Discorso del Presidente emerito della Corte costituzionale, Prof. Leopoldo Elia, in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione della Repubblica italiana.
 
 
Il compimento del sessantennio trascorso dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ad oggi suggerisce qualche riflessione sul passato e qualche proposito per il futuro.
Già Madison metteva in guardia contro le frequenti revisioni del testo costituzionale, che lo avrebbero fatto apparire difettoso per troppe lacune, e notava che la Costituzione avrebbe potuto trarre beneficio da «quella venerazione che il tempo accorda ad ogni cosa» (Il Federalista, saggio n. 49). Almeno nel caso nostro il giudizio sulla universale venerazione va limitato alla Carta che in questi decenni si è consolidata, mentre il tempo ha travolto le forze politiche che avevano contribuito a formarla insieme a componenti essenziali delle loro ideologie. Del resto già Giovanni XXIII conversando con Vittorio Bachelet, aveva concluso: «E poi l’Italia ha una buona Costituzione». Questa duplicità di effetti tra la buona Costituzione che perdura e le strutture politiche fondatrici che scompaiono è una costante che si ripete proprio quando la continua vigenza della Carta scavalca alcune generazioni.
Cresce anche la spinta a considerare con criteri storici le vicende costituzionali nel lungo periodo che ci separa dal 1° gennaio 1948, affrontando i problemi della periodizzazione e della scelta dei materiali da utilizzare: che non possono essere solo leggi e sentenze ma sono anche gli eventi in grado di influire sulla Costituzione vivente, dalla approvazione di un ordine del giorno in sede parlamentare all’esito di una consultazione referendaria. Naturalmente si può distinguere tra fasi in cui prevalgono gli apporti legislativi da altre in cui incidono maggiormente le decisioni giurisprudenziali della Corte costituzionale e dei giudici ordinari, senza che ciò comporti una vera e propria mutazione del modello costituzionale.
A mero titolo esemplificativo richiamo tre diversissimi precedenti, peraltro di grande significato.
Il primo è rappresentato dalla sentenza n. 1 del 1956 di questa Corte che costituisce, malgrado le chiarissime differenze, una decisione analoga alla Marbury vs Madison nella situazione italiana, caratterizzata dalla opposizione del Presidente del Consiglio dell’epoca, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato, alla competenza della Corte a giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge anteriori alla entrata in vigore della Costituzione. Colpisce ancora, al di là della motivazione essenzialissima su questo tema cruciale, la volontà autoassertiva della Corte di allora espressa nella formula iniziale di considerare “fuori discussione” la competenza esclusiva della Corte a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi senza distinzione tra quelle anteriori e quelle posteriori alla Costituzione. La importanza di quella prima decisione andava oltre il pur rilevantissimo tema della competenza della Corte: infatti è all’indomani di quella pronuncia che Piero Calamandrei, così pessimista sulle sorti della nostra Carta ancora nel saggio del 1955 (apparso nel volume laterziano “Dieci anni dopo”), non ebbe esitazione a scrivere che la Costituzione si era mossa (La Stampa, 16 giugno 1956). Né certo gli faceva velo l’essere intervenuto tanto efficacemente con il Professor Giuliano Vassalli e con altri autorevolissimi giuristi nelle controversie trattate a proposito dell’art. 113 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Gli è che mai le sorti della Costituzione e quelle della giustizia costituzionale giunsero ad identificarsi come in quello straordinario evento: ad attuare la Costituzione era obbligato non solo il legislatore (ritenuto fino allora unico vero destinatario delle sue norme), ma anche, in base alle sentenze di accoglimento della Corte, il giudice e ogni altro operatore del diritto.
Il secondo caso, veramente di tutt’altra natura, è il tormentato “dialogo costituzionale” che Aldo Moro propose al partito comunista di Enrico Berlinguer particolarmente nel discorso di Benevento (18 novembre 1977). Mentre prendeva atto delle dichiarazioni (anche a Mosca) del leader comunista sulla democrazia «come valore storicamente universale», Moro avanzava dubbi sulla vera sostanza di «un’originale società socialista», democraticamente fondata: a suo avviso i lineamenti di quella “autentica” società socialista rimanevano ancora indistinti poiché essi non si esprimevano in nessun modello riconosciuto ed al quale si facesse riferimento; come si configura – egli chiedeva – «la coesistenza di dati, quali quello del pluralismo sociale, della pluralità politica e i modi di rispetto della libertà in confronto alla gestione dell’economia»? Domande che corrispondono alla constatazione di Norberto Bobbio sulla mancata elaborazione in seno alla sinistra di un coerente pensiero in tema di Stato. Moro sarà poi rassicurato sulla natura ormai “costituzionale” del partito comunista in successivi colloqui con Berlinguer; ma ancora nella conversazione con Eugenio Scalfari del 18 febbraio 1978 (ma pubblicata il 14 ottobre di quell’anno), ribadendo la sua contrarietà al progetto di compromesso storico, respingerà l’idea di “società consociativa”, non accettabile per l’Italia. Evidentemente, a differenza della “solidarietà nazionale”, l’idea di società consociativa poteva in nuce precludere la reversibilità del potere una volta che questo fosse stato conquistato democraticamente dalla forza politica rappresentativa della classe operaia. Invece l’alternativa, nella prospettiva di Moro, non poteva essere disgiunta dall’alternanza tra partiti e schieramenti di partiti dotati di pari legittimazione. Alla fine, si può aggiungere, che, grazie anche alla forza integrativa della Costituzione, la tendenza ad includere nel circuito del governo, e non della sola rappresentanza, sarebbe prevalsa su quella ad escludere, che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda. E così lo storico Franco De Felice poté affermare che in Italia il muro di Berlino era caduto con dieci anni di anticipo.
Il terzo evento è più vicino alla nostra esperienza, anzi è appena di ieri: mi riferisco all’esito del referendum del 25-26 giugno 2006 che forse è stato troppo sbrigativamente passato agli archivi.
E’ arbitrario, a mio avviso, pretendere di pesare il voto ostile alla revisione in rapporto ai vari temi compresi nella riforma: devolution, forma di governo, bicameralismo. Sfugge così il carattere globale della deliberazione popolare che intese, per la prima volta dopo l’entrata in vigore della Carta, confermare esplicitamente il valore della Costituzione come testo unitario. Il che non preclude emendamenti correttivi o integrativi ma induce a rifiutare l’idea di grande riforma o di “progetto organico” di revisione. D’altra parte nel corso della campagna referendaria è apparso chiaramente lo stretto collegamento tra prima e seconda parte della Costituzione: taluni squilibri, provocati, ad esempio, nelle competenze degli organi di garanzia o nell’ordinamento costituzionale della Magistratura, possono compromettere la tutela delle situazioni soggettive considerate nella prima parte.
Dal richiamo puntuale ad alcune significative vicende conviene passare ad una esposizione sommaria degli svolgimenti interpretativi ed attuativi che hanno interessato le due parti della Costituzione, includendo nella prima anche gli articoli dedicati ai principi fondamentali.
Storicamente possiamo dividere le stagioni della Costituzione tra quella dedicata alla sua attuazione e l’altra caratterizzata dai tentativi di revisione. La prima, immediatamente successiva alle elezioni del 18 aprile 1948, si distingue per ritardi e accelerazioni, queste ultime realizzate particolarmente dopo l’inizio della Presidenza Gronchi. Ma al di là di geli e disgeli ciò che conta in ordine all’attuazione in senso alto della Carta è la lunga attesa delle grandi riforme di struttura, come si disse allora, pensando di trarre da alcuni articoli sui principi, e specialmente dal secondo comma dell’art. 3 Cost., la forte spinta ad una renovatio delle strutture sociali che eccedesse il pur non trascurabile riformismo del periodo centrista. Per la verità il testo della Carta, approvato anche da liberali come Einaudi e Corbino, era suscettibile di interpretazioni meno palingenetiche, come dimostrava la stessa discussione svoltasi nell’Assemblea Costituente a proposito di pianificazione economica e condotta vittoriosamente, a difesa della iniziativa economica privata, proprio dagli economisti liberali che ho appena nominato. L’attesa di grandi riforme era particolarmente viva negli ambienti azionisti, in quelli della sinistra democristiana e in alcuni esponenti dell’élite socialista e comunista, sebbene l’atteggiamento di Togliatti, anche in sede di Assemblea Costituente, fosse assai più cauto e riservato. La “rivoluzione promessa” di cui scrisse Calamandrei, oscillava tra il superamento del capitalismo e il meno ambizioso riformismo del partito laburista inglese (Governo Attlee – Morrison) e del New deal rooseveltiano: certamente l’ombra della grande crisi degli anni 1929-1933 si proiettava anche nel secondo dopoguerra alimentando spinte egualitarie e sfiducia nell’economia di mercato. Diffusa era peraltro l’esigenza di una “democrazia sostanziale” che tenesse conto dell’uomo “situato” nelle sue condizioni concrete; anche perché l’art. 3, secondo comma, proposto da Lelio Basso e ispirato da Massimo Severo Giannini, si richiamava proprio alla diversa effettività nel godimento dei diritti. Per rendersi conto della grande delusione seguita alla mancanza delle grandi riforme o alla loro inadeguatezza è sufficiente rileggere le pagine di Costantino Mortati, illustre costituente, e già giudice di questa Corte, nel commento all’art. 1 della Costituzione (per il Commentario Branca-Pizzorusso); quel disincanto, condiviso da altri studiosi, aveva origine nella consapevolezza che l’esercizio delle libertà poteva diventare effettivo solo se preceduto dalla liberazione dal bisogno e dalla disoccupazione. E questa angosciosa aspettativa trasformava le norme della Costituzione sui diritti sociali in un programma di governo per le prime legislature della Repubblica.
Fu proprio l’azionista Leo Valiani, che come politico aveva ricostruito l’avvento di De Gasperi nei termini di una vicenda restauratrice, a spiegare e a giustificare poi da storico, e da grande storico, il perché in Italia le famose riforme di struttura o non erano possibili o erano superflue. Si tratta di pagine poco note perché contenute nelle conclusioni di un convegno da lui presieduto sulla nascita della Repubblica nel 1987, conclusioni che, a differenza delle relazioni su argomenti più specifici, vengono trascurate nella letteratura corrente. Valiani dimostrava che l’Italia, con la istituzione dell’IRI e le scelte adottate per fronteggiare la crisi del 1929, aveva anticipato l’interventismo statale nell’economia accolto poi in altri paesi mentre alcune delle riforme proposte (come quelle sui Consigli di gestione) contrastavano troppo con la necessità di efficienza richiesta dalla dinamica industriale.
D’altra parte le liberalizzazioni antiprotezioniste intraprese da La Malfa nei governi degasperiani dopo il 18 aprile 1948 dimostravano l’indipendenza del potere politico anche rispetto ai cosiddetti poteri forti dell’economia privata. La Costituzione resse dunque anche al trauma delle riforme mancate; ma non sappiamo fino a che punto quello stato d’animo di élites progressiste, tradotto in volgare, abbia promosso negli anni settanta il ribellismo giovanile e le sue peggiori degenerazioni.
Un’altra questione di principio riguardò, alla fine degli anni novanta, la cosiddetta Costituzione economica e cioè la normativa contenuta negli articoli 41-47 della Carta. Si contestava la incompletezza di questa disciplina in tema di impresa, mercato, concorrenza e comunque una impostazione che lasciava troppo spazio all’interventismo statale nell’economia; né si ritenevano sufficienti a integrare su questi temi il nostro ordinamento le norme del Trattato sulla Comunità economica europea. Oggi questa posizione critica sembra superata quantomeno a proposito della tutela della concorrenza espressamente inclusa nella legislazione di esclusiva competenza statale. Questa regola, contenuta nella lettera e) dell’art. 117, comma secondo, del testo costituzionale modificato dalla riforma del Titolo V, è stata largamente utilizzata dalla Corte a proposito di limiti al potere legislativo delle regioni. Ma essa è rilevante su un piano più generale perché configurerebbe una forma dell’utilità sociale prevista dall’art. 41, secondo comma, Cost., questa volta a favore dei consumatori. Più in generale la nostra Costituzione economica corrisponde all’esigenze dello Stato di benessere di tipo europeo, che non si contrappone certo all’ispirazione del celebre discorso del Presidente Roosevelt sulle quattro libertà, letto al Congresso il 7 gennaio 1941. Del resto, superata in larga misura l’esperienza della economia mista, il nostro paese è impegnato a creare le condizioni economiche perché possa realizzarsi anche in Italia uno Stato di benessere più vicino a quello sperimentato nei maggiori paesi d’Europa specialmente in tema di libertà “dal bisogno”. D’altra parte, malgrado le limitazioni derivanti dai principi dell’Unione, rimane disponibile la cosiddetta sovranità fiscale che dovrebbe essere esercitata anche a fini redistributivi, secondo una interpretazione sistematica delle norme della costituzione economica.
Non si può certo escludere che in un futuro meno vicino si possa integrare la prima parte della Costituzione con nuovi diritti riconosciuti già dalla giurisprudenza costituzionale, ma è indubbio che è la seconda parte a richiedere un intervento riformatore: esso appare, per le ragioni che sommariamente richiamerò, di natura per così dire fisiologica.
E’ ormai risalente, già ai lavori dell’Assemblea costituente, la consapevolezza che per ragioni di vicendevole diffidenza sulle prospettive politiche future, la disciplina della forma di governo parlamentare disposta nel testo degli articoli 92-96 Cost. sia inadeguata a garantire (o almeno a promuovere) la stabilità e la capacità decisionale del governo. I tentativi stabilizzatori previsti nell’ordine del giorno Perassi (tanto noto quanto disatteso) sono stati più che altro una manifestazione di desideri irrealizzati: ma certo non inutile perché l’ordine del giorno ha avuto il merito di indicare, anche dopo la fine dell’opera costituente, la fisionomia di riforme integrative, fisiologiche, appunto, perché costituite da dispositivi contenuti sicuramente all’interno della forma di governo prescelta e in armonia con quegli equilibri istituzionali, cui si è giustamente richiamato il Presidente della Repubblica, nel discorso alle Camere riunite il 23 gennaio di quest’anno.
Dal potere di proposta della revoca dei ministri, dalla nuova disciplina del rapporto fiduciario monocamerale, alla sfiducia costruttiva si impone una serie di integrazioni del testo che assimili, modernizzandola, la nostra forma di governo a quelle tedesca e spagnola (e tendenzialmente a quella inglese nei risultati di rafforzamento del potere governativo). Mi limito a sottolineare per il rapporto fiduciario che, su iniziativa di Egidio Tosato, secondo gli artt. 87 e 88 del progetto della Commissione dei 75, la fiducia doveva essere conferita al governo e revocata in ultima istanza (dopo la sfiducia di una Camera) dalla sola Assemblea nazionale, composta, come è noto, dai membri delle due Camere. Dunque, il rapporto fiduciario doveva intercorrere rispetto ad un solo organismo parlamentare, degradandosi la sfiducia nell’ambito di una Camera a occasione per una ultima e decisiva verifica da parte dell’Assemblea nazionale. Lasciando da canto la farraginosità di questo impianto, vengono però in rilievo due dati: l’intento stabilizzatore della continuità di governo da una parte e il tentativo di non rendere più difficile con il bicameralismo l’efficienza del potere governativo valorizzata dall’ordine del giorno Perassi. Naturalmente si deve aggiungere la necessità dell’adozione di una legge elettorale che assecondi la riforma costituzionale e una strutturazione partitica che congiunga l’ufficio di Primo ministro con quello di leader del partito o della coalizione vittoriosa. Su un piano più generale emerge sempre più, anche nei lavori della Commissione presieduta da Édouard Balladur alla fine del 2007, la difficoltà, si direbbe l’impossibilità, di prevedere una forma di governo diversa da quella parlamentare e dall’altra presidenziale, secondo il modulo statunitense: un assetto di potere governativo che rispetti l’equilibrio dei poteri mediante l’esercizio di efficaci, reciproci controlli. In una intervista del 20 maggio 2006 Robert Badinter, già Presidente del Conseil Constitutionnel, constatava, al contrario, che in Francia «era scomparsa la responsabilità politica».  La gravità di questa affermazione si collega alla domanda del perché la forma di governo della V Repubblica francese non sia stata accolta, come sembrava qualche anno fa, nei paesi dell’est-europeo e sia praticata solo in Francia. La risposta si lega probabilmente alla impossibilità di riprodurre il singolarissimo precedente dell’esperienza gollista; il generale presidente compensava infatti la conquista (contro le norme della Costituzione scritta) dei poteri di capo del governo, compreso quello di revoca del primo ministro, con il ripetuto ricorso ai referendum accompagnati dalla richiesta di fiducia al popolo francese: così accadde fino al 1969 in cui la reiezione referendaria della riforma proposta dal Presidente provocò le sue dimissioni. Insomma, per lui la durata della carica non era una rendita: sapeva mettersi in gioco, mentre nessuno dei suoi successori; che pure ne ereditarono i vastissimi poteri,  ha mai posto la questione di fiducia al corpo elettorale. Del resto sarebbe azzardato sostenere oggi che la crescita economica sia legata a questa scelta istituzionale dal momento che è proprio nei paesi europei prima citati, tutti a regime parlamentare, che si è realizzata recentemente la più elevata crescita dell’economia. D’altra parte dobbiamo constatare che anche in Italia l’investitura diretta del vertice dell’esecutivo di regioni ed enti locali non è di per sé in grado di garantire contro fenomeni macroscopici di disfunzione nei servizi e di malgoverno delle strutture amministrative. E’ dunque sperabile che la nuova legislatura possa sciogliere il voto espresso nell’ordine del giorno Perassi, prossimo alla realizzazione nelle proposte articolate della Commissione bicamerale De Mita-Jotti nel 1994 e ripreso meritoriamente nella iniziativa della Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati durante la XV Legislatura. Aggiornamenti e coordinamenti sono pure auspicabili per la più chiara distinzione delle competenze tra Stato e regioni, e per una ulteriore riduzione del contenzioso, possibilmente con una legge ordinaria che tenga conto della incisiva giurisprudenza in materia formata in questi ultimi anni dalla Corte costituzionale. Tale giurisprudenza ha preso le mosse, specie a partire dalla rilevantissima sentenza n. 303 del 2003, dalla consapevolezza che la soddisfazione di esigenze unitarie non poteva essere affidata, specie dopo la estensione dei poteri legislativi regionali realizzata con il nuovo Titolo V, soltanto alla determinazione dei principi fondamentali delle materie o agli interventi del potere sostitutivo dello Stato, di cui all’art. 120 della Costituzione. Ed è consequenziale a tale presa d’atto che si sia ricorso spesso al rimedio delle intese tra Stato e regioni. Naturalmente il problema più delicato resta sempre quello di sceverare le vere esigenze unitarie, discendenti dall’art. 5 Cost., dalle rivendicazioni centralistiche delle amministrazioni statali.
Guardando alla esperienza dell’ordinamento repubblicano in questo sessantennio si può constatare che c’è stata una varietà di stagioni, in cui gli organi parlamentari e governativi hanno fatto fronte con diversa tempestività e intensità a compiti di grande rilievo. Questo vale anche per una decade, come quella degli anni settanta, contristati dalla violenza terroristica, ma anche ricchi di notevolissime riforme (cito solo lo Statuto dei lavoratori, la profonda modifica del diritto di famiglia e l’istituzione del Servizio sanitario nazionale). Ma alla discontinuità delle vicende legislative e di governo ha fatto riscontro il costante, continuo funzionamento degli organi di garanzia. Su piani diversi, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale hanno risposto pienamente alle aspettative che i costituenti più illuminati avevano riposto in queste strutture, nuova per nuovi poteri quella del Capo dello Stato, nuovissima da ogni punto di vista quella della giustizia costituzionale. Più in particolare, per quello che riguarda questa Corte, è doveroso prendere atto del contributo evolutivo che la sua giurisprudenza ha dato alla vita costituzionale dell’Italia. Come ha affermato nel suo discorso in Campidoglio per il cinquantennio della Consulta il Presidente emerito Zagrebelsky, il contributo interpretativo-creativo della Corte ha certo valorizzato i principi e le regole della Carta ma ha insieme risparmiato al Paese modifiche costituzionali e legislative che altrimenti avrebbero impegnato gli organi di indirizzo politico. Il mix di emendamenti costituzionali e legislativi, congiunti alle pronunce più significative della Corte, hanno conferito all’ordinamento vivente una continua dinamica che corrisponde alla complessità della vita contemporanea. La Corte ha elaborato la dottrina dei principi supremi che, al di là delle occasioni in cui sono stati enunziati, hanno dato una fisionomia più percepibile al vertice delle nostre fonti, segnando un limite anche alle revisioni costituzionali realizzate con il procedimento dell’art. 138 della Costituzione. Ma il potere legislativo, anche dopo il referendum del giugno 2006, sembra sordo alla necessità di rendere meno agevole il processo parlamentare di revisione in analogia a quanto è previsto in altre costituzioni (a partire da quella tedesca); altrimenti si pone a rischio la rigidità stessa della Carta, minacciata dalla variabilità delle maggioranze, relative nel voto del paese, ma assolute nell’assegnazione dei seggi, e che perciò si ritengono abilitate a revisioni senza limiti, tali da mettere in pericolo anche i principi supremi. Tra tali principi la Corte ha individuato quello di laicità, in un significato positivo ed accogliente sia per chi crede che per chi non crede. Inoltre, la Corte ha emesso nelle c.d. materie eticamente sensibili (aborto, plagio, talune aspettative da unioni di fatto) sentenze ricche di umanità e di saggezza.
Il contributo dato dalla Corte, non solo con le sentenze di illegittimità costituzionale, ma pure con quelle interpretative, è stato enorme, anche perché ha valorizzato nel legislatore l’inclinazione a orientarsi in senso conforme alla Costituzione. In tema di fonti la Corte ha meritoriamente impedito che continuasse la reiterazione dei decreti legge e nel 2007 ha escluso, in un caso limite, la sussistenza dei requisiti di necessità e di urgenza di una norma, malgrado l’avvenuta legge di conversione. Si possono poi ricordare varie pronunzie, specialmente in tema di manifestazione del pensiero, anche se a proposito di garanzie del pluralismo radiotelevisivo e di parità di trattamento in questo settore alcune sentenze, forse ad efficacia troppo differita, non hanno più recuperato effettività. Del resto la Costituzione, in una notevole misura, presuppone e assume, per così dire, il conflitto, impedendo che esso degeneri, travolgendo le regole della pace tra i consociati. Per sintetizzare taluni dei più rilevanti interventi della Corte, basterà dire che essa ha operato in un primo tempo per espungere dall’ordinamento norme della legislazione fascista e prefascista in contrasto con i precetti liberali della Costituzione e successivamente ha dato riconoscimento e agibilità ai diritti sociali di vecchia e nuova generazione (a partire dal diritto alla salute) con riflessi di forte impatto per l’attuazione del principio di ragionevolezza. Oltre alla tutela delle garanzie nel processo, specialmente in quello penale, molte sentenze o ordinanze hanno vagliato le nuove regole sulla immigrazione, con particolare riguardo a quella clandestina. Né sono mancate pronunzie nel campo della pubblica amministrazione (spoil system) o della tutela ambientale. Di norma la giurisprudenza della Corte è risultata ampliativa a favore dei diritti e in particolare a quelli di libertà e parimenti si è voluto dare piena attuazione al principio di eguaglianza facendo cadere privilegi a favore dei titolari delle più alte cariche dello Stato, ritenuti in contrasto con la parità di trattamento e con il diritto di difesa.
Decisivo è risultato l’intervento della Corte per l’apertura del sistema normativo al diritto sopranazionale: malgrado il lungimirante art. 11 e poi l’art. 117, primo comma, della Costituzione, non sarebbe stato altrimenti possibile ritenere legittima l’efficacia diretta delle fonti comunitarie nel nostro ordinamento, la loro prevalenza sul diritto interno e infine la possibilità per ogni giudice di disapplicare le norme interne quando fossero contrastanti con le fonti comunitarie. E’ pure evidente che con ciò si è accolta anche la tutela a livello sopranazionale dei diritti, in base all’art. 11, e, per la Convenzione dei diritti dell’uomo, mediante l’art. 117 Cost, primo comma, conferendosi efficacia, diretta o indiretta, alle pronunce della Corte di Lussemburgo e a quella di Strasburgo. D’altra parte, come è noto, l’art. 11 della Costituzione, in analogia ad una clausola del Preambolo della Costituzione francese 27 ottobre 1946, è diretto a promuovere, mediante limitazioni di sovranità (e in condizione di parità con gli altri Stati) un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni: e questa forte aspirazione alla pace, così legata alle vicende catastrofiche del secondo conflitto mondiale, è accentuata, nel testo proposto da Giuseppe Dossetti, dalla rinuncia alla guerra come strumento di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli: rinuncia che qualifica anche gli interventi militari previsti nell’ambito di organizzazioni internazionali e sopranazionali rivolte ad assicurare il mantenimento della pace e della giustizia fra i popoli. E’ doveroso notare a proposito della tutela giurisdizionale multilivello che sarà necessario superare le zone franche dal giudizio di costituzionalità persistenti soprattutto in tema di leggi elettorali, di tutela dell’onore dei cittadini nell’applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. e di verifica della legittimità dei risultati delle elezioni. Sarebbe infatti paradossale, a tacere altre ragioni, che di tali questioni potessero essere investiti giudici sopranazionali e non invece giudici italiani (e in particolare la Corte costituzionale). Talune discrasie si sono, comunque, già prodotte.
La Costituzione repubblicana, anche grazie alle trasformazioni sommariamente ricordate, realizzatesi in sei decenni, ha dimostrato con la sua tenuta di possedere una prudente elasticità e attitudine a “comprendere” con i suoi principi fenomeni non prevedibili dai costituenti: e tutto ciò senza perdere di significanza. Infatti questa apertura al nuovo si è sempre svolta all’interno dei principi del costituzionalismo maturato nella seconda metà del ventesimo secolo (personalismo, pluralismo, Stato democratico, libertà, giustizia sociale, organizzazione “diffusa” dei poteri che assicuri equilibrio e controllo reciproco, sistema di garanzie): un nucleo forte di costituzionalismo coerentemente accolto nella nostra Costituzione.
Per concludere non mi resta che rivolgere l’antico augurio a chi dà opera al bene comune dentro e fuori questo palazzo: chi verrà dopo possa far meglio di chi ha operato prima. Faciant meliora sequentes.
 

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