Sommario


 
1. L’origine storica della provincia italiana e il cammino dall’unità d’Italia alla Repubblica
La provincia italiana si presenta come un ente dai tratti particolari sin dall’unità d’Italia. La sua esistenza di fatto è di molto anteriore all’unità statale medesima, in quanto storicamente la provincia moderna rappresenta la successione reale al libero comune medioevale. Infatti, il comune medioevale era ben diverso dal comune come lo intendiamo noi oggi. Si trattava di un’organizzazione territoriale più complessa. nella quale non vigeva il diritto tipico del feudo, ovvero il “mero e mixto imperio”, ma le libertà comunali sulla base di costituzioni o statuti concessi dall’imperatore, che limitavano anche le pretese di quest’ultimo pro futuro. Le istituzioni del comune medievale, occupate dai “maggiori” della città, avevano il governo non solo della città, dove era collocato il mercato, ma anche dei villaggi che da questa dipendevano e di tutte le campagne che ricadevano nel territorio di appartenenza; su molte terre – in ciò un’altra diversità con il feudo – le popolazioni dei villaggi esercitavano dei diritti di uso, come il legnatico, il pascolatico, l’erbatico, il fungatico, lo scortecciamento ecc., e nei liberi comuni più sviluppati anche di coltivazione; in questi casi il diritto di coltivare la terra, che restava di proprietà dell’intera comunità, era regolato dal “livello” o “libello”, e cioè da un contratto. Proprio questi usi hanno fatto sorgere negli Stati pontifici un tipo particolare di ente locale all’interno del comune che ancora oggi esiste, denominato “Università agraria”.
Il libero comune medievale era perciò un insieme di città, villaggi ad essa contigui e campagna, dotato di autonomia normativa e fiscale e di istituzione proprie; di qui la somiglianza della provincia moderna con il comune medievale che, nell’organizzazione del governo del territorio, rappresenta un insieme di una città capoluogo e di piccoli centri, intervallati dalla campagna, ma collegati socialmente ed economicamente, nonché amministrativamente; non è un caso che in molte occasioni la provincia ha conservato proprio i confini storici del libero comune.
Questo sistema locale in Italia resistette alle pressioni che provenivano dalla Francia rivoluzionaria, sia nel 1848, quando il riordino legislativo, seguito alla concessione dello Statuto Albertino, portò alla redazione del primo Testo Unico della Legge Comunale e Provinciale, sia nel 1859, nell’imminenza dell’unità d’Italia, quando fu approvato, dopo una profonda e lunga discussione parlamentare il nuovo Testo Unico della Legge Comunale e Provinciale con il quale, tra l’altro, si passava dal sistema tradizionale dei “maggiori” al sistema di elezione degli organi, sia pure con un suffragio molto ristretto.
Per comprendere le peculiarità del sistema italiano, occorre ricordare che il comune frutto della Rivoluzione Francese, collegato al superamento del feudo e alla proclamazione della cittadinanza, in conformità ai principi della rivoluzione, era una dimensione politico-amministrativa molecolare; ogni villaggio, infatti, era diventato comune con eguali diritti rispetto a tutti gli altri comuni, quale che fosse la loro dimensione. Da questa esperienza derivò il principio di uniformità amministrativa e la frammentazione del sistema comunale che ha afflitto la maggior parte delle legislazioni locali europee, sino a quando queste non hanno scoperto il principio di adeguatezza e di differenziazione.
Il regno di Francia, peraltro, non aveva conosciuto con la medesima intensità l’esperienza dei liberi comuni italiani; nell’esperienza francese il feudo dominava il sistema di governo territoriale e le antiche province francesi, frutto di una stratificazione secolare risalente sino all’epoca romana, erano in realtà di grande estensione, in molti casi corrispondenti ai vecchi possedimenti preunitari, che dipendevano dal sistema feudale, a vario titolo (con riferimento ad esempio al sistema fiscale, militare, giudiziario ed ecclesiastico).
Così, con la proclamazione rivoluzionaria dei diritti comunali le province francesi vennero abrogate insieme all’abolizione del feudo e ciò comportò un totale disagio nell’organizzazione del regno; tanto è vero che proprio in virtù di questi fatti, all’indomani della Rivoluzione Francese, si pose il problema del modo in cui si doveva riordinare il territorio, anche per collegare tra loro i numerosissimi comuni; il dipartimento venne introdotto già con una legge del dicembre del 1789, anche se il numero (83) e i confini di questi furono definiti con una legge del febbraio del 1790. I dipartimenti furono istituiti in maniera effettiva il 4 marzo del 1790 e la loro organizzazione era basata su un’assemblea composta uniformemente di 36 membri elettivi, con una forma di governo direttoriale che prevedeva l’elezione, da parte dell’assemblea, del presidente e di un direttorio esecutivo permanente. La nuova organizzazione territoriale francese assunse da subito un rilievo costituzionale, già con la prima Costituzione del 1791, che all’art. 1 disponeva: “Il Regno è uno e indivisibile; il suo territorio è distribuito in ottantatré dipartimenti, ogni dipartimento in distretti, ogni distretto in cantoni”.
La commissione, incaricata di definire i confini e il numero dei dipartimenti, li disegnò non sulla base della tradizione o dei legami pregressi, ma in modo illuministico sulla base di un criterio di viabilità e distanza, determinando dei centri e misurando la distanza di un giorno di cammino a cavallo; sulla base di questa misura furono definite le dimensioni dei dipartimenti, risultate peraltro alquanto omogenee.
Le provincie italiane perciò hanno avuto un’origine storica importante, particolarmente significativa e la loro forza, sino ad oggi, è derivata dalla loro tradizione. Ciò è testimoniato da quanto accadde, sia in occasione dell’approvazione del Testo Unico della Legge Comunale e Provinciale, nel 1859, in seno al Parlamento Sabaudo, e sia al momento della deliberazione della Costituzione repubblicana, nel 1947.
Nel primo caso proprio il proponente del Testo Unico, il ministro degli interni Urbano Rattazzi, aveva in animo di procedere ad una sostituzione delle province storiche del regno con dei nuovi dipartimenti, di concezione francese, più grandi per dimensioni; tuttavia, la Camera dei Deputati del Regno di Sardegna rigettò la proposta e confermò il disegno territoriale provinciale.
A seguito dell’unità d’Italia le province italiane vennero ricavate con lo stesso metodo e raggiunsero il numero di 59; successivamente, con l’annessione di Mantova e del Veneto prima e degli altri territori poi, sino alla prima guerra mondiale, raggiunsero il numero di 76 nel 1924; quindi, tra il 1927 e il 1941, il fascismo portò il numero delle province a 95.
La provincia, come risultato della tradizione e della storia, è stata pensata sin dall’unità d’Italia come un elemento costitutivo dello stato.
Si può anzi affermare che proprio sulla dimensione provinciale è stato costruito lo stato nazionale, nel senso che sulla circoscrizione provinciale, oltre a riconoscere un ente dotato di autarchia/autonomia, lo stato ha organizzato se stesso affiancando all’amministrazione centrale l’amministrazione periferica, ancora oggi di notevole rilevanza per il corretto funzionamento dello stato apparato. L’amministrazione periferica, infatti, era articolata sulla base di autorità e uffici provinciali e calibrata sulla provincia, ogni provincia aveva un’articolazione dell’amministrazione statale corrispondente sostanzialmente all’amministrazione centrale. Basti pensare, a tal riguardo, che in origine il prefetto, rappresentante del governo centrale nel territorio, era il presidente della deputazione provinciale, la quale era eletta a sua volta in seno al consiglio della Provincia.
L’articolazione dello stato sulla base della circoscrizione provinciale divenne un modello di attrazione anche per la società civile italiana, la quale si organizzò provincialmente sin dall’inizio. Si pensi ai sindacati, ai partiti politici a tutte le associazioni di carattere nazionale che articolavano la loro organizzazione su base provinciale, mediante la federazione o la sede provinciale. Anche attività importanti come il censimento, a far data dal 1900, sono state organizzate su base provinciale. Può concludersi che la struttura della società, oltre che quella dello stato era provinciale; e non poteva che essere provinciale.
Dal punto di vista delle funzioni amministrative, la provincia viene dotata di una amministrazione “che ne regge e rappresenta gl’interessi” (art. 145, TU 1859) e in grado di attivare servizi pubblici (“stabilimenti pubblici provinciali”), con un potere di spesa, a favore di consorzi e comuni “per opere utili o necessarie, e per soccorrere ai bisogni dell’istruzione, e di stabilimenti pubblici” (art 164); al contempo, dalle disposizioni che riguardano le deliberazioni dei consigli si ricava che le province esprimono pareri sui cambiamenti circoscrizionali e dei comuni, sulla classificazione delle strade e sulla direzione delle nuove strade consortili, sullo stabilimento di consorzi, sui pedaggi a favore di comuni e sulle fiere e mercati (art. 168).
Già con la legislazione sull’unificazione amministrativa del 1865 n. 2248, Allegato A, si modifica l’art. 166 del citato TU del 1859 e si introducono le spese obbligatorie per la provincia tra cui appaiono dal principio le strade, i fiumi e l’istruzione secondaria, le opere pubbliche e le istituzioni di carità (art. 201). Ad esse l’art. 217 del TU del 1889, più preciso ed esteso, aggiunse la caccia, i monumenti, gli archivi, i sussidi per i comuni e gli istituti di pubblica utilità, le pensioni per gli allievi e le allieve delle scuole normali, il mantenimento dei mentecatti poveri, ecc..
Dal TU del 1908, art. 253, viene fuori anche una provincia che è chiamata a sostenere una serie di spese, in modo obbligatorio, per rendere possibile lo svolgimento di quasi tutte le funzioni statali nel territorio, basti pensare alle prefetture, alle questure e alle caserme dei carabinieri; un altro settore di competenza provinciale era dato dalle funzioni in materia di igiene e sanità, con l’istituzione del medico provinciale; infine, risalgono a quest’epoca anche le prime funzioni attribuite alle province in materia d’agricoltura e per i servizi marittimi (porti e fari). Tra le spese facoltative che le province intraprendevano con una certa diffusione si possono ricordare quelle per gli acquedotti, i medicinali e gli alimenti di largo consumo. Questo ruolo di servizio della provincia verso lo stato, verso il territorio e la popolazione era poi confermato dagli articoli 241, 242, 243 e 244 del TU del 1915, n. 148.
In seguito, le funzioni attribuite alle Province furono confermate e potenziate dall’articolo 144 del TU del 1934, recante la disciplina delle spese obbligatorie dell’Ente: secondo tale articolo si trattava di 54 voci inerenti all’organizzazione e al funzionamento, alla sanità ed igiene, alle opere pubbliche, all’educazione nazionale, all’agricoltura, all’assistenza e beneficenza; in ognuna di queste materie erano previste funzioni nuove o ulteriori rispetto a quelle già attribuite.
Per delineare efficacemente il quadro completo delle funzioni storiche dell’ente occorre fare riferimento anche alla legislazione sui servizi pubblici locali del 1925 (RD n. 2578), che consentiva alle province di assumere servizi di tranvia, omnibus, produzione e distribuzione di energia elettrica, reti telefoniche, essiccatoi di granturco e stabilimento e relativa vendita di semenzai e vivai di viti ed altre piante arboree e fruttifere.
Complessivamente le competenze della provincia sono sempre state abbastanza articolate e dal 1865 sino al 1934 hanno accompagnato le necessità che la società, via via, aveva bisogno di vedere soddisfatte; così, accanto alle funzioni storiche, essenzialmente legate alla viabilità e all’edilizia scolastica per le scuole superiori, le province sono divenute un ente chiamato ad assicurare le condizioni dello sviluppo nel territorio, ad esempio con competenze in materia di bonifica, del regime dei fiumi e dei relativi argini, dell’ambiente, in materia di regolamentazione della navigazione interna, in quella della salute pubblica, per combattere diverse malattie che colpivano la popolazione più povera come la pellagra e la malaria, per assicurare vaccini e disinfestazioni. Infine, la provincia ha assolto la fondamentale funzione di assicurare il radicamento dello stato apparato nel territorio, garantendone la presenza.
L’ente provincia era perciò un ente che aveva competenze solide e, peraltro, continuava ad essere lo snodo tra la campagna e la città nell’Italia unita. Il ruolo istituzionale della provincia, che ha accompagnato la storia e lo sviluppo del paese, era di portare nei posti più remoti una serie di servizi pubblici che consentivano la crescita economica e la sicurezza sociale, con il sostegno alle situazioni di disagio, come la povertà e la malattia, e che i comuni, per le loro dimensioni e caratteristiche, non potevano assolvere.
 
2. L’Assemblea Costituente e il primo periodo della Repubblica
Questo quadro istituzionale fu presente nel dibattito all’interno dell’Assemblea Costituente e venne fatto valere allorquando si accese la discussione tra i fautori della provincia e quelli della regione. Il disegno della nuova organizzazione territoriale della Repubblica, infatti, è stato contrassegnato da limiti storici consistenti, dovuti alla non chiara collocazione del nuovo ente, la regione, nell’ambito del sistema autonomista ereditato dall’esperienza risorgimentale e unitaria.
In particolare, l’intera vicenda dell’assetto territoriale delle autonomie nella Costituzione ha ruotato intorno al rapporto tra provincia e regione: la natura dell’ente regione non era stata concepita come una forma istituzionale concorrente dello stato, in tal senso il rifiuto del principio federale era stato netto e la ripresa dei principi di tradizione francese dell’unità e indivisibilità della Repubblica lo testimoniano chiaramente. Di qui anche la svalutazione che alla fine colpì la funzione legislativa delle regioni, ridotta nelle materie e nel tipo. In molti casi le materie di competenza regionale, enumerate nell’art. 117, erano state riprese dalla disciplina del TU e dalla legislazione amministrativa speciale con riferimento ai poteri già riconosciuti alle province e anche ai comuni; basti pensare, in proposito, alla “polizia locale urbana e rurale”, alla “beneficenza pubblica”, a “fiere e mercati”, all’“assistenza sanitaria”, all’“assistenza scolastica”, alle materie qualificate dall’interesse regionale, come la viabilità, i lavori pubblici, le linee automobilistiche, ecc.. Non suscita particolare meraviglia che in un contesto culturale simile la regione venisse di fatto considerata nel novero degli enti locali.
La criticità della relazione tra provincia e regione era stata risolta in modo sfavorevole alla prima dal progetto di costituzione portato in Aula dalla Commissione dei 75, presieduta dall’On.le Ruini. Infatti, la Commissione e, in particolare, la seconda Sottocommissione, che aveva affrontato la questione dell’assetto territoriale, anche per la particolare presenza di rappresentanti delle regioni speciali in quella sede, aveva elaborato una disposizione di quello che sarebbe stato il futuro art. 114, in cui si leggeva che “La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni” e che “Le Province sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale”(1).
Di fronte a questo disegno si accese il dibattito in Aula e l’impostazione di partenza fu rovesciata. Le accuse mosse alla provincia, di ente non radicato nel sentimento dei cittadini e dai compiti limitati, furono ribaltate contro la regione, avvertita chiaramente dalla maggioranza dell’Assemblea come il vero ente artificiale creato dalla mente di alcuni membri dell’Assemblea Costituente, ma privo di qualunque riscontro storico.
Negli interventi emergono con immediatezza i connotati storici della provincia come ente successore del comune medievale (secondo la nota impostazione di Vittorio Emanuele Orlando) e lì dove (nel Mezzogiorno) le libertà comunali non avevano avuto modo di manifestarsi, il ruolo della provincia si era affermato con l’organizzazione stessa dello Stato unitario.
È bene precisare che a favore della provincia furono fatti valere nel dibattito in Assemblea due diversi profili: per un verso, quello della tradizione, da cui anche dopo l’unificazione statuale derivava l’evoluzione della nozione di autarchia (espressione del riconoscimento originario da parte dello Stato) che avrebbe portato a quella di autonomia locale, secondo le elaborazioni della dottrina giuridica di Santi Romano, di Oreste Ranelletti e di Guido Zanobini, la quale sarebbe stata ripresa subito dopo la promulgazione della Costituzione da Massimo Severo Giannini e da Carlo Esposito; e, per l’altro, il profilo relativo alla formazione dello Stato unitario che, come si è visto, era avvenuta sulla base di una strutturazione provinciale, nella quale l’ente di riferimento supportava la presenza stessa dello stato.
In Assemblea Costituente ciò comportò l’affermazione di una provincia come ente autonomo e rappresentativo, non solo storicamente radicato nella coscienza dei cittadini e nella struttura dello stato, vicino alla popolazione più dello stato, ma anche tecnicamente e funzionalmente meglio attrezzato degli altri enti territoriali e dello Stato medesimo, espressione di uno standard amministrativo migliore persino di quello dei comuni, per la maggior parte di piccole dimensioni, e, perciò, da incrementare nei poteri e nelle funzioni. Operazione, quest’ultima, che sarebbe stata possibile grazie al ripensamento delle competenze, ampiamente auspicato dall’Assemblea, propensa ad un riconoscimento espresso, con la nuova Costituzione, delle funzioni proprie degli enti locali, quanto meno attraverso definizioni di principio che sarebbero state precisate successivamente nella legislazione.
Di qui la formulazione data, alla fine, all’art. 114 Cost., v.f., per il quale “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”(2).
Questa impostazione, susseguente al riconoscimento pressoché unanime del ruolo amministrativo della provincia, peraltro, finiva per agevolare anche la regione, i cui fautori, vedendone minacciata l’affermazione, per via dell’ampio consenso che la provincia riscuoteva nel corso del dibattito in Assemblea, iniziarono ad evidenziare una diversa collocazione di quest’ultima.
Le funzioni regionali messe in evidenza furono, perciò, quelle legislative, poste in concorrenza con lo Stato; mentre la pacifica convivenza della regione con la provincia sarebbe dipesa dal modo di esercizio delle funzioni amministrative da parte della regione. Infatti, il cambiamento di orientamento dava i suoi frutti nell’elaborazione di alcune specifiche disposizioni che raccordavano la funzione della Regione con quella degli enti territoriali minori: in particolare, l’art. 118, comma 1, Cost., v.f., prevedeva, accanto al c.d. principio del parallelismo, che nell’ambito delle materie di competenza legislativa regionale le funzioni amministrative “di interesse esclusivamente locale” potevano “essere attribuite dalla leggi della Repubblica alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali”; e il comma 3 del medesimo articolo, in modo espresso, prevedeva che la Regione avrebbe esercitato “normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”.
Il riassetto del disegno istituzionale della futura Repubblica, operato in questo modo, trovava il suo completamento nell’art. 129, comma 1, Cost., ormai abrogato, il quale come chiara conseguenza della nuova dinamica delineata dal dibattito dell’Assemblea costituente, prevedeva che “Le Provincie e i Comuni sono anche circoscrizioni di decentramento statale e regionale”.
Di conseguenza, la complessiva disciplina costituzionale stava ad indicare che l’autonomia di cui godevano le province e le forme di collegamento che le stesse potevano avere, con lo stato o le regioni, in nulla differivano rispetto a quella dei comuni. Nello stesso senso, peraltro, faceva propendere anche l’art. 130 Cost., anch’esso oramai abrogato, in tema di controlli sugli atti.
Tuttavia, il sistema locale alla fine uscì dall’Assemblea Costituente alquanto debole e questa debolezza ha avuto nel tempo conseguenze considerevoli, determinando un degrado del ruolo delle autonomie locali, per effetto soprattutto della crescita dello stato sociale e della centralizzazione finanziaria che privò di significato, dal punto di vista economico e tributario, l’autonomia locale.
La debolezza in questione dipese dalla circostanza che la definizione dei ruoli degli enti territoriali minori e l’assetto delle loro funzioni non fu definito in Costituzione. I tentativi, effettuati da diversi componenti dell’Assemblea, di precisare il ruolo e le funzioni degli enti territoriali minori, e in particolare della provincia, infatti, furono tutti rinviati alla discussione dell’art. 121 del progetto o di altri articoli, soprattutto grazie all’intervento del Presidente della Commissione On.le Ruini, con il risultato che la discussione finì con il ritiro di quasi tutti gli emendamenti e con l’approvazione del testo di quello che sarebbe diventato l’art. 128 Cost., v.f., per il quale “Le Provincie e i Comuni sono enti autonomi”, ma “nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”. La riduzione dell’autonomia costituzionalmente garantita alle autonomie locali era evidente (soprattutto in relazione al disposto dell’art. 115 Cost., ormai abrogato, che disponeva: “Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione”).
Il quadro costituzionale delle autonomie territoriali disegnato dall’Assemblea Costituente era, perciò, sin dall’inizio problematico e non sempre dotato di linearità. A ciò avrebbe dovuto porre rimedio la successiva legislazione soprattutto statale, alla quale era demandata l’attuazione del principio di cui all’art. 5 Cost. e, in particolare, quell’adeguamento dei principi e dei metodi della legislazione della Repubblica alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
In realtà, anche per la prepotente affermazione dello stato assistenziale, che si realizzò negli anni ’50 e ’60, la filosofia di fondo che ispirava la legislazione era opposta ai principi dell’autonomia e del decentramento. Infatti, in quegli anni era preponderante l’idea di pianificazione e quella di programmazione economica, secondo i parametri dell’art. 41, comma 3, Cost., che richiedevano una forte centralizzazione negli apparati pubblici e un ruolo dominante della legge statale.
Sono così mancati del tutto gli interventi che dovevano incrementare il ruolo delle autonomie locali e persino la regione, l’ente territoriale di maggiori dimensioni, dotato di potestà legislativa, veniva messa da parte dopo una timida legislazione di attuazione nel 1953 (legge n. 62, c.d. “legge Scelba”), per riapparire nel 1970 dopo la approvazione delle leggi elettorale (n. 108 del 1968) e finanziaria (n. 281 del 1970). Le stesse regioni speciali pativano una condizione di limitazione della loro autonomia, nonostante gli statuti costituzionali; autonomia limitata della quale si sarebbero resi conto solo successivamente alla realizzazione delle regioni ordinarie.
In particolare, per ciò che concerne comuni e province, per tutti gli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, questi enti furono regolati in modo alquanto singolare: il sistema di organizzazione veniva disciplinato dalle disposizioni del TULCP del 1915, richiamate in vita all’indomani della caduta del fascismo; mentre il sistema delle funzioni restava ordinato dal perdurante TULCP del 1934.
La situazione si protrasse così sino ai decreti di trasferimento delle funzioni del 1972 (DDPPRR nn. da 1 a 12 del 1972). Ma anche dopo il riordino del sistema delle autonomie territoriali e locali, conseguente all’effettiva istituzione delle Regioni ordinarie, e al DPR n. 616 del 1977, con il quale si completava il trasferimento delle funzioni nel nuovo sistema regionale, i Regi Decreti del 1915 e del 1934, con cui furono approvati i testi unici della legge comunale e provinciale, continuarono a svolgere il loro compito di “legge generale della Repubblica” (sic!), che determinano le funzioni di comuni e province.
Dal punto di vista dell’assetto concreto del sistema provinciale, peraltro, in tutto questo tempo non si sono registrate innovazioni di particolare rilievo, ad eccezione dei cambiamenti dovuti alla perdita dell’Istria, del Carnaro e delle province dalmate; anche il numero delle province è restato pressoché immutato sino alla fine degli anni ’60: nel 1951 venne istituita la provincia di Taranto e nel 1954 venne restituita alla sovranità italiana Trieste, diventata una provincia piccolissima, con soli 6 comuni, oltre al capoluogo, segno evidente che la maggior parte del territorio della provincia giuliana era stato perduto.
 
3. Dalla legge n. 142 del 1990, alla legislazione di riordino del TUEL
Bisognerà attendere il 1990, con la legge n. 142, per assistere al primo vero intervento legislativo della Repubblica sul sistema di autonomie locali. La disciplina, peraltro, non aveva un vero e proprio carattere esaustivo e abrogativo della pregressa legislazione, quanto piuttosto un carattere correttivo e di adeguamento. Tant’è che venne addirittura esclusa la disciplina delle elezioni locali, rivisitata successivamente con la legge n. 81 del 1993.
Non è che la legislazione statale e regionale non avesse incrementato il complesso delle funzioni amministrative di comuni e province, ma l’impianto delle relazioni tra i diversi livelli rimaneva sempre ancorato al centralismo dello stato e, per certi aspetti, a quello inedito delle regioni. Un’inversione di tendenza avvenne con la crisi finanziaria dell’estate del 1992 e l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1° novembre 1993), che con i suoi criteri di convergenza verso la moneta unica metteva in forse lo stato sociale, almeno nella forma in cui era stato realizzato in Italia, e cioè con un forte carattere assistenzialista (nel sociale) e interventista (nell’economia).
Con l’evoluzione della normativa di riferimento in materia che prende l’avvio dalle leggi nn. 59 e 127 del 1997, ispirata dalla necessità di un rapido riassetto delle funzioni pubbliche, in modo da consentire al Governo di compiere una politica coerente con i criteri di convergenza, si è finalmente affermata l’idea della grande riforma dei livelli di governo a partire da quelli locali.
Le riforme legislative in quegli anni sono andate avanti celermente; basti pensare alle diverse leggi sugli enti locali e al loro riordino con il Decreto legislativo n. 267 del 2000, recante il Testo unico dell’ordinamento degli enti locali.
Il ruolo della provincia nel contesto delle autonomie locali in quel periodo è stato ancora rivalutato con una crescita di funzioni amministrative e una nuova collocazione nell’ambito locale, rispetto a quella ad essa assegnata dalla legislazione pre-repubblicana.
Il ruolo territoriale delle province, non solo come enti a fini generali e rappresentativi delle comunità sottostanti, ma anche come ente chiamato a svolgere un ruolo di snodo, verso i comuni, da un lato, e verso le regioni e lo stato, dall’altro, sia sul versante della programmazione, che su quello della realizzazione, era già presente in modo evidente nella legge n. 142 del 1990. Ciò ha significato che la tradizione testimoniata già dall’art. 145 del TU del 1859, la quale aveva avuto il suo ruolo determinante – come si è visto – in seno all’Assemblea costituente, era ancora attiva, per cui è risultato agevole per la legge n. 127 del 1997, il decreto legislativo n. 112 del 1998 e la successiva legislazione di settore, operare su questa particolare fisionomia della provincia per riempirla di ulteriori contenuti.
Le ragioni di crescita del livello provinciale sono state molteplici; essenzialmente si può considerare come la fine del mito dello stato pianificatore abbia richiesto un ambito intermedio tra comuni e regione/stato, necessario per rispondere alle funzioni di area vasta e per assicurare la gestione ottimale di reti di servizi. In quest’ottica, vanno considerati, non solo i compiti di programmazione della Provincia e la competenza a redigere il “piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio”(3), ma soprattutto alcune funzioni che la legislazione assegna alle Province nei confronti dei Comuni(4).
Va ricordato, poi, che il ruolo della provincia, grazie al decentramento amministrativo realizzato a partire dalla legge n. 59 e con i decreti legislativi attuativi, è chiaramente cambiato dal punto di vista funzionale, in quanto la sua dimensione ottimale di ente di area vasta ha permesso lo spostamento di competenze statali e regionali; si pensi, ad esempio, al decreto legislativo n. 469 del 1997, che ha trasferito alle province le funzioni in materia di politiche del lavoro, i servizi per l'impiego, con i cosiddetti ex uffici di collocamento. Inoltre, a seguito di quel processo di decentramento, anche le regioni hanno determinato un ulteriore arricchimento di funzioni, sviluppando una propensione al trasferimento delle funzioni amministrative a favore delle province, come è avvenuto praticamente in quasi tutte le regioni, in particolare in quelle del nord e del centro-nord. Anche la recente vicenda della soppressione degli ATO acqua e degli ATO rifiuti, disposta con il decreto legge n. 2 del 2010 e non ancora conclusa per effetto di diverse proroghe del termine entro cui le regioni avrebbero dovuto provvedere, sembra andare nella direzione di una attribuzione delle funzioni delle autorità d’ambito alle province(5).
Questa ulteriore evoluzione della legislazione sulle province ha comportato una crescita della spesa provinciale, sia pure contenuta e non paragonabile – ad esempio – con quella dei dipartimenti francesi, in quanto si sarebbe determinata una precisa confluenza sulla provincia, considerata dalla legislazione dello stato l’ente più idoneo al loro svolgimento, di diverse funzioni, anche in relazione alla dimensione estremamente piccola della maggior parte dei comuni italiani. Infatti, dal TUEL del 2000 è emerso, ancora una volta, un ruolo sussidiario di sostegno della provincia nei confronti dei piccoli comuni. Inoltre, la provincia ha rappresentato l’ente, per dimensioni, più adatto a ricevere le competenze statali di area vasta che erano trasferite al territorio. Infine, la provincia è stata considerata dalle regioni, a volte su indicazioni dello stesso legislatore statale, come l’ente idoneo al conferimento delle funzioni nelle materie legislative di propria competenza.
 
4. La revisione del Titolo V
Il quadro normativo di riferimento è ulteriormente mutato per effetto delle sensibili innovazioni al disegno del Costituente e all’evoluzione della legislazione apportate dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. A questi fini appare necessario valutare, in un primo momento, la posizione di comuni e province insieme, in quanto entrambi questi enti appaiono delineare l’ambito locale come distinto, sia da quello regionale e sia da quello statale; successivamente sarà opportuno considerare, invece, la più netta demarcazione che dal disegno costituzionale traspare del ruolo della provincia, rispetto a quello del comune.
Con riferimento al primo profilo, diversamente dalla precedente formulazione dell’art. 128, la nuova disciplina del Titolo V della Costituzione offre un quadro delle funzioni e dei poteri dei comuni e delle province, nonché della loro organizzazione, non esclusivamente rimessa alla statuizione della legge statale. Ciò contribuisce ad individuare, non solo un fondamento, ma anche una disciplina delle autonomie locali di rango costituzionale – come tale – sopraordinata alla legge statale e a quella regionale; l’innovazione riguarda, peraltro, non solo le funzioni e l’organizzazione, ma anche, e forse particolarmente, le “fonti” del diritto locale, per la prima volta non semplicemente presupposte dal principio di autonomia degli enti medesimi (secondo la nota ricostruzione di Esposito), ma espressamente indicate nella Costituzione: lo statuto (all’art. 114, comma 2, “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”) e i regolamenti (all’art. 117, comma 6, “I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”).
A ciò si aggiunga come, per l’una e per l’altra fonte locale, gli oggetti di disciplina non presentino un carattere meramente organizzativo, essenzialmente interno all’ente medesimo, ma abbiano un rilievo diretto nel processo di concretizzazione dei diritti degli amministrati. Da questo punto di vista sono vere e proprie fonti dell’ordinamento giuridico generale (della Repubblica) e, in tal senso, depongono sia l’ambito di riferimento dello statuto locale, destinato a regolare la partecipazione e i principi di relazione dell’ente con gli amministrati, e sia la previsione costituzionale del regolamento locale come fonte di disciplina, non solo dell’organizzazione, ma anche dello svolgimento delle funzioni attribuite.
Se dall’ambito delle fonti si passa, poi, a quello delle funzioni amministrative, il disegno costituzionale si presenta particolarmente innovativo. Le previsioni costituzionali dispongono, infatti, che i comuni e le province (insieme alle città metropolitane e alle regioni) sono “enti autonomi con propri … poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114, comma 2, Cost.) e affermano “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” (art. 118, comma 2, Cost.).
Quest’ultima espressione, in particolare, potrebbe essere considerata una semplice trasposizione nell’ambito costituzionale di una disposizione legislativa del TUEL (il comma 5 dell’art. 3), ma ad una tale constatazione deve corrispondere l’osservazione che il passaggio dall’ordine legislativo a quello costituzionale non è meramente formale, poiché – pressoché immutato il tenore della norma – la trasposizione in ambito costituzionale ne modifica il significato letterale e sistematico. Questa disposizione, infatti, nell’ambito del Testo Unico tende a sancire una sorta di separazione tra il profilo funzionale e quello organizzativo degli enti locali, in quanto – premesse alcune disposizioni generali – nel TU sarebbero da ricercare esclusivamente le disposizioni riguardanti l’organizzazione, ma non quelle concernenti le funzioni, le quali deriverebbero essenzialmente dalla legge dello Stato o da quella delle Regioni(6).
Nel nuovo testo costituzionale, invece, il significato delle disposizioni indicate si proietta essenzialmente sul contenuto delle “funzioni proprie” costituzionalmente assicurate agli enti locali, rispetto alle quali anche le possibilità di conferimento di funzioni da parte della legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze, diventano o una attività dovuta, oppure una attività discrezionale, ma di sicuro non più liberamente rimessa alla valutazione legislativa.
In modo sintetico, può dirsi che la medesima espressione linguistica, prevista originariamente nella legge e assunta successivamente dalla Costituzione, passa da un significato essenzialmente descrittivo ad uno prescrittivo, con tutto quello che questo comporta sul piano dei rapporti tra Costituzione e legge(7).
La previsione costituzionale delle “funzioni proprie”, pertanto, modifica radicalmente questa realtà dell’ordinamento, in quanto, comprendendo le funzioni riconosciute in modo originario dalla Costituzione, che ne rappresenterebbe il titolo di attribuzione, darebbe luogo per la legge statale e per quella regionale ad un limite che potrebbe comportare l’invalidità dei loro atti. Infatti, la circostanza che la Costituzione ha contemplato direttamente la titolarità di dette funzioni da parte dei comuni e delle province, ha come conseguenza che l’individuazione delle “funzioni proprie” non rappresenta più un problema di definizione, rimesso al legislatore, ma una questione di interpretazione costituzionale.
È stato in altra sede a lungo dibattuto il tema del metodo di determinazione delle funzioni proprie e non del tutto univoci sono stati gli orientamenti espressi in dottrina(8). Tuttavia, su un punto sembra essersi raggiunto un generale consenso, e cioè che le “funzioni proprie” non sono rimesse al legislatore statale o a quello regionale e che eventuali leggi statali o regionali, che avessero la pretesa di definirle, avrebbero un carattere meramente ricognitivo e non costitutivo, per cui potrebbe darsi anche l’evenienza che una funzione sia propria di un ente locale, quand’anche la legge (statale o regionale) abbia omesso di statuire in tal senso.
Il campo delle “funzioni proprie” discende direttamente dalla previsione costituzionale e si presenta materialmente garantito rispetto a quello che può darsi per le funzioni cui fa riferimento la seconda frase del comma 2 dell’art. 118 Cost. (quelle cioè “conferite”), dal momento che le eventuali prescrizioni di legge (statale e/o regionale) in questo ambito non potrebbero sottrarre alla disciplina locale gli oggetti cui le “funzioni proprie” fanno riferimento.
Le disposizioni costituzionali sulle funzioni amministrative non riguardano solo la problematica della tipologia e del riparto delle funzioni, ma anche quella concernente il loro aspetto dinamico e in questo ambito si delinea il ruolo dalla provincia, come distinto rispetto a quello del comune.
Da questo punto di vista viene in rilievo soprattutto l’articolazione che le funzioni possono avere alla luce dell’art. 118, comma 1, in base al quale “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Infatti, con questa disposizione il legislatore di revisione tende ad inserire nel modello amministrativo elementi di flessibilità.
La disposizione citata fa venire meno il principio di uniformità, che sin dall’origine ha caratterizzato la disciplina degli enti locali nel nostro ordinamento e in base al quale tutti gli enti di un medesimo tipo avevano integralmente le medesime attribuzioni(9); adesso, a prescindere da una certa vocazione istituzionale delle diverse tipologie di enti territoriali, che pure determina un particolare assetto delle funzioni(10), può anche darsi l’evenienza che la medesima funzione la cui attribuzione e/o conferimento spetti alla legge regionale, possa essere allocata a livello comunale, provinciale o regionale; e lo stesso dicasi per quelle funzioni di spettanza della legge statale, il cui esercizio unitario può giungere sino al mantenimento delle competenze amministrative in capo allo stato.
Di conseguenza, può realizzarsi il caso che una funzione amministrativa in un certo ambito territoriale sia comunale, in un altro ambito, invece, venga svolta a livello provinciale e in un altro ancora possa essere mantenuta dalla regione o dallo stato.
Si tratta, in sostanza, di un modello non definito, per la presenza di numerose riserve di legge e per il fatto che il sistema di riparto delle funzioni amministrative dal punto di vista costituzionale resta aperto e dinamico, delimitato solo dalla presenza dei principi di sussidiarietà differenziazione e adeguatezza(11). Il principio di sussidiarietà dovrebbe essere collegato al rispetto delle dimensioni territoriali, associative ed organizzative, attribuendo le responsabilità pubbliche ai centri decisionali più vicini ai cittadini interessati; il principio di differenziazione nell’allocazione delle funzioni dovrebbe richiedere che si considerino le diverse caratteristiche demografiche, territoriali, strutturali degli enti riceventi; il principio di adeguatezza dovrebbe imporre una valutazione in relazione all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente a garantire l’esercizio delle funzioni(12). L’attribuzione al comune, pertanto, rappresenta il “modo privilegiato di estrinsecazione delle funzioni amministrative, ma non esclusivo”(13).
In ogni caso, le possibilità di una allocazione funzionale delle potestà amministrative tra comuni e province (ma anche regioni e stato), rimessa alla legge statale e a quella regionale, deve essere considerata complementare all’attribuzione di funzioni amministrative effettuata dalle norme costituzionali e direttamente a queste riconducibile senza l’intermediazione della legge.
Solo muovendo da queste premesse, peraltro, appare possibile comprendere e spiegare la collocazione delle province rispetto ai comuni. A tal riguardo, pur senza arrivare a denunciare per ipocrisia la disposizione che attribuisce le funzioni amministrative ai comuni(14), occorre ricordare che il ruolo provinciale appare ormai chiaramente legato – sulla base della legislazione vigente al momento della revisione costituzionale – alla pianificazione e alla programmazione di area vasta, al piano territoriale di coordinamento e alla gestione dei servizi di rete, così come alla tutela dell’ambiente, nell’accezione più ampia del termine (rifiuti, acqua, caccia, ecc.), e alla protezione civile.
Tuttavia, al di là dell’intero complesso di funzioni provinciali che assicurano lo sviluppo e la promozione del territorio dell’intero Paese, in sinergia soprattutto con la legislazione statale e regionale e con l’attività regionale, il disegno costituzionale, innovando rispetto alla pregressa legislazione – che si limitava alla mera “assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali” – accentua con chiarezza il ruolo sussidiario delle province, rispetto ai comuni, per il quale tutte le funzioni comunali – anche quelle più caratterizzanti – nei casi in cui questi enti presentino una naturale inadeguatezza o le funzioni medesime non siano a loro rapportabili, per il principio di differenziazione, possono essere assicurate ai cittadini dall’azione della provincia, la quale, in una evenienza del genere, si deve considerare ente di prossimità al pari del comune(15).
Si tratta di un ruolo che le Province svolgono da tempo in altri ordinamenti, come quello francese, britannico, tedesco e spagnolo, dove Dipartimenti, Contee, Kreise e Provincias hanno un ruolo costitutivo del sistema amministrativo generale, che ubbidisce alla formazione di un federalismo territorialmente responsabile, basato sulla collaborazione dei diversi livelli di governo, per garantire la diffusione del principio di democrazia e impedire, o – quanto meno – limitare, il proliferare di enti intermedi tra il comune e la provincia, dove più che altrove si realizzano sprechi e clientelismo.
Le sfide che adesso si profilano all’orizzonte, dovute ai processi di integrazione sopranazionale e di internazionalizzazione dell’economia, avrebbero richiesto una cura inedita dell’assetto istituzionale della Repubblica, per realizzare i cambiamenti più urgenti, tra cui l’infrastrutturazione del Paese, lo sviluppo dell’economia, la promozione del made in Italy; la tutela dei diritti civili e sociali dei cittadini. Si tratta di sfide che potrebbero essere affrontate efficacemente solo alla luce di una valutazione serena dei ruoli istituzionali, a cominciare da quello dello stato e delle regioni. Tale valutazione consentirebbe, infatti, di accertare definitivamente che il sistema provinciale ha strutturato lo stato stesso, ha mantenuto in vita una tradizione risalente e ha dato alla Repubblica un livello amministrativo efficiente, competitivo e flessibile, vicino ai cittadini e sussidiario rispetto ai comuni.
 
5. Dal decreto legge n. 138 del 2011, al decreto legge n. 201 del 2011
Il quadro costituzionale, perciò, avrebbe necessitato di una coerente attuazione da parte soprattutto del legislatore statale. In realtà, il processo riformatore si è arrestato subito dopo la revisione costituzionale del Titolo V e dal 2001 ad oggi, alla mancata attuazione della riforma costituzionale, testimoniata ancora in questa legislatura dalle vicende del ddl sulla carta delle autonomie, si è aggiunta la crisi economica che ha generato una legislazione dai contenuti economico-finanziari, ma che  non ha esitato ad agire anche sui profili istituzionali.
Negli ultimi tempi, in un contesto caratterizzato dalla inadeguatezza della politica, rivelatasi incapace di assumere decisioni sull’organizzazione dei livelli di governo e colpevole di avere prodotto ulteriori sprechi delle risorse pubbliche pur in piena crisi, i media hanno innescato una polemica sulle province che è divenuta il presupposto di interventi legislativi disomogenei che hanno inciso negativamente sul sistema delle autonomie locali.
Bisogna sottolineare che tutta la legislazione della crisi, nella quale devono essere ricondotte anche le misure sulla ristrutturazione istituzionale, si presenta come un tentativo di contenimento della spesa pubblica, ma senza un preciso progetto sia dal punto di vista della finanza pubblica e sia da quello del riordino istituzionale dei diversi livelli di governo. Basti pensare alla circostanza che i tagli e le misure istituzionali riguardano, oltre alle province, anche i comuni, in particolare quelli piccoli, e le regioni, mentre l’amministrazione statale ha conosciuto sinora, al contrario, una sorta di limbo dei tagli nel quale, nonostante la crisi, la spesa pubblica è persino aumentata.
La polemica, mediatica e politica, ha generato in maniera semplicistica il sospetto che tre livelli di governo fossero troppi e, tra questi, che quello provinciale non svolgesse un compito necessario; la rozza cultura antidemocratica che ha preso ormai i Soloni italiani, prima di adottare le disposizioni sulle province, avrebbe dovuto considerare due aspetti significativi: in primo luogo, che tre livelli di governo, oltre allo stato, sono presenti in tutti gli ordinamenti europei, sia in quelli di tradizione centralistica come la Francia, sia quelli di tradizione federale come la Germania; in secondo luogo, che nel caso italiano i flussi di spesa lasciano intravedere un eccesso di spesa  statale come conseguenza di una mancata attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione.
Nasce da questa incultura istituzionale, dalla mancanza di conoscenza della storia e dall’ignoranza dei principi più importanti dell’organizzazione territoriale il primo tentativo di abolizione delle province di cui al decreto legge n. 138 del 2011; tentativo opportunamente accantonato in sede di conversione del decreto legge i cui effetti istituzionali si limitarono a ridurre per la seconda volta la composizione dei consigli e delle giunte provinciali, oltre che dei comuni e, persino, dei consigli regionali.
Queste misure sono state, in ogni caso, il segno evidente che il governo e il parlamento, incapaci di varare le riforme costituzionali da tempo proclamate, come la riduzione del numero dei parlamentari e il Senato delle regioni e delle autonomie, e quelle legislative, come la legge elettorale, la riduzione dei ministeri, la riforma degli UTG e l’attuazione del federalismo fiscale, hanno ritenuto di potere tamponare la crisi imponendo – anzi “scaricando” – alle regioni e alle autonomie locali ingenti tagli finanziari e una condizione istituzionale insostenibile, come la riduzione della democrazia locale, per tutti i livelli di governo territoriale e la provincializzazione delle regione nell’attesa di sopprimere le province.
In altre parole, governo e parlamento hanno cercato di contenere gli effetti della crisi indebolendo proprio i livelli di governo cui è affidato il compito di erogare i servizi ai cittadini, lasciando irrisolte le diverse questioni di fondo che sono invece la causa vera dell’inefficienza dell’apparato istituzionale dello stato; il tutto con la conseguenza di avere indebolito i livelli di governo sub-statali che, essendo stati costretti dai ripetuti tagli di risorse a rivedere l’erogazione dei servizi, appaiono ora spesso superflui.
Anche il governo “tecnico”, che nel novembre 2011 prese il posto di quello “politico”, piuttosto che affrontare con decisione il coacervo di questioni istituzionali ancora irrisolte, ha ritenuto di dovere dare in pasto all’opinione pubblica la vicenda provinciale, nel momento in cui si faceva pesare sugli italiani un appesantimento fiscale, con la reintroduzione dell’IMU sulla prima casa e l’aumento dell’IVA al 21%.
L’idea che ha animato il decreto legge n. 201 del 2011 è stata quella dello svuotamento delle province sul piano funzionale e dell’annichilimento della loro natura di enti autonomi, rappresentativi degli interessi territoriali, così come era stata formulata nell’ordinamento italiano, sulla base di una tradizione ancora più risalente, a partire dalla Legge comunale e provinciale del 1859  e costituzionalizzata nell’art. 5 della Carta nel 1947 e poi ribadita e precisata dalla revisione costituzionale del Titolo V nel 2001.
Il governo, peraltro, in modo “tecnicamente” non adeguato, ha pensato di agire con legge ordinaria, andando contro quanto previsto dalla Costituzione, e ha ritenuto possibile una trasformazione delle province in enti dipendenti dai sindaci dei comuni che ricadono nella circoscrizione provinciale, considerando che questa legislazione avrebbe in seguito agevolato la soppressione delle province anche in sede costituzionale.
Le disposizioni contenute nel Capo III del decreto richiamato (Riduzioni di spesa. Costi degli apparati), all’art. 23 (Riduzione dei costi di funzionamento di Autorità di Governo, del CNEL, delle Autorità indipendenti e delle Province) riguardano, nei commi 14-20, in particolare, le province, per le quali prevedono quanto di seguito descritto:
- la spettanza alla provincia esclusivamente delle funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le  rispettive competenze (comma14);
- l’eliminazione della giunta dagli organi di governo della provincia (comma 15);
- una composizione del consiglio provinciale eguale per tutte le province d’Italia (10 consiglieri) e un’elezione dei consigli provinciali non più diretta con il voto libero, segreto e uguale dei cittadini, ma solo da parte degli “organi  elettivi  dei  Comuni  ricadenti  nel territorio della Provincia”, rinviando la determinazione delle modalità stesse delle elezioni ad una legge dello Stato che dovrebbe essere adottata  entro il 31 dicembre 2012 (comma 16);
- l’elezione del Presidente della provincia tra i componenti del Consiglio provinciale, anche qui “secondo le  modalità  stabilite dalla legge statale di cui al comma 16” (comma17);
- il trasferimento, entro il 31 dicembre 2012 e fatte salve le funzioni di cui al comma 14, da parte dello  stato e delle regioni,  con propria legge e secondo le rispettive competenze, ai Comuni delle “funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province,  salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano  acquisite dalle  Regioni”, disponendo che, in caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012, si provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, con legge dello stato (comma 18);
- il trasferimento altresì delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite alle Province, da parte dello stato e delle regioni, secondo le rispettive competenze, assicurando nell'ambito delle medesime risorse il necessario supporto di segreteria per l'operatività degli organi della Provincia (comma 19);
- il commissariamento delle province, applicando “agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 …, sino al 31 marzo 2013, l’articolo 141 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”, nell’attesa che venga adottata la legge statale di cui al comma 16; con riferimento agli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012, si prevede alla scadenza naturale, l’elezione dei nuovi organi provinciali in base ai commi 16 e 17, quale regime ordinario delle Province medesime.
Orbene, il progetto dell’art. 23, cit., chiama sostanzialmente le regioni e i comuni a spartirsi le spoglie delle province. Questa circostanza ha fatto prendere all’Anci e alla Conferenza dei Presidenti delle Regioni posizioni nelle quali anch’essi hanno mostrato una scarsa considerazione dei principi costituzionali.
Ciò nonostante, otto regioni – nessuna di centro-sinistra – hanno impugnato questa normativa davanti alla Corte costituzionale, sulla base di una deliberazione dei rispettivi CAL e facendo applicazione dell’art. 9, comma 2, della legge n. 131 del 2003, che ha modificato il secondo comma dell’articolo 32 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
La posizione del governo risulta eccessiva e così poco accorta(16); è stata giudicata dalla dottrina in maniera tanto critica da rendere necessario un repentino ripensamento sulle misure adottate subito dopo l’adozione del decreto legge n. 201, cit.. Da questo ripensamento è venuta fuori una linea in parte diversa con il decreto legge sulla spending review.
 
6. Il decreto legge n. 95 del 2012 sulla c.d. spending review
Con il decreto legge n. 95 del 2012, all’articolo 17, il disegno originario del governo, che prevedeva alla fine la soppressione delle province, è stato in parte modificato, nel senso che all’accantonamento dell’ipotesi soppressiva fa seguito quella della ristrutturazione istituzionale delle circoscrizioni provinciali, attraverso il riordino e l’accorpamento delle province più piccole, nonché la creazione delle città metropolitane (articolo 18).
A tal riguardo, si deve registrare anche una nuova posizione delle regioni. Queste, infatti, promuovono ora una modifica dell’articolo 133, comma 1, Cost., al fine di ottenere, come già per i comuni, la disponibilità del potere di determinare le circoscrizioni provinciali. L’idea sottostante a questa proposta dovrebbe essere, nell’ambito di una progressiva regionalizzazione dell’ordinamento degli enti locali, quella di esercitare una certa pressione sul governo per conseguire lo strumento istituzionale dell’organizzazione delle province, che limiterebbe il tentativo della legislazione statale di provincializzare le regioni medesime; tentativo, questo, che risulta sostenuto ora anche dal giudice costituzionale, come mostra chiaramente la sentenza n. 198 del 2012, sull’art. 14 del decreto legge n. 138 del 2011, cit..
Comunque, l’idea che anima l’art. 17 del decreto legge n. 95, cit., è quella del riordino provinciale; in tal senso, la deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012 ha precisato che tutte le Province delle regioni a statuto ordinario esistenti sono oggetto di riordino sulla base dei requisiti minimi, che sono due: a) dimensione territoriale non inferiore a duemilacinquecento chilometri quadrati; b) popolazione residente non inferiore a trecentocinquantamila abitanti.
L’articolo 17 prevede solo alcune limitate eccezioni all’accorpamento delle province, come ad esempio le province  nel cui territorio si trova il comune capoluogo di  regione; oppure le province confinanti solo con province di  regioni diverse da quella di appartenenza e con una  delle  province  destinate a diventare città metropolitane a norma dell’articolo 18, comma 1, del decreto legge n. 95, cit..
Il procedimento previsto dall’art. 17, per procedere al riordino delle province è molto particolare; si delinea una procedura secondo cui il testo della deliberazione del Consiglio dei Ministri avrebbe come destinatari i CAL o gli organi di consultazione tra regioni ed enti locali, nelle regioni in cui il Cal non è stato ancora istituito. I CAL, applicando i criteri indicati, entro settanta giorni dovrebbero definire le proposte di riordino delle provincie che sarebbero trasmesse alla regione interessata, la quale nei successivi venti giorni la presenta al governo. La proposta di riordino delle province, secondo l’ultima versione dell’articolo 17, comma 3, terrebbe conto delle eventuali iniziative comunali volte a modificare le circoscrizioni provinciali esistenti.
Questa impostazione, di per sé, non è un fatto negativo, pure in considerazione della circostanza che anzi il riordino territoriale del dimensionamento potrebbe coinvolgere, nel prossimo futuro, anche le regioni.
Tuttavia, permangono delle perplessità sulla procedura adottata dal decreto legge sulla spending review, in quanto questa sembra porsi in contrasto con il disposto dell’articolo 133, comma 1, della Costituzione, per il quale “il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Provincie nell’ambito d’una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”.
L’art. 17 del decreto legge n. 95, cit., tiene conto solo occasionalmente dell’iniziativa dei comuni e cerca di sopperire, in mancanza delle deliberazioni dei consigli comunali, frutto dell’iniziativa dei comuni, attraverso il piano di riordino richiesto ai CAL e trasmesso dalle regioni al governo.
Si consideri ancora che gli statuti regionali nel prevedere la composizione dei CAL, a norma dell’ultimo comma dell’art. 123 Cost., hanno attuato la disposizione costituzionale in modo diverso, non solo con una composizione variabile da regione a regione, ma anche prevedendo in diversi casi la partecipazione di enti diversi dalle autonomie locali, come le Camere di Commercio e le Università. In questi casi, perciò, può apparire impropria persino la partecipazione del CAL medesimo.
Un’altra questione riguarda la circostanza che il decreto legge n. 95, la cui base costituzionale è data pur sempre dalla necessità ed urgenza di provvedere, peraltro motivata dal “fine di contribuire al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica imposti dagli obblighi europei necessari al raggiungimento del pareggio di bilancio”, non ha, per quanto riguarda le norme di natura ordinamentale previste nell’art. 17, un impatto finanziario concreto.
Con il decreto legge n. 95, cit. – come si è accennato – lo stesso governo ha dato una definizione delle funzioni di area vasta, attribuendole alle province, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, ed ha definito queste come “enti con funzioni di area vasta”.
Più specificamente si può osservare che il decreto legge n. 201 del 2011 prevedeva la spettanza alla provincia esclusivamente delle funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le  rispettive competenze (comma14) e il trasferimento, entro il 31 dicembre 2012, ai comuni delle “funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province,  salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano  acquisite dalle  Regioni”, disponendo altresì che, in caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle regioni entro il 31 dicembre 2012, si provvede in via sostitutiva, con legge dello stato, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, (comma 18).
Il decreto legge n. 95 del 2012, invece, prevede che “all’esito della procedura di riordino”, sono funzioni delle province quali enti con funzioni di area vasta, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: a) la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché la tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza; b) la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, l’autorizzazione e il controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché la costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e la regolazione della circolazione stradale ad esse inerente. In sede di conversione del decreto legge, inoltre, è stato aggiunto il punto b-bis), che attribuisce alle province anche la “programmazione provinciale della rete scolastica e la gestione dell’edilizia scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado”. In questo modo, anche se il linguaggio sembra fare credere diversamente e se la mancanza di continuità tra il disegno del decreto legge n. 201 e quello del decreto legge n. 95 può rendere complessa una lettura sistematica, in realtà sono state ripristinate la quasi totalità delle funzioni precedenti attribuite alle province.
La medesima disposizione prevede poi che “restano ferme le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni”, loro spettanti nelle materie di cui all'articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione. Il significato di questa espressione appare da collegare essenzialmente al potere riconosciuto alle regioni dall’articolo 118, comma 2, della Costituzione, per il quale con legge regionale si possono conferire funzioni amministrative alle province nelle materie di propria competenza legislativa (sia a titolo concorrente, che esclusivo). La disposizione, così intesa, rassicura le regioni sulle scelte già compiute di conferimento di funzioni amministrative alle province e lascia inalterata la relazione tra regioni e province; la qualcosa potrebbe consentire alle regioni persino di mantenere in capo alle province a titolo di conferimento proprio tutte quelle funzioni che in atto sono proprie delle province e che in base al combinato dell’art. 23 del decreto legge n. 201, cit., e del decreto legge n. 95, cit., non potrebbero spettare ai comuni a ragione dell’area vasta e dovrebbero essere assorbite dalle regioni. Basti pensare, al riguardo, al regime delle funzioni in materia di acqua e di rifiuti, oppure alle funzioni inerenti alle politiche del lavoro.
Permangono, invece, forti dubbi di costituzionalità sul profilo istituzionale delle province. Infatti, su questo tema, non avrebbe subito modifica alcuna il modello dell’ente locale di secondo grado, previsto dal decreto legge n. 201 del 2011, anziché quello dell’ente autonomo e democratico, secondo i principi del Titolo V. Ed invero, questo sembra essere oggi il vero nodo di tutta la questione provinciale che il giudice costituzionale è chiamato a risolvere.
La stessa Corte costituzionale ha affermato che esiste una “comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare” (sentenze n. 106 del 2002 e n. 274 del 2003) degli enti territoriali, comprese le province; ciò sta a significare che il modello di autonomia accolto dalla Costituzione, sin dal 1947, include una espressione democratica e popolare.
In tal senso deve essere letto l’art. 5 che, nell’accogliere il principio del riconoscimento e della promozione delle autonomie locali, ha inteso richiamare in vita i valori della democrazia locale infranti dal fascismo.
Appare, inoltre, logico che, se la Repubblica “costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” è la “Repubblica democratica”, di cui parla l’art. 1 della Costituzione, il principio democratico debba essere comune e caratterizzante tutti gli elementi (rectius: gli enti) che la costituiscono, province comprese. Infine, deve ritenersi che, se le autonomie locali, al pari delle regioni, possano darsi un proprio Statuto che determini la loro organizzazione e le relazioni tra gli organi dell’ente, ciò serva a realizzare pienamente l’autogoverno locale democraticamente legittimato.
Analoghe considerazioni possono farsi anche rispetto al principio (della sovranità) popolare, accolto dall’art. 1 della Costituzione e caratterizzante la Repubblica. Le nozioni stesse di “autonomia” e di “enti autonomi” devono essere rapportate al principio popolare che completa e specifica il principio democratico (che investe tutti gli enti costitutivi della Repubblica, dal comune, alla provincia, e allo stato), per cui la nozione di autonomia, democratica e popolare, implica che deve sussistere una relazione tra la comunità sottostante e l’ente di riferimento. Una relazione, questa, che non può essere il frutto di mediazioni politiche o tecniche come nel caso delle Unità sanitarie locali. Gli enti autonomi non possono essere paragonati a enti tecnici settoriali; essi sono enti territoriali, politici, che perseguono gli interessi generali della loro comunità e richiedono una relazione diretta con il corpo elettorale. Il principio popolare – in base ad una piana interpretazione della Costituzione – completa il principio democratico, nel senso che “nelle regioni, province e comuni il popolo deve avere una rappresentanza, che risulti da votazioni generali, dirette, libere, eguali e segrete”.
Del resto la normativa in questione suscita non poche perplessità anche in relazione alla Carta europea dell’autonomia locale, che l’Italia ha ratificato senza alcuna riserva e dichiarando di accoglierla integralmente (sic!). Infatti, in base al Trattato in questione, art. 3, “per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici”; ed inoltre si aggiunge che “tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti” e che quanto previsto sulla rappresentanza democratica che l’ente locale deve avere, questa “non pregiudica il ricorso alle Assemblee di cittadini, al referendum, o ad ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini qualora questa sia consentita dalla legge”(17).
La disciplina del decreto legge n. 201, combinata con quella del decreto legge n. 95, perciò, non assicura alla provincia ente autonomo di area vasta della Repubblica italiana, le condizioni previste dal Trattato sulla Carta europea dell’autonomia locale.
 
7. Le città metropolitane
Il decreto legge n. 95 innova sensibilmente anche in tema di città metropolitane, che dopo un decennio dalla revisione della Costituzione, rappresentano ancora un tema controverso del nuovo Titolo V, essendo state proclamate ente costitutivo della Repubblica, senza che ci si sia dato carico sinora di farle venire in esistenza.
L’art. 18 del decreto citato ha rotto gli indugi e tenta di chiudere una questione che si era aperta con la legge n. 142 del 1990 che aveva definito per la prima volta le aree metropolitane; definizione che poi era passata nel 2000 all’interno del TUEL e che aveva trovato nell’elaborazione della revisione costituzionale un convinto e generalizzato sostegno, per dare un assetto più adeguato a quelle province che, in ragione dello sviluppo di urbanizzazione, non avevano più al loro interno una relazione tra campagna e città, pur rimanendo un’area vasta da regolare. Infatti, nella logica funzionale in cui la città metropolitana si sostituisce alla provincia, questa caratterizza un diverso sistema di area vasta, non più ancorato al rapporto tra città-campagna, ma ad un’area vasta di conurbazione, per cui sembra comprensibile che questo nuovo ente sia titolare delle funzioni di competenza provinciale, alle quali si aggiungono quelle normalmente affidate ai comuni “quando hanno precipuo carattere sovracomunale o debbono, per ragioni di economicità ed efficienza, essere svolte in forma coordinata nell’area metropolitana”.
Sul piano attuativo, in via transitoria, l’unica disposizione che si rinviene nell’ordinamento è quella dell’art. 23 della legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, la quale non ha sortito sinora alcun effetto.
I modelli di città metropolitana, elaborati da una letteratura ormai ricca(18), hanno cercato di esprimere l’equilibrio su una corretta relazione tra centro e periferia, nel quale il ruolo della periferia esce dalla condizione di marginalità in cui lo sviluppo urbanistico disordinato in genere li pone. Gli esempi più evidenti sono dati proprio dalle capitali dagli stati, che richiedono comunque una specifica riflessione(19).
La ricerca di un modello istituzionale per le città metropolitane, perciò, deve esprimere questo equilibrio attraverso un assetto ordinamentale coerente, un sistema elettorale adeguato alle rappresentanze dei territori, una relazione tra livelli di governo interni alla stessa città metropolitana, traducendo queste affermazioni in scelte chiare e comprensibili, e ciò significa che la città metropolitana prende il posto, non solo della provincia, ma anche del comune capoluogo; che il sistema di elezione della rappresentanza deve essere proporzionato (in termini cioè di seggi che compongono il consiglio metropolitano) in modo diverso da quello attualmente previsto dalla normativa vigente per la provincia, anche se deve essere eguale per principi ed effetti al raffinato e storicamente collaudato sistema elettorale delle province; e, infine, che la città metropolitana, nei poteri e nelle funzioni, non è corrispondente solo alla provincia, ma ricomprende in sé anche funzioni comunali esercitate in modo metropolitano, per cui i comuni e i municipi in essa ricadenti, per sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, riceverebbe una connotazione diversa da quella prevista attualmente dal TUEL.
L’articolo 18 del decreto legge n. 95, cit., attribuisce alla città metropolitana: a) le funzioni fondamentali delle province e b) ulteriori funzioni fondamentali, quali: 1) la pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali; 2) la strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché l’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano; 3) la mobilità e la viabilità; e 4) la promozione e il coordinamento dello sviluppo economico e sociale (comma 7).
Sul piano funzionale, perciò, le attribuzioni delle città metropolitane non sono molto diverse da quelle delle province, ma risultano certamente meglio specificate. Inoltre, in sede di conversione del decreto legge, al Senato, con l’aggiunta del comma 11-bis, sembra volersi favorire un certo incremento dei poteri delle città metropolitane, in quanto è previsto che “lo Stato e le regioni, ciascuno per le proprie competenze, attribuiscono ulteriori funzioni alle città metropolitane in attuazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui al primo comma dell'articolo 118 della Costituzione”.
Il governo ha pensato di istituire le città metropolitane a partire dal 1° gennaio 2014, se non prima, “alla data della cessazione o dello scioglimento del consiglio provinciale”, e di costruire una città metropolitana che coincide con la provincia e, più esattamente, con l’ex provincia, “contestualmente soppressa”. Ai comuni interessati, però, è stato riconosciuto “il potere di deliberare, con atto del consiglio, l'adesione alla città metropolitana o, in alternativa, a una provincia limitrofa ai sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione”.
Nella versione dell’articolo 18 emendata dal Senato è stato inserito il comma 2-bis, il quale statuisce che lo statuto della città metropolitana può prevedere una articolazione del territorio del comune capoluogo medesimo in più comuni.
Quanto all’organizzazione istituzionale della città metropolitana, il comma 3 prevede un sistema di governo analogo a quello della provincia, basato su due organi, il consiglio metropolitano ed il sindaco metropolitano, “il quale può nominare un vicesindaco ed attribuire deleghe a singoli consiglieri”. Ciò che suscita particolare perplessità è la seconda parte del comma che prevede non solo l’ipotesi che il sindaco metropolitano coincida con quello del comune capoluogo – evenienza che nuocerebbe all’essenza stessa della città metropolitana – ma anche che, qualora questo dovesse cessare dalla carica, la città metropolitana sia amministrata “dal vicesindaco nominato ai sensi del primo periodo del presente comma, ovvero, in mancanza, dal consigliere metropolitano più anziano”.
In via provvisoria e secondo una tempistica di 90 giorni antecedenti le date di scadenza del mandato elettorale provinciale e, comunque, entro il 31 ottobre 2013, sarebbe costituita “la Conferenza metropolitana della quale fanno parte i sindaci dei comuni del territorio di cui al comma 2 nonché il presidente della provincia, con il compito di elaborare e deliberare lo statuto della città metropolitana”, che resterebbe in vigore fino all'approvazione dello Statuto definitivo (comma 3-bis). Qualora lo statuto provvisorio non fosse approvato “il sindaco metropolitano (sarebbe) di diritto il sindaco del comune capoluogo” (comma 3-ter).
Lo statuto definitivo della città metropolitana, a norma del comma 4, potrebbe optare su tre ipotesi diverse di organizzazione dell’ente, stabilendo che il sindaco metropolitano: a) sia di diritto il sindaco del comune capoluogo; b) sia eletto secondo le modalità stabilite per l’elezione del presidente della provincia; e c) nel caso in cui lo statuto contenga la previsione di cui al comma 2-bis, sia eletto a suffragio universale e diretto, secondo il sistema previsto dagli articoli 74 e 75 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000.
Il consiglio metropolitano avrebbe una composizione che varia in relazione al numero di abitanti, da un minimo di 10 ad un massimo di 16 (comma 5); la sua formazione sarebbe di secondo grado, analogamente a quanto dovrebbe accadere per le province. Infatti, dispone il comma 6 che “i componenti del consiglio metropolitano sono eletti tra i sindaci e i consiglieri comunali dei comuni ricompresi nel territorio della città metropolitana, da un collegio formato dai  medesimi”. Si derogherebbe a questo principio nell’ipotesi di cui al comma 2-bis, per la quale resterebbero in vita le disposizioni del TUEL, art. 75, per l’elezione diretta dei consiglieri provinciali.
Può notarsi che in sede di conversione si è tentato di porre rimedio alla troppo frettolosa normativa approntata dal governo nel decreto legge considerato; tuttavia, il risultato appare ancora discutibile. Il governo ha voluto ovviare ad un inadempimento ultradecennale della politica, adottando una disciplina che porti alla costituzione delle città metropolitane, ma ha tenuto conto del modello istituzionale della provincia previsto dal decreto legge n. 201, con tutti i limiti che esso presenta sul piano costituzionale, che, nel caso della città metropolitana, diventano anche limiti di oggettiva funzionalità. In sede di conversione, il Senato non ha potuto smentire l’ipotesi avanzata dal governo, ma – seguendo le impostazioni scientifiche più accreditate – ha previsto anche l’ipotesi della scomposizione del comune capoluogo in più comuni e, giocoforza, ha dovuto ammettere per questa diversa forma di città metropolitana l’elezione diretta del consiglio e del sindaco.
Dipenderà, perciò, dalla decisione del comune capoluogo e dallo statuto della città metropolitana il concreto assetto di questo ente, il quale perciò si trova in mezzo ad un guado tra una forma incostituzionale e inefficiente e una forma democratica e funzionale.
 
 
Note
 
(1) Camera dei Deputati, Segretariato generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Volume III, Roma 1970, 2399
(2) La disposizione finiva, perciò, per ricalcare pedissequamente l’art. 1 del ddl di Farina e Minghetti sulla Regione che così recitava: “Il regno si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”.
(3) Art. 20, comma 2, TUEL, nel cui ambito sono indicati: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali. Rilevante è anche il comma 6 del medesimo articolo, per il quale “Gli enti e le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle rispettive competenze, si conformano ai piani territoriali di coordinamento delle province e tengono conto dei loro programmi pluriennali”.
(4) In tal senso si veda, in particolare, l’art. 19, comma 1, lett. l, del D. Lgs. N. 267 del 2000, relativo all’“assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali” e l’art. 19, comma 2, del medesimo decreto che dispone: “La provincia, in collaborazione con i comuni e sulla base di programmi da essa proposti, promuove e coordina attività nonché realizza opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo”.
(5) Sul punto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 325 del 2010, sul servizio integrato, ha sostanzialmente appoggiato l’ipotesi che la provincia sia l’ente di riferimento per quanto riguarda le funzioni degli ATO.
(6) Nell’ordinamento, in questo senso, si sarebbe preso atto, anche per la disciplina dell’autonomia di comuni e province, dell’assoluto dominio della legislazione speciale, rispetto alla legge generale, e del sovvertimento della tradizione legislativa del TULCP che legava insieme i diversi profili (organizzazione, funzioni e fonti degli enti locali). Una tradizione che comunque – è bene ricordarlo – era alla base delle stesse disposizioni costituzionali concernenti i Comuni, le Province e gli altri enti locali (art. 128, art. 118, comma 1 e 3, art. 130, ecc.) del 1947.
(7) In particolare, poi, il riconoscimento di funzioni proprie, che si riferiscono al ruolo di rappresentanza (di centro esponenziale), riconosciuto agli enti territoriali, e alla cura degli interessi propri della comunità sottostante, implica un potere (rectius: una competenza generale) di normazione delle situazioni soggettive, come peraltro era proprio delle fonti locali nella loro più remota previsione. Nel nuovo testo costituzionale, perciò, le fonti locali (statuto e regolamento) sono in grado di porre norme di disciplina delle situazioni soggettive degli amministrati e, di conseguenza, la riforma del Titolo V prospetta una lettura del rapporto tra fonti locali e legge (statale e regionale) del tutto inedita.
(8) V. sul punto gli Atti del convegno del Centro Vittorio Bachelet, Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, a cura di G. Berti e G.C. De Martin, Roma 2002, passim.
(9) Sul punto v. S. Mangiameli, La polizia locale urbana e rurale: materia autonoma o potere accessorio e strumentale?, in Giur. Cost. 1996, 457 ss..
(10) A tal riguardo si possono richiamare le disposizioni del D.Lgs. n. 267 del 2000: l’art. 13, per le funzioni del comune, l’art. 19, per le funzioni della provincia, e l’art. 23, comma 5, per quelle della città metropolitana.
(11) Sul ricorso al principio di sussidiarietà al fine di rimodulare, oltre alle funzioni amministrative, anche quelle legislative, v. Corte costituzionale, sentenza n. 303 del 2003.
(12) L’attribuzione ai comuni della generalità delle funzioni amministrative con molta probabilità carica di una particolare enfasi tutto il riparto delle funzioni amministrative, in quanto rappresenterebbe una dimensione estrema della prossimità delle funzioni, la quale in realtà non appare giustificata dall’art. 1 TUE, alla cui stregua le decisioni devono essere prese in modo più vicino possibile ai cittadini. Questa disposizione, infatti, riferisce la “prossimità” a tutti i livelli territoriali sub-statali. Per una valutazione critica della disposizione dell’art. 118, comma 1, Cost. v. S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, regionale e statale tra nuove competenze legislative, autonomie normative ed esigenze di concertazione, in Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, cit., 235, per il quale il principio di sussidiarietà si riferisce al sistema di relazione che deve governare il “processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”, ma è ben lungi dal richiedere una scelta dell’ordinamento interno a favore di una riserva di amministrazione comunale. Contro l’accoglimento di una tale riserva di amministrazione comunale si obietta che difficilmente potrebbe realizzarsi un sistema amministrativo efficiente ed efficace, dato che proprio la dimensione di certi comuni non permetterebbe di raggiungere il livello ottimale per determinati servizi pubblici, e la politica di unione, associazione tra più comuni, inaugurata con la legge n. 142 del 1990, non ha prodotto grandi risultati.
(13) S. Mangiameli, op. ult. cit., 244.
(14) Così, invece, U. De Siervo, Il regionalismo italiano fra i limiti della riforma del Titolo V e la sua mancata attuazione, relazione al Seminario su "Cooperazione e competizione fra Enti territoriali: modelli comunitari e disegno federale italiano", Roma 18 giugno 2007, in http://www.issirfa-spoglio.cnr.it/4173,908.html.
(15) Si tenga conto che, con la sola eccezione della Provincia di Isernia (che ha circa 90.000 abitanti), tutte le province sono sopra i 100.000 abitanti e, ben 60, sopra i 350.000 abitanti. In questa logica, l’art. 7 del ddl sulla carta delle autonomie avrebbe previsto, in revisione – almeno in parte – dell’art. 21 del D.Lgs. n. 267 del 2000, la “revisione delle circoscrizioni provinciali in modo che il territorio di ciascuna provincia abbia una estensione e comprenda una popolazione tale da consentire l’ottimale esercizio delle funzioni previste per il livello di governo di area vasta” e, in conseguenza, la “revisione degli ambiti territoriali degli uffici decentrati dello Stato”.
(16) Modesti, se non inesistenti, i risparmi prodotti da queste misure. Lo stesso governo nella relazione di accompagno del decreto legge quantifica il risparmio generato dalle disposizioni sulle province in circa 65 milioni di euro lordi, calcolabile, per di più, a consuntivo e destinato a prodursi dal 2013.
(17) V. anche la Risoluzione 351 (2012) del Congresso dei poteri locali e regionali, 23° sessione, Strasburgo 16-18 ottobre 2012 (documento CG(23)13, relazione esplicativa), “Il secondo livello del governo locale – i poteri locali intermedi in Europa”, dove si afferma che è necessario “chiedere che l’elezione diretta dei consiglieri sia mantenuta onde mantenere la democrazia locale a quel livello di governance”.
(18) V. S. Mangiameli, Questioni inerenti alle città metropolitane, in La questione locale. Le nuove autonomie nell’ordinamento della Repubblica, Donzelli, Roma, 2009, 161 ss.
(19) V. S. Mangiameli, Roma capitale, in La questione locale. Le nuove autonomie nell’ordinamento della Repubblica, cit., 181 ss.

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