuntamente).
 
 
1. Premessa
2. Alcuni dati di contesto
3. Sull’accesso agli interventi di contrasto alla povertà: i criteri di selettività praticati a livello regionale. L’ISEE
4. (segue) L’anzianità di residenza sul territorio regionale
5. Le azioni regionali di contrasto alla povertà prima e dopo la crisi
6. Il contrasto alla povertà come obiettivo di politica pubblica: dagli indirizzi europei alle attuazioni locali. Il caso del patto di riscatto sociale del Comune di Milano
7. Il ruolo del volontariato e del terzo settore nell’attuazione del diritto all’assistenza sociale
8. Le conseguenze connesse all’eventuale approvazione del ddl di riforma costituzionale all’esame del Parlamento
9. Prospettive e criticità
 
 
1. Premessa
Il contrasto alla povertà è un obiettivo tradizionalmente perseguito attraverso gli interventi di assistenza, e ha assunto negli anni della crisi una dimensione qualitativa e quantitativa sempre più rilevante, interessando fasce di popolazione sempre più ampie, e connotandosi in modo molto diverso nelle regioni italiane.
Il diritto all’assistenza, costituzionalmente riconosciuto ex art. 2, 3 e 38 Cost.[1], è forse tra i diritti sociali comunemente intesi quello caratterizzato dal maggior “polimorfismo attuativo”: per il diritto alla salute e all’istruzione, ad esempio, oggetto di altri contributi del presente volume, esistono sistemi di risposte strutturate in termini di servizi, siano essi pubblici o privati, attraverso i quali il diritto trova attuazione, riconducibili al sistema sanitario e al sistema scolastico. Il diritto all’assistenza storicamente si esplica attraverso una combinazione, spesso del tutto casuale, di servizi (il servizio sociale professionale, gli interventi domiciliari, intermedi e residenziali di diversa complessità) e di prestazioni monetarie, con una evidente e perdurante prevalenza di queste ultime[2].
La valenza teleologica del diritto, «inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana» (ex multis, sentenza n. 10 del 2010), prevale sulla dimensione ontologica dello stesso, tale per cui qualsiasi strumento, rectius prestazione, può essere considerata satisfattiva del diritto, purché orientata all’obiettivo di fornire mezzi adeguati alla persona in situazione di bisogno. Ciò sarebbe del tutto fisiologico, se vi fosse una disponibilità di risposte diffusa in modo tendenzialmente omogeneo, o meglio ancora, congrua rispetto ai bisogni sociali esistenti. Diventa invece una forte criticità laddove le diverse tipologie di risposta si sviluppino, come nella realtà accade, “a prescindere” da una effettiva corrispondenza con le situazioni di bisogno e da una loro reale efficacia nel soddisfare le istanze di protezione cui sono finalizzate, nonchè in assenza di quella che in ambito europeo è definita l’affordability dei servizi sociali di interesse generale, cioè la loro effettiva disponibilità e accessibilità[3].
L’altro aspetto che contraddistingue l’attuazione del diritto all’assistenza è la frammentazione del suo finanziamento[4]: come vedremo anche nel testo, vi sono interventi assistenziali finanziati dallo stato, altri dalle regioni, altri ancora dagli enti locali, altri ancora in cui confluiscono una pluralità di fonti di finanziamento, la cui quantificazione e distribuzione avviene in base a fonti normative diverse. I fondi nazionali, sempre più esigui, sono ripartiti in sede di legge di stabilità, e liquidati in seguito alla loro ripartizione su base regionale concordata in conferenza Stato – Regioni; i fondi regionali sono definiti in sede di bilancio preventivo, in base alle disponibilità del periodo, alla “prassi” interna alla regione, alle leggi di finanziamento settoriale di interventi sociali che la singola regione ha adottato negli anni; le risorse comunali, che per inciso sono quelle destinate in via prevalente al finanziamento del sistema dei servizi sociali propriamente inteso, variano da anno ad anno e da territorio a territorio in misura considerevole[5].
Al tempo stesso, con riferimento al contrasto alla povertà, a fronte di un sostanziale immobilismo del livello statale di intervento[6], a livello regionale, sia prima che dopo l’avvio della crisi, sono numerosi gli interventi posti in atto. In questo contesto, il presente contributo intende approfondire le modalità con le quali le Regioni, attraverso la potestà legislativa residuale in materia di assistenza sociale[7], hanno tentato di rispondere alla crisi economica nazionale e internazionale[8] e di contrastare la vulnerabilità economica crescente di persone e famiglie.
L’assistenza è inoltre uno degli ambiti di intervento legislativo regionale dove maggiore è stato il ricorso a forme di sussidiarietà orizzontale[9], nei processi di elaborazione delle politiche e di attuazione degli interventi, con un crescente protagonismo dei soggetti sociali, di cui il volontariato costituisce una peculiare espressione: quale “modello fondamentale” dell’azione dell’individuo, che gratuitamente e spontaneamente offre proprie prestazioni a favore di altri individui o della collettività; tale da partecipare “della natura dei diritti fondamentali” (C. Cost., sentenza n.75 del 1992). L’apporto che quindi il volontariato può offrire in ambito assistenziale è qualificato da queste dimensioni, ontologiche e teleologiche, di evidente pregnanza costituzionale.
La triangolazione che viene a crearsi tra i tre elementi del titolo (la materia dell’assistenza, l’obiettivo prioritario del contrasto alla povertà, il ruolo del volontariato), costituisce la cornice entro la quale è stata approfondita l’attività legislativa regionale.
 
2. Alcuni dati di contesto
L’Italia è stata caratterizzata fino al 2011 da una sostanziale stabilità dell’incidenza della povertà sulla popolazione: sia i dati riferiti alla povertà assoluta che quelli relativi alla povertà relativa delineavano un quadro abbastanza statico, con una forte sperequazione tra Centro-Nord e Sud del paese e una sostanziale incapacità dei trasferimenti economici pubblici di ridurre significativamente il rischio di caduta in povertà della popolazione interessata.
Dopo un trend leggermente in aumento a partire dal 2008 e fino al 2011, le cifre della povertà sono aumentate in modo più significativo nel 2012 e ancora nel 2013. Dai dati Istat[10] emerge che, in conseguenza di queste tendenze, l’incidenza percentuale di povertà relativa tra gli individui è passata dal 12,8% nel 2007 al 16,6% nel 2013 (tra le famiglie, dall’11,1% al 12,6% nello stesso periodo), l’incidenza di povertà assoluta individuale è passata dal 4,1% nel 2007 al 9,9% nel 2013 (tra le famiglie, dal 4,1% al 7,9% nel medesimo periodo). Le sperequazioni interne sono ancora più evidenti, con tassi di povertà relativa e assoluta multipli nel meridione rispetto alle regioni del centro nord e con una crescente diffusione di povertà e disagio economico anche in territori dove, sino alla crisi, la povertà era un fenomeno marginale e circoscritto[11].
Nel 2013, in Italia il 12,6% delle famiglie è in condizione di povertà relativa (per un totale di 3 milioni 230 mila) e il 7,9% lo è in termini assoluti (2 milioni 28 mila). Le persone in povertà relativa sono il 16,6% della popolazione (10 milioni 48 mila persone), quelle in povertà assoluta il 9,9% (6 milioni 20 mila). Dopo il marcato aumento registrato tra il 2011 e il 2012, la percentuale di famiglie italiane “relativamente povere” nel 2013 è rimasta sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente, sia a livello nazionale complessivo (dal 12,7% nel 2012 al 12,6% nel 2013) sia nelle diverse macro-aree del Paese (dal 6,2% al 6% nel Nord, dal 7,1% al 7,5% nel Centro, dal 26,2% al 26% nel Mezzogiorno). Accanto alle famiglie povere in senso relativo, l’Istat stima la diffusione delle famiglie “quasi povere”[12]: nel 2013 rappresentavano il 6,4% dei nuclei familiari italiani (oltre 1,6 milioni di nuclei), contro il 5,6% nel 2012 (1,4 milioni). L’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie italiane, dopo il marcato incremento registrato nel 2012 sul 2011 (dal 5,2 al 6,8 per cento), è ulteriormente aumentata anche nel biennio 2012-2013, a livello nazionale (dal 6,8% al 7,9%) e in tutte e tre le ripartizioni territoriali (leggermente nel Nord – dal 5,5% al 5,7%, più sensibilmente nel Centro – dal 5,1% al 6%, e soprattutto nel Mezzogiorno – dal 9,8% al 12,6%).
Secondo i dati Eurostat nel 2013 il 28,4% della popolazione italiana è a rischio di povertà o esclusione sociale, cioè è a rischio di povertà in termini reddituali, soffre di deprivazione materiale grave, vive in famiglie con intensità di lavoro molto bassa. Si tratta di un valore in significativo aumento rispetto al 25,3% stimato nel 2008.
La situazione del mercato del lavoro contribuisce a definire un quadro nazionale preoccupante: secondo i più recenti dati Istat, in Italia il tasso di disoccupazione a settembre 2014 è pari al 12,6%, con un incidenza maggiore fra le donne (13,9%) rispetto agli uomini (11,6%). Nello stesso mese, il tasso di disoccupazione tra i giovani 15-24enni è stimato al 42,9%, due punti percentuali in più rispetto a un anno prima (settembre 2013).
A corredo di questi dati, uno studio europeo pubblicato nel 2013 ha messo a confronto l’Italia con gli altri paesi OCSE al fine di misurare la distribuzione del reddito nella popolazione[13]. L’indice utilizzato è il coefficiente di Gini: il valore minimo del coefficiente è pari a zero, quando tutti i componenti di una data popolazione detengono esattamente lo stesso reddito. Il valore massimo è pari a uno, e corrisponde all’ipotesi teorica per cui un unico soggetto detenga tutta la ricchezza di una data popolazione. Valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea, valori alti una distribuzione più disuguale. A fronte di un dato medio OCSE pari a 0,31, l’Italia risulta essere il secondo paese europeo per diseguaglianza, con un indice di 0,34, dopo la Gran Bretagna (0,35), e terzo nella classifica OCSE, dopo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti (0,38).
I paesi considerati nello studio sono stati classificati per gruppi omogenei, a seconda delle dinamiche registrate tra gli anni Ottanta e la prima decade del Duemila. I paesi continentali europei (Germania, Francia, Austria, Belgio e Lussemburgo) hanno un indice di disuguaglianza tendenzialmente stabile, tra 0,26 e 0,30; un secondo gruppo è composto dai paesi nordici, con i valori più bassi (0,25 -0,26) e un trend crescente di disuguaglianza, comunque nettamente inferiore alla media OCSE; un terzo gruppo raggruppa le economie di mercato (tra cui Usa, Australia, Regno Unito), in cui le disuguaglianze tendono a essere elevate. L'Italia fa parte del gruppo dei paesi mediterranei, nei quali si evidenziano livelli di disuguaglianza abbastanza alti e con una tendenza all’aumento dell’indice dagli anni 90 in poi.
Sul versante della risposta pubblica per il contrasto alla povertà, i dati sulla spesa sociale offrono una efficace esemplificazione del diverso livello di tutela esistente nel territorio nazionale: la spesa sociale sostenuta dai comuni nel 2011 per povertà e disagio economico varia dai 8,1 euro procapite della Calabria ai 102,2 della Sardegna. La spesa sociale complessiva, quella cioè destinata a finanziare l’insieme degli interventi sociali (servizi e trasferimenti) erogati dai comuni alla popolazione residente oscilla tra i 25,6 euro pro capite della Calabria e i 282,5 euro della provincia autonoma di Trento. Tra le regioni ordinarie, il valore più alto è quello dell’Emilia-Romagna, pari a 168,2 euro procapite.
Nel 2011, per la prima volta da quando viene monitorata, la spesa sociale dei Comuni ha subito una riduzione (-1,4%), passando da 7.127 milioni di euro (117,8 euro pro capite) a 7.027 milioni di euro (115,7 euro pro capite). Tra il 2003 e il 2009 il tasso di incremento medio annuo era stato del 5,3%. In calo anche la spesa per povertà e disagio (-2% in Italia), la spesa per contributi ad integrazione del reddito familiare è diminuita a livello italiano dell’8%, mentre gli utenti sono aumentati o rimasti costanti[14].
Questi dati di contesto offrono una base informativa di natura socioeconomica e statistica che quantifica e qualifica la situazione del nostro paese in termini di forte ed endemica criticità[15]. La crisi che ha colpito le economie occidentali dal 2009-2010 in avanti ha aggravato una situazione già fortemente pregiudicata, a fronte della quale le politiche e gli interventi attuati sinora nell’ambito del nostro stato sociale non hanno avuto esiti redistributivi ed equitativi coerenti con i principi fondamentali assunti in Costituzione[16]. La breve analisi della produzione normativa regionale recente in materia assistenziale, e in particolare in riferimento al contrasto delle povertà, vuole verificare se a fronte di un intervento statale residuale e frammentato sia possibile individuare a livello regionale strumenti di intervento più efficaci nel “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
 
3. Sull’accesso agli interventi di contrasto alla povertà: i criteri di selettività praticati a livello regionale. L’ISEE.
Nella regolazione degli interventi e nella definizione delle politiche assistenziali riveste un ruolo fondamentale la scelta dei criteri di accesso alle misure introdotte, cioè l’attuazione del così detto principio dell’universalismo selettivo[17]. Come è stato scritto qualche anno fa «siccome la spesa sociale deve garantire diritti universali, ma al contempo deve fare i conti con le risorse disponibili, la selezione dei destinatari non è un’opzione, ma una necessità per garantire l’effettività dei diritti»[18].
La casistica regionale e locale esaminata mostra la ricorrenza di due principali criteri di selettività per l’erogazione di interventi di sostegno al reddito: la valutazione della condizione economica, realizzata prevalentemente attraverso l’applicazione dell’ISEE e la residenza più o meno protratta nel territorio regionale.
L’ISEE si applica ad una pluralità di prestazioni, per il cui accesso sia necessaria la “prova dei mezzi”, comprese le prestazioni sociali (servizi e interventi economici) e le prestazioni sociali agevolate, cioè destinate a chi è in possesso di particolari requisiti di natura economica, ovvero collegate nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche. Giova ricordare che l’introduzione dell’ISEE, avvenuta nel 1998, doveva servire, ed è in parte servita, a fornire uno strumento unitario di valutazione della situazione economica delle persone che richiedevano prestazioni e interventi in forma agevolata, o subordinate comunque all’accertamento di una condizione di limitatezza delle risorse economiche disponibili. Come poi esplicitato nella legge quadro n. 328 del 2000, l’introduzione dell’ISEE era funzionale alla realizzazione di quell’universalismo selettivo, assunto a principio ordinatore l’accesso ai servizi, in base al quale la priorità di accesso è attribuita alle persone in condizioni di bisogno più grave, in situazione di povertà o con reddito limitato[19].
L’utilizzo “a macchia di leopardo” dello strumento, evidenziato in tutti i rapporti di monitoraggio pubblicati dal Ministero competente[20], e confermato anche dalla legislazione in materia di contrasto alla povertà di seguito esaminata, ha determinato la coesistenza dell’ISEE con altri strumenti di valutazione della situazione economica. La vecchia disciplina, infatti, contenuta nella legge n. 109/1998 prevedeva, all’articolo 1, comma 3, la possibilità «per gli enti erogatori di prevedere criteri differenziati in base alle condizioni economiche e alla composizione della famiglia». Ciò ha comportato in molte realtà territoriali (regioni e comuni), in sostituzione o ad integrazione dell’ISEE nazionale, l’attuazione di varianti della “prova dei mezzi”.
A livello regionale, ad esempio, la regione Lombardia e le province autonome di Trento e Bolzano hanno adottato propri misuratori della capacità dei mezzi denominati, rispettivamente, Fattore Famiglia Lombardo (FFL), Indicatore della Condizione Economica Familiare (ICEF) e Dichiarazione Unificata di Reddito e Patrimonio (DURP) che differiscono notevolmente dall’Isee nazionale. In sostanza, mentre gli ultimi due hanno modificato la determinazione della componente reddituale, passando dall’applicazione del criterio di reddito disponibile, adottato dall’Isee nazionale, a quello di reddito spendibile (ovvero al netto di una serie di spese sostenute dal nucleo familiare), il primo ha modificato la scala di equivalenza e le franchigie, presenti anche nell’ISEE nazionale sia sui redditi che sul patrimonio, a favore dei nuclei più numerosi. Altre regioni, hanno introdotto forme speciali di ISEE per la valutazione economica finalizzata all’accesso e alla compartecipazione alla spesa per gli interventi destinati a persone non autosufficienti[21], oppure hanno affiancato all’ISEE forme di valutazione della capacità economica basate non sulle risorse disponibili ma sulla capacità di spesa[22].
A livello locale, ogni ente erogatore ha determinato in modo autonomo le soglie di esenzione e di agevolazione tariffaria, e, più in generale, la regolazione dell’accesso e della compartecipazione alla spesa per gli interventi erogati, utilizzando in alcuni casi l’ISEE, in altri il reddito.
Questa situazione di fatto (e di diritto) potrebbe mutare con l’entrata in vigore della nuova disciplina dell’indicatore[23]. Il regolamento di riforma dell’indicatore sintetico della situazione economica equivalente (ISEE), adottato con decreto del presidente del consiglio dei ministri 3 dicembre 2013 n. 159 (Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente), ha definito esplicitamente l’ISEE quale livello essenziale delle prestazioni, strumento obbligato per la valutazione della situazione economica dei richiedenti i servizi[24]. Già la sentenza della Corte costituzionale n. 297 del 2012 aveva definito l’ISEE quale livello essenziale delle prestazioni, accogliendo la questione di costituzionalità sollevata dalla regione Veneto in ordine all’art. 5 del decreto legge n. 201/2011 e affermando la conseguente necessità “costituzionale” della collaborazione delle Regioni nella definizione dei livelli essenziali di assistenza sociale[25]. La riconduzione dell’istituito nell’ambito della competenza statale in materia di livelli essenziali di assistenza sociale fa sì che l’entrata in vigore della normativa sull’ISEE costituisca un primo, interessantissimo banco di prova circa la “tenuta” del sistema previsto dalla Costituzione per coniugare autonomia e garanzia dei livelli essenziali “sociali” su tutto il territorio nazionale. Nel decreto si cerca, infatti, di contemperare due interessi contrapposti in gioco, ovvero le istanze di definizione di uno strumento unitario di valutazione della capacità economica, la cui applicazione possa estendersi su tutto il territorio nazionale, e il riconoscimento della autonomia regionale e comunale nell’esercizio delle rispettive competenze. Fermo restando la possibilità, come espresso nella norma, di affiancare all’ISEE altri strumenti di valutazione e selezione degli aventi diritto alle prestazioni, non sembra però che la definizione dell’ISEE come livello essenziale consenta una disapplicazione legittima dell’istituto o una sua sostituzione con altre modalità di valutazione della situazione economica, in sede legislativa o amministrativa[26]. La qualificazione dell’ISEE come livello essenziale delle prestazioni può quindi determinare una maggiore uniformità nelle modalità di valutazione della situazione economica, con importanti conseguenze sia sul versante delle competenze legislative regionali, sia sul versante applicativo per l’autonomia comunale[27].
 La recente riforma dell’ISEE è inoltre un esempio di assunzione in sede nazionale di soluzioni legislative già adottate e sperimentate in sede regionale.
Uno degli aspetti più discussi della nuova formula riguarda «l’adozione di una nozione di reddito disponibile finalizzata all’inclusione anche di somme fiscalmente esenti», prevista dall’art. 5 del decreto legge 201 del 2011, attuata in sede regolamentare includendo nel calcolo della componente reddituale dell’indicatore reddito disponibile anche i «trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche» (art. 4, comma 2, lett. f).
Questa previsione è stata recentemente oggetto di annullamento da parte del TAR Lazio[28], che ha motivato la propria decisione in merito sottolineando che le  provvidenze economiche per prestazioni sociali e sociosanitarie agevolate sono «concesse ai disabili al mero fine di recuperare lo svantaggio in cui si trovano e per assicurare la realizzazione di diritti costituzionalmente riconosciuti». Includerle nel computo dell’ISEE «creava un evidente ulteriore svantaggio per le famiglie già gravate dalla presenza di persone con disabilità e si poneva in contraddizione con la natura di tali provvidenze, svolgenti funzione non di incremento del reddito ma di contrappeso allo stato di bisogno e allo svantaggio sociale, senza tradursi in un arricchimento del nucleo familiare ma avendo destinazione di ausilio e compensazione al fine di ottenere prestazioni sociali o agevolazioni fiscali collegate»[29].
A parere del giudice amministrativo, la disposizione legislativa di riferimento, indicando tra i criteri di intervento normativo l’adozione di una nozione di reddito che includesse anche somme fiscalmente esenti, andava interpretata e attuata nel senso di eliminare precedenti situazioni ove si rappresentavano privi di reddito soggetti in realtà dotati di risorse, anche cospicue, ma non sottoponibili a dichiarazione IRPEF. A tale scopo la sentenza richiama «i redditi prodotti e tassati all’estero (ed ecco il richiamo alla componente patrimoniale sita all’estero di cui all’art. 5 cit.), le pensioni estere non tassate in Italia, i lavoratori di stato estero (Città del Vaticano), i lavoratori frontalieri con franchigia esente IRPEF, il coniuge divorziato che percepisce assegno di mantenimento di figli». Il giudice amministrativo in merito sottolinea come non sia «dato comprendere per quale ragione, nella nozione di “reddito”, che dovrebbe riferirsi a incrementi di ricchezza idonei alla partecipazione alla componente fiscale di ogni ordinamento, sono stati compresi anche gli emolumenti riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o risarcitorio a favore delle situazioni di “disabilità”, quali le indennità di accompagnamento, le pensioni INPS alle persone che versano in stato di disabilità e bisogno economico, gli indennizzi da danno biologico invalidante, di carattere risarcitorio, gli assegni mensili da indennizzo ex ll. nn. 210/92 e 229/05».
La disposizione legislativa richiamata lascia in effetti ampi margini di interpretazione, limitandosi a indicare un criterio abbastanza generale di definizione delle prestazioni economiche da includere nel nuovo strumento[30]. In sede di regolamento è stata assunta una definizione estremamente ampia di provvidenze incluse nella determinazione dell’ISEE, compresi tutti i « trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari,  incluse carte di debito, a  qualunque  titolo  percepiti  da  amministrazioni pubbliche». Una tale scelta, peraltro avvenuta nell’ambito di un procedimento descritto come fortemente “partecipato” dalle principali associazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari[31], ha dei precedenti analoghi in ambito regionale.
In alcune delle regioni che hanno disciplinato la compartecipazione alla spesa per i servizi e gli interventi a favore di persone non autosufficienti, infatti, è stato previsto di includere nella valutazione della situazione economica dei richiedenti anche le provvidenze economiche assistenziali, in primis le indennità di accompagnamento.
A titolo di esempio, l’art. 14, comma 2, lett. b della legge regionale toscana istitutiva del fondo per la non autosufficienza (legge regionale n.66 del 2008) prevede che per la determinazione della compartecipazione alla spesa «nel caso di prestazioni di tipo residenziale, oltre alla situazione reddituale e patrimoniale della persona assistita, determinata secondo il metodo ISEE, sono computate le indennità di natura previdenziale e assistenziale percepite per il soddisfacimento delle sue esigenze di accompagnamento e di assistenza». Ancora, la delibera di giunta regionale n. IX/3779 del 18/07/2012 della regione Lombardia, istitutiva della sperimentazione del Fattore Famiglia Lombardo già richiamato, prevede espressamente che nella determinazione della situazione economica della famiglia si aggiunga al reddito della persona assistita che richiede una prestazione «il computo delle prestazioni economiche previdenziali o assistenziali, a qualsiasi titolo percepite dalla persona assistita. In presenza di richiesta relativa all’accesso a unità d'offerta residenziali per anziani e disabili, tali prestazioni vengono computate al cento per cento; nel caso di accesso a unità d'offerta semiresidenziali per anziani e disabili, tali prestazioni economiche vengono computate al cinquanta per cento». L’Emilia Romagna, infine, con legge regionale n. 24 del 2009 ha riformato la disciplina della compartecipazione al costo dei servizi sociali e sociosanitari, prevedendo «quale criterio ulteriore, ai fini della valutazione della situazione economica equivalente dell'assistito, del computo di eventuali indennità di carattere previdenziale e assistenziale percepite dall'utente, considerate esenti ai fini IRPEF, da definirsi nella stessa direttiva, fatte salve le indennità di natura risarcitoria» (art.49, comma 3, lett. b, legge regionale n. 2 del 2003 novellata).
Gli esempi richiamati evidenziano come a livello regionale, prima che a livello nazionale, il problema di individuare nuove forme di selettività nella valutazione della situazione economica dei richiedenti servizi e prestazioni sociali sia stato affrontato introducendo soluzioni che vanno a “pesare” tutte le componenti economiche rilevabili. L’intervento statale trova quindi precedenti del tutto analoghi a livello regionale, e poteva, se diversamente condotto, portare a una disciplina uniforme della valutazione della situazione economica, che costituisce il “cuore” della definizione dell’ISEE quale livello essenziale di assistenza.
Al di là delle considerazioni di merito sulla recente vicenda giurisprudenziale (l’intervento demolitorio del giudice amministrativo risolve la questione o apre ulteriori e ben più complessi problemi attuativi?[32]) lo strumento regolamentare non sembra la sede opportuna per assumere scelte che hanno una valenza politica così rilevante. La scelta regionale di definire questi aspetti in sede legislativa sembra, da questo punto di vista, ben più avveduta e coerente con le regole di rappresentanza, per contemperare i diversi interessi e trovare una sintesi tra le diverse posizioni su un tema così “sensibile” dal punto di vista politico e sociale.
 
4. (segue) L’anzianità di residenza sul territorio regionale
Come è stato efficacemente osservato[33], negli ultimi anni, il criterio della «anzianità di residenza sul territorio ha trovato la forma più “raffinata” di esclusione dall’accesso ai diritti», sia a livello nazionale che regionale[34].
Con riferimento precipuo al legislatore regionale, come vedremo più avanti, ogni regione ha definito distinti titoli di accesso alle misure, introducendo quasi in tutti i provvedimenti requisiti fondati sulla residenza qualificata, definita in termini analoghi per cittadini italiani e stranieri.
Tra le normative regionali volte ad accordare ai residenti un trattamento preferenziale nell’accesso agli interventi sociali di carattere monetario, si segnalano le più recenti, tutte peraltro oggetto di censure di costituzionalità: la legge 28 ottobre 2011, n. 12 della provincia autonoma di Bolzano, che ha condizionato le prestazioni di assistenza sociale aventi «natura economica» a un periodo minimo di cinque anni di residenza ininterrotta e dimora stabile nella provincia (sent. n. 2/2013 Corte cost.); la legge 24 luglio 2012, n. 15 della Provincia autonoma di Trento che ha subordinato il diritto all’«assegno di cura», da parte delle persone non autosufficienti, al requisito della residenza nel territorio da almeno tre anni continuativi e al possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (sent. n. 172/2013 Corte cost.); la legge 14 dicembre 2011, n. 8 del Trentino Alto Adige che ha limitato l’erogazione dell’assegno al nucleo familiare agli stranieri extracomunitari residenti da almeno 5 anni nella regione (sent. n. 133/2013); la legge 15 marzo 2011, n. 4 della regione Campania che ha subordinato l’accesso al bonus bebè ai residenti da almeno due anni nel territorio regionale (sent. n. 141/2014 Corte cost.); la legge 30 novembre 2011, n. 16 della regione Friuli Venezia Giulia (recante Disposizioni di modifica della normativa regionale in materia di accesso alle prestazioni sociali e di personale) che ha subordinato l’accesso a una serie di prestazioni sociali alla residenza da almeno 24 mesi nel territorio regionale per i cittadini italiani e di 5 anni per gli stranieri (sent. n. 222/2013 Corte cost.) [35]. A queste si aggiunge la legge della regione Calabria 20 dicembre 2011 n. 44 che ha condizionato l’accesso al fondo per la non autosufficienza al possesso, da parte dello straniero, del permesso CE per soggiornanti di lungo periodo (sentenza n. 4/2013 Corte cost.).
In materia di residenza, la prima indicazione importante è contenuta nella sent. n. 432/2005 nella quale la Corte chiarisce che la residenza costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, «un criterio non irragionevole per l’attribuzione del beneficio» (rispetto, invece, alla cittadinanza, che pertanto si presenta come condizione ulteriore, ultronea ed incoerente, agli effetti di un ipotetico regime differenziato rispetto ad una misura sociale). Successivamente, in tema di accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale, nella sent. 40/2011 la Corte ha chiarito che la residenza protratta per un predeterminato e significativo periodo minimo di tempo (nella specie, quinquennale) non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto «introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari», non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben possono connotare la domanda di accesso al sistema di protezione sociale.
In queste pronunce non assume rilievo il fatto che le prestazioni siano eccedenti l’essenziale o che la loro limitazione possa rispondere ad esigenze di contenimento della spesa pubblica. Entrambe le circostanze, infatti, non escludono per la Corte che «le scelte connesse alla individuazione dei beneficiari – necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza delle risorse disponibili – debbano essere operate sempre e comunque in ossequio al principio di ragionevolezza»[36].
A conclusioni parzialmente difformi la Corte giunge nelle pronunce più recenti (le sentenze n. 222 del 2013, n. 141 e n.168 del 2014), nelle quali si rilevano indicazioni importanti per individuare quali siano eventuali trattamenti differenziati che possono essere considerati ragionevoli.
Con riferimento alla residenza biennale, richiesta sia per il cittadino italiano che per lo straniero, nella sentenza n. 222 del 2013 si introduce un elemento che in tali casi caratterizza il giudizio di ragionevolezza, cioè la «rilevanza che assume la dimensione regionale nella concessione o nel diniego di una prestazione sociale”. Infatti la Corte distingue tra “provvidenze intrinsecamente legate ai bisogni della persona” da quelle dirette al mero “sostegno dei membri della comunità». Mentre eventuali differenziazioni nell’accesso a prestazioni del primo tipo sarebbero irragionevoli in quanto introdurrebbero nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari, nel secondo caso verrebbe in gioco il potere della regione di «favorire, entro i limiti della non manifesta irragionevolezza, i propri residenti, anche in rapporto al contributo che essi hanno apportato al progresso della comunità operandovi per un non indifferente lasso di tempo»[37].
Si viene quindi a delineare un «giudizio più stretto sulla natura della provvidenza in questione»[38], che porta ad esempio la Corte a dichiarare infondate le questioni relative alle disposizioni della legge regionale Friuli Venezia Giulia sopra citata che subordinano alla residenza protratta sul territorio l’erogazione delle prestazioni monetarie a favore della natività, i c.d. bonus bebè[39].
In questo caso, infatti, il trasferimento economico può classificarsi tra quelli che non rispondono a bisogni primari dell’individuo bensì vanno a sostenere le famiglie insediate nel proprio territorio, e quindi «eccedono il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona umana»: pertanto in riferimento a queste prestazioni la regionepuò sostenere le famiglie che, con il passar del tempo, hanno contribuito alla crescita materiale e spirituale della comunità regionale[40].
Si deve comunque sottolineare che il requisito della residenza prolungata sul territorio deve essere contenuto entro limiti non palesemente arbitrari e irragionevoli. Come è stato in più occasioni evidenziato soprattutto dalla Corte di Giustizia, la residenza prolungata sul territorio si configura come un criterio apparentemente neutro che tuttavia è idoneo a incidere maggiormente sulla condizione del non cittadino, integrando un’ipotesi di discriminazione indiretta[41].
A soluzioni opposte la Corte giunge in riferimento ad altri tipi di intervento. In particolare essa accoglie la questione di legittimità costituzionale posta in ordine all’art. 8, comma 2, della legge del Friuli Venezia Giulia, che subordinava alle stesse regole l’accesso agli assegni di studio. In questo caso non sarebbe ravvisabile alcun rapporto con la durata della residenza e si tratterebbe di bisogni primari, connaturati alla persona.
Allo stesso modo la Corte dichiara incostituzionale la disposizione della legge 30 novembre 2011 della regione autonoma Friuli Venezia Giulia, che subordina alla residenza protratta per almeno 24 mesi l’accesso alle prestazioni finanziate dal fondo regionale per il contrasto dei fenomeni di povertà estrema e di disagio sociale, in quanto, anche «alla luce della scarsità delle risorse destinate alle politiche sociali nell’attuale contesto storico», essendo la prestazione in oggetto finalizzata alla lotta all’indigenza, non è ravvisabile alcuna correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni primari dell’essere umano e la durata dell’insediamento della persona sul territorio regionale. Ed è questo passaggio ad essere particolarmente rilevante per il tema trattato in questo lavoro in quanto la Corte riconosce che le prestazioni finalizzate a combattere l’esclusione sociale sono legate a “bisogni primari” dell’essere umano, per ciò stesso la loro erogazione non può essere subordinata alla verifica di indici estrinseci rispetto alla condizione della persona. Un elemento questo che rievoca quella radicalità del bisogno cui, pur in un diverso contesto, fece riferimento la Corte nella nota sent. 10/2010[42].
In realtà, la distinzione tra prestazioni che integrano un bisogno primario della persona e interventi che invece non hanno queste caratteristiche, appare piuttosto problematica in quanto, in determinate circostanze, non si può negare che un contributo per la natalità o un intervento teso a favorire l’accesso ad un bene primario come la casa possa essere collegato al soddisfacimento di interessi imprescindibili della persona o dei minori interessati. Conseguentemente rimane incerto il confine entro il quale le Regioni possono, legittimamente, usare il criterio di anzianità di residenza per regolare l’accesso ai propri sistemi di welfare.
 
5. Le azioni regionali di contrasto alla povertà prima e dopo la crisi.
L’intervento legislativo e amministrativo regionale in tema di assistenza sociale e contrasto alla povertà ha avuto una notevole intensificazione dal 2001 in avanti: l’entrata in vigore della riforma del titolo V ha coinciso con l’adozione dei principali provvedimenti attuativi della legge quadro n.328 del 2000, recante la disciplina del sistema integrato di interventi e servizi sociali. In alcuni casi la normativa regionale di riordino dei servizi e delle politiche sociali ha sostanzialmente attuato il modello previsto dalla legge quadro, in altri casi, le disposizioni regionali hanno tentato una “quadratura del cerchio” tra la riconosciuta autonomia regionale in materia e il recepimento del modello di intervento proposto dalla legge quadro nazionale[43].
Con riferimento al tema specifico del contrasto alla povertà[44] i provvedimenti legislativi regionali adottati tra il 2001 e il 2008 sono riconducibili a tre tipologie: leggi di contenuto economico-finanziario (leggi di bilancio, leggi finanziarie, interventi di variazione di bilancio), leggi regionali di riorganizzazione dei servizi sociali, leggi regionali specificamente ed esclusivamente rivolte alla definizione di interventi di contrasto alla povertà[45].
Nel primo gruppo di leggi rientrano le disposizioni istitutive di fondi regionali e di misure di contrasto alla povertà: ad esempio, la legge regionale Sardegna n. 2 del 2007, all’art. 35 istituisce una forma di sostegno economico mensile per le famiglie e le persone prive di reddito, la legge regionale Friuli Venezia Giulia n. 1 del 2004 prevede all’art.3, comma 2, l’attivazione di azioni regionali specifiche di contrasto alla povertà a valere sul fondo sociale regionale.
Le leggi regionali sui servizi alla persona assumono la lotta alla povertà e all’esclusione sociale quali obiettivi dell’azione regionale in ambito assistenziale e, in coerenza con quanto già previsto dalla legge quadro 328 del 2000, riconoscono la povertà, in termini di limitatezza dei mezzi economici, come criterio di accesso prioritario al sistema dei servizi. All’interno dei singoli articolati l’attenzione al tema della povertà trova poi uno sviluppo diversificato: in alcuni casi si prevedono disposizioni generali relative agli obiettivi delle politiche di lotta alla povertà, in altri casi vi sono rinvii alla programmazione o a atti successivi, in altri atti ancora si trova menzione degli interventi di contrasto alla povertà quali livelli essenziali delle prestazioni da assicurare su tutto il territorio regionale.
Le leggi regionali che hanno quale oggetto specifico la lotta alla povertà e all’esclusione sociale riguardano prevalentemente l’istituzione di forme sperimentali di sostegno economico: il reddito di cittadinanza previsto dalla legge regionale campana n. 2 del 2004, il programma di promozione della cittadinanza sociale della legge regionale n. 3 del 2005 della Basilicata, il reddito base per la cittadinanza istituito dalla legge regionale FVG n. 6 del 2006. Questi istituti sono caratterizzati da una durata circoscritta (dai 12 mesi ai 24 mesi di durata massima). In alcuni casi (leggi lucana e campana sul reddito di cittadinanza) al contributo economico sono associati servizi di supporto sociale o di inserimento lavorativo. I programmi di sperimentazione delle misure hanno una durata predeterminata (tre anni per la Campania, due anni per la Basilicata, cinque anni per il Friuli Venezia Giulia).
A partire dal 2009, l’attività legislativa e amministrativa delle Regioni in materia di assistenza e di contrasto alla povertà si colloca in un contesto “emergenziale”. La forte crisi occupazionale ed economica determina a carico delle regioni non solo l’attivazione di risposte propriamente socio assistenziali, ma anche un crescente impegno finanziario per l’erogazione di ammortizzatori sociali in deroga, destinati a lavoratori di comparti e imprese non coperte dagli istituti ordinari (la cassa integrazione guadagni), a fronte di una decurtazione progressiva delle risorse disponibili[46].
Lo studio di alcuni casi regionali permette di esemplificare le caratteristiche principali della produzione legislativa regionale in materia di assistenza e contrasto alla povertà dell’ultimo quinquennio. Al fine di offrire una panoramica rappresentativa delle diverse realtà sono state considerate sei regioni: per il sud e le isole la Sardegna e la Calabria, che nel 2011 hanno registrato la spesa sociale comunale procapite rispettivamente più alta e più bassa per gli interventi di sostegno al reddito, la Toscana e il Lazio per l’Italia centrale, la provincia autonoma di Trento e il Veneto per il Nord Italia. Si tratta di regioni in cui il sistema socioassistenziale si è sviluppato con caratteristiche specifiche, che in parte si riverberano anche sul tipo di tutela offerto contro il rischio povertà.
 
a. La regione Sardegna
La Sardegna ha riformato il proprio sistema assistenziale nel 2005 con la legge regionale n. 23, avviando un processo di riorganizzazione sovra comunale della programmazione e gestione dei servizi alla persona[47]. Alcune disposizioni della legge sono dedicate espressamente agli interventi di contrasto alla povertà: all’art. 30 della legge regionale si prevede che le misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e i servizi di accompagnamento per l'inclusione sociale costituiscano livelli essenziali delle prestazioni, mentre all’art. 33 si prevede che “nell’adempimento delle proprie funzioni di programmazione, indirizzo e controllo, la regione adotta politiche ed interventi specifici di contrasto dell’esclusione sociale e della povertà” ed in particolare l’istituzione del reddito di cittadinanza.
Nell’ambito specifico del contrasto alla povertà, sin dalla legge finanziaria regionale per il 2007 la regione aveva attivato un programma specifico di interventi destinati alle famiglie e alle persone senza reddito, in base al quale i comuni potevano erogare un sostegno economico alle famiglie e alle persone prive di reddito e in condizioni di accertata povertà per un massimo di 250 euro mensili per un anno. Il programma, che per l’anno 2007 aveva carattere sperimentale, è stato poi confermato ed esteso negli anni successivi. La legge regionale finanziaria per il 2009 (legge regionale n. 1 del 14 maggio 2009, art. 3, comma 2, lettera a) autorizza una spesa complessiva di euro 30.000.000 destinata ad interventi di contrasto all’emergenza economica. Gli interventi previsti si articolano su tre tipologie di azioni, la cui attuazione è demandata ai comuni: la concessione di sussidi a favore di persone e nuclei familiari in condizioni di accertata povertà; la concessione di contributi in misura non superiore a 500 euro mensili, quale aiuto per far fronte all'abbattimento dei costi dei servizi essenziali a favore di persone e nuclei familiari con reddito pari alla soglia di povertà; la concessione di sussidi, per un ammontare massimo di euro 800 mensili, per lo svolgimento del servizio civico comunale.
Nella legge finanziaria per il 2011 (legge regionale n. 1 del 19 gennaio 2011) la regione introduce un “piano straordinario per l’occupazione e per il lavoro” di carattere pluriennale, per perseguire obiettivi quali la riduzione del tasso di disoccupazione, il reinserimento dei lavoratori beneficiari di ammortizzatori sociali, la riduzione della dispersione scolastica e la riqualificazione e il rafforzamento delle politiche di contrasto alla povertà. Nell’ambito di tale piano sono rifinanziate le tre tipologie di intervento individuate nel 2009 per il 2011 e per il 2012 (con legge regionale 15 marzo 2012, n.6, Legge finanziaria per il 2012). Per il 2013 la legge regionale finanziaria per il 2013 (legge regionale n. 12 del 23 maggio 2013) e la legge regionale 2 agosto 2013, n.21 (Sostegno alle povertà e interventi vari) confermano il finanziamento delle tre azioni regionali (la delibera della Giunta regionale n. 39/9 del 26 settembre 2013 ne dettaglia l’attuazione[48]). Per il 2014 la legge regionale 21 gennaio 2014, n. 7 (legge finanziaria per il 2014), prevede l’autorizzazione della spesa di euro 15.000.000 “per il sostegno economico a famiglie e a persone prive di reddito e in condizione di accertata povertà di cui all’articolo 35, commi 2 e 3, della legge regionale n. 2 del 2007”, quindi sembrerebbe limitare il finanziamento degli interventi alla sola azione di sostegno delle famiglie prive di reddito.
 
b. La regione Calabria
La regione Calabria[49] ha una legislazione regionale in materia assistenziale risalente al 2003: all’art.7 della legge regionale n. 23 del 26 novembre 2003 si dispone che tra i servizi e gli interventi che sul territorio regionale “costituiscono il livello essenziale delle prestazioni erogabili” sono comprese anche le misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito familiare e i servizi di accompagnamento. La legge regionale del 2 febbraio 2004, n. 1 (Politiche regionali per la famiglia), ha un articolo dedicato agli interventi di contrasto alla povertà familiare finalizzati ad “offrire programmi personalizzati di aiuto per ogni specifica situazione di povertà e di deprivazione, considerata nei suoi aspetti e nelle sue dinamiche specifiche”; e a “promuovere compatibilmente con le disponibilità del bilancio regionale il raggiungimento per ogni famiglia del minimo di sopravvivenza con l’attribuzione di risorse idonee a consentire una esistenza libera e dignitosa” (art.4). Questa disposizione ha costituito il presupposto legislativo per gli interventi di contrasto alla povertà attuati in via amministrativa negli anni più recenti.
Nel 2011, nell’ambito del Piano Emergenza Famiglia, sono stati attuati interventi di sostegno economico rivolti a famiglie prive di reddito: con i decreti dirigenziali nn. 15.930, 15.934 e 15.940 del 21 dicembre 2011 l’amministrazione regionale ha disciplinato rispettivamente l’erogazione di contributi a persone e famiglie povere con persone non autosufficienti a carico, la distribuzione di buoni per l’acquisto di beni prima infanzia e l’attivazione di interventi finalizzati al sostegno alimentare di famiglie in difficoltà economica. Le risorse sono state erogate nel 2012 attraverso bandi pubblici rivolti ai potenziali beneficiari e l’intera procedura attuativa è stata affidata ad un ente in house della regione (la fondazione Calabria Etica).
Con delibera di Giunta n. 310 del 11 settembre 2013 è stato approvato un intervento di “credito sociale” a valere sul POR Calabria FSE 2007-2013. Il provvedimento ha istituito un fondo di rotazione, con cui erogare finanziamenti a favore di persone fisiche appartenenti a nuclei familiari residenti in Calabria che versano in condizione di vulnerabilità e temporanea condizione di difficoltà finanziaria, per un importo massimo di 10 mila euro, per l’acquisto di beni e servizi primari. Hanno accesso al credito sociale i cittadini italiani o dell’Unione Europea, i cittadini extracomunitari in possesso di carta di soggiorno o regolare permesso di soggiorno, la cui scadenza deve essere successiva alla restituzione del credito e che esercitano attività di lavoro subordinata o autonoma. Ulteriori requisiti sono il possesso della residenza anagrafica da almeno tre anni in uno dei comuni della Calabria; la maggiore età; il possesso di un reddito familiare complessivo lordo, calcolato sulla base dell’ultima dichiarazione dei redditi, compreso tra i 17.500 euro (persona sola) e 32.500 euro (nucleo familiare con quattro o più figli). Le spese ammesse a finanziamento riguardano interventi volti ad assicurare ai richiedenti la disponibilità di un alloggio dotato dei requisiti minimi di idoneità abitativa; le spese straordinarie per eventi particolari della vita, comprese le spese per l’acquisto di biglietti aerei o ferroviari che coinvolgono parenti, fino al secondo grado, compresi i ricongiungimenti familiari; spese mediche per il richiedente o dei componenti il suo nucleo familiare; la sostituzione di debiti contratti con altre banche/finanziarie nei dodici mesi precedenti alla presentazione della domanda di agevolazione, dovuti a spese analoghe a quelle ritenute ammissibili per l’accesso al credito sociale; le spese connesse ai percorsi di orientamento o formazione per l’inserimento lavorativo. Con DGR n. 94 del 7.03.2014 e con DGR n. 359 del 15 settembre 2014 il funzionamento del fondo è stato confermato con un finanziamento dedicato di 10 milioni di euro. Anche i provvedimenti da ultimo richiamati hanno previsto una attuazione regionale diretta tramite enti in house.
Con la legge regionale 2 maggio 2013, n. 19 (Interventi di inclusione sociale, integrazione socio-sanitaria e contrasto alla povertà per gli agglomerati urbani a maggiore concentrazione di popolazione), la regione ha invece distribuito a comuni e province risorse regionali finalizzate a coprire quota delle spese sociali sostenute dalle autonomie locali per il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale.
 
c. La regione Lazio
La regione Lazio è recentemente intervenuta in materia di povertà e assistenza: nell’ottobre 2013 la Giunta ha licenziato una proposta di legge per il riordino del settore assistenziale, attualmente all’esame del consiglio regionale. L’impianto della proposta di legge è caratterizzato da una spiccata continuità con gli indirizzi della legge quadro 328, in cui il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale è un obiettivo prioritario dell’azione regionale e dell’intero sistema dei servizi. Non vi sono richiami all’istituto del reddito minimo garantito, introdotto in Lazio con la legge regionale n. 4 del 2009, e attuato in via sperimentale per un unico anno.
Il reddito minimo garantito previsto dalla legge del 2009 era concepito come uno strumento di sostegno economico a favore di disoccupati, inoccupati, lavoratori precari e lavoratori privi di retribuzione. Si differenziava quindi nettamente dalle misure di sostegno al reddito istituite da altre regioni sul modello “universalistico” del reddito minimo di inserimento istituito nel 1998 e poi ripreso dalla legge quadro nazionale, vista la sua connotazione “lavoristica”. Nella versione laziale, potevano (avrebbero dovuto) beneficiare della misura i residenti in regione da almeno 24 mesi, iscritti ai centri per l’impiego e con un reddito annuo non superiore agli ottomila euro. Gli interessanti potevano presentare domanda presso i comuni capofila dei distretti di residenza, la procedura di selezione delle domande e di composizione delle graduatorie era affidata alle province, in base a criteri e priorità definiti dalla regione.
A fronte dell’inattuazione dell’istituto, dal 2011 sono state adottate alcune specifiche azioni regionali in materia di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, motivate proprio in ragione della crescente emergenza economica e sociale. Con DGR n. 645 del 2011 è stato approvato il “Programma regionale 2011 di interventi finalizzati al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale”, con cui sono stati erogati appositi finanziamenti al fine di garantire un adeguato livello di servizi socio-assistenziali e socio-economici alle famiglie e alle persone in situazioni di criticità (povertà, carenze alimentari, emarginazione, senza fissa dimora), a sostegno soprattutto della realizzazione di servizi di mensa sociale e accoglienza notturna, sostegno alimentare, primo soccorso emergenze sociali, accoglienza di madri con minori da parte di soggetti del terzo settore.
Successivamente, nel 2013, con la DGR n. 402, “in ragione della crisi economica strutturale e dei dati allarmanti, confermati a livello europeo, sul numero crescente di soggetti deboli e di famiglie in condizioni di estremo disagio economico”, è stato adottato il “Programma regionale 2013 di interventi finalizzati al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale”, con uno stanziamento di oltre 12 milioni di euro. Vi sono previsti sia interventi di sostegno economico sia interventi sociali volti al “superamento attivo” di situazioni di povertà ed esclusione. Le risorse stanziate sono destinate in parte ai territori, in parte a finanziare progetti di intervento integrativi dei servizi pubblici, proposti dalle organizzazioni del terzo settore, in base a requisiti specificati in sede di bando regionale (con una integrazione di risorse regionali, disposta dalla DGR n. 235 del 29.04.2014).
 
d. La regione Toscana
La Toscana ha un sistema di interventi e servizi alla persona caratterizzato da un forte protagonismo dei comuni associati nelle zone distretto e da una spiccata integrazione sociosanitaria[50].
Il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale è uno degli obiettivi dell’azione regionale, perseguito attraverso interventi specifici di sostegno economico e di accompagnamento sociale attuati a livello locale (art. 58 legge regionale n. 41 del 2005, recentemente riformata dalla legge regionale n. 44 del 2014). La legge regionale del 2005 attribuiva alla regione (art.14, comma 4) la facoltà di avviare sperimentazioni per l’erogazione di trattamenti economici, “ivi compreso il reddito di cittadinanza sociale”, che però non è mai stato sperimentato. Nella programmazione sociale regionale “ordinaria” le politiche per il contrasto alla povertà sono sviluppate nell’ambito di sezioni specifiche degli strumenti di programmazione regionali e locali. A fronte di questa struttura di governance fortemente decentrata delle politiche del settore, confermata anche dall’intervento di riforma del 2014, con l’aggravarsi della crisi economica sono stati assunti dei provvedimenti ad hoc per il sostegno economico delle famiglie e delle persone in situazioni di difficoltà, di diretta gestione regionale.
Un primo intervento di questo tipo è stato assunto con la legge finanziaria per l’anno 2013 (legge regionale Toscana 27 dicembre 2012, n. 77), che all’art.60 prevede uno stanziamento di 5 milioni di euro da assegnare quale aiuto alle persone in condizioni di particolare vulnerabilità ed alle famiglie che si trovano in situazioni di emergenza , tramite piccoli prestiti sociali gestiti attraverso associazioni non lucrative. L’attuazione del provvedimento, come verrà approfondito più avanti, costituisce un interessante caso di studio rispetto alle possibili sinergie tra volontariato e ente regionale per il contrasto alla povertà.
Successivamente con la legge regionale Toscana 2 agosto 2013, n. 45 (Interventi di sostegno finanziario in favore delle famiglie e dei lavoratori in difficoltà, per la coesione e per il contrasto al disagio sociale) è stato definito un insieme di interventi economici di diretta erogazione regionale per il triennio 2013-2015, con un finanziamento di circa 25 milioni di euro annui. Le misure finanziate riguardano sia erogazioni economiche per famiglie in situazioni di vulnerabilità socioeconomica, sia forme di agevolazione per la concessione di finanziamenti alle famiglie toscane che versano in gravi difficoltà finanziarie e rischiano la perdita dell’abitazione di cui sono proprietarie per morosità nel pagamento di debiti pregressi .
I contributi economici sono previsti a favore di famiglie con figli nuovi nati, adottati o collocati in affido preadottivo a decorrere dal primo gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, a favore di famiglie numerose (con più di quattro figli) e a favore di famiglie con un figlio minore disabile. I contributi sono una tantum, pari a 700 euro annui, sono cumulabili tra loro e con altri ulteriori contributi previsti da disposizioni nazionali o da regolamenti degli enti locali.
Possono accedere ai contributi le persone fisiche che siano cittadine italiane o dell’Unione Europea, ovvero loro familiari titolari di carta di soggiorno, titolari di status di rifugiato o di protezione sussidiaria, stranieri in possesso dei requisiti di cui all’art. 41 del decreto legislativo n. 286 del 1998. I richiedenti inoltre devono risultare residenti in Toscana alla data del 1 gennaio dell’anno solare cui si riferisce il contributo finanziario da almeno un anno ed avere un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) non superiore ad euro 24.000. Le domande, presentate direttamente online alla regione o presso i comuni di residenza, sono evase fino ad esaurimento delle risorse disponibili.
 
e. La regione Veneto
In Veneto il sistema socioassistenziale ha una disciplina abbastanza risalente, precedente alla legge quadro[51]. L’adeguamento successivo è avvenuto attraverso interventi programmatori, recepiti in atti di legge. Gli indirizzi di programmazione in materia sociale contenuti nel Piano regionale di sviluppo approvato con legge regionale n. 5 del 2007, immediatamente prima l’avvio della crisi economica, assumono un contesto di riferimento profondamente diverso da quello attuale: la povertà è descritta come fenomeno marginale, riferito a situazioni estreme e a sacche circoscritte.
La più recente legge regionale 29 giugno 2012, n. 23 di approvazione del piano socio-sanitario regionale 2012-2016 non presenta specifiche indicazioni in merito al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. Solo con la legge regionale finanziaria per il 2013 (legge regionale n.3 del 5 aprile 2013) viene introdotta una disposizione specifica (art. 11) per “interventi a sostegno dei disoccupati e delle famiglie in difficoltà a causa della crisi economica e occupazionale”. Con tale disposizione si prevede l’istituzione di fondi dedicati per finanziare interventi specifici di sostegno economico rivolti ai comuni: per l’impiego di disoccupati nello svolgimento di lavori di pubblica utilità presso i comuni o loro enti strumentali o società partecipate[52], per l’erogazione di contributi alle persone e alle famiglie, finalizzati al pagamento delle spese mediche, della fornitura di acqua, luce e gas e di ulteriori necessità economiche; al fine di erogare contributi alle persone e alle famiglie per il pagamento del canone di affitto dell’abitazione principale, locata ai sensi della legge 9 dicembre 1998, n. 431; a favore delle famiglie di imprenditori che, a causa della crisi economica e delle particolari situazioni di difficoltà della propria impresa, versano in gravi condizioni socio-economiche. Un aspetto interessante della disposizione riguarda la natura “aperta” dei fondi regionali attivati, che possono essere integrati con contributi o donazioni erogati da fondazioni o altri soggetti pubblici o privati. Le risorse stanziate per i contributi a favore delle famiglie indigenti sono erogati per il 70% ai comuni e per il 30% ad organismi appartenenti alla rete regionale di solidarietà che presentano progetti di assistenza alle famiglie secondo i criteri stabiliti dalla Giunta regionale. Con DGR n. 1876 del 15 ottobre 2013 sono stati specificati i criteri di accesso alla misura, le spese ammesse a contributo, il valore massimo del contributo regionale. Possono richiedere il contributo persone e famiglie residenti in Veneto, con un valore Isee non superiore ai 16.000 euro. Le spese ammesse a contributo sono le spese mediche, le bollette per la fornitura di acqua, luce, gas ed eventuali altre spese che il comune ritenga finanziabili. Il contributo massimo erogabile per nucleo familiare è pari a 2000 euro. I criteri prioritari di accesso al contributo sono il valore Isee più basso, e, in subordine, il numero di figli a carico, la presenza di un disagio sociosanitario certificato nel nucleo, l’ordine cronologico. Per il finanziamento della misura sono stati stanziati 1.960.000 euro, assegnati a 1.233 nuclei familiari, a fronte di 34.479 domande (3,6%)[53].
 
f. La provincia autonoma di Trento
La provincia autonoma di Trento vanta uno dei sistemi assistenziali più ricchi, per risorse disponibili e varietà di interventi. Le forme di intervento economico riconosciute sono molteplici. Per quanto interessa in questa sede, i provvedimenti che intervengono per il contrasto della povertà ed il sostegno economico di persone e famiglie trovano il proprio fondamento legislativo nell’art. 35 della legge provinciale n. 13 del 2007 (Politiche sociale in provincia di Trento), in cui si prevede l’attivazione di interventi di sostegno economico volti al soddisfacimento di bisogni generali a favore sia di soggetti che lavorano o sono comunque in grado di assumere o riassumere un ruolo lavorativo sia di soggetti non idonei ad assumere un ruolo lavorativo (tra i quali rientra il reddito di garanzia) e interventi di sostegno economico volti al soddisfacimento di bisogni specifici (interventi economici straordinari, prestiti sull’onore, anticipazioni dell’assegno di mantenimento). L’erogazione degli interventi previsti è subordinata alla valutazione della condizione economico-patrimoniale del nucleo familiare del beneficiario, che nella provincia autonoma di Trento avviene in base ad un indicatore diverso dall’ISEE, denominato ICEF (Indicatore della Condizione Economica Familiare).
Con deliberazione della Giunta provinciale n. 2216 del 2009 è stata avviata la sperimentazione dell’intervento denominato Reddito di garanzia, rivolto a persone e nuclei familiari in condizioni economiche precarie. Con la successiva deliberazione della Giunta provinciale n. 1524 del 2010 sono state meglio definite le modalità di determinazione della situazione economica, di definizione del nucleo familiare e di attuazione della misura, di valutazione della congruità del reddito dichiarato rispetto ai consumi stimati. Nella delibera n. 1256 del 2012 sono introdotte ulteriori modifiche all’intervento, così da specificare meglio la determinazione dell’ICEF, rafforzare la condizionalità della misura, prevedere delle modalità di riduzione dell’entità dell’intervento nel corso dei rinnovi nel caso i componenti il nucleo familiare idonei al lavoro non svolgano nessuna attività lavorativa, con la finalità di responsabilizzare i fruitori del beneficio nell’attivarsi nel reperire un impiego[54].
In base a questa ultima revisione, il reddito di garanzia viene quindi riconosciuto ai nuclei familiari in cui vi sia almeno un componente con residenza da più di tre anni continuativi in un comune della provincia di Trento al momento della domanda; con un indicatore ICEF inferiore a una data soglia. In caso di nuclei familiari con componenti potenzialmente occupabili, la domanda è presentata presso l’agenzia provinciale per l’Assistenza e la Previdenza Integrativa. La misura è erogata per 4 mesi rinnovabili, per un importo che corrisponde alla differenza tra il reddito risultante e la soglia ICEF prevista per il reddito di garanzia. In caso di rinnovo sono previste delle riduzioni dell’importo in caso di persistenza nel nucleo familiare di inoccupati per un periodo significativo. In caso di presenza di problematiche sociali complesse, la richiesta è fatta al servizio sociale territorialmente competente, che predispone un progetto sociale vincolante per il riconoscimento del sostegno economico. Quest’ultimo può essere erogato per sei mesi per i soggetti che possono assumere un ruolo lavorativo e 12 mesi negli altri casi, e può consistere in un sostegno economico diretto oppure in aperture di credito di valore corrispondente presso servizi commerciali.
Con la legge provinciale 27 dicembre 2012, n. 25 (finanziaria provinciale 2013), art.65, comma 4, si introduce un comma 2bis all’art.35 della legge provinciale sulle politiche sociali, al fine di estendere il sostegno economico (Reddito di garanzia) ai titolari di partita IVA, anche prescindendo dall’obbligo di cessazione delle attività. Con successiva delibera di giunta (del 24 maggio 2013, n.1015) sono stati specificati i requisiti di accesso alla misura per “lavoratori autonomi o con contratto di lavoro atipico che abbiano prodotto, nell’anno di riferimento, reddito da lavoro per un importo non inferiore a € 5.000, la cessazione o sospensione dell’attività lavorativa”. Questa estensione della misura è adottata espressamente a causa della la situazione di perdurante crisi economica, che pone in condizione di difficoltà numerosi nuclei familiari che in situazioni ordinarie non necessiterebbero dell’intervento dei servizi sociali. Nello stesso atto si specifica che la misura mensile dell’intervento economico non può superare l’importo massimo di 950 euro.
Parallelamente sono state attivate altre forme di intervento economico esplicitamente finalizzate a ridurre gli effetti della crisi su persone e famiglie. Nel 2011, l’articolo 6, comma 5, della legge provinciale 2 marzo 2011, n. 1 (Sistema integrato delle politiche strutturali per la promozione del benessere familiare e della natalità) ha istituito un contributo alle famiglie numerose per ridurre i costi connessi agli oneri tariffari derivanti dagli usi domestici. Il richiedente deve risiedere in Provincia di Trento da almeno 3 anni continuativi al momento della domanda; deve far parte di un nucleo familiare con almeno 3 figli a carico, e possedere un indicatore ICEF sotto una soglia predeterminata. Il contributo è quantificato in base alla situazione economica e al numero dei figli a carico e può variare dai 125 ai 445 euro.
Nel 2012 a tale misura si è affiancato un altro contributo, istituito con legge provinciale 16 maggio 2012, n. 9, art.1 (Interventi a sostegno del sistema economico e delle famiglie). Per l’anno 2012 è infatti prevista l’istituzione di un fondo da destinare ad interventi volti al sostegno del potere d'acquisto dei nuclei familiari che si trovano in difficoltà a seguito della situazione di crisi economico-finanziaria del paese e della conseguente riduzione dei redditi familiari. I requisiti per l’accesso alla misura sono la residenza anagrafica in provincia di Trento da almeno 3 anni al momento della presentazione della domanda e una situazione economica inferiore a soglie ICEF predeterminate. Sono esclusi coloro i quali hanno requisiti per accedere al reddito di garanzia. Il contributo una tantum previsto da questa legge può variare tra i 150,00 e i 1.000,00 euro, ed è composto da una quota riconosciuta per far fronte all’aumento dei prezzi in conseguenza della crisi economico-finanziaria (da 150,00 a 1.000,00 euro); da una quota per l’impatto politiche fiscali introdotte dal Governo nazionale per raggiungere gli obiettivi di risanamento della finanzia pubblica (da 0,00 a 350,00 euro)e infine da una quota per i figli nati tra il 29 giugno 2011 e il 28 giugno 2012 (euro 200,00 per un figlio e 300,00 se più di uno).
 
g. In sintesi
La rapida rassegna delle situazioni regionali presentate mostra come a livello regionale la risposta alla crisi economica[55] degli ultimi anni sia stata orientata a sostenere il reddito delle famiglie attraverso interventi economici che differiscono notevolmente per durata ed entità economica, forme di valutazione della capacità economica e di determinazione delle soglie di accesso ai contributi, introduzione o meno di forme di condizionalità per la fruizione delle misure.
Dal punto di vista dell’assetto istituzionale e amministrativo, la regione è nella maggioranza dei casi direttamente impegnata nel procedimento di definizione dei criteri di accesso e nella erogazione diretta delle misure, anche nei sistemi assistenziali fortemente decentrati, come quello toscano. Un altro elemento comune a quasi tutti gli interventi considerati (Veneto escluso) è la previsione di criteri di accesso basati sulla residenza qualificata dei richiedenti, che varia dai 12 mesi della Toscana ai tre anni previsti per accedere alle misure della provincia autonoma di Trento e della Calabria.
Infine, la natura “eccezionale” delle misure si riverbera sulla loro fonte istitutiva, frequentemente in legge finanziaria o in “leggine” ad hoc, e sul loro regime di attuazione: mentre le leggi istitutive delle forme di sostegno economico di durata media (il reddito di garanzia trentino, ad esempio), sono qualificate come sperimentazioni, i contributi economici una tantum sono assunti come interventi “a tempo”, per l’anno di esercizio di riferimento, e rifinanziate negli esercizi successivi in base alle risorse disponibili. Un tale approccio potrebbe trovare giustificazione nell’eccezionalità della crisi economica che il paese vive da ormai un quinquennio, tale da giustificare interventi straordinari, ad integrazione o sostituzione delle misure ordinarie esistenti, non adeguate a fronteggiare la situazione di fatto.
Resta impregiudicato un problema di fondo, peraltro comune al livello regionale e statale e già emerso prima della crisi[56], ovvero come superare questo approccio emergenziale e una tantum degli interventi di contrasto alla povertà e soprattutto come portare a coerenza un sistema assistenziale che dovrebbe avere la realizzazione della “tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana”[57], come obiettivo permanente della propria azione.
 
6. Il contrasto alla povertà come obiettivo di politica pubblica: dagli indirizzi europei alle attuazioni locali. Il caso del patto di riscatto sociale del Comune di Milano.
Allo stato attuale, concorrono all’obiettivo costituzionalmente dovuto di «rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita» una pluralità di misure, sociali, previdenziali, fiscali, tutte finalizzate, in forma diretta o indiretta, a proteggere determinati individui dalle conseguenze negative della crisi economica e più in generale dal rischio della caduta in povertà. Il coordinamento di tali misure appare sempre più necessario, al fine di ottimizzare le risorse pubbliche destinate al loro finanziamento e soprattutto al fine di raggiungere l’ambizioso obiettivo declinato all’art.3, comma 2 della Costituzione.
A livello europeo, le recenti indicazioni in materia di modernizzazione dei sistemi di welfare vanno nella direzione di coordinare maggiormente le diverse misure finalizzate al sostegno delle persone in situazione di povertà e di esclusione sociale, in un’ottica di “investimento sociale”[58]. Nella comunicazione sulla piattaforma europea contro la povertà del 2010[59] si legge che «le molteplici dimensioni della povertà comprendono una mancanza di reddito e di risorse materiali sufficienti a vivere dignitosamente, un accesso inadeguato ai servizi di base come la sanità, gli alloggi e l’istruzione, l’esclusione dal mercato del lavoro e un lavoro di scarsa qualità. Questi elementi sono le cause principali della povertà e spiegano come i singoli e le famiglie diventano emarginati. Per trovare soluzioni a questi problemi sono necessari approcci trasversali a tutti gli ambiti politici; di conseguenza, la sfida della lotta alla povertà va integrata nell'elaborazione di tutte le politiche. È necessario migliorare il coordinamento delle politiche macroeconomiche e microeconomiche riconoscendo il ruolo fondamentale di una serie di politiche che non rientrano negli ambiti tradizionali dell'inclusione e della protezione sociale».
Nel 2013 la Commissione ha promosso il «Social investment package» come strumento privilegiato di qualificazione delle politiche sociali nazionali, al fine di valorizzare le capacità personali e migliorare le competenze spendibili nel lavoro e nelle relazioni sociali. Nel provvedimento si suggerisce agli stati membri di investire risorse in servizi ed infrastrutture, piuttosto che in trasferimenti economici, al fine di ampliare le opportunità e ridurre le diseguaglianze sociali[60], cioè in tutti quei servizi che risultano essenziali per l’inclusione sociale ed economica (i così detti «enabling services»): i servizi di assistenza sociale, gli interventi formativi e le politiche attive del lavoro, l’assistenza alloggiativa, i servizi per la prima infanzia, i servizi per la non autosufficienza e i servizi sanitari[61]. Gli schemi di supporto al reddito previsti dalle legislazioni nazionali dovrebbero far parte di una strategia complessiva di intervento, in cui il sostegno economico è uno degli strumenti, temporaneo e condizionato a obiettivi specifici, per sostenere le persone in difficoltà economica e supportarne il reinserimento nel tessuto sociale ed economico[62].
Tali indirizzi, pur non essendo giuridicamente vincolanti, sono funzionali alla distribuzione dei principali fondi europei per il periodo 2014-2020, per la realizzazione di azioni di coesione sociale e sviluppo. Sul versante nazionale, chiamano in causa una pluralità di competenze e di funzioni statali, regionali e locali, il cui coordinamento normativo e amministrativo appare decisamente complesso[63]. L’assetto di competenze esistente nel nostro ordinamento presuppone una forte interazione tra i diversi livelli istituzionali per la tutela dei diritti sociali «nel momento dell’operatività dei diritti, che vede nel passaggio dalla garanzia astratta delle prestazioni alla definizione dei relativi contenuti assistenziali ed organizzativi il proprio snodo fondamentale»[64].
Per esemplificare e attualizzare questo aspetto, è utile riportare il caso del Comune di Milano, recentemente impegnato nella attivazione di uno strumento di contrasto alla povertà denominato «patto per il riscatto sociale».
Il Comune ha deciso, infatti, di erogare contributi di integrazione al reddito a persone disoccupate in cambio dell’impegno da parte del beneficiario a seguire un programma di interventi di inclusione sociale attiva. Il contributo è assegnato a coloro che possiedano un ISEE inferiore a € 6.000 euro (mentre si ricorda che, a livello nazionale, l’ISEE richiesto per accedere alla “social card” è di € 3.000 euro), siano residenti nel Comune da almeno un anno, abbiano una età compresa tra i 18 e i 65 anni, siano disoccupati[65] e non abbiano ricevuto altri contributi da parte di Inps e Comune[66].
A ciascun beneficiario saranno assegnati 1.200 euro, una tantum e in due tranche: la prima con la sottoscrizione del Patto di riscatto sociale con l’Amministrazione.  Trascorsi 6 mesi, se il servizio sociale di riferimento verificherà il rispetto del Patto verrà erogato il saldo del contributo pari a € 800,00. In caso di valutazione negativa non si avrà diritto all’erogazione del saldo. La persona è chiamata a un progetto di reinserimento lavorativo e sociale proposto e seguito dai servizi sociali, attraverso borse lavoro, percorsi formativi, laboratori occupazionali e potrà impegnarsi per la comunità svolgendo attività di aiuto alla collettività del proprio quartiere.
Secondo le stime del Comune, con questa nuova misura, si potranno aiutare 2.041 famiglie[67]. La spesa complessiva assegnata a questa nuova azione contro la povertà è di € 2.450.000. L’amministrazione comunale ha recentemente sollecitato la possibilità di utilizzare ulteriori € 2,6 milioni di euro, assegnati al Comune per il progetto della social card e non impiegati a causa dei criteri troppo selettivi imposti dalla legislazione statale (torneremo più avanti sul punto), per allargare il finanziamento della misura.
Ci pare interessante rilevare che tale strumento si va a collocare in una realtà comunale in cui risultano attivati una pluralità di trasferimenti monetari. Il comune di Milano è stato infatti assunto a caso di studio nel Rapporto sulla Povertà 2012 della Fondazione E. Zancan, che ha individuato ben 66 tipologie di trasferimenti monetari erogati alle famiglie milanesi (26 gestiti dal Comune, 11 dalla Regione, 28 dal livello statale) per sostenerne il reddito, a titolo previdenziale e sociale[68]: pensioni/assegni sociali, contributi di assistenza alloggiativa, buoni famiglia, ecc. Ognuno degli interventi è potenzialmente rivolto a residenti nel comune in situazioni di fragilità economica diversamente determinati, prevede fonti di riferimento specifiche, criteri e requisiti di accesso distinti, importi e durata diversificati.
In tale contesto, l’esperienza del Patto di riscatto sociale potrebbe essere significativa in primo luogo se fosse maggiormente coordinata con le misure già esistenti e a vario titolo connesse alla lotta alla povertà. In secondo luogo, se e in quanto l’integrazione al reddito che ne deriva fosse davvero attribuita nell’ambito di un percorso qualificato in termini di corrispondenza tra esigibilità di diritti e osservanza dei doveri di solidarietà – rectius: responsabilizzazione/piena realizzazione della persona, così da […] «meglio rispondere all’idea costituzionale di cittadinanza, tanto sotto il profilo dei diritti che sotto quello dei doveri»[69].
Tale condizione sembra necessaria «affinché ogni persona possa rivendicare il diritto alla libertà dalla dipendenza assistenziale, dall’aiuto che non conosce dignità e capacità»[70]. Come è stato evidenziato, l’ipotesi si fonda sull’assunto che «nella prospettiva solidarista inscritta nella nostra Carta costituzionale sta senza dubbio la convinzione che agli appartenenti alla collettività possano essere imposti dei doveri a vantaggio del bene comune» e che «l’ipotesi di accompagnare l’erogazione di una prestazione da parte degli enti pubblici (espressione della solidarietà verticale) con la previsione di una prestazione da parte dei soggetti beneficiari finalizzata a porre in essere azioni a vantaggio di altri, costituisce un “dare e avere” reciproco, nel quale le varie dimensioni della solidarietà si combinano e producono un “valore aggiunto” positivo per tutti»[71].
 
7. Il ruolo del volontariato e del terzo settore nell’attuazione del diritto all’assistenza sociale.
Come abbiamo sopra anticipato, l’assistenza è uno degli ambiti di intervento legislativo regionale dove maggiore è stato il ricorso a forme di sussidiarietà orizzontale[72]. Se dai primi decenni dell’ordinamento repubblicano esistevano già esperienze importanti, nate per integrare i servizi e colmare le lacune che andavano insidiando i nascenti sistemi di welfare, è dalla fine degli anni Ottanta, con le prime manifestazioni della crisi finanziaria dello Stato, che il modello di stato sociale prevalentemente o esclusivamente pubblico lascia spazio a un «sistema plurale, caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di soggetti, pubblici e privati, in un regime di collaborazione o anche di competizione regolata e controllata»[73].
L’apporto dato dalle organizzazioni di volontariato alla realizzazione di politiche sociali trova infatti una prima disciplina proprio negli anni ’80: nelle prime leggi regionali di riordino del sistema dei servizi sociali è infatti prevista l’iscrizione ad albi  quale elemento necessario alla interazioni con i soggetti pubblici nonché la regolazione dei rapporti di convenzionamento; tutti aspetti che paiono di una qualche rilevanza se solo si pensa che la legge quadro sul volontariato è di una decina di anni successiva.
A questo filone di leggi regionali è seguita, infatti, dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Novanta, una stagione di leggi statali con le quali sono state disciplinate, oltre alle organizzazioni di volontariato, anche le organizzazioni non governative, le cooperative sociali[74]: tutte accomunate dall’accento posto sull’assenza di finalità di lucro da un lato e dal fine di solidarietà sociale dall’altro. Un complesso di discipline differenti, che hanno testimoniato la volontà del legislatore dell’epoca di intervenire a regolamentare tipologie diverse di enti – rinunciando così ad operare una modifica del libro I del Codice civile – e offrire una normativa che potesse costituire un punto di riferimento per il variegato mondo del terzo settore che si stava sviluppando, pur nel riconoscimento delle singole specificità[75].
Negli anni successivi il ruolo del c.d. terzo settore ha trovato compiuto riconoscimento nella legge quadro n. 328/2000, e nella successiva legislazione regionale[76] che ha, però, disciplinato in modo differente le tipologie di relazione tra soggetti privati e pubbliche amministrazioni, anche a seconda dei settori di attività nei quali la presenza di tali soggetti è rilevante[77]. Ne è risultata una disciplina frammentata, di non facile interpretazione e applicazione, che negli ultimi anni ha spesso portato alla luce il tema di una riforma organica del terzo settore[78].
Per questo motivo,  prima di passare ad analizzare alcune esperienze regionali che abbiamo ritenuto significative, ci preme richiamare brevemente il contenuto del disegno di legge delega per la riforma del terzo settore, presentato dal Governo[79], che intende appunto dare più compiuta attuazione al principio costituzionale di sussidiarietà, previsto dall’art. 118 Cost., valorizzando e sostenendo l’iniziativa dei cittadini e delle organizzazioni che per finalità solidaristiche svolgono attività di interesse generale[80].
Il ddl, come noto, è stato preceduto dalle «Linee guida per la riforma del terzo settore»[81] nelle quali, tra gli obiettivi principali, è elencato quello di «costruire un nuovo Welfare partecipativo, fondato su una governance sociale allargata alla partecipazione dei singoli, dei corpi intermedi e del terzo settore al processo decisionale e attuativo delle politiche sociali, al fine di ammodernare le modalità di organizzazione ed erogazione dei servizi del welfare, rimuovere le sperequazioni e ricomporre il rapporto tra Stato e cittadini, tra pubblico e privato, secondo principi di equità, efficienza e solidarietà sociale», ed è specificato inoltre che «pubblica amministrazione e terzo settore sono le due gambe su cui fondare una nuova welfare society».
In realtà, se si passa dall’analisi delle Linee guida a quello del disegno di legge delega, l’impressione che si ha è quella di un testo in cui la priorità è data alla  ridefinizione delle regole interne al mondo del privato sociale, mentre rimangono assai indefiniti principi e criteri direttivi che indichino al futuro legislatore le modalità di attuazione del principio di sussidiarietà[82]. Certamente il tema è di particolare complessità, trovandosi al centro di un delicato intreccio di competenze materiali tra Stato e regioni: molti degli ambiti in cui la relazione fra amministrazione ed enti non profit appare più difficile ed eterogenea rientrano proprio nella competenza residuale regionale, come nel caso dei servizi sociali. Per questo motivo desta più di una perplessità trovare nell’elenco dei principi e criteri direttivi dell’art. 2 del ddl l’invito rivolto al legislatore delegato di «valorizzare il ruolo degli enti nella fase di programmazione, a livello territoriale, relativa anche al sistema integrato di interventi e servizi socio-assistenziali». Alla luce dell’attuale titolo V della Costituzione[83], infatti, per raggiungere l’obiettivo del coinvolgimento del terzo settore nella programmazione dei sistemi di welfare occorrerebbe che le modalità di questo coinvolgimento fossero concordate con le Regioni, attraverso procedure fermamente improntate al principio di leale collaborazione.
Peraltro nel disegno di legge delega in discorso manca ogni riferimento – che vada oltre un generico richiamo di stile – al rispetto del diritto dell’Unione Europea, ed in particolare al tema, spinoso, della regolazione dei rapporti fra pubblica amministrazione e soggetti non profit, per quel che attiene all’affidamento dei servizi di interesse generale.
Molti ambiti di attività in cui operano soggetti non profit sono considerati dal diritto UE dotati di rilevanza economica ed è ormai «un dato ormai acquisito che la qualificazione giuridica di un soggetto come senza scopo di lucro non esima dalla applicazione della normativa europea a tutela della concorrenza, quando esso svolga un’attività economicamente rilevante»[84]. Ciò incide in maniera pregnante sulle modalità di selezione degli affidatari dei servizi di interesse generale e sulla legittimità delle disposizioni interne che accordano una preferenza ai soggetti del terzo settore.
Sul tema peraltro a febbraio 2014 è stata emanata la nuova  direttiva-appalti, ancora da trasporre nel nostro diritto interno[85], la quale pare aprire alla attenuazione del principio della libera concorrenza in funzione del raggiungimento di obiettivi sociali,  riservando una disciplina speciale alle organizzazioni senza scopo di lucro[86].
Ci pare che la individuazione di parametri specifici e criteri oggettivi che consentano di far emergere, in sede di selezione per l’affidamento dei servizi di interesse pubblico, l’apporto specifico che i soggetti non profit possono assicurare in termini di valore aggiunto sociale[87] siano elementi essenziali di una disciplina che intenda valorizzare lo specifico ruolo che il terzo settore svolge ed attuare quindi il principio di sussidiarietà orizzontale. Ciò consentirebbe di tenere conto non solo della loro forma giuridica ed organizzativa, ma anche delle concrete modalità in cui essi svolgono la propria attività. Ma di questi elementi non vi è traccia nel disegno di legge delega.
Sulla base di tali premesse ci sembra interessante considerare, oggi, le forme di raccordo previste a livello regionale per regolare l’apporto del privato sociale all’azione dei soggetti istituzionali competenti in materia assistenziale, dando conto di interventi specifici, strumenti, forme di collaborazione: nella consapevolezza, peraltro, che, gli interventi legislativi regionali tendono a considerare il volontariato organizzato all’interno del terzo settore complessivamente inteso. Sono estremamente circoscritte, infatti, le discipline regionali che riguardano in forma specifica il distinto apporto del volontariato alla realizzazione delle attività contemplate.
Negli anni più recenti alcune Regioni hanno dedicato interventi normativi alla disciplina della sussidiarietà orizzontale. Alcune lo hanno fatto con leggi dallo scarso impatto in termini di introduzione di modalità operative e collaborative nuove. Si pensi, ad esempio, alla legge regionale Campania n. 12/2011, (recante «Attuazione del comma 4 dell’articolo 118 della Costituzione sulla sussidiarietà orizzontale»), la quale all’art. 3 indica, quali soggetti della sussidiarietà i cittadini, singoli o associati, le famiglie, le imprese, gli agenti del terzo settore, e definisce quale oggetto della  sussidiarietà «le attività di interesse generale svolte dai cittadini, soprattutto a causa della inerzia delle istituzioni rappresentative, con particolare riferimento a forme di erogazione e svolgimento di servizi[88] che privilegiano la libera scelta e l’autorientamento in una logica di collaborazione e di coamministrazione», demandando poi al Consiglio regionale, in concomitanza con l’approvazione del documento annuale di programmazione economica e finanziaria, la definizione di obiettivi specifici per l’attuazione della legge[89].
Altre, invece, hanno riformato la disciplina relativa alle organizzazioni del terzo settore[90], al fine di razionalizzarla e semplificarla, mirando ad innovare le procedure di raccordo tra tali soggetti e le istituzioni, o hanno previsto interventi e forme di collaborazione specifiche, direttamente connesse al contrasto alla povertà. Con riferimento a queste due ultime ipotesi, meritano di essere segnalate e approfondite le disposizioni introdotte dalla regione Liguria e dalla regione Toscana.
 
a. Il caso della regione Liguria
Nel 2012 la regione Liguria ha approvato il Testo unico delle norme sul terzo settore (legge regionale n. 42 del 2012).  La legge regionale istituisce un registro unico degli enti non profit, prevede l’individuazione di un organismo associativo unitario di rappresentanza del terzo settore nei rapporti con la pubblica amministrazione – con funzioni consultive e propositive – e detta disposizioni per la partecipazione alle attività di programmazione, progettazione e implementazione delle politiche sociali.
Particolarmente significativo risulta il tentativo di razionalizzare e rendere più efficace la rappresentanza del terzo settore a livello regionale e locale, attraverso la costituzione di «Organismi associativi unitari di rappresentanza dei soggetti del terzo settore». Il tema della rappresentanza, infatti, assume una importanza centrale nell’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, stante il problematico rapporto che, all’interno del variegato mondo del terzo settore, corre, da un lato, tra rappresentanza e rappresentatività e, dall’altro, tra rappresentanza e responsabilità dei soggetti privati nell’esercizio di funzioni di interesse generale.
Ai sensi dell’art. 24 della l.r. 42/2012, la Giunta regionale definisce la dimensione territoriale di tali organismi, che devono essere costituiti mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. Al fine di essere riconosciuti come soggetti atti a partecipare alla programmazione sociale, devono avere una struttura interna democratica (attestata da una serie di indici indicati dalla legge stessa) e avere una certa consistenza numerica[91].
Con precipuo riferimento alle forme di collaborazione tra enti non profit ed istituzioni pubbliche, ci pare importante fare riferimento all’impiego dei c.d. Patti di sussidiarietà, disciplinati all’art. 28 della legge regionale. I Patti di sussidiarietà sono strumenti che consentono di sperimentare l’assunzione privata di pubbliche responsabilità e che si addicono a particolari situazioni e servizi, che vedono il coinvolgimento di soggetti giuridici diversi (cooperazione, volontariato, associazionismo). Il procedimento consiste di una prima fase ad evidenza pubblica, con pubblicazione di un bando con richiesta di manifestazione di interesse a coprogettare a tutti i soggetti privi di finalità di lucro e di cui all’art.1, comma 4 della l. n. 328/2000. Si tratta di una procedura che potrebbe rappresentare una modalità alternativa di affidamento dei servizi, che valorizza il coinvolgimento del territorio, le sue potenzialità.
Raccolte le domande e verificato il possesso dei requisiti di accesso, si attiva il tavolo di progettazione regionale, in cui sono definite le caratteristiche generali del progetto e un piano finanziario di massima. Gli enti del terzo settore coinvolti nel Patto possono concorrere sia finanziariamente sia attraverso il capitale umano dei volontari, e l’amministrazione può, a titolo di compensazione e valutato il costo complessivo del progetto, mettere a disposizione delle risorse in modo tale da garantire l’equilibrio finanziario nell’attuazione del progetto stesso. In fase di rendicontazione, qualora non vengano rendicontate le spese rispetto a quanto erogato, la rimanenza deve essere restituita dai soggetti del terzo settore coinvolti alla Regione.
Ai sensi dell’art. 30 della legge, le azioni per il sostegno dell’impegno dei privati senza finalità di profitto, iscritti nelle competenti sezioni del Registro regionale consistono, infatti, nella messa a disposizione, da parte della Regione, degli enti locali, degli enti del settore regionale di risorse economiche, organizzative e/o finanziarie a fronte dell’impegno a partecipare ai processi di coprogettazione dei servizi e degli interventi e/o alla loro autonoma realizzazione, anche in collaborazione con le organizzazioni pubbliche, nell’ambito della programmazione sociale locale.
In particolare, per accedere al sostegno istituzionale, l’impegno partecipativo deve prevedere la messa a disposizione da parte dei privati di risorse economiche, organizzative e/o finanziarie proprie e/o autonomamente reperite, nella percentuale minima del 30 per cento delle risorse complessive previste per la realizzazione del progetto. È esclusa, quindi, la corresponsione, sotto qualsiasi forma, di utilità economiche sostanzialmente riconducibili a corrispettivi per la fornitura di servizi o di beni o a trasferimenti connessi alla concessione di pubblici servizi.
Un caso interessante in cui sono stati applicati questi strumenti è costituito dal progetto «Interventi di comunità per anziani» finalizzato alla tutela della salute, alla prevenzione del disagio e del rischio di povertà. Nei progetti attivati il terzo settore, nelle sue diverse forme e caratteristiche, ha condiviso e coprogettato con le istituzioni locali, analizzando le reali necessità territoriali e mettendo a disposizione risorse a favore dei distretti socio-sanitari liguri con cui incrementare i servizi offerti.
Tale tipologia di interazione tra soggetti pubblici ed enti del terzo settore ci pare  adeguatamente valorizzare il legame con il territorio nella gestione dei servizi in quanto integra un vero e proprio strumento di partecipazione nella definizione delle politiche pubbliche.
 
b. Il ruolo del terzo settore nel contrasto alla povertà nel progetto di credito sociale in Toscana
Con particolare riferimento al ruolo dei soggetti non profit nel contrasto alla povertà ci sembra significativa l’esperienza realizzata in Toscana; la regione, infatti, ha finanziato iniziative di microcredito a favore delle famiglie e delle persone fisiche, all’interno di progetti presentati dai soggetti del terzo settore, tesi a promuovere l’inclusione sociale e la lotta contro la povertà.
In particolare l’art. 60 della legge regionale n. 77 del 2013 (legge finanziaria per il 2013) ha dettato i requisiti di accesso a tali misure di sostegno (cittadinanza di un paese dell’Unione europea, oppure, in mancanza, possesso della carta di soggiorno o di un regolare permesso di soggiorno, residenza in un Comune della Regione, età superiore ai 18 anni, Isee inferiore a € 15.000).
Il regolamento, approvato con Decreto del Presidente della Giunta Regionale 23 aprile 2013, n. 17/R, è intervenuto a stabilire la tipologia di tale sostegno, il suo ammontare massimo, le modalità gestionali nonché le caratteristiche dei progetti di inclusione sociale[92].
Come emerge chiaramente, in questo tipo di azione promossa dalla regione assumono un ruolo di primo rilievo gli enti del terzo settore, quali promotori di progetti di inclusione. Per l’ammissione al finanziamento sono valutati infatti i contenuti dei progetti che i soggetti del terzo settore presentano alla Regione, ed è in base alle azioni ivi previste che i primi stimano le richieste di sostegno finanziario da avanzare alla seconda, verificando da un lato la sussistenza di requisiti puntualmente elencati, ma, dall’altro, anche le particolari condizioni di difficoltà familiare in cui la persona si trova nonché la natura delle spese che deve sostenere.
Inoltre, allo scopo di rendere maggiormente efficace e continuativa l’azione a sostegno delle persone in difficoltà, successivamente all’erogazione del sostegno finanziario, è previsto un intervento di tutoraggio del beneficiario svolto dal soggetto del terzo settore, tutoraggio realizzato in stretta connessione con il servizio sociale professionale del territorio e finalizzato all’educazione ad un uso consapevole del denaro.
Il terzo settore, quindi: progetta l’intervento, seleziona i beneficiari sulla base di criteri individuati dalla regione ed effettua un monitoraggio del percorso personale attraverso la previsione di un progetto personalizzato per il destinatario dell’intervento[93].
Da questo punto di vista emerge con tutta evidenza la diversità del tipo di coinvolgimento e di rapporto che si viene a creare tra ente pubblico e ente non profit, rispetto ad esempio all’approccio  adottato a livello statale dall’art. 2, commi 46-48 del d.l. n. 225/2010 (disposizioni poi abrogate dall’art. 60 del d.l. 5/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 35/2012), che conteneva una prima disciplina della sperimentazione della social card per i Comuni sopra i 250 mila abitanti, all’interno della quale gli enti caritativi erano i destinatari della misura[94]. Non un coinvolgimento, quindi, finalizzato a garantire una migliore efficacia degli interventi, ma una delega sostanzialmente in bianco.
Un ultimo rilievo in merito all’esperienza toscana riguarda il ruolo della regione nella realizzazione degli interventi richiamati e nell’interlocuzione con gli organismi del terzo settore coinvolti. Diversamente da quanto previsto nella legislazione “ordinaria” di settore, in cui gli enti locali sono gli interlocutori istituzionali degli organismi del terzo settore attivi nei diversi contesti territoriali, secondo il modello c.d. di welfare municipale, nella legislazione regionale istitutiva degli interventi di assistenza economica, così come nel caso del credito sociale, è la regione che assume in via esclusiva l’attuazione delle misure. Oltre a istituire l’intervento in via legislativa, interloquisce direttamente con le organizzazioni non profit del territorio, senza alcun coinvolgimento dei comuni in merito alla selezione delle priorità e alle scelte progettuali realizzate. Possiamo dire, insomma, che, con riferimento a questo intervento specifico relativo alla lotta alla povertà, quel che si acquista in termini di sussidiarietà orizzontale, si perde in termini di attuazione della sussidiarietà verticale.
Più in generale, invece, per quanto concerne le altre misure introdotte nel 2013 in Toscana e già richiamate, la regione attua direttamente la misura, coinvolgendo le organizzazioni del terzo settore e gli enti locali solo nell’attività di promozione e di diffusione delle misure presso la popolazione interessata, ma riservandosi l’erogazione diretta del contributo economico.
 
8. Le conseguenze connesse all’eventuale approvazione del ddl di riforma costituzionale all’esame del Parlamento.
Dopo l’analisi dell’attività legislativa regionale e prima di proporre alcune riflessioni conclusioni, ci preme soffermarci sulla recente proposta di riforma costituzionale all’esame del Parlamento ed analizzare i possibili effetti che il riordino del riparto di competenze legislative tra stato e regioni  potrebbe avere sull’ambito dell’assistenza sociale e del contrasto alla povertà. Nel ddl Cost. A.C. 2316, la materia compare nel comma 4 dell’art. 117 con  l’espressione «programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali».
Non vi è dubbio che in ambito sociale il metodo programmatorio sia venuto strutturandosi più che mai come modalità di regolazione dell’esercizio di diritti individuali, che quindi incide in modo diretto sul contenuto e sull’esigibilità degli stessi. Attraverso la programmazione si ha, di fatto, la progressiva specificazione delle mete sociali costituzionalmente intese  «in obiettivi territorialmente e settorialmente circoscritti, rispondenti alle esigenze emerse a livello locale» . Ma, rispetto all’attuale conformazione della materia , emergono alcune criticità. Ridurre la competenza regionale ai profili programmatori ed organizzativi dei servizi potrebbe quindi mortificare la vocazione delle Regioni a farsi interpreti dei bisogni espressi dalle comunità e non tener conto di una tradizione che ha visto, negli ultimi trent’anni, tali enti quali protagonisti nella messa a punto di interventi di cura e sostegno dei propri cittadini in condizioni di debolezza. Per programmare i servizi in vista della realizzazione di diritti, occorre che siano posti degli obiettivi, che attraverso la programmazione si intendono appunto attuare, obiettivi che non possono essere limitati alla definizione, da parte dello Stato, di livelli essenziali delle prestazioni relative al diritto all’assistenza sociale.
Ci pare insomma che residui una porzione di materia che non può essere ricompresa nella nozione di “livello essenziale delle prestazione” ma che, allo stesso tempo, non può ragionevolmente rientrare nella nozione di «programmazione ed organizzazione dei servizi».  Ed infatti il 10 febbraio u.s. sono stati approvati alcuni emendamenti  all’art. 30 del ddl in base ai quali tra le materia di competenza esclusiva dello Stato elencate al comma 2, lett m dell’art. 117 compaiono anche «le disposizioni generali e comuni per le politiche sociali». Una definizione, quella di «politiche sociali», molto ampia, capace di assorbire non solo le misure contro la povertà, ma probabilmente anche quelle per l’alloggio e le politiche attive per il lavoro.
A questo titolo competenziale “ufficiale” si affiancano, inoltre, una serie di strumenti concessi al legislatore statale per intervenire in materie di competenza regionale. Nel ddl. di riforma, infatti, la possibilità che lo Stato possa intervenire a salvaguardia di interessi incomprimibili e di beni primari come la dignità della persona pare assicurata non solo dalla clausola relativa alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (che rimarrebbe), ma anche dalla clausola prevista dall’art. 117, comma 4, secondo cui «la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica» . Ora, mentre i livelli essenziali costituiscono una clausola direttamente connessa ai diritti e finalizzata, almeno in teoria “obbligatoriamente” (anche se poi lo Stato può non adempiere) a garantirne la tutela anche attraverso la definizione di elementi puntuali: gli standard strutturali e qualitativi , la clausola di salvaguardia dell’unità potrebbe fornire quello strumento ulteriore, suscettibile di  assumere carattere di dinamicità e flessibilità, attraverso cui legittimare un intervento invasivo dello Stato in materia di assistenza sociale, quando se ne ravvisi la necessità.
Ci pare, quindi, che le modifiche introdotte  portino  ad una significativa mortificazione dell’autonomia regionale. Anche perché, , affinché la programmazione dei servizi sociali (unico compito lasciato alle regioni) abbia una sua autonomia e dignità, occorrerebbe incidere sul sistema di finanziamento del sistema, che non può continuare ad essere imperniato su meri trasferimenti dallo Stato alle regioni e agli enti locali .:Da questo punto di vista, gli anni seguenti all’approvazione della precedente riforma costituzionale hanno mostrato come sia difficile attuare un cambiamento radicale delle relazioni finanziarie tra livelli di governo. Peraltro, nel ddl di riforma costituzionale attualmente all’esame del Parlamento l’art. 119 non presenta novità sostanziali, se non per il riferimento alla competenza esclusiva dello Stato nel coordinamento della finanza pubblica e nella definizione del sistema tributario contenuto al comma 3.
In conclusione, non sembra che l’intervento di modifica del testo costituzionale introduca soluzioni in grado di adeguatamente «governare la diversità» , tutelando al contempo l’autonomia regionale e i diritti delle persone.
 
9. Prospettive e criticità
A conclusione del lavoro, ci sembra che le questioni aperte siano ancora molte e rilevanti. A livello regionale si riscontra il permanere di vizi ormai radicati anche a livello nazionale: la frammentazione delle politiche, l’estemporaneità delle risposte – più evidente in tempo di crisi per la superfetazione degli interventi, ma spesso a questa preesistente – l’istituzione di trasferimenti monetari, prevalentemente una tantum, svincolati dal sistema complessivo dei servizi alla persona. A questi aspetti si aggiunge la perdurante tendenza del livello statale di governo di intervenire in ambiti riservati all’autonomia regionale e locale, in modo esplicito, attraverso l’adozione di misure redistributive statali, ed in modo implicito, attraverso interventi di coordinamento della finanza pubblica e riduzione della spesa.
Come è stato opportunamente sottolineato, «l’individuazione del punto di equilibrio tra esigenze di unità e ragioni dell’autonomia, tra spending power nazionale e federalismo fiscale costituisce ovunque il principale nodo problematico delle relazioni intergovernative infrastatuali, tanto che dalla maggiore o minore efficacia raggiunta nel perseguimento di questo delicato equilibrio sembra oramai dipendere la stessa efficienza complessiva degli ordinamenti decentrati»[95].
È esemplificativo di questo ultimo tipo di condizionamento il decreto legge n. 66 del 2014, convertito con legge 23 giugno 2014 n.89, che dispone all’art.47 ( c.7 e c. 9) il concorso degli enti locali alla riduzione della spesa pubblica. Per i comuni la riduzione deve essere «nella misura complessiva di 360 milioni di euro per il 2014 e di 540 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2017, proporzionalmente alla spesa media, sostenuta nell'ultimo triennio, relativa ai codici SIOPE indicati nella tabella A allegata al presente decreto». La tabella allegata include l’elenco delle spese su cui insisterà la riduzione prevista: tra queste sono ricompresi gli esborsi più diversi, incluse anche le spese per il ricovero di anziani, minori e persone con disabilità «e altri servizi connessi», attinenti quindi l’esercizio di funzioni di servizio sociale.
Il dettaglio sulla distribuzione dei tagli per tipologia di spesa è ad oggi indeterminato, ma l’aspetto rilevante della vicenda esemplificata sta nella profonda ingerenza che i provvedimenti di spesa possono determinare, non solo sull’autonomia degli enti sub statali, ma anche sulla garanzia dei diritti sociali corrispondenti, loro malgrado, a determinate tipologie di intervento e di spesa. La questione si complica ulteriormente se si tiene conto che le spese in questione corrispondono, in base a numerose leggi regionali, ad interventi sociali di tipo residenziale rivolti a minori, anziani e persone con disabilità che rientrano tra i livelli di prestazione garantiti sul territorio regionale, e che alcune misure di collocamento in comunità sono “obbligate” in ragione di disposizioni civilistiche sulla tutela degli incapaci, attuate tramite provvedimento dell’autorità giudiziaria.
La logica della frammentazione e della estemporaneità degli stanziamenti finanziari trova conferma nell’ultima legge di stabilità, laddove si trovano un pluralità di fondi e di obiettivi, non sempre coordinati tra di loro, finalizzati ad interventi di carattere sociale.
Nella legge di stabilità 2015, legge n. 190 del 2014, art.1, comma 158, il FNPS è finanziato per 300 milioni di euro. Per il 2015, sono attribuiti 400 milioni di euro al FNA, a copertura anche del sostegno alle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica, fondo quantificato in 250 milioni di euro per il 2016 (art.1, comma 159); 112 milioni di euro sono attribuiti al fondo per la famiglia (art. 1, comma 131), di cui 100 milioni destinati a servizi socio educativi per la prima infanzia e 12 milioni alla distribuzione di derrate alimentari; 202 milioni di euro per l’anno 2015 sono destinati al bonus bebè. Inoltre è rifinanziato con 250 milioni di euro il «fondo di cui all’art. 81, comma 29, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 113». Si tratta del Fondo che ha alimentato la “vecchia” social card, quella ordinaria, che consiste in trasferimenti di 40 euro al mese alle famiglie in condizione di povertà che abbiamo al loro interno un bambino fino ai 3 anni o un ultra 65enne (per intenderci, quella “salvata” dalla sent. n. 10/2010 della Corte cost.).
Proprio a questo proposito, il coordinatore nazionale della Commissione Politiche sociali della Conferenza delle Regioni e Province Autonome aveva annunciato la richiesta delle Regioni al Governo di utilizzare le risorse destinate alla social card per progetti di contrasto alla povertà all’interno della programmazione regionale, ben consapevoli che, al momento, l’estensione a livello nazionale del SIA (Sostegno per l’inclusione attiva), che dovrebbe nascere anche sulla scia della fase sperimentale della nuova social card, è privo della necessaria copertura finanziaria[96].
Nella Proposta per un «Patto da affiancare al DEF e alla Legge di Stabilità 2015», licenziata dalla conferenza delle regioni e delle province autonome il 30 ottobre scorso, si propone l’avvio da gennaio 2015 di una misura stabile di contrasto alla povertà, progettuale e pattizia, «basata su un universalismo selettivo, da meglio definire tra i livelli istituzionali, con la partecipazione attiva del terzo settore, che tenga conto anche delle diverse proposte già formulate», «superando le forme di “social card”, già sufficientemente sperimentate, ma che non contrastano gli effetti di una vera povertà»
Con riferimento, invece, alla nuova social card, quella sperimentale disciplinata dal decreto Monti n. 5/2012 non sono mancati ulteriori elementi di criticità. Come noto, la sperimentazione nelle 12 città con più di 250.000 abitanti nasce con l’esplicita finalità di sperimentare una misura di integrazione del reddito generalizzabile come «strumento di contrasto alla povertà assoluta» (art. 60, d.l. n.5/2012). Il programma sperimentale ha previsto requisiti molto stringenti (ISEE inferiore a 3.000 euro, patrimonio inferiore a 8.000 euro e presenza, nel nucleo familiare, di almeno una persona che ha avuto un’esperienza lavorativa nei tre anni precedenti la domanda) ed è stato impostato in modo molto rigoroso in termini di verifiche del possesso dei requisiti, aspetto cruciale in un paese come l’Italia ad elevata economia sommersa.
Il decreto attuativo ha così previsto che le erogazioni dei benefici fossero precedute dalla verifica puntuale delle informazioni autodichiarate negli archivi amministrativi dell’INPS, dell’Agenzia delle entrate e dei Comuni stessi. Se si guarda al primo report del Ministero del 1 settembre 2014, è interessante notare che in tutte le città, almeno il 50% delle domande (con punte quasi dell’80% a Catania e Firenze) risulta relativo a situazioni in cui almeno un requisito non è posseduto, contrariamente a quanto dichiarato dal cittadino[97]. L’elemento che ci pare importante sottolineare è che nella prima fase della sperimentazione finora descritta, in diverse città le risorse disponibili non siano andate esaurite. La gran parte delle città ha «impegnato» tra la metà e i due terzi del totale delle risorse. Solo Catania, Palermo e Torino hanno esaurito subito il budget disponibile. Tra queste, Catania è l’unica in cui il numero di domande idonee è superiore di circa il 50% al numero di domande ammissibili sulla base del budget[98]. Firenze e Venezia hanno speso tra un quarto e un terzo delle risorse a disposizione; Milano circa la metà del budget. Roma, che da sola assorbe una quota ingente di risorse ha inviato a fine luglio le 5482 domande accolte all’INPS per le verifiche amministrative, e non ha ancora speso le ingenti risorse a disposizione.
Le esperienze maturate nell’ambito di queste sperimentazioni dovrebbero far riflettere sulla necessità di individuare meglio le misure da realizzare e le risorse necessarie, attraverso una analisi più attenta del contesto dove le azioni di politica sociale vanno ad inserirsi. Inoltre evidenziano come elemento indispensabile e qualificante l’intervento pubblico sia quello di una valutazione seria, non episodica ma strutturata, dell’impatto che l’attuazione delle misure adottate comporta sugli apparati amministrativi deputati, in termini di spendita di risorse e di durata dei procedimenti nonché dei risultati che tali misure possono determinare sui destinatari. La valutazione di efficacia delle politiche, promossa e sviluppata in ambito internazionale, ed assunta a criterio qualificante l’intervento di riforma dei sistemi di protezione sociale anche in ambito europeo, può essere in tal senso uno strumento extragiuridico di attuazione dei diritti fondamentali.
Forzando necessariamente i termini del ragionamento, una sistematica opera di valutazione dell’impatto sociale delle scelte di politica pubblica trova fondamento in diversi principi della nostra costituzione.
In termini di fattibilità amministrativa, va a declinare il principio di buon andamento della pubblica amministrazione previsto dall’art. 97 Cost., preordinando la scelta di determinate modalità attuative alla valutazione della sostenibilità e ragionevolezza delle procedure previste. In questo modo si potrebbero evitare esiti paradossali come quelli registrati in Veneto o nella sperimentazione della social card nuova, dove il costo del lavoro burocratico di gestione delle pratiche rischia di assorbire più risorse di quelle stanziate per l’intervento economico diretto.
In termini sostanziali, permetterebbe di selezionare quelle misure che risultano avere un maggiore impatto in termini di riduzione delle diseguaglianze, aumento delle opportunità/capacità, promozione della dignità e dell’autodeterminazione, cioè che hanno maggiori possibilità di integrare una effettiva rimozione degli ostacoli economici e sociali di cui all’art.3, comma 2, Cost. 

 
 

[1] Una recente ricostruzione dei fondamenti costituzionali del diritto all’assistenza si legge in C. Tripodina, Reddito di cittadinanza come “risarcimento per mancato procurato lavoro”. Il dovere della Repubblica di garantire il diritto al lavoro o assicurare altrimenti il diritto all’esistenza, in Costituzionalismo.it, 2015.
[2] Da tempo questo aspetto fortemente critico è all’attenzione degli studiosi del settore. Cfr P. Bosi, L’irresistibile attrazione dei trasferimenti monetari, in L. Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare dieci anni dopo la Commissione Onofri, Il Mulino, 2008; M. Bezze, Spesa non governata, in Fondazione Emanuela Zancan, Rigenerare capacità e risorse. La lotta alla povertà. Rapporto 2013, Bologna 2013, p. 39 ss.
[3] Il tema è stato oggetto di una valutazione comparativa delle politiche nazionali da parte dell’ESN (European Social Network) nel 2012, su cui v. ESN, Are ‘adequate and affordable’ social services a priority in Europe 2020?, disponibile online al link www.esn-eu.org.
[4] Parla criticamente di approccio «un problema, una risposta, un fondo» M. Bezze, Spesa non governata, cit., p. 44.
[5] La rilevazione della spesa dei comuni destinata al finanziamento dei servizi sociali è monitorata annualmente da Istat e Ragioneria dello Stato, attraverso l’Indagine sulla spesa sociale dei Comuni singoli e associati, su cui v. infra, par. 2.
[6] Da ultimo, E. Vivaldi, A. Gualdani, Il minimo vitale tra tentativi di attuazione e prospettive future, in Diritto e Società, 1, 2014, 115ss.
[7] Sul tema si veda I. Carlotto, P. Cavaleri, L. Panzeri, Servizi sociali, in L. Vandelli, F. Bassanini (a cura di), Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle Regioni, Bologna, 2012, p. 55 ss. Sia, inoltre,  consentito il rinvio a E. Vivaldi, Assistenza sociale, in A. Morelli, L. Trucco (a cura di), I diritti e le autonomie, Torino, 2014, p. 277 ss.
[8] Per un inquadramento generale sul tema si rinvia a S. Mangiameli (a cura di), Le Regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, Milano, 2013, passim; con specifico riferimento all’incidenza della crisi e delle misure anticrisi sui diritti fondamentali, C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, in rivista AIC 4, 2013.
[9] L. Violini, La parabola del welfare, dalla Costituzione alla riscoperta della sussidiarietà, in L. Violini, G. Vittadini (a cura di), La sfida del cambiamento. Superare la crisi senza sacrificare nessuno, Milano, 2012, p.211 ss; sul rapporto tra principio di sussidiarietà orizzontale, autonomia e diritti si veda, da ultimo, E. Longo, Sussidiarietà orizzontale, in A. Morelli, L. Trucco (a cura di), I diritti e le autonomie, Torino, 2014, p. 114 ss.
[10] Istat (2014), La povertà in Italia. Anno 2013, www.istat.it.
[11] Per una panoramica dell’andamento delle politiche di contrasto alla povertà v. Fondazione Emanuela Zancan, Welfare generativo. Responsabilizzare, rendere, rigenerare . La lotta alla povertà. Rapporto 2014, Il Mulino, Bologna, 2014 e le precedenti edizioni.
[12] Si tratta delle famiglie con valori di spesa superiori alla linea di povertà 2013 di non oltre il 20%.
[13] I risultati della ricerca sono consultabili online sul sito http://www.gini-research.org e sono pubblicati nei volumi a cura di W. Salverda, B. Nolan, D. Checchi, I. Marx, A. McKnight, I. G. Tóth, H. van de Werfhorst, Changing Inequalities in Rich Countries. Analytical and Comparative Perspectives, e ib., Changing Inequalities and Societal Impacts in Rich Countrie. Thirty Countries' Experiences, Oxford University Press, 2014.
[14] Per un’analisi puntuale e approfondita dei dati di spesa relativi alle politiche assistenziali v. M. Bezze, Sperperare o rendere, in Fondazione E. Zancan, op. cit., p. 51 ss.
[15] M. Franzini, Disuguaglianze inaccettabili. L'immobilità economica in Italia, Laterza, 2013.
[16] C. Tripodina, Il diritto a un'esistenza libera e dignitosa. Sui fondamenti costituzionali del reddito di cittadinanza, Torino, 2013; M. Ruotolo, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca dei fondamenti costituzionali del diritto a un’esistenza dignitosa, in Dir. Pubblico, 2, 2011, p. 391 ss.
[17] E. Granaglia, Universalismo e selettività: necessità, condizioni, criticità, in L. Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare. Dieci anni dopo la «Commissione Onofri», Il Mulino, 2008, p. 59ss.
[18] E. Rossi, Universalismo selettivo e principio di uguaglianza sostanziale, in Fondazione E. Zancan, Ripartire dai poveri. Rapporto 2008 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Il Mulino, Bologna, 2008, p.80.
[19] G. Mazzoni, Articolo 25 (Accertamento della condizione economica del richiedente), in E. Balboni, B. Baroni, A. Mattioni, G. Pastori (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali. Commento alla legge n.328 del 2000 e ai provvedimenti attuativi dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Seconda edizione, Giuffrè, Milano, 2007, p. 551.
[20] I rapporti, pubblicati dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, sono disponibili sul sito http://www.lavoro.gov.it/AreaSociale/Inclusione/isee/.
[21] Su cui si rinvia infra nel paragrafo.
[22] Ad esempio la legge campana istitutiva del reddito di cittadinanza prevede che la valutazione della situazione economica sia integrata dalla verifica della capacità di spesa dei richiedenti.
[23] L’entrata a regime della riforma è stata fortemente pregiudicata prima da questioni tecniche (la messa a punto del sistema informativo e del nuovo modello di dichiarazione sostitutiva unica), poi da lungaggini burocratiche (il mancato adeguamento delle convenzioni tra INPS e patronati per la regolazione degli adempimenti previsti dalla normativa a carico di questi ultimi), infine dalla ben più complessa vicenda giurisprudenziale di cui si dà brevemente conto più avanti.
[24] B. Vimercati, La compartecipazione dell’utente alla spesa sociosanitaria: una ricostruzione alla luce del nuovo d.p.C.M. n. 159 del 2013, in Le Regioni, 5-6, 2014, p. 1105 ss.
[25] A. Venturi, G. Corvetta , Regioni e servizi sociali: la Consulta legittima i “modelli regionali” fondati sulla partecipazione degli utenti (ma non solo) al costo delle prestazioni, in Le Regioni, 2, 2013, p. 444-464; Alessandro Candido, Liveas o non liveas. il diritto all’assistenza e la riforma dell’isee in due pronunce discordanti, Rivista Aic 2/2013.
[26] Secondo l’art. 2, comma 1 del DPCM n. 159/2013, «La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, fatte salve le competenze regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e socio-sanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni. In relazione a tipologie di prestazioni che per la loro natura lo rendano necessario e ove non diversamente disciplinato in sede di definizione dei livelli essenziali relativi alle medesime tipologie di prestazioni, gli enti erogatori possono prevedere, accanto all'ISEE, criteri ulteriori di selezione volti ad identificare specifiche platee di beneficiari, tenuto conto delle disposizioni regionali in materia e delle attribuzioni regionali specificamente dettate in tema di servizi sociali e socio-sanitari. E' comunque fatta salva la valutazione della condizione economica complessiva del nucleo familiare attraverso l’ISEE».
[27] Sul tema sia consentito rinviare a E. Innocenti, ISEE e compartecipazione alla spesa nei servizi comunali, in Studi Zancan, 2, 2014, p. 17-27.
[28] È stata dichiarata l’illegittimità delle disposizioni del regolamento che prevedono l’inclusione di tali provvidenze nel calcolo della componente reddituale dell’indicatore ( art. 4, comma 2, lett. f : TAR Lazio, sez. I, sentenze n. 2454 e 2458 del 11 febbraio 2015) e che dispongono l’applicazione di franchigie diversificate per le persone con disabilità, non solo in base alla gravità della loro condizione, ma anche in ragione della loro età (art. 4, comma 4, lett. d : TAR Lazio, sez. I, sentenza n. 2459 del 11 febbraio 2015).
[29] TAR Lazio, Sez. I, sentenze n. 2454 e 2458 del 11 febbraio 2015
[30] In merito, negli atti parlamentari si trova un unico riscontro in merito al possibile e “paventabile” inserimento delle provvidenze assistenziali nel computo dell’ISEE, nel corso dei lavori della Commissione Affari sociali, che ha poi espresso parere positivo sull’articolato, senza sollevare alcun rilievo (Atti Commissione affari sociali, seduta del 7 dicembre 2011, p. 126).
[31] Nel parere espresso dal Consiglio di Stato in sede di esame della bozza di regolamento si legge che il provvedimento «è stato oggetto di confronto in specifici incontri con le Regioni e le Province Autonome e l’ANCI, attesa la rilevanza che assume l’adozione del nuovo indicatore nelle scelte di programmazione e gestione delle politiche sociali a livello territoriale e, infine, sono state consultate le associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei pensionati maggiormente rappresentative, le principali federazioni delle persone con disabilità, il Forum del terzo settore e il Forum delle famiglie. (…) Al riguardo, la Sezione esprime apprezzamento sull’utilizzo dello strumento della consultazione preventiva, pur se non previsto nel caso specifico dal legislatore, in quanto tale meccanismo consente all’amministrazione procedente di avvalersi di esperienze e conoscenze dei soggetti destinatari del regolamento, di raccogliere informazioni sull’impatto potenziale della regolamentazione e anche di considerare approcci alternativi a determinati aspetti» (Cons. Stato, Sez. consultiva per gli atti normativi, parere 05486/2012).
[32] Una efficace e lucida analisi degli effetti che le pronunce del TAR sopra richiamate potranno avere sulla vicenda attuativa dell’ISEE e sulla tutela delle persone non autosufficienti si legge in http://www.handylex.org/gun/ISEE_Tar_Lazio_2015.shtml, a cura di Carlo Giacobini.
[33] L. Ronchetti, Territorio e spazi politici, in www.gruppodipisa.it
[34] F. Dinelli, Le appartenenze territoriali. Contributo allo studio della cittadinanza, della residenza e della cittadinanza europea, Napoli, Jovene 2011; E. Gargiulo, Le politiche di residenza in Italia, in E. Rossi, F. Biondi Dal Monte, M. Vrenna (a cura di), La governance dell’immigrazione. Diritti, politiche e competenze, Il Mulino, Bologna 2013, p. 135 ss.
[35] Ove essi non siano cittadini dell’Unione, ovvero, per talune provvidenze, non siano titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria ai sensi del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 ovvero titolari di «permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo» (in tali casi, le norme impugnate equiparano queste persone al cittadino italiano). Sulla sentenza v. la nota di D. Monego, La “dimensione regionale” nell’accesso alle provvidenze sociali, in Le Regioni, 1-2, 2014, p. 244 ss.
[36] Corte cost., sentenze nn. 432/2005, 40/2011, 133/2013, 172/2013.
[37] Corte cost., sent. 222/2013, punto 7 Considerato in diritto.
[38] Così F. Biondi Dal Monte, Dai diritti sociali alla cittadinanza. La condizione giuridica dello straniero tra ordinamento italiano e prospettive sovranazionali, Giappichelli, Torino 2013, p. 149.
[39] Si veda anche Corte cost., sent. n. 141/2014, punto 6.4 del Considerato in diritto.
[40] A eguale conclusione la Corte giunge con riferimento alla subordinazione al requisito della residenza prolungata sul territorio, per quanto concerne l’accesso a prestazioni concernenti il soddisfacimento dei bisogni abitativi previsti dalla legge del Friuli Venezia Giulia n. 16/2011. Con riferimento a questo tipo di interventi, infatti, la Corte afferma che «l’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, per un verso si colloca a conclusione del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia» (Corte cost., sent. n. 222/2013,  punto 10 del considerato in diritto). Quindi vengono in gioco un elemento, per così dire, premiale e l’altro connesso a ragioni amministrative. Considerazioni analoghe si trovano nell’ordinanza 32/2008, nella quale la Corte aveva chiarito, appunto, che il requisito della residenza continuativa, ai fini ad esempio dell’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, risulta non irragionevole «quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire, specie là dove le stesse realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco».
[41] Sul punto F. Biondi Dal Monte, Dai diritti sociali alla cittadinanza … cit., p. 26. L’Autrice rileva, peraltro, come anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si sia pronunciata sul legame tra individuo e Stato quale presupposto di riconoscimento o negazione dei diritti tutelati dalla Convenzione, evidenziando la necessità di impedire agli Stati di discriminare le persone che abbiano sviluppato importanti legami di fatto con il territorio (p. 255 ss). Sul tema sia inoltre consentito rinviare anche a E. Innocenti, La portabilità del diritto all’assistenza sanitaria tra deterritorializzazione e solidarietà, Roma, 2014, p. 27-67.
[42] Tra i commenti alla sentenza: A. Ruggeri, Livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti e situazioni di emergenza economica, in Forum di Quaderni costituzionali, 2010.
[43] Per un inquadramento generale, E. Vivaldi, I servizi sociali e le Regioni, Torino, 2008 e più di recente, I. Carlotto, P. Cavaleri e L. Panzeri, Servizi sociali, cit, p.55 ss.
[44] Per una analisi puntuale della legislazione regionale in materia di politiche socio assistenziali degli anni più recenti si vedano i Rapporti sulla legislazione 2012 e 2013 a cura dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati.
[45] Per un approfondimento della legislazione regionale precedente alla crisi sia consentito il rinvio a E. Innocenti, Gli interventi legislativi di contrasto alla povertà, in Caritas Italiana, Fondazione Emanuela Zancan (a cura di), Rassegnarsi alla povertà, Rapporto 2007 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Il Mulino, 2007, p.109 ss.
[46] Rientrano in questo ambito «le misure rivolte a integrare gli ammortizzatori sociali previsti a livello nazionale (con una differenziata modulazione legata alla concreta disponibilità di risorse), quindi quelle dirette a sostenere la posizione di soggetti normalmente non percettori di forme di sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro (quali i lavoratori che abbiano cessato la prestazione resa con contratti a progetto)», su cui v. M. D’Onghia, Misure regionali anticrisi, in L. Vandelli, F. Bassanini, Il federalismo alla prova.., cit., p.129 ss.
[47]S. Vuoto, E. Innocenti, Il disegno di legge sui servizi alla persona della regione Sardegna, in Annali della Facoltà di Economia di Cagliari, Vol. XXII anno accademico 2005/2006, Parte terza, 2006.
[48] In base alla delibera possono beneficiare dei sussidi le persone e le famiglie il cui reddito, calcolato con l'indicatore della situazione economica equivalente (Isee), non superi i 4.500 euro annui, comprensivi dei redditi esenti Irpef (ossia ogni altro sussidio a carattere continuativo o temporaneo erogato allo stesso scopo da altre amministrazioni pubbliche, escluse le risorse erogate sotto forma di interventi di contrasto alla povertà). In caso di particolari o complesse situazioni di bisogno e di un numero elevato dei componenti, potranno accedere all’intervento anche le famiglie con reddito superiore a questa soglia, fino al limite di 5.500 euro annui, sempre comprensivi dei redditi esenti e calcolati con il metodo Isee. I sussidi previsti non potranno superare l’importo massimo di 350 euro mensili, da erogare per un periodo non superiore a 12 mesi, e saranno assegnati tramite bandi o avvisi pubblici.
[49] C. Salazar, La legislazione calabrese nel quadro complessivo delle fonti regionali, in C. Salazar, A. Spadaro, Lineamenti di diritto costituzionale della regione Calabria, Torino, 2013, p. 125 ss.
[50]M. Campedelli, P. Carrozza, E. Rossi (a cura di), Il nuovo welfare toscano: un modello?, Il Mulino, Bologna, 2009, passim.
[51] T. Vecchiato, E. Innocenti, Quale futuro per l’integrazione sociosanitaria nel Veneto, in Studi Zancan, 1, 2007, p. 9.
[52] Gli ambiti di impiego indicati nel provvedimento sono: servizi bibliotecari e museali, amministrativi, di assistenza agli anziani, di supporto scolastico, cimiteriali, di attività di giardinaggio di aree pubbliche, di vigilanza parcheggi e di assistenza ai convegni e altri servizi di competenza comunale o individuati dal comune a beneficio dei cittadini.
[53] Per una prima valutazione della misura e degli effetti redistributivi, M. Bezze, D. Geron, Quando il welfare non è un investimento sociale, in la voce.info, 25 luglio 2014.
[54] Per una prima valutazione dei risultati della misura cfr A. Schizzerotto, U. Trivellato, Reddito minimo. Le condizioni per farlo, in lavoce.info, 2013; T. Vecchiato, Reddito minimo senza false illusioni, in Studi Zancan, 3, 2013, p. 44.
[55] Sul punto si veda. R. Mangiameli, Crisi economica e distribuzione territoriale del potere politico, Relazione al XXVIII Convegno Annuale dell’AIC, p. 29 ss; Camera dei deputati, Osservatorio sulla legislazione, Rapporto sulla legislazione, 2013, p. 10 ss.
[56] Tale visione è condivisa da studi indipendenti, come i rapporti sulla povertà e l’esclusione sociale curati da Caritas Italiana e Fondazione Zancan dal 1996, e da fonti istituzionali, come i rapporti annuali della Commissione di indagine sull’esclusione sociale editi dal 2000 al 2012.
[57] Corte Costituzionale, sentenza n. 10 del 2010, 6.3 considerato in diritto.
[58] Sul ruolo dell’Unione Europea nella modernizzazione dei sistemi di welfare la dottrina è molto ampia. Il tema è trattato di recente da M. Cinelli, S. Giubboni, Cittadinanza, lavoro, diritti sociali. Percorsi nazionali ed europei, Giappichelli, Torino, 2014; A.F. Di Sciascio, Le politiche europee di coesione sociale tra amministrazione comunitaria e il sistema degli enti territoriali. Un'introduzione critica, Giappichelli, Torino, 2014.
[59] Commissione Europea, La Piattaforma europea contro la povertà e l'esclusione sociale: un quadro europeo per la coesione sociale e territoriale, SEC(2010) 1564 definitivo.
[60] Commissione Europea, Towards Social Investment for Growth and Cohesion – including implementing the European Social Fund 2014-2020, febbraio 2013.
[61] SWD(2013) 39 final: “The term ‘enabling services’ refers to various services essential to active, social, and economic inclusion policies. Social assistance services, employment and training services, housing support and social housing, childcare, long-term care services and health services are all examples of such provision”(p. 14).
[62] E. Innocenti, Recenti indicazioni dall’Europa per una modernizzazione dei sistemi di welfare nazionali, in Diritto e società, 1, 2014, p. 103 ss.
[63] A.F. Di Sciascio, op. cit., p. 57ss.
[64] Ib., op. cit., p. 317.
[65] Lo stato di disoccupazione deve essere attestato dalla sottoscrizione di una «Dichiarazione di Immediata Disponibilità al Lavoro» sottoscritta presso un Centro per l’Impiego.
[66] In particolare nel bando emanato il 13 ottobre 2014 scorso si legge che sono esclusi coloro che: sono stati beneficiari del precedente Bando Anticrisi 2012 di cui alla deliberazione di Giunta n. 142/2012, sono stati beneficiari di sussidi a qualsiasi titolo erogati dai settori della Direzione Centrale Politiche Sociali e Cultura della Salute; sono beneficiari del sussidio erogato da INPS per i 3 figli minorenni o della carta acquisti sperimentale di cui al Decreto interministeriale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 10 gennaio 2013.
[67] La graduatoria è redatta sulla base dei seguenti criteri: composizione del nucleo familiare e presenza di minorenni in base allo stato di famiglia; livello ISEE (con un’assegnazione di punteggio per chi ha Isee sotto i 3.000 euro ed un’altra per Isee tra 3.001 euro e  6.000 euro); presenza nel nucleo familiare di almeno una persona di età compresa tra i 60/65 anni; presenza nel nucleo familiare di almeno una persona con invalidità compresa tra il 46% e il 73%.
[68]Fondazione E. Zancan (a cura di), Vincere la povertà con un welfare generativo. La lotta alla povertà - Rapporto 2012, Bologna 2012, p. 141.
[69] C. Tripodina, Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa … cit., 239.
[70] Fondazione E. Zancan, Vincere la povertà ... cit., p. 10.
[71] E. Rossi, Prestazioni sociali con corrispettivo? in Fondazione E. Zancan, Vincere la povertà … cit., 119.
[72] M. Bergo, Il diritto sociale frammentato. Principio di sussidiarietà e assistenza sociale, Padova, 2013. E. Stradella, Welfare e terzo settore: un rapporto biunivoco? in M. Campedelli, P. Carrozza, L. Pepino (a cura di), Diritto di welfare, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 361.
[73] G. P. Barbetta, Il settore non profit italiano: solidarietà, democrazia e crescita economica negli ultimi vent’anni, in S. Zamagni (a cura di), Libro bianco  sul Terzo settore, Bologna, Il Mulino, 2011.
[74] A cui seguirà, nel 2000, l’approvazione della legge n. 383 sulle associazioni di promozione sociale.
[75] Su questi aspetti di veda E. Rossi, S. Zamagni (a cura di), Il terzo settore nell’Italia Unita, Il Mulino, 2012.
[76] Sul punto sia consentito rinviare a E. Vivaldi (a cura di), La partecipazione del terzo settore all’elaborazione delle politiche pubbliche: le esperienze regionali, Areté, Maggioli, 2011.
[77] Sui diversi modelli di relazione tra pubblica amministrazione e terzo settore che possono svilupparsi a livello locale, letti secondo una conformazione progressiva quanto a intensità di interazione (dal mero sostegno all’accreditamento, passando per forme intermedie di collaborazione e affidamento) si veda, da ultimo, P. Michiara, L’affidamento di servizi al Terzo settore, in Non profit, 2014, n. 3, p. 199 ss.
[78] Sul punto si veda il documento dell’Agenzia per il Terzo settore, Proposta per una riforma organica della legislazione sul terzo settore, a cura di E. Rossi, Areté, Maggioli, 2009.
[79] Presentato alla Camera il 22 agosto scorso (A.C. n. 2617).
[80] Per un esame approfondito della proposta di legge si rinvia al numero monografico di Non profit Paper n. 3 del 2014, a cura di E. Rossi, L. Gori.
[81] In www.governo.it
[82] Così A. Albanese, I rapporti fra soggetti non profit e pubbliche amministrazioni nel d.d.l. delega di riforma del Terzo settore: la difficile attuazione del principio di sussidiarietà, in Non profit, 2014, n. 3, p. 155 ss.
[83] Ma, a ben vedere, ciò varrebbe anche in caso di definitiva approvazione del ddl di riforma costituzionale attualmente all’esame del parlamento, con riferimento al quale si rinvia al par. 8.
[84] A. Albanese, op. cit., p. 159 ss.
[85] Direttiva 2014/24/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 che abroga la direttiva 2004/18/CE.
[86] Per un commento, P. Michiara, op. cit., p. 202 ss.
[87] Sul tema si rinvia alla interessante analisi comparativa svolta da V. Federico, D. Russo, E. Testi, Impresa sociale, concorrenza e valore aggiunto. Un approccio europeo, Padova, 2012.
[88] In particolare la norma fa riferimento a servizi pubblici sociali, servizi culturali, servizi per la valorizzazione del lavoro e dell’iniziativa economica sociale volti al rafforzamento dei sistemi produttivi locali, i servizi alla persona e i servizi di utilità alla generalità dei cittadini e alle categorie svantaggiate.
[89] Dello stesso tenore anche la legge regionale della Calabria, n. 29/2012, anch’essa recante Attuazione del comma 4 dell’articolo 118 della Costituzione sulla sussidiarietà orizzontale, che in alcuni passaggi si rifà pedissequamente alla legge della Campania sopra citata.
[90] Diversamente il Friuli Venezia Giulia ha scelto di disciplinare congiuntamente le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, mentre la Calabria, le Marche hanno emanato una legge relativa solo alle organizzazioni di volontariato e l’Abruzzo solo alle associazioni di promozione sociale.
[91] Si veda l’art. 24, comma 3, lett. a della legge regionale n. 42/2012.
[92] In particolare la regione sostiene iniziative di microcredito attraverso la concessione di finanziamenti agli enti di terzo settore, per un importo massimo di € 150.000. I progetti, di durata massima di 4 anni, devono essere diretti a favorire l’inclusione sociale dei soggetti in condizioni di particolare fragilità ed avere obiettivi di tipo qualitativo secondo le priorità indicate dal bando, tra le quali l’inserimento sociale del soggetto attraverso l’attribuzione di un ruolo rispetto alla collettività, la sua valorizzazione e responsabilizzazione, il recupero di competenze personali, il miglioramento del sistema di relazioni con la comunità di riferimento. Le specifiche condizioni di difficoltà sono individuate: nella numerosità della famiglia, nella presenza di situazioni di disabilità grave, nella presenza di figli minori e di nuclei monoparentali. 
[93] Con la modifica da ultimo deliberata, sono stati abrogati i commi 5 e 6 dell’art. 6 del regolamento, secondo cui il beneficiario dell’intervento poteva restituire quanto ricevuto attraverso lo svolgimento di attività di utilità sociale, che si è rivelato,  in questo primo periodo di messa a regime dell’intervento, di difficile attuazione pratica e gestionale, oltre che di un'incidenza statisticamente poco significativa. Rimane, quindi, ai sensi del comma 4 dell’art. 6 del Regolamento, la restituzione rateale da svolgersi in un massimo di 36 mesi, secondo quanto previsto dal progetto di inclusione sociale.
[94] Tanto che, un decreto del ministro del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, avrebbe dovuto definire, oltre che “le caratteristiche delle persone in condizione di bisogno alle quali gli enti caritativi si impegnano a rilasciare le carte acquisti di cui sono titolari”, anche le modalità di selezione degli enti caritativi “destinatari delle carte acquisti” e i criteri di attribuzione di quote del totale di carte disponibili per la sperimentazione, avuto riguardo alla natura no profit degli enti e alle loro finalità statutarie, alla diffusione dei servizi e delle strutture gestiti per il soddisfacimento delle esigenze alimentari delle persone in condizione di bisogno, al numero medio di persone che fanno riferimento ai servizi e alle strutture, al numero di giornate in cui il servizio e' prestato.
[95] C. Tubertini, Risorse economiche come elemento di uniformazione, in L. Vandelli, F. Bassanini, op. cit, p. 408.
[96] Conferenza delle regioni e delle province autonome, Le Politiche Sociali come rilancio dello sviluppo economico e sociale: Proposta per un “Patto da affiancare al DEF e alla Legge di Stabilità 2015”, 30 ottobre 2014, disponibile su leregioni.it .
[97] In esito all’approvazione delle graduatorie definitive in tutti i Comuni (eccetto Roma) più di 6.500 nuclei familiari, corrispondenti a quasi 27.000 persone, in condizione di povertà percepiscono oggi il SIA. Il beneficio medio mensile attribuito a ciascuna famiglia è di 334 euro, con una variabilità tra città che dipende dalla media nel numero dei componenti il nucleo familiare. Con riferimento alla Capitale, a causa delle elezioni del 2013, l’amministrazione comunale uscente aveva deciso di rinviare la sperimentazione. Sui 50 milioni della prima fase della sperimentazione, distribuiti tra 12 comuni, a Roma sono andati 11,7 milioni. Alle restanti 11 città (Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Torni, Venezia e Verona) sono andati complessivamente 38,2 milioni di euro. La sperimentazione dovrebbe partire nel 2015.
[98] Nel rapporto ministeriale si legge che l’esperienza di queste città indica che la platea potenziale di beneficiari, come definita dal provvedimento di attuazione della sperimentazione, è sufficientemente ampia da coprire le risorse attualmente disponibili, e che quindi il mancato utilizzo del budget negli altri comuni non sarebbe da addebitare ad un problema di definizione, troppo rigida, dei requisiti.  

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